Ragagnin fa un’operazione sconvolgente: prende Berg, ovvero Bambolo, ovvero Nini, ovvero Bambino Parentesi, ovvero Giorgio Santacroce….e ne fa un distillato nel senso letterale del termine. Sottopone il suo personaggio ad un processo di distillazione destinato a separare la sostanza, l’essenza di cui è fatto da tutto il resto: da chi lo ha messo al mondo, da chi lo ha cresciuto, dalla madre, dal padre, dai nonni di città e di mare, dai compagni dell’asilo, dagli amici dell’oratorio, dalle donne che attraverseranno la sua vita, dal catavoletto, da Kioko e dalla coda del cappello alla David Crockett. Ma non si tratta di una separazione nel senso, a cui siamo abituati, di allontanamento di scissione, quanto piuttosto di una separazione generativa, di un processo di creazione, di derivazione: Berg è e contiene tutto ciò che ha attraversato e tutto ciò che ha attraversato, tutto ciò che ha incontrato persone, luoghi, affetti, ansie, ricordi, relazioni, inadeguatezze, idiosincrasie, addii e ritorni lo hanno forgiato e legittimato per come è.
La distillazione sfrutta la separazione che avviene tra gli elementi ad una certa temperatura e così fa Ragagnin con Bambolo: lo accompagna talvolta con ironia, talaltra con pazienza, altre volte ancora con dolore (ma sempre con un garbo che definirei taumaturgico) attraverso i giorni, i mesi, gli anni mentre la temperatura delle emozioni, gli sconvolgimenti dell’anima lo mettono sottosopra e lo ricompongono come in un puzzle in cui ciò che fa da sfondo è in realtà il contenitore necessario a poter tracciare i confini e l’identità del soggetto per il quale il quadro esiste; il narratore accompagna il suo personaggio fino a fargli prendere consapevolezza del proprio essere e ad attribuirgli la dignità tipica dell’essere unico, differente, dell’essere proprio se stesso. E lo fa accudendo le sue emozioni, prendendosene cura, attribuendo ad ognuna di esse un fine, uno scopo e considerandole tutte, anche quelle più intime ed ancestrali, funzionali a divenire l’uomo che Bambolo può essere. Leggere Il Bambino Intermittente è infilarsi e sfilarsi più volte una maglia al rovescio mentre sali in vetta in una tersa e ventosa giornata di primavera inoltrata. In quota il sole scotta, anche sotto qualche lieve velatura; il vento soffia, non vuoi fermarti, ti raffredderesti, continui a camminare e infili la maglia al rovescio concentrato sui tuoi passi, senti sulla pelle sudata e irritata ogni singola cucitura, ogni piccolo difetto della stoffa, la cerniera sotto collo al contrario è insopportabile non puoi fermarti, stai salendo al tuo passo, al tuo ritmo e continui spinto dal suono di una scrittura che è una colonna sonora. Ragagnin non narra solo con le parole, Ragagnin narra con parole destinate a fare parte di una melodia che l’orecchio prima intuisce e poi sente chiaramente con l’andare delle pagine (e arrivati in fondo vorresti continuare a canticchiarle quelle pagine come il testo di una canzone di cui non puoi più fare a meno…).
Il Bambino Intermittente raccoglie come un’enciclopedia interattiva tutto ciò che è dell’uomo: il rapporto con i genitori (separati), il ruolo dei nonni, il rapporto col cibo, con la propria città, l’importanza dei luoghi in cui si cresce, l’asilo, la scuola, l’oratorio, gli amici, le ragazze, l’innamoramento, i viaggi (fatti o desiderati), i sogni, i ricordi, l’esigenza di trovare un lavoro dentro il quale sentire realizzata la propria essenza. E poi ci sono la morte e la musica. Non occorre essere a conoscenza della confidenza che Ragagnin ha con la musica per attribuire un ruolo fondamentale al rapporto che Berg ha con la musica. Mi piace pensare che la musica sia per Berg una sorta di traduttore on line, che il narratore abbia consegnato proprio alla musica il compito di decifrare e subito dopo tradurre in un linguaggio universalmente riconosciuto la strada che Berg compie per diventare se stesso, una strada lungo la quale tutto ha senso e tutto trova il suo posto: hanno senso le sbucciature sulle ginocchia, le piscine vuote, i souvenir a forma di bara, i nomi degli alberi, gli occhi azzurri di nonna di mare ed il nero di seppia degli spaghetti del nonno morto da anni. Tutti i giorni Berg apre porte dietro le quali trova persone, cose, situazioni che non riesce a spiegare fino in fondo ma alle quali riesce a riconoscere quel valore anticipatorio che non gli consente di archiviarle del tutto, che gliele fa tenere lì, a portata di mano, per poterle usare al momento giusto, per poterle collocare come tasselli nel quadro d’insieme a mano a mano che la sua vita si compie ed il suo posto al mondo prende forma nella stanza azzurra. “Vivo nella camera azzurra, che adesso è la mia camera a valvole, con il mio impianto a valvole e l’azzurro delle pareti rinfrescato, ripassato per buona educazione olfattiva perché tutti quelli che sono passati di qui, non molti per la verità, una madre, una moglie, un figlio hanno lasciato un segno distintivo, elusivo, evanescente ma che io non posso smettere di fiutare, anche adesso che non c’è più nessuno”. Il lettore incontrerà anche un personaggio secondario, o forse no, (una comparsa, cinematograficamente parlando….) di nome Luca Ragagnin. Se ne sta seduto ad un tavolo, in un locale…a bere…Il Bambino Intermittente è la melodia della vita di Berg suonata dalle dita esperte di chi riesce a far vibrare la scrittura lungo i propri armonici naturali che non sono suoni puri ma proprio per questo restituiscono una straordinaria sensazione di completezza.Il Bambino Intermittente è, credo, la melodia della vita degli uomini e delle donne del nostro tempo. Grazie…
La mia libreria del cuore è la Libreria Milton di Alba (CN).