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“La vita è stanca”: la recensione di Donatella Genta su d.repubblica.it

“La vita è stanca”: la recensione di Donatella Genta su d.repubblica.it

di Donatella Genta

Appassionati di romanzi dove la storia si snoda a più voci? In questo romanzo corale, in cui sono fondamentali l’immagine e l’immaginazione, Batsceba Hardy (fotografa che vive a Milano, dopo molto tempo trascorso a Berlino) ci parla dell’arte dell’imperfezione e descrive bene e in modo avvincente con la forza di un diario polifonico la storia di due gemelli, Annalia e Andrea, prima fratello e sorella, ora entrambi di sesso femminile, in cerca di sé e di un nuovo reciproco rapporto.
Le loro vite pian piano tornano ad amalgamarsi, circondate da animali parlanti, un cane e un gatto vecchio e molto saggio, una senzatetto filosofa e un musicista. I rapporti che si instaurano tra i protagonisti sono ‘deboli’, ma delicati. Tutti tendono alla ricerca della verità, tutti tendono all’amore, tutti tendono alla ricerca del proprio ‘essere’

Un romanzo diario, scritto con una scrittura magnetica che saprà tenervi incollati alle pagine durante la lettura sotto l’ombrellone, soprattutto grazie all’abilità della scrittrice di zummare sempre molto delicatamente sulla vita dei protagonisti e i dettagli che li circondano, ma soprattutto in grado di farci riflettere su di noi su quello che siamo e quello che vogliamo.

Leggi la recensione di Donatella Genta anche qui
http://d.repubblica.it/life/2018/08/01/news/libro_estate_2018_la_vita_e_stanca_batsceba_hardy-4064793/

“Autismi”: l’intervista a Giacomo Sartori su satisfiction.se

“Autismi”: l’intervista a Giacomo Sartori su satisfiction.se

di Gianluca Garrapa

G.G.: Perché Marguerite Duras, un cui passo riporti in esergo, dovrebbe essere, se lo è, il punto di riferimento per comprendere la scrittura degli Autismi?

G.S.: Mi toccano assai queste frasi sull’essenza non razionale della scrittura, come del resto tutto il magnifico testo dal quale le ho tratte e tradotte, Ecrire. E poi amo moltissimo questa autrice, e mi sembra che non si colga appieno la sua importanza fondamentale su tantissime scritture dell’intimità, per chiamarle così, che sono venute dopo di lei.

G.G.: Il mio lavoro consiste nel fare buche nella terra. Buche grandi e profonde, in cui ci entra comodamente una persona. Straniante è la tua scrittura perché, appunto, crea i buchi nel quotidiano e crea degli impossibili. Tragitti che ruotano attorno al dato autobiografico che non diventa mai autoreferenza, a dispetto del titolo del lavoro: Autismi. Autoironia, autoconsapevolezza. Le auto. Le macchine che prendono vita e, quasi, da oggetti inanimati s’innalzano a soggetti di memorie… scrivi: Nel mio sguardo sfilano le automobili parcheggiate. Le vie addormentate del mio quartiere sono stipate di macchine, perché poverine non sanno dove altro andare a dormire, mentre i proprietari ronfano placidamente nei loro letti, o anche si dedicano a indiavolati atti sessuali.

