Luigi Preziosi
Autismi di Giacomo Sartori potrebbe essere preso come esempio della non del tutto serena relazione tra pubblicazione via web e pubblicazione cartacea, oggetto di tante dissertazioni in materia che ormai da una ventina d’anni occupano i siti letterari. Sarebbe facile pensare che una raccolta di racconti in volume pubblicati in prima versione su una delle riviste on line più autorevoli tra quelle in circolazione possa incontrare un largo favore ed una altrettanto ampia diffusione. Diversa la storia di questi racconti. Usciti dal 2008 al 2010 su Nazione indiana, di cui l’autore è tra gli esponenti più autorevoli (e più appartati), sono stati antologizzati a fine 2010, quando, come si legge nella Nota dell’autore, “un microeditore ha stampato centotredici eleganti copie della versione rivista della raccolta, che non sono mai arrivate in libreria, forse perché si sentivano incomprese e sole.”
Per contro, il volume è stato finalista al premio Settembrini, e alcuni dei testi hanno trovato la fortuna che meritano in forma di monologo teatrale o grazie a traduzioni su riviste americane e francesi. Finalmente, qualche mese fa Autismi compare in libreria, per merito di Miraggi editore.
Ma che cos’è Autismi? Una raccolta, pregevole per intensità espressiva e densità concettuale, composta da sedici episodi correlati per formare altrettante tappe di un percorso di esplorazione e di descrizione del mondo di un unico personaggio, che si intuisce avere parecchio in comune con l’autore: una prova di autofiction (la lunga permanenza dell’autore in Francia può avere a che fare con questa scelta narrativa) per frammenti, che danno conto di un io coerente, per quanto strambo possa apparire.
Significativa del genere di autofiction che l’autore ha in mente è del resto la citazione da Marguerite Duras posta ad esergo del libro, in cui la scrittura è avvicinata a “un altro individuo che fa apparizione e avanza, invisibile, dotato di pensiero, di collere, e che qualche volta con i suoi maneggi si mette in pericolo, anche di morte”. Sartori oggettivizza l’altro se stesso che opera nel libro, lo rende autonomo, facendone un altro da sé, di cui però conosce i pensieri, le impressioni e le ossessioni più riposte.
L’autismo del protagonista si esprime con un desidero di inapparenza periodicamente ritornante, una tendenza al confinamento di sé, al nascondimento, come si desume dai testi iniziale e finale della raccolta. ”Il mio lavoro consiste nel fare buche nella terra. Buche grandi e profonde, in cui ci entra comodamente una persona. Poi appunto ci entro dentro. Mi ci seppellisco, si potrebbe dire”: questo l’incipit del primo racconto (Il mio lavoro), mentre si direbbe non casuale che l’ultimo testo sia Il mio testamento biologico. Il senso di chiusura che percorre almeno parte, se non tutti, i racconti genera a tratti effetti claustrofobici, già esplorati dall’autore in alcuni suoi romanzi, come Sacrificio (Italic e Pequod, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011) e Rogo (Cartacanta2015). Il campo di analisi è però qui diverso da tutti gli altri precedenti: la patologia è più esistenziale che fisica, l’inquietudine si manifesta nel martellante arrovellarsi del protagonista su questioni apparentemente minime, ma capaci di dilatarsi progressivamente sino a saturarne la coscienza.
