I velieri
(Trad. dal ceco di Laura Angeloni, letto e interpretato da Elisa Galvagno)
Oggi non è venuta.
La cerco con lo sguardo dal terrazzo e vedo che l’acqua si è alzata un altro po’, inondando, sulla piazza, tutta la fioriera con le palme, che nessuno si è preso la briga di portar via. Un attimo fa sono cessati gli ultimi echi del ballo notturno e anche lo scampanio dalla cattedrale che chiamava alla messa, ora è scesa la quiete. Si sente solo lo sciaguattare dell’acqua e il crepitio delle travi portanti.
Sulla strada nuotano i topi d’acqua, insieme a un cesto pieno di stoviglie di stagno. Sul lato ovest della città hanno cominciato a demolire le case, di notte ho sentito i loro lamenti, gemevano come le vergini quando il principe reclama su di loro il diritto della prima notte.
Una barca a remi che attraversa la piazza trasporta dei musicisti, di ritorno da una festa notturna. Si appoggiano mezzi addormentati ai loro strumenti, troppo stanchi per rispondere al mio saluto. I musicisti che non hanno ancora lasciato la città sono richiestissimi. Arrivano nei palazzi e i signori gli concedono di portarsi via quel che vogliono. Ma gioielli, gobelin e vetri di Venezia hanno perso valore, ce ne sono fin troppi in giro. Vanno per la maggiore quel genere di scambi che sanno di carne e sangue: in cambio del servizio richiesto offrono una notte con la figlia minore, un biglietto sul veliero del giorno successivo, un sacchetto di oppio, un decotto di belladonna e cicuta…
E lei non è venuta. Ogni giorno mi comunica sorridente che l’indomani partirà, che è la sua ultima possibilità, ma poi c’è sempre qualcosa che la trattiene: una zietta stroncata dalla febbre, la servitù che è fuggita e lei non ha idea di come preparare il bagaglio per il viaggio… E poi vedo di nuovo la sua gondola arrivare sulla piazza e il suo nastro d’oro intorno al collo, che lei mi permette di toglierle e poi di giocarci a lungo. Strofino quel raso d’oro tra le dita, lo annuso e la prego di lasciarmelo quando partirà.
“Non fare il sentimentale” ride lei e a volte mi sculaccia col suo ventaglio.
Ci amiamo senza parole, in silenzio, si sentono solo i gemiti delle fondamenta della casa. Sfiora le mie cicatrici e quando piango mi consola. A volte mi si addormenta tra le braccia, quando la notte prima ha folleggiato in qualche baccanale; allora ha dei cerchi scuri sotto gli occhi e l’umore malinconico.
“Se continua così, nel giro di una settimana avrai l’acqua in camera da letto” dice, e io scrollo le spalle.
“Vieni con me” ripete per la millesima volta, ma ha un tono rassegnato. Sa che non cederò, che non voglio e non posso ricominciare altrove, in una città diversa di un’isola diversa …
Rimango in silenzio e lei si infuria, mi prende a pugni sul petto e grida: “Ma non la senti la puzza di marcio?!”
Poi stiamo in piedi sul terrazzo e guardiamo un altro veliero salpare all’orizzonte. Prima andavamo al porto ogni giorno per dare l’addio ai cittadini in partenza. Era più divertente che stare a osservare le torture e le esecuzioni capitali in piazza. Ho visto uomini sul ponte che al rintocco della campana della nave avevano il mento che gli tremava, allora distoglievano gli occhi e non li posavano mai più sulla riva. Ho visto genitori in procinto di spedire i loro figli lontano dalla città, ma, nell’attimo in cui la passerella del brigantino cominciava a sollevarsi, cambiavano idea e gridavano ai bambini di saltar giù. Le vecchie urlavano, si strappavano i capelli e si lanciavano sotto la prua, provocando un ritardo nella partenza e gli improperi dell’equipaggio.
Lei stava sempre in silenzio e salutava col suo foulard di seta. Adorava quel teatro: a ogni partenza la vedevo esercitarsi per la sua, si commuoveva in anticipo, deglutiva le lacrime e si riprometteva di essere forte. E quando cominciò a diventare evidente che il suo pubblico sarei stato io, ho smesso di andare. Ho smesso proprio di uscire di casa, in realtà. Ho spostato le mie scorte di vino dalla cantina alla biblioteca e per l’ultima volta mi sono deliziato dei miei volumi. Poiché nessun capitano mi avrebbe permesso di portarmi dietro i libri, le migliaia di tomi di cui mi prendo cura, in quell’esodo. Un’ordinanza del principe ha imposto per secoli che ogni nave che sostava nel porto fornisse tutti i libri che aveva a disposizione, e al pianterreno del mio palazzo i copisti li trascrivevano con perizia, a beneficio delle generazioni successive.
