Col romanzetto pseudo-autobiografico L’odore delle gambe delle donne (Miraggi Edizioni, 2015), Carlo Molinaro consegna all’attenzione del lettore un [chissà quanto] involontario manifestino della sua filosofia: una filosofia del fare – e del dubitare – che poggia sulla sua esistenza, su blocchi e sbloccamenti. Abbiamo all’inizio a confrontarci con un bimbo da subito attratto dall’«intenso odore» delle sue compagne; questo, un po’ trattenuto da un senso di stare e non stare nel mondo – un bimbo già con un simile cruccio? –, le contempla ma con difficoltà le approccia; similmente non riesce a sventare la morte di un piccolo mammifero, sentendosi come legato da una fisica (e invisibile) impotenza: la sua compassione per ogni “fratello terrestre” è quasi francescana – come suggerisce il poeta e critico Franco Trinchero –. Cresce un po’ goffamente, intraprendendo studi linguistico-letterari, e in questi la sua riflessione sull’indicibilità delle cose si rafforza: molti tentativi di diario – con cui apre i brevi capitoli – risultano stati di fatto cancellati dal nostro autore che qui si nomina Enea, un personaggio che però non fonda alcunché – ma che, come vedremo, fugge –. È sempre nell’ambito universitario che riesce finalmente a penetrare la prima femmina dopo alcuni tentativi fallimentari, da ciò un primo sbloccamento, ma pure la nascita di un «chiodo fisso» che quasi compensa una differente impotenza (quella di essere nato “perdente”, giacché creatura debole, breve e dolorosa). L’autore ormai giunto al ruolo di “cacciatore dolce” rimane comunque straniero nel mondo, in diversi colloqui con una donna reduce da un grave trauma – colloqui che portano a un incontro “materassico” su desiderio di lei – Enea pare smorto (imprigionato nel suo pensiero) udendone le disgrazie: ogni mancato intervento non è figlio dell’accidia, ma della fatica di credersi qui. Quest’odore, che lo spinge a penetrare, a sua volta lo penetra profondamente… Non pare una mera essenza di feromoni ma qualcosa di più inguinale che resiste a ogni soppressione da profumi fatta per istillare in esso quella passione mai sopita ma vissuta, oso dire, animalescamente: come un dirigersi inevitabile, depensato, senza domandamenti di sorta. Il romanzo si costella, oltreché della Donna e delle sue somme bellezze (con relative mode invise al Nostro, per esempio la depilazione integrale), di immagini moderatamente pornografiche (che colorano la lettura) e di assaggi filosofico-antropologici, alcuni di stampo dissacratorio. Molinaro insomma dà accenni di libertinaggio filosofico, ragionando pure di relazioni carnali tra il Dio cristiano e la ‘Vergine’ Maria, utile comunque a sfatare il mito misogino della donna o santa o puttana. Qui occorre una trascrizione integrale del passo, da me ritenuto il più alto del libro: «Poi penso che l’uomo vuole che la donna sia Maria, vuole che gli sia fedele, per sentirsi come dio, perché dio è solo lui che scopa con Maria. Dio scopa Maria con lo spirito santo, l’uomo scopa la sua Maria con il cazzo, usa il cazzo come spirito santo. Le altre sono Eva, sono femmine a disposizione dell’umanità, con loro il cazzo è solo cazzo, non spirito santo; finché qualcuno non le cattura e le trasforma in Maria, privatizzandole e “disfemminandole”.
Così, almeno, è stato per secoli; ora forse un poco cambia, forse, un poco, ma non è nemmeno chiaro come». Verso la conclusione di questi «accenni di una propria storia», quasi un «tentativo di critica di sé stesso», il tutto prende a scemare, il livello della scrittura si infiacchisce – quasi programmaticamente, a parere mio: questo per dimostrare quanto sia effettivamente impotente il linguaggio, quanto il sentire non possa essere trasposto con compiutezza. Fortunato (e abile) chi è in grado di evocare nell’Altro quell’ineffabile che va percepito! –. Ecco allora che il romanzo si interrompe ex abrupto con un abbandono, il personaggio alza i suoi tacchetti e lascia la storia nel suo perfetto scorrere sempre uguale a sé stesso. Egli lascia e nessuno lo cerca più: inevitabile se pensiamo quanto un tale modo di stare nel mondo infastidisca e confonda chi sa di essere piantato nella vita, quanto equivoco appaia uno “straniero”, un «incurabile estraneo». Con questo finale a ghigliottina – che noi augureremmo “non letteraria” per il collo di certi politici, e relativi cani da guardia odierni – Molinaro confessa infine la sua svogliatezza nel continuare a narrare quella storia poco, poco interessante che è la vita, il vivere.
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