A volte la materia dell’ossessione tende a superare i confini della ordinaria narrabilità, almeno quella misurabile in un contesto di decoro borghese (che l’autore, nonostante l’eleganza della scrittura, o forse, in deliberato contrasto con questa, non pare voler rispettare). E’ il caso delle vicende raccontate in Il mio organo di riproduzione, in cui il membro dell’io narrante pare vivere di vita propria, acquisendo lo statuto di protagonista di un particolare tipo di scissura della personalità (echi del moraviano Io e lui?). La mia cacca è altrettanto intenzionalmente anticonvenzionale. Il protagonista constata con stralunato stupore che l’umanità nel corso di millenni di evoluzione, non ha affrontato né tanto meno risolto il problema della pessima qualità dei propri escrementi, non essendo riuscita “a creare una cacca di qualità omogenea, puntuale e affidabile, e di odore sopportabile, se non proprio profumata”. Inizia uno studio meticolosamente condotto, al termine del quale ha modo di capire che l’uomo “è un lunghissimo tubo digerente, al quale l’evoluzione ha attaccato le gambe, indispensabili per la locomozione, le braccia, utilissime per procacciare il cibo e avvicinarlo alla bocca, e gli altri organi che servono a far funzionare il lungo budello digerente, assicurandogli tra le altre cose la riproducibilità nel tempo.”
L’egocentrismo che pare filtrare la percezione del mondo dell’io narrante non si limita ovviamente agli aspetti più materici dell’esistenza, ma abbraccia con eguale acribia anche le relazioni umane e si sentimenti che suscitano le diverse condizioni esistenziali. Investe così i rapporti familiari, dei quali il protagonista insiste a ricercare le crepe, anche quando si abbandona a riflessioni esistenziali depurate da quella sovrabbondanza di cinismo, che altrove si dimostra straordinariamente efficace per reggere la narrazione sul filo sottile del paradosso. E’ il caso di Mio figlio, in cui la descrizione di un figlio amato, ma in certo senso costantemente distante, sfocia in una rivelazione finale da non anticiparsi al lettore, in cui si leggono riflessioni come questa: “I figli servono ai genitori per capire se stessi. Guardandosi riflessi nelle loro pupille dove sfavillano scintille di amore ma anche di odio capiscono che non sono come hanno sempre creduto di essere, o che comunque possono essere visti in maniera radicalmente diversa. Il che apre pur sempre un deleterio varco. Si rendono soprattutto conto che il mondo è già intrinsecamente diverso da come sono abituati a pensarlo, e che in altre parole sono già vecchi. Non occorrono le frasi, bastano gli occhi. Tramite mio figlio ho avuto per la prima volta la certezza che ho fallito: una cognizione cristallina, un cancro inoperabile.”
Altrove, come in Mia sorella, il racconto della relazione familiare si fa più duro, svela quasi subito una ferocia che solo il più vieto senso del rispetto borghese delle forme riesce a contenere, salvo deflagrare all’improvviso, senza una causa proporzionata alla violenza dell’esplosione. Un alternarsi sapiente di registri tonali caratterizza un altro ritratto familiare, Mio suocero, arguta descrizione della veglia funebre del padre della moglie, in cui in poche pagine si concentrano compiute descrizioni di diverse figure, colte nei loro tratti caratteriali più significativi, dal cognato, sospettoso e preoccupato per dover dividere l’eredità con un estraneo, al miglior amico del morto, “persona con importanti responsabilità a livello nazionale”, ad un altro amico, ex terrorista, alle due sorelle del morto, che portano un contributo di autenticità alla situazione proprio perché dolenti (“non avevano bisogno di mostrarsi tristi, visto che erano tristi davvero. Dicevano quello che avevano voglia di dire, trasformando la veglia funebre in un allegro e toccante chiacchiericcio”) ed anche per via di una certa vena di anticonformismo latente sotto le apparenze perbeniste. Il finale si modula su una tonalità ancora diversa, laddove il protagonista scopre di conoscere il defunto “tramite la figlia, tramite gli atomi della figlia che ritrovavo nella sorella omosessuale, tramite i geni indomiti che vorticavano in quel ramo della famiglia, e che erano sciamati anche in mia moglie. Quei barlumi di follia che amavo. Il fatto che lui fosse morto e io fossi ancora vivo non mi appariva più la differenza così fondamentale che mi era sembrata quel mattino.” Diversa modulazione rivela, invece, Il mio migliore amico, ritratto appassionato e tragico di un’amicizia duratura, nata sui banchi del liceo e alle svolte della vita riaffiorante in forme diverse ma con un’intensità che, per una volta tra tutti gli altri autismi, mette la sordina all’ironia e consente lo sfogo al racconto di emozioni.