Nel giro di un paio di giorni tutti i volumi verranno inghiottiti dall’acqua putrida. E dunque io sto qui ad aspettare la rovina, con i miei libri in grembo; li coccolo, ci parlo, sfioro la loro pelle e accarezzo le pagine con una premura che non si discosta molto da quella che uso con la mia donna. E intanto guardo, in attesa di vedere la sua gondola.
La città si è spopolata molto, ma non è ancora del tutto deserta. Sono molti coloro che si rifiutano di lasciare i muri che si sgretolano e i letti su cui per anni si è impressa l’impronta dei loro corpi. Agghindati in modo sontuoso, come se dovessero ricevere il sacramento della Cresima, continuano a recarsi ogni domenica nella cattedrale in cui sono stati battezzati e sposati. Sulla piazza c’è il laboratorio orafo del vecchio Kohn, che ancora batte, cesella e lucida gioielli di inaudita bellezza, che ormai nessuno compra più. I dieci anni che ha trascorso curvo nel suo laboratorio mostrano ora i loro frutti. Come ogni artigiano esperto ora a Kohn basta prendere in mano un pezzo di metallo argentato per capire a un primo sguardo come dominarlo. Le sue anziane dita e la pelle rugosa si materializzano nei suoi gioielli, il vecchio e l’effimero diventano nuovi. Kohn adesso sforna una gran quantità di anelli, diademi, cavigliere e orecchini di incantevole meraviglia. Il suo laboratorio è sempre illuminato, il suo pavimento sempre spazzato alla perfezione. Intanto Rachel Kohn si asciuga gli occhi con il grembiule davanti ai fornelli.
Da tempo ormai nessuno compra più niente da lui – a parte me. Ordino da Kohn i gioielli per lei. È di certo una vanità. Lo sa anche lei – quando le allaccio la collana di smeraldi al collo sorride indulgente, come se si prestasse al gioco di un bambino. Un giorno si è sfilata gli orecchini di rubini e li ha lanciati dalla finestra.
“Questi sono solo gingilli!” ha gridato. “Regalami qualcosa di vero!”
So che vorrebbe che partissi con lei, e lei sa che non partirò.
Mi sono accorto che non è perfetta. Ogni tanto qualche filo di argento le scintilla tra i capelli. La cipria va a incastrarsi nelle impercettibili rughe intorno alla bocca. È lunatica. La pelle non è più elastica come il giorno in cui l’ho notata per la prima volta, quando incedeva sulla piazza col suo sorriso e un nastro bianco intorno al polso. Il suo declino è già iniziato, sebbene si manifesti ancora in modo lento e impercettibile.
Ci sono giorni in cui riesco a farmene una ragione, comprendo che tutto passa, e che così dev’essere. È giusto che le giunzioni dei pozzi, levigate dai secoli, e la fontana ornamentale sulla piazza, e il palazzo principesco, la cattedrale e dopotutto anche la mia libreria, diventino dimora dei pesci predatori. Che tutto pian piano si decomponga e si trasformi in nutrimento per la nascita di qualcosa di più dignitoso.
Ma non oggi.
Avevo una casa piena di servitù e mi sono concesso ogni esperienza possibile, ma in verità nessuna di queste era davvero importante. Molto di ciò lo conservo ancora: la biblioteca più preziosa del mondo, gioielli di una bellezza indescrivibile e abbastanza vino e petrolio per la lampada che terrà la mia finestra illuminata fino alla fine. Il liuto che strimpello, anche se con l’umidità crescente diventa sempre più difficile da accordare.
Guardo il vascello che parte all’orizzonte, magari scorgerò sul ponte il bagliore di un nastro dorato, e subito discosterò lo sguardo.
Sappiamo entrambi, caro lettore lontano, che se c’è una cosa che non abbandonerò mai, è la fiducia di vederla arrivare ancora una volta.
Bianca Bellová, Praha, 01.4.2020
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