Gli oggetti pungono lo sguardo, anche del lettore. Non mi era mai capitato di provare questa forma di animismo nei confronti delle cose. E le cose, qui, gli oggetti sistemati spesso in elenchi, sono strappi all’anonimato quotidiano e diventano cause degne di attenzione. Penso alle bottiglie di Morandi, a Duchamp, al ready-made, all’operazione di rendere strano un oggetto comune, sottrarlo all’inorganico robotico, non è tanto la poetica dell’oggetto umile, ma l’etica di uno sguardo che tutto abbraccia. Alcuni elenchi: Arrivano gravati di sci, tavole da surf, biciclette, pattini, racchette, mazze da golf, creme solari, macchine fotografiche, paracaduti, corde, ramponi, pinne, aquiloni, canne da pesca, salvagenti, archi, balestre, attrezzature di ogni genere. Un elenco che, nel quarto elenco… volevo scrivere ‘episodio’ (il lapsus che ha trasformato episodio in elenco, non è fuorviante: ogni episodio può essere visto come individuo a sé stante e come elemento di una classe più vasta e l’errore in sé, in questo libro, quella mancanza che trascina tutto il racconto, è proprio spinta del soggetto a, da un lato, identificarsi con il mondo, dall’altro a ritrovare in sé la propria radicale diversità dal mondo, e la scrittura di Sartori, nello humour e nella non casuale semplicità, lo è); nell’episodio La mia città, l’elenco, mi pare, serve meno a ossessionare una pratica nevrotica di accumulazione di oggetti, sempre feticci e ombre del grande oggetto materno, che a delineare i caratteri dei loro possibili possessori maschi o femmine, di ogni genere. Oppure, parlando della madre, in Il mio organo della riproduzione, viene stilato un elenco degli ‘ostacoli’ che si pongono tra lui-bambino e la mamma. Quel desiderio di essere desiderato dalla madre, classico groviglio di narcisismo e disperazione: non c’è scrittura sincera che non sia generata dal Desiderio, dal vuoto incolmabile. Ma l’elenco: Prima di me venivano pur sempre gli amici ricchi, la pelliccia, le sue sorelle, la sua asma, l’anello con il diamante, l’anello con lo smeraldo, la batteria di scarpe con i tacchi, le vacanze, l’organizzazione delle vacanze, il suo amico omosessuale, l’estetista, i costosissimi lavori nella casa di famiglia, la pedicure, la pettinatrice, i problemi con le donne di servizio, l’antiquario, le fatture del telefono, le altre fatture, il preside della scuola dove insegnava, la sanguinosa guerra con mio padre, gli esami per diventare di ruolo, i nervosismi ingiustificati, la guerra di posizione con mia sorella, le visite mediche per capire se mio fratello era o non era pazzo, l’elenco è pur sempre un girare attorno, un torno e ritorno, un investigare, e la madre diventa tutte quelle cose che impediscono a lui-bambino di essere il privilegiato, l’unico e insostituibile… direbbe lo psicoanalista, o la terapeuta di Terapia di copulazione. In realtà Sartori non si sta lamentando, non sta scrivendo il suo male oscuro… anzi! Lui se la ride, ironizza sul luogo comune che vuole tutti i problemi generati dall’irrisolto Edipo. Ma traduce in chiave quasi umoristica il proprio disagio, supposto che davvero Sartori stia facendo, magari inconsciamente, di questa scrittura una terapia. Insomma, se il racconto di Autismi sia autobiografico o meno, non saprei dirlo, ma di certo non è questo, credo, che vuol evidenziare l’autore, quanto l’architettura di ogni episodio, legato al successivo proprio da un principio di elencazione: intorno alla propria esistenza ruotano i quadri che raffigurano momenti quotidiani: il lavoro, la malattia, la città, la famiglia, i ricordi, gli amici, la morte, la cacca. La mia cacca è un episodio assurdo: Cominciavo a percepire me stesso in una maniera completamente diversa: mi guardavo nello specchio, e vedevo il tubo digerente che ero. È un momento centrale, l’epifania di tutta la scrittura di Sartori: il vuoto che ci abita e che genera non solo la possibilità di ospitare l’altro ma soprattutto di mettere da parte quel narcisismo che apparentemente tradisce il titolo del libro. Siamo costruiti intorno a un vuoto, sembra dirci la prosa di Sartori: c’è sempre per tutto il libro un sottile senso di disagio come impossibilità intrinseca di poter andare oltre, e sempre, la situazione più comune e quotidiana, diventa di più profondo significato sociale e politico.

