Di fronte al libretto Pagina bianca (Miraggi Edizioni, 2020) di Gianluca Garrapa si possono avere sentimenti contrastanti, un lettore esigente come me troverebbe indigeribile una simile sperimentazione (non solo linguistica, ma soprattutto formale), eppure il compito del recensore – ripete sempre un mio amico – è trovare quel poco di buono ovunque, in ogni opera. Questa è stata la mia motivazione. Mi limiterò dunque a quelle cose che ho trovato realmente affascinanti, e pure a interpretare un poco la sperimentazione attuata in queste pagine.
Già dal titolo possiamo arrivare a intendere l’intento principale di Garrapa: disseminare la parola per il foglio, facendo sorgere (risorgere?) il bianco dello stesso. Già la poesia di per sé lavora molto sullo spazio non inchiostrato, altresì qui l’autore smembra la poesia sparpagliandone i pezzi. L’effetto parrebbe quasi brutale, e vorrebbe pure avere un intento evocativo: quasi come se la parola – in sé, nuda e cruda – dovesse racchiudere l’infinitezza raccomandata; l’autore – come chiunque sappia scrivere – deve conoscere la portata ontologica del linguaggio, ma un lettore diseducato a questa ricettività altresì trovandosi di fronte a un tale laboratorio si sentirà ben estraneo. In questo dismembramento v’è qualcosa di interessante che non riesco a cogliere appieno, ha però catturato la mia attenzione quella breve sezione intitolata “paese” dove si traccia (proprio in questi termini) una breve storia di quanto fu la nostra penisola nei tempi che ci precedono.
Aggiungo in più che al fine di ogni percorso – che Garrapa compone a mo’ di novello Pollicino – ho avuto come l’impressione che il tutto dovesse suscitarmi una certa ilarità, soprattutto nelle svariate parole richiamanti i pasti quotidiani. Ciò fu parecchio piacevole, invero: quasi come le canzonature di un vecchio amico.
La parte che più si avvicina alla poesia, però, non ha a che fare con alcun tentativo di versificazione presente in questo testo, anzi sta ben piantato in quelle prosette (per lo più diaristiche) che partono giocose per concludersi tragiche. In queste, racchiuse per lo più nella sezione “Egli”, noto un buon ritmo in ogni micro-narrazione, e pure un espediente interessante: in fondo tali prose vorrebbero essere poesia (non che non vi sia la poesia in prosa, qui per poesia sto intendendo un’opera in versi), ebbene, il punto posto a ogni conclusione di frase prende – in Garrapa – il posto dello slash (che notoriamente occorre per posizionare sul rigo continuativo una poesia in versi). Aggiungo che tale sezione – “Egli” – è realmente uno scrigno di fantasia linguistica apparentemente nonsense, proprio per ciò gustosa e vasta.
Direi in conclusione che Pagina bianca sia un testo da leggere lasciando da parte qualunque intendimento vero di poesia, per aprirsi (e possibilmente beneficiare, dell’ironia per lo più) a questo tentativo ben studiato di stupire, che parte proprio dalla messa in dubbio della poesia stessa.
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