Alla moglie (presente in più racconti), l’autore dedica il ritratto più definito in Terapia di copulazione, raffinata satira delle terapie (e dei terapeuti) per coppie in crisi, in cui la soluzione per la riconquista di una moglie diffidente e prevenuta (a dire del marito) si trova in una sana raffica di risate, di cui il racconto comprova effetti miracolosi nella ricostituzione di una complicità perduta. Anche del rapporto con la madre il protagonista evidenzia le zone d’ombra, con debiti per i quali non è facile ottenere risarcimenti: “Come ogni angioletto che si rispetti amavo di amore corrisposto mia madre. Insomma, abbastanza corrisposto. Prima di me venivano pur sempre gli amici ricchi, la pelliccia, le sue sorelle, la sua asma, l’anello con il diamante, l’anello con lo smeraldo, la batteria di scarpe con i tacchi, le vacanze, l’organizzazione delle vacanze, il suo amico omosessuale, l’estetista, i costosissimi lavori nella casa di famiglia, la pedicure, la pettinatrice, i problemi con le donne di servizio, l’antiquario, le fatture del telefono, le altre fatture, il preside della scuola dove insegnava, la sanguinosa guerra con mio padre, gli esami per diventare di ruolo, i nervosismi ingiustificati, la guerra di posizione con mia sorella, le visite mediche per capire se mio fratello era o non era pazzo. Ma insomma vivevo pur sempre un grande amore abbastanza corrisposto.”
Ben più di un’ ironia irriverente Sartori spende nella descrizione feroce della sua città d’origine (La mia città), dove “ogni misfatto locale – a patto beninteso che venga perpetrato da criminali autoctoni – viene travestito con un eufemismo appropriato, e archiviato” e “l’adesione incondizionata al fascismo … viene definita fredda accoglienza, la zelante collaborazione con i nazisti viene chiamata Resistenza, il giogo della religione viene chiamato tradizione cattolica, gli affaristi e i governanti colpevoli di ogni sorta di corruzioni e furti vengono chiamati Egregio Direttore ed Egregio Presidente, i luna park sciistici vengono definiti parchi naturali, i preti pedofili colti in flagrante Padre Tale o Padre Tal Altro, il genocidio delle specie animali e vegetali sviluppo della viabilità e delle infrastrutture, i vigneti e i frutteti avvelenati per l’eternità dai pesticidi zone rurali di pregio, e via dicendo.”
L’oltranza della satira deborda a volte in episodi di autentica crudeltà, espressa sempre con forme di rara eleganza. Il nitore della scrittura lascia trasparire sia le meschinità dei singoli sia il degrado dei rapporti umani generato dalla somma di queste meschinità nelle comunità (famiglia, amicizie, cittadina) che il protagonista frequenta. E da un punto di vista in apparenza orientato su vicende personali, lo sguardo dell’autore si allarga verso prospettive più ampie, fino a scrutare con inesorabile lucidità la progressiva disgregazione di un impianto di valori sempre meno socialmente condivisi. Ma la pars destruens della critica sociale che l’autore riesce sorprendentemente ad accennare in via implicita, raccontando casi così squisitamente privati, non trova compensazione nell’invenzione di alternative. Gli Autisminon inclinano affatto a particolari compiacimenti verso costumi e assetti sociali che il conformismo dell’anticonformismo propone come nuovo. Piuttosto, l’auscultazione di sé in essi ampiamente praticata ci immette nel cuore della contemporaneità, e tutto ciò che di essa appare consunto dall’uso, banale, ordinario, nella vita e nei rapporti umani per Sartori non solo nasconde una vena di bizzarria, ma segnala, nel suo piccolo, il senso del limite che affligge il nostro tempo.