Avete presente i palleggi volanti di Pelé? Uno, due, tre, gli avversari saltati con il pallone fatto passare sopra la loro testa. Oppure quei gol scheggianti e impossibili della Perla Nera? Palla di qua, portiere di là. L’ex superbo campione non ha mai trovato, in Brasile un erede, nel mondo sì, uno solo, il Borges della pelota, ovvero Diego Armando Maradona. Bene. Ora sappiamo chi è il Pelé della letteratura brasiliana, il fantasista, il romanziere capace del possibile e dell’impossibile, di farci stare la notte svegli, tra risate e ripensamenti, stupore e orrore. Si chiama João Paulo Cuenca, carioca, classe 1978, scrittore, sceneggiatore e regista, nel 2012 la rivista americana “Granta” lo ha inserito tra i venti migliori giovani scrittori brasiliani contemporanei. Per me è il numero uno, in assoluto. Un fenomeno. Non mi credete? Allora, andate in libreria (subito) e prendere di Cuenca “Ho scoperto di essere morto“, nella avvincente traduzione di Eloisa Del Giudice, Miraggi edizioni (una casa editrice che non smette di sorprenderci).
Cuenca racconta di Cuenca che, dopo un alterco con dei vicini e una denuncia, scopre, dalla polizia, di essere morto, con tanto di verbale e autopsia. Ovviamente si tratta di un errore, ma qui comincia, in questo diario delirante, in queste pagine che non risparmiano niente e nessuno, il viaggio in un inferno sociale e “intimo” dello scrittore. Siamo in un gioco letterario strepitoso, dove tu, lettore, entri in quel decisamente strampalato labirinto e non vuoi uscirne più, ma per davvero.
I personaggi di “Ho scoperto di essere morto” appartengono, nella maggior parte dei casi, alle categorie sociali più elevate, in una Rio de Janeiro che si sta preparando, tra costruzioni e contraddizioni, alle Olimpiadi. Tra feste, droga, sbronze, situazioni comiche o grottesche, individui scellerati, Cuenca descrive quel mondo fatto di apparenze, e in buona sostanza, di soli vuoti a rendere:
“Chiudevano il cerchio tipi come un fotografo brizzolato, un francese abbronzato, un percussionista di samba panciuto, un poeta d’appartamento, un professore universitario con la forfora sulle spalle, il nipote simpatico di un senatore mafioso, un graffitaro concettuale, un saggista di provincia, un direttorino con il berretto, un dipendente della televisione, un editorialista di giornale – il solito circo di cretini periferici uniti dalla stessa autostima delirante e inversamente proporzionale ai loro successi (…) In questa Rio di Stocazzo, borsa di capitale sociale dove tutti erano figli, figliocci o pupilli di qualcuno, il mio sbrilluccichio da scrittore pubblicato era visto con curiosità e una certa condiscendenza. Sapevano che non avevo vincoli ufficiali o nobiliari. E tantomeno un soldo in tasca.”
Il finale è sorprendente, scoppiettante, assurdo, grottesco, incredibile. Cuenca, che ha già pubblicato un romanzo in Italia, con Cavallo di Ferro, nel 2008 “Una giornata Mastroianni”, lancia una stilettata potente sulla letteratura:
“Alla fine di queste conferenze dovevo resistere all’idea di interrompere i timidi applausi e confessare che i romanzi sono tossici e ambigui -e che il progresso dell’umanità deve loro poco. Che l’Europa illustrata da Cervantes, Shakespeare, Dante e Tolstoj ha schiavizzato generazioni di neri, indiani, di analfabeti e di dissidenti politici. Che Hitler, fanatico tra le altre cose di Don Chisciotte e Robinson Crusoe, leggeva un libro a sera e aveva una biblioteca personale di decine di migliaia di volumi, superata tuttavia da quello di un altro lettore compulsivo, Joseph Stalin. Che i libri sono solo degli integratori alimentari contenenti una certa dose di empatia e di intelligenza. Che la letteratura non è un catalizzatore morale, non offre redenzione e non ha alcun senso etico di per sé. E che deve rifiutare fermamente ogni responsabilità nella formazione di lettori se spera di avere una qualunque rilevanza al di fuori del circo equestre costruito con i soldi dello stato per alimentare l’illusione simultanea che 1) ha o deve avere qualche centralità culturale, 2) dev’essere salvata come una panda o una farfalla in via d’estinzione, e 3. non è una forma d’arte elitaria per natura. E per finire, dire che la letteratura muore un poco ogni volta che qualcuno alza la voce per difenderla su uno di questi palchi costruiti perché si creda ancora nella sua esistenza. Lasciarla morire mi sembrava un’ottima idea per salvarla da se stessa.”
João Paulo Cuenca è un autentico fuoriclasse. Un Pelé della scrittura. E ci chiediamo, con innaturale ansia: quando uscirà il prossimo romanzo?