G.G.: Che rapporto hai, se ce l’hai, con la letteratura psicoanalitica e quali sono stati i tuoi riferimenti letterari nella stesura dei tuoi Autismi?E che rapporto hai con la politica e con l’ideologia politica?

G.S.: Io non sono un teorico, insisto sempre su questo punto, per il semplice fatto che guardandomi attorno vedo che moltissime persone, professionisti del pensiero ma anche semplicemente individui molto intelligenti, sono molto più dotati di me per il pensiero astratto e filosofico. Ciò detto che dietro a tutti i miei testi ci sono tantissime letture teoriche, anche appunto di psicoanalisi, perché non vedo come uno scrittore contemporaneo, qualsiasi cosa scriva, possa ignorare il suo apporto. Checché si possa dire di questa, e sui suoi limiti, mi sembra che solo lei riesca a scavare nei comportamenti e nei funzionamenti intimi delle persone. A me in ogni caso ha apportato moltissimo. Ma ripeto, il mio interesse non è cerebrale, a me preme capire le persone, e riportare questo mio sapere nei testi che scrivo, che è quello che so fare bene. E lo stesso si può dire della politica, nei miei testi c’è tantissima politica, e mi fa piacere che la persona che mi traduce in inglese, Frederika Randall, lo abbia sottolineato nelle sue considerazioni su questa raccolta di racconti, che potrebbe essere considerata agli antipodi della politica. Perché anche l’intimità delle persone, l’intimità più abissale e nascosta, che è quello che più mi interessa, è – lo dici molto bene tu stesso – rapporto con gli altri, con la società in cui si vive, con le forze economiche e politiche che la reggono, con i fondamenti ideologici espliciti e impliciti. Però anche qui le piste nei miei testi sono nascoste e mescolate, non ci sono mai dei messaggi univoci e facilmente riassumibili.

Perché il tema politico torna sempre nella rievocazione del padre fascista e del paese bigotto e cattolico e si riflette in queste alte montagne, ostacolo della percezione e della riflessione: L’unica soluzione sarebbe spianare le montagne, in modo da permettere finalmente allo sguardo di spaziare, all’aria di circolare, al sole di tramontare sulla linea dell’orizzonte, alle idee di maturare serenamente: la soluzione sarebbe di spianare gli ostacoli, e di colmare il vuoto del desiderio. Intendimento irrealizzabile che bloccherebbe non solo la scrittura di Sartori ma la scrittura tout court: La mia volontà di attraversare mi appare ormai come un invincibile despota, un tiranno al quale non mi resta che arrendermi. Adesso vado!, mi dico, irrigidendo le spalle.

Poi però rimango sul solito marciapiede, quello di sinistra: scrive nel penultimo episodi Le mie passeggiate, un episodio che non può rievocare, credo, una psicogeografia fatta di ossessioni e ricordi simil-nevrotici, ma anche da un’ansia del territorio per cui il soggetto non si decide a passare dall’altra parte o a lasciare la sua terra (tentennamento che dissolve in malinconia quel disprezzo che dichiarato per la sua città e le montagne al momento del dipartire:,Mi dico che le vedo per l’ultima volta e ne provo quasi un malinconico struggimento; oppure in maniera più incisiva in La mia patria fuggitiva: Allora ho capito che ero un italiano, lo sarei sempre stato).

E che rapporto hai con il tuo territorio nella vita di tutti i giorni quando non fai lo scrittore?

G.S.: Io sono cresciuto in Trentino, e anche se poi a diciotto anni lo ho lasciato, ci sono sempre ritornato, e tra le altre cose lo ho battuto palmo a palmo per il mio lavoro. Quindi lo considero la mia terra, e se penso all’Italia mi viene naturale di pensare in primo luogo alla mia regione, e anche molti miei scritti hanno a che fare con essa. E è un territorio con il quale ho un rapporto complesso, appunto. Ci sono molte cose che detesto, ma la psicanalisi – visto che abbiamo parlato di psicanalisi – e anche la spiritualità, ci insegnano che non c’è avversione e rancore senza vicinanza, senza incarnare noi stessi quegli attributi che ci danno noia.

