“Billy e Pontescuro”
Gentili lettori,
quanti modi ci sono per raccontare un luogo? Forse sarebbe necessario comprendere cosa sia in realtà un luogo al di là della sua posizione geografica e della cultura che lo permea. Arrivare alla conclusione che si tratti di una dimensione evocativa ancor prima che manifesta, così come la scrittura, la cui grandezza consiste nel riuscire a evocare l’assenza di ogni cosa.
Secondo Borges qualsiasi luogo è archeologico, perché se scavassimo vi ritroveremmo tutte le rovine di costruzioni antiche e i sedimenti del pensiero di chi lo ha abitato. Va da sé che anche il corpo sia il luogo dell’archeologia, con il suo corredo cromosomico, semantico, simbolico.
Non esiste dunque un posto in cui non sia chiara la connotazione umana di chi lo ha attraversato, almeno nella letteratura.
Per far sì che ogni vita non sia confine ma linea infinita, i luoghi cambiano non solo in virtù dell’occhio dell’osservatore, ma soprattutto nella penna di chi li ricompone. La semiologia di uno spazio diventa l’anticamera del reato e l’emblema di chi lo attraversa o lo abita.
Ma come si può riuscire a rappresentare la sempiterna coscienza degli sterminati orizzonti della colpa che nascono a partire da “quel” luogo? In fondo ogni paese è la sintesi della sua capacità a rigenerarsi, a rendersi competitivo, epitome di un cambiamento di prospettiva.
“Pontescuro era il mondo configurato dopo la fine di ogni mondo conosciuto”, scrive Luca Ragagnin in un libro dal titolo, per l’appunto “Pontescuro”, edito da Miraggi edizioni e candidato in prima istanza al Premio Strega 2019.
Si tratta di una storia corale in cui il luogo è sostanza di ogni atto formale, di ogni più piccolo anelito. Pontescuro nasce, prima ancora che come paese, nella struttura di un ponte insicuro. L’uomo che l’aveva costruito è pervaso dai dubbi sulla sua stabilità e il diavolo, messosi a servizio, ne garantirà la tenuta.
“La tua opera si chiamerà Pontescuro”, gli disse “e così il paese che gli sorgerà intorno. A nessuno dei tuoi uomini capiterà nulla di male. Moriranno di vecchiaia e di stupidità, e tu non farai una fine diversa. Io posso aspettare le nuove generazioni”.
Pontescuro nasce con queste prerogative e la nebbia che lo avvolge è protagonista delle vicende. Ogni voce che l’io narrante sgranerà sarà la posta di un rosario di perdizione. Tutti i personaggi sono Pontescuro e Pontescuro è tutti i suoi personaggi. Persino Dafne Casadio, la figlia del ricco Cosimo Casadio, che conoscerà carnalmente gli uomini del paese, prendendo da loro il piacere e la rudezza.
Persino la ghiandaia, lo scarafaggio, il vento e il fiume parlano agli uomini, perché ciascuno di questi elementi è il mondo. Sottoterra le creature striscianti, nel cielo i volanti, per mare i nuotanti. Vite che analizzano altre vite; esistenze impercettibili che contrappuntano uomini e donne e fungono da presagio.
Un giorno Dafne viene trovata morta strangolata e al collo è stretto un nastro rosso, uno di quelli che Ciaccio, lo scemo del villaggio, utilizza per adornare i rami degli alberi, tanto che da lontano il verde delle foglie è imporporato dalla stoffa.
Inutile dire che i sospetti ricadranno su di lui e che verrà chiamato l’ispettore Eugenio Romanelli per fare luce sull’accaduto.
“Mi chiamo Dafne Casadio e avrò per sempre ventiquattro anni. Sono morta da sette ore. No, non quel sentiero, prendete a destra. Sì, questo. Fate attenzione, si scivola. No, non è ancora acqua, gli argini del fiume tengono bene. E anche se mi piacerebbe, se farebbe di me ciò che in vita non sono riuscita a essere, non sono nemmeno le mie lacrime”.
Ma se pensate che il fulcro della vicenda sia lo scioglimento dell’enigma, vi sbagliate.
Luca Ragagnin scrive un libro di inquietante bellezza in cui ogni cosa non è ciò che sembra e utilizzando la potenza della parola per semantizzare il destino.
L’epica della sua narrazione si snoda in un’inarrestabile caduta libera di gesti, azioni, pensieri nitidi, immagini rarefatte in cui il giudizio è sospeso e la lingua, semmai, funge da strumento ottico d’ingrandimento dell’umano.
E mentre Ciaccio è introvabile, i suoi passi sono conferma di un’avvenuta liberazione dalla colpa. La memoria di ciò che è stato servirà, perché “tutto ciò che si smarrisce o si vuole dimenticare, le parole scartate, i passi non compiuti, le scelte non fatte, un giorno emergeranno dalla corda dell’orizzonte e prenderanno il posto del sole”.
L’Antiquario vi saluta.
Angelo Di Liberto