Non sono lunghi i libri di Bianca Bellová, ma ogni volta ti sembra di aver letto un libro di mille pagine, per tutta la vita che hai visto scorrere nel mezzo. È un aspetto che mi ha colpita enormemente da lettrice, e ancora più da traduttrice, perché quando traduci senti il peso di ogni parola sulla pelle.
La peculiare, profondissima, forma d’amore tra Mona, infermiera in un ospedale travolto dalla guerra, e Adam, il giovane soldato che arriva dal fronte con una grave ferita alla gamba, fa qui da collante a grandi temi umani e sociali. La violenza con cui la dittatura e le guerre irrompono nella vita della collettività e del singolo, la condizione della donna, l’infanzia rubata dalla crudeltà degli adulti. Ma anche, più semplicemente, i rapporti che sbiadiscono, le distanze che aumentano, l’adolescenza, col suo carico di strafottenza e apatia che a volte si porta dietro. Nel buio e nella devastazione della guerra, in un ospedale infestato dalla vegetazione della giungla e dalle urla dei pazienti, Mona e Adam trovano un’ancora di salvezza: la parola.
E sono proprio le parole a diventare protagoniste. Quelle che, incise con una calligrafia segreta sulle pareti terrose di uno scantinato-rifugio, salvano Mona bambina dal senso di perdita e solitudine, e quelle che, annotate su un quaderno nascosto sotto il materasso, salvano Mona adolescente dalla desolazione di un collegio-prigione. E infine quelle raccontate al capezzale di Adam, che salvano Mona adulta dalla resa e dall’apatia, restituendole la consapevolezza della donna che è. Con il racconto che ripercorre la storia delle loro vite, i protagonisti si prendono cura di loro stessi e dell’altro. Parole salvifiche. Quelle che Bianca sa scolpire con tanta precisione e premura. Tradurre Bianca Bellová, ormai lo so, è come farsi prendere per mano, con fiducia. Perché lei non si perde mai, va avanti a intagliare fino a condurti alla fine della sua storia. E alla fine, ormai so anche questo, troverò sempre uno spiraglio di luce.
Laura Angeloni