G.G.: Gli episodi sono stratificati, è vero, ma è come se, scivolando verso la fine, si risalisse in superficie, o viceversa, e l’andamento, spesso, è una scalata: si arriva in vetta e si ridiscende e il dato di fatto iniziale muta sguardo, un’anamorfosi, trasformazione, come se il tragitto, per avercelo fatto attraversare, modificasse il territorio, e l’ipotesi iniziale contraddice la spinta propulsiva del racconto e si converte nel suo contrario o complementare: quel che credevamo un esistente si fa allucinazione, quel che viene a galla come un distacco è una liberazione e la liberazione a sua volta sprofonda lentamente nel rimpianto, nell’inquietudine kafkiana dell’assurdo esistere, sembrava prossimo alla morte e invece è solo un disagio del corpo, sembrava merda e invece è oro. La scrittura di Sartori scava, scala, scavalca, si muove in direzioni opposte, è profonda e superficiale, anima gli oggetti e individua l’automatismo dei soggetti, concede un’anima alle macchine ma denuncia la morte-in-vita dei suoi paesani umani, accusa gli altri di essere fatti male per poi giungere alla conclusione amara e ironica di essere lui stesso fatto male, proprio come succede con la sorella che descrive nell’episodio Mia sorella. Punti di vista differenti, una prospettiva che non si accontenta del proprio sguardo e chiama a testimone lo sguardo altrui.

Perché è un istigatore Andrea Raos?

G.S.: Il poeta Andrea Raos, che avevo conosciuto a Parigi, all’epoca anche lui viveva lì, nel 2005 mi aveva chiesto ripetutamente se volevo collaborare con Nazione Indiana, e se volevo entrare nel blog come redattore. Io per un po’ ho nicchiato, perché all’epoca ero molto lontano dalle cose del web, poi invece ho cominciato a scrivere questi racconti, che lui postava mano a mano, e per me è stata una esperienza bella e ricca. A differenza dei romanzi i racconti hanno bisogno di essere desiderati, o insomma di avere una loro possibile destinazione, e per molti versi si portano dietro l’energia della contingenza dalla quale nascono. A me almeno succede così. In ogni caso senza Nazione Indiana questi testi non avrebbero mai visto la luce. E poi ho finito per entrarci a tutti gli effetti, nel blog, e anche questa per me è stata un’esperienza importante.

G.G.: Ingannevole quel ripetitivo mio mia nel titolo della maggior parte dei capitoli-episodi: proprio perché non v’è nulla di ‘mio’ ci si può permettere di dichiararlo tale, è proprio perché non v’è niente di autoreferenziale che l’autore può chiamare Autismi questa raccolta di episodi apparentemente a sé stanti. Ma raccontaci qualcos’altro degli Autismi pubblicati sul blog collettivo Nazione Indiana.

G.S.: La cosa bella è che i lettori commentavano i racconti, anche in modo molto critico, o al contrario esprimendo la propria ammirazione. Dieci anni fa si era in un’epoca differente, i blog letterari erano ancora pochi, e i lettori erano forse più attenti, o insomma avevano più tempo a disposizione. La mia impressione è che oggi l’offerta sia così grande, tra blog, social eccetera eccetera, che le persone facciano fatica a stargli dietro, e lo facciano in modo compulsivo, e senza quella reale attenzione e quel coinvolgimento che mi sembrano essere la specificità e la bellezza della fruizione dei testi letterati. In queste condizioni non si potrebbe ripetere l’esperienza degli Autismi, non avrebbe senso, mi pare.

G.G.: L’ultimo episodio si intitola Il mio testamento biologico e mi sembra che concluda egregiamente il circolo intorno al vuoto del desiderio con un commiato esistenziale, sociale e politico sui diritti umani, che è pure un ritorno alla terra-madre, terra nel suo significato ancestrale e ontologico opposto o complementare a quello assunto dallo stesso termine nel primo episodio Il mio lavoro in cui la voce narrante racconta il mestiere dell’agronomo: la voce narrante di Autismi possiede un corpo ben piantato nella terra e la sua scrittura, come suo doppio sulla carta, s’innalza quasi-albero. Non passa inosservato il contrappunto tra le parole del primo episodio: O forse giacerò anch’io già nella terra, e le parole dell’ultimo: Per parte mia avrei continuato a vegetare, perché proprio questo è sempre stato il mio traguardo.

E per parte mia vi auguro una buona esplorazione dell’animale terrestre che dunque siamo e che Sartori rappresenta con una tecnica estremamente originale.

Leggi l’intervista di Gianluca Garrapa anche qui
http://www.satisfiction.se/autismi-intervista-a-giacomo-sartori/

“Tutto dovrebbe essere migliore”: la recensione di Serena Adesso su mangialibri.com

“Tutto dovrebbe essere migliore”: la recensione di Serena Adesso su mangialibri.com

La ragazza non sa come vestirsi. Ha un appuntamento. Continua a guardare i suoi vestiti e a scartarli mentalmente. È sempre più agitata. Sempre più angosciata. Chi ti credi di essere? Si chiede nella sua mente. Cerca di tenere a bada l’ansia muovendosi, il movimento allevia la tensione. Aspetta. L’uomo arriva. È in ritardo. Lei sa che le deve delle scuse e delle spiegazioni. È il suo allenatore e non ha permesso che giocasse da tempo. Lui le spiega il perché: è invidioso della sua bravura. Lei è incredula. Lui le dice che è il modo più facile di fermarla quella di ripeterle che non è capace di fare bene nulla, che nella vita saranno in tanti a cercare di fermarla utilizzando questo modo. Lei non deve arrendersi. Mai. E lui non sarà mai più il suo allenatore. La ragazza si ferma. Immobile. Piange… È la sera di Capodanno. C’è frenesia, al centro di Roma. Tutti in metro si spostano per festeggiare l’inizio dell’anno nuovo. Lei è seduta al suo posto vestita da geisha. Una donna che non conosce le si avvicina. Si siede al suo fianco. Cominciano a parlare. Il tempo diventa liquido. Scorre come acqua. Le due donne arrivano al capolinea ed è ormai già mezzanotte… Quando lei ha conosciuto lui ha imparato una lezione di vita fondamentale: bisogna fidarsi del proprio corpo. Sempre. Ascoltarne i segnali. Non bisogna far sì che sia la paura a vincere. Bisogna combatterla la paura. Lui è stato in coma per sei mesi. Al risveglio metà del suo corpo è paralizzata. Lui sfida la paura ogni giorno…

Alessandra Perna, musicista, ha suonato per quattro anni nel gruppo punk italiano Luminal, si dedica alla musica e alla scrittura, è eclettica e dichiara di “fare quello che vuole, sempre”. Ha già pubblicato un romanzo (Non farti fregare di nuovo) e ora rilancia la sua scommessa con la letteratura pubblicando questa intensa raccolta di racconti. Trentatré storie estremamente brevi: esattamente come le canzoni punk che scorrono nelle vene dell’autrice. Le storie mettono a fuoco dei brevi momenti nella vita dei protagonisti: sono epifanie, momenti di estrema lucidità in cui i protagonisti analizzano la loro vita, cercano di capire quale direzione imboccare, quale strada percorrere e come affrontare le difficoltà che faticano a superare. I racconti sono scritti in maniera paratattica, con frasi brevi e taglienti, sembra di leggere tanti frammenti, schegge di realtà che colpiscono al cuore il lettore. Ed è proprio questo modo di scrivere in maniera frammentata che è assieme il punto di forza e di debolezza del lavoro di Alessandra Perna. Non riusciamo a provate empatia con i suoi personaggi, tutto ci travolge con grande forza e tutto scorre troppo rapidamente. Sarebbe stato bello approfondire, limare, fornire un quadro più ampio delle situazioni e invece ci pare di leggere degli haiku.Tutto dovrebbe essere migliore si legge a ritmi serrati, il tempo di un pogo ed è tutto finito.

Leggi la recensione di Serena Adesso anche qui
http://www.mangialibri.com/libri/tutto-dovrebbe-essere-migliore

Claudio Marinaccio: l’intervista di Guido Barosio su Torino Magazine

Claudio Marinaccio: l’intervista di Guido Barosio su Torino Magazine

Il suo terzo libro – ‘La folle storia del kamikaze che non voleva morire’ (Miraggi Edizioni) – promette di essere uno dei casi più interessanti di questa estate letteraria. Di lui Darwin Pastorin ha detto: “è uno scrittore maradoniano”. Claudio Marinaccio, classe 1982, un autore che esplora volentieri anche le rotte del giornalismo, dopo aver scritto per GQ, Donna Moderna e Il Mucchio Selvaggio collabora con Wired, Io Donna del Corriere della Sera e La Stampa. Da qualche tempo è tra le firme scelte dal quotidiano di Maurizio Molinari, insieme a Mattia Feltri e Giuseppe Culicchia, per raccogliere l’eredità del ‘Buongiorno’ di Massimo Gramellini. Il suo personale ‘Buongiorno Torino’ è dedicato alla provincia che sui affaccia sulla grande città, tra realtà ironica e un pizzico di surreale. Se i due libri precedenti – ‘Come un pugno’ (Aliberti) e ‘Non disturbare’ (Miraggi Edizioni) – hanno raccolto un buon successo è col terzo che le ottime recensioni confermano l’originalità di un percorso personale, originalissimo, fatto di storie taglienti, spiazzanti, dove il lettore affronta vicende terribili ma sempre piene di ironia. «Il libro è composto da undici racconti – ci spiega – dove i protagonisti vanno incontro ad un destino che non lascia scampo, ma loro si ribellano, vanno avanti nonostante tutto anche quando sono beffati, Nei miei personaggi c’è quella voglia di sopravvivere che ogni essere umano scopre di fronte all’inaccettabile. Ma non sempre basta, e io lo racconto».

Storie torinesi?
«No, universali. Gotiche e amare. Molti luoghi sono legati ai miei viaggi, da Parigi all’Abruzzo, dal sud della Francia al Cile, per arrivare agli Stati Uniti dei miei panorami letterari o cinematografici».

Che rapporto hai con Torino?
«Amo Torino, ma la vedo in prospettiva, perché vivo in provincia, a Villarbasse. Vado in città ogni giorno, con la mia moto ci metto pochissimo, ma alla sera mi piace tornare in un posto dove ci sono gli alberi e le case sparse, dove si sentono le voci distinte e i cani abbaiare. A Torino, come in ogni città, c’è sempre un rumore di fondo, ed è una sensazione profondamente diversa. Vivendo questi due ambienti nella medesima giornata si colgono meglio le differenze, e ci si sente a proprio agio in entrambi. Sono un provinciale metropolitano e questo penso sia un privilegio. Per uno scrittore è un doppio punto di vista, fonte di spunti e di ispirazione».

Cosa ti piace della provincia?
«La provincia è un territorio intimo e concreto, fatto di cose tangibili e visibili. E’ un luogo che profuma di antico, dove si gode di una realtà minimalista estremamente interessante. In provincia contano gli individui, li vedi uno per uno mentre fanno le loro cose, li incontri al bar dove ogni giorno si commentano i fatti, anche quelli grandi, ma sempre con le medesime persone. E poi quella di Torino è una provincia grande, la più grande d’Italia, circondata da montagne che vedi sempre, che identificano il paesaggio e forse anche il carattere della gente».

E invece Torino?
«Torino ha una identità molto forte e una doppia anima: elegante e underground, ci sono i palazzi della storia, ma anche le tante vivacità di una cultura urbana che ha offerto e offre molto nella musica, nel cibo e nell’arte. Torino non è come le altre città italiane, è molto più europea, anche geograficamente».

Hai vissuto un anno in America Latina, cosa ricordi di quell’esperienza?
«Quando ho conosciuto mia moglie, Javiera, nel 2006, ci siamo trasferiti un anno in Cile. E’ stata una bella esperienza, ma poi abbiamo deciso di tornare. Ho scoperto di amare l’Italia ancora più di prima proprio restando lontano da casa. Sono convinto che in nessun paese del mondo si ami la vita come da noi. Al rientro ho deciso che avrei fatto lo scrittore a tempo pieno. Una decisione che ho preso anche per mio figlio Carlos, io scrivo per lasciare qualcosa a lui».

Cos’è per te la scrittura?
«Mi piace la lucida follia che trovo in certi scrittori. Come per molti autori latinoamericani e statunitensi amo partire dalla quotidianità per arrivare al misterioso e al surreale. E poi c’è un altro aspetto fondamentale: la scrittura è allegria, piacere, diffido degli autori tristi. Quando vado nelle scuole insegno ai ragazzi che questo è il lavoro più bello del mondo e gli dico che per scrivere serve leggere, leggere tanto. Il mio primo libro vero è stato ‘Il bar sotto il mare’ di Stefano Benni. L’ho preso tra le mani a 13 anni e ho scoperto che ci si può divertire molto leggendo».

Granata o bianconero?
«Juventino, ma la responsabilità è stata di mio padre. Nel 1992, dopo aver visto Mondonico sollevare la sedia ad Amsterdam, gli dissi detto che volevo tifare Toro. Lui mi ha risposto che non dovevo più chiamarlo papà e che avrei potuto rimanere in casa, ma senza mangiare a tavola con loro. Così ho cambiato idea».

Ti piacciono altri sport?
«Ho praticato il pugilato e alla boxe ho dedicato il mio primo libro. In quello sport si legge tutto il dramma della vita e si conduco allenamenti devastanti, una vera lezione. Tanti ti chiedono: ma come fai a prendere a pugni gli avversari? E tu gli spieghi che, salendo sul ring, il primo problema è un altro: quei pugni, innanzitutto, non devi subirli. Poi amo molto il basket e sono una grande tifoso dell’Auxilium. Nell’ultimo anno ho stretto amicizia con Sasha Vujacic, un personaggio straordinario. Lui, che ha vissuto a Los Angeles e Istanbul, trova Torino molto bella, una città a misura d’uomo».

Essere scrittore o fare il giornalista, cosa preferisci?
«Non ho dubbi: io sono uno scrittore. Se vuoi, prestato al giornalismo. In assoluto mi piace raccontare storie, anche nei miei articoli, o sui social, faccio questo e in questo mi riconosco».

Oltre alla lettura come vivi il tuo privato?
«Il mio tempo migliore lo dedico alla scrittura, alla lettura e alla televisione, dove seguo con passione le serie stand up americane, politicamente scorrette e, proprio per questo, irresistibili. I momenti più preziosi però sono quelli dedicati alla famiglia, la mia band. L’educazione di Carlos è un costante punto di domanda. Mi chiedo spesso se, almeno qualche volta, occorre renderlo infelice per farlo crescere».

Il prossimo progetto?
«Sta prendendo corpo e si intitola ‘Non disturbare’. E’ una lettura ironica del nostro quotidiano, fatto di disturbatori incalliti, che bussano alla nostra porta dai call center, dai social, dalle chat di whatsapp, sotto forma di Testimoni di Geova. Per sopravvivere occorre arginarli e l’ironia può essere l’antidoto più efficace».

intervista di Guido Barosio pubblicata su Torino Magazine

“Non disturbare”: la recensione su tremandorle.wordpress.com

“Non disturbare”: la recensione su tremandorle.wordpress.com

Le lunghe giornate di luce e di svago consentono di abbracciare tutte quelle attività che ci fanno stare bene e se adesso siete qui con me è perché una di queste attività per voi benefiche è la lettura.

La seconda mandorla estiva che vi suggerisco è Non disturbare di Claudio Marinaccio, un libro ideale da leggere sia quando siamo rilassati (e quindi bendisposti verso il prossimo) sia quando siamo coinvolti in una delle situazioni descritte (e pertanto in balìa di moti emozionali poco concilianti).

Queste righe divertenti, canzonatorie, talora affilate come coltelli, talaltra delicate come petali di rosa, aprono uno squarcio su una realtà che ci riguarda tutti: il desiderio di stare tranquilli quando ci gustiamo un “caffè”, quando leggiamo un giornale o un “libro”, quando vogliamo recuperare le energie a letto la domenica mattina.

I brani accontentano tutti i palati: dal vegetariano – che non può non riconoscersi nella fanciulla che varca la soglia di un bar – al finto esperto pasoliniano, un essere terrestre che segue l’onda modaiola cullato da una non conoscenza imbarazzante.

Questo libro è suddiviso in porzioni che nella loro brevità ci forniscono un grimaldello interpretativo delle ragioni per cui si legge poco e dei fattori che concorrono a formare il prezzo del “pane”. E se tutto può essere rateizzato e una comunicazione con chi non “sente benissimo” può apparire bonariamente difficoltosa, l’elemento disturbante a volte diviene l’alleato in grado di fornirci l’alibi per non portare a termine un compito che incombe su di noi.

Varcando il confine fra il detto “arrivederci” e lo sperato “addio”, notiamo come nulla (dalla religione alla politica, dalla vita quotidiana agli affetti) venga risparmiato dalla battuta, battuta che strappa un sorriso e che riesce anche a stimolare ragionamenti intimistici che segnano un cambio di prospettiva inaspettato.

Con un ritmo fresco e incalzante e pronunciando quelle parole che noi ci limitiamo solo a ripetere nella nostra testa, l’autore trova espedienti sempre nuovi per uscire con ironica intelligenza da situazioni che ci cadono addosso, se non quotidianamente, con una frequenza di cui faremmo volentieri a meno. Allora proviamo, magari una volta, ad affrontare la realtà in maniera diversa e a inchiodare spalle al muro il ‘disturbatore’ di turno con la potenza della parola, nel limite della rispettosa educazione ça va sans dire.

 

Leggi la recensione di tremandorle anche qui
https://tremandorle.wordpress.com/2018/07/13/tre-mandorle-al-sole-un-po-di-pace-per-favore-three-almonds-at-the-sun-a-bit-of-peace-please/#more-2366

 

“Autismi”: l’intervista a Giacomo Sartori su satisfiction.se

“Autismi”: la recensione di Luca Ricci su altrianimali.it

Alla maniera dei grandi moralisti francesi, Giacomo Sartori anziché fare i pistolotti dimostra di avere una coscienza. Questa esibizione, non disgiunta da un certo narcisismo indispensabile all’atto letterario, è ora un libro intitolato Autismi, già celebre perché pubblicato a puntate nel corso di svariati anni sul lit-blog Nazione indiana. Anche se la sua collocazione naturale sarebbe la Piccola Biblioteca Adelphi, ad occuparsene stavolta sono i tipi di Miraggi Edizioni. Come in Montaigne o in La Rochefoucauld, Sartori compone uno zibaldone di pensieri e piccole storielle, procedendo per balzi e strappi, ribadendo nei titