Lo spartito di Hrabal, che ha fatto melodia della cacofonia del mondo
Secondo la moglie, i suoi racconti erano come il cibo precotto: una volta a casa, uno deve finire di cuocerlo perché diventi commestibile – “Sono racconti raggrumati,” diceva, “un po’ come quando si rapprende il latte.” Secondo il regime comunista, che aveva bloccato la pubblicazione del suo primo libro di poesie, “La strada perduta”, si trattava di uno scrittore mediocre – “Vogliamo davvero pubblicare una porcheria del genere?”, avrebbe detto lo zelantissimo direttore della casa editrice ČCekoslovenský spisovatel a proposito della sua raccolta “Allodole sul filo”, peraltro già rimaneggiata e accomodata alla ricerca di un compromesso col partito. Secondo alcuni critici, erano “quasi racconti”. Secondo i detrattori, era più francamente “uno schifoso maiale, un maniaco, un autore di una letteratura letamaio” e meritava la forca – il libro “Ballata su una pubblica esecuzione” riporta numerosi passaggi di lettere anonime di questo tenore. Secondo Angelo Maria Ripellino, che in Italia l’ha portato, la magia dei suoi testi risiedeva in quel “brulichio del parlato” che li gremiva. Parliamo dello stesso Angelo Maria Ripellino che però nel 1967, cioè quattro anni dopo la sua clamorosa uscita in Cecoslovacchia, sconsigliò a Einaudi la pubblicazione della prima raccolta di – appunto – Bohumil Hrabal, “La perlina sul fondo”, che possiamo leggere per la prima volta solo da quest’anno, e il merito va a Miraggi editore (250 pp., €20 euro).
I racconti di questa raccolta angolare, inevitabilmente polifonica e dunque hrabaliana al massimo grado, sono la migliore rappresentazione della forgia dello scrittore praghese, la parata numero uno dei suoi calchi, e l’occasione di vedere entrare in scena, per la prima volta nel teatro dei suoi pábitelé, una figura che assumerà poi tratti mitologici: quella dello zio Pepìn. Che cosa significhi, al netto delle semplificazioni, pábitelé, lo spiegò molto bene proprio A. M. Ripellino, parlando di sbruffoni, piccoli fantasticatori, svitati, parassiti, stramparloni da birreria, cialtroni.
E sì, sono loro: pullulano anche in questa raccolta, anzi, qui debuttano, e come per ogni debutto sono tirati a lucido. La letteratura di Hrabal è, infatti, letteratura di personaggi. Ogni personaggio si tira dietro il proprio teatro, non accade mai il contrario. Hrabal non allestisce la scena, mette solo i personaggi in condizioni di agire – cioè di parlare – e così è lo spartito intertestuale delle chiacchiere che si sovrappongono, è il loro accavallarsi, il loro rievocare disordinato che fa la scena, che fa il teatro. Sono racconti impalpabili in cui si palpa il midollo di una lingua che si rigenera nei dialetti, nelle gergalità, nei neologismi popolari. In Hrabal tutti parlano. Sempre. Dovunque. Di qualsiasi cosa. Quando un personaggio di Hrabal non parla con qualcuno, parla con se stesso, e col pensiero cuce ciò che non si potrebbe cucire, dramma e comicità, profondità e idiozia, vanvere e verità, ed ecco che i significati si rimescolano, il tessuto si smaglia e rimaglia di continuo, il mondo si piega e si sbilancia al punto che esiste solo chi sta raccontando per come lo sta raccontando, aedo repentino, cantore istantaneo di gesta inutili e buffonesche, di tutta la vita in grande che sogna l’uomo piccolo, l’uomo che ha solo l’energia della propria fantasia e si rivolge a chi? Forse a nessuno, forse a tutti, sempre a una scomposta platea di altri parlatori che gli parlano sopra e attraverso e durante, e alla fine, tutti insieme, compongono lo spartito inimitabile di Bohumil Hrabal, uno scrittore che ha fatto melodia dalla cacofonia, che ha osato un linguaggio e che dal linguaggio ha fatto germogliare un mondo.
Il racconto più bello di questa raccolta che ne annovera molti (“Corso serale”, “I bei tempi andati”, “Il battesimo 1947”) è “La morte del signor Baltisberger”. E’ ambientato a Brno nel corso del Gran Premio di motociclismo culminato nella morte del corridore tedesco Baltisberger. E’ un compendio perfetto del hrabalianesimo intersezionale: più raccontatori prendono spunto dal racconto di altri per poi slacciarsene e andare altrove, ognuno delirando con la propria aneddotica e sovrapponendosi di continuo, mentre la corsa impazza, un altoparlante tra il fogliame dà informazioni di prassi, e due giovani non faranno in tempo a vedere il loro eroe, morto in curva. Perché la vita è quel che accade mentre accade qualcos’altro, ma quel qualcos’altro siamo noi che chiacchieriamo, sempre in primo piano, sempre di sfondo.
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