Poco più che trentenne, e questo è il primo dato da tenere in considerazione. Gli altri due sono il lavoro in un’osteria e Vigevano come città di origine. Li ritroviamo (tutti) in a “A fuoco vivo”, il primo romanzo di Ivan Ruccione. Inizi come poeta – una selezione delle sue prime opere è stata inclusa nel 2012 nell’antologia collettiva “Ho tutto in testa ma non riesco a dirlo” (Bel-Ami edizioni) -, poi i racconti, altre poesie e l’incontro decisivo: «Il libro è nato su Nazione Indiana. Ho sempre seguito questo blog letterario, perché è uno dei migliori. Un giorno del 2013 ci provo: prendo delle mie poesie e le spedisco all’attenzione di Francesco Forlani. Per gli articoli che pubblicava, mi sembrava il redattore più adatto alla mia sensibilità letteraria. Dopo qualche ora mi risponde: “Queste poesie buttale nel cesso, non sono all’altezza del tuo talento. Il tuo passo è quello del narratore. Mandami dei racconti”. Gli spedisco quello che mi sembrava il più bello. “Non è niente male – mi dice -, ma è troppo lungo. Mandamene uno che non superi le due cartelle”. Lo cerco, lo revisiono, nei successivi scambi di e-mail salta fuori che lavoro in cucina. Mi dice: “Alt. Fermati. Scrivimi un racconto che parli del tuo mestiere”. E così, quando verso le 23 torno a casa dal ristorante in cui lavoravo, mi metto a scrivere. Finisco alle 4 del mattino e spedisco. Alle 10 ricevo una mail che dice: “Bellissimo. Alle 11.30 sarà pubblicato. Tu forse non lo sai ancora, ma questo è l’inizio di un romanzo bellissimo. Mettiti sotto e scrivi il resto della storia”. Ed eccoci qui. Di me nella vicenda c’è tutto il sangue versato per il mio lurido mestiere, il fegato corroso, la voglia che avevo di addormentarmi e di non svegliarmi più.
E’ finito Masterchef, ha vinto Valerio Braschi, che è di Santarcangelo. “A fuoco vivo” era appena uscito e Mariano, il protagonista, lavora in un hotel a Cesenatico, a una ventina di chilometri da Santarcangelo. La sua vita è esattamente l’opposto di quella offerta dai riflettori della televisione.
«Nel libro ho ricordato a tutti che cosa sia questo mestiere. In un’epoca in cui bambini e preadolescenti sognano di fare i cuochi perché condizionati dalla tv, ho voluto registrare la vita di chi ai fornelli ci sta davvero, la vita di un cuoco normale: giornate da dodici o tredici ore di lavoro, essere minacciato dai colleghi se ti ammali, lavori stagionali della durata di sei mesi senza giorni di riposo, sottopagati, o in nero, in un ambiente tutt’altro che accomodante, dove la gerarchia è ferrea e iniqua come nell’esercito. Basti pensare ai tanti giovani e meno giovani cuochi che si sono suicidati, c’è una lista lunghissima».
Mariano che persona è? Sembra un prevaricatore, nei confronti di Stefano (“O sei uomo o sei cuoco” gli ripete) ma, alla fine, sembra emergere con una sua umanità.
«Davvero bisogna scegliere se essere uomini oppure cuochi. Le due cose non vanno d’accordo. Mariano ha capito che questo mestiere è un’idiozia, che le condizioni di lavoro sono disumane. Ma ormai ci è dentro e non sa come uscirne, nella vita sa fare solo quello. Le uniche cose che lo tengono a galla sono i libri, l’alcol e il sogno di diventare uno scrittore. Dunque cerca di fare di tutto per dissuadere Stefano – giovane lavapiatti diciannovenne, che sogna di diventare cuoco, suo aiutante – dall’intraprendere questa carriera. Lo massacra psicologicamente e fisicamente ma per il suo bene, affinché getti la spugna. Mariano si affeziona a Stefano perché vede in lui il suo più giovane alter ego; i moniti che gli rivolge sono come lettere spedite a se stesso».
Questa positività sembra torni anche nel rapporto con moglie e figlia, perse all’inizio del libro e ritrovate alla fine.
«Più che positività direi la voglia di non arrendersi. Il lavoro, oltre che fargli rinunciare a una vita propria, gli ha fatto perdere una famiglia. Così come cercherà di abbandonare il suo mestiere per fare lo scrittore, proverà a riavvicinarsi alla moglie e alla figlia, che non vede da tanti mesi».
Vigevano è parte importante del libro, inevitabilmente lo è anche Lucio Mastronardi. Qual è il suo rapporto di scrittore con lui?
«Di devozione. Spesso mi capita di andare a trovarlo al cimitero. “Il maestro di Vigevano” è tra i miei libri preferiti in assoluto. Sfortunatamente è uno di quegli scrittori troppo spesso dimenticati. Qui a Vigevano, ai suoi tempi – ma credo pure ora, visti i risultati -, non l’hanno mai preso sul serio, né come scrittore né come uomo. Io credo che la mia città abbia sulla coscienza il suo suicidio. Ha avuto un’esistenza travagliata, che per ovvie ragioni non ho vissuto di persona, ma che mi ha sempre affascinato. Per capirla meglio è stata fondamentale la lettura della sua splendida biografia, “La rivolta impossibile”, scritta da Riccardo De Gennaro. Sono presenti anche curiosissime corrispondenze con Elio Vittorini e Italo Calvino, piene di angosce e ossessioni. La cosa che mi mette tristezza dell’uscita del mio libro è che non posso andare tutto timido a citofonargli per regalarglielo. Ma un giorno di questi inforco la bicicletta e vado gettarne una copia nel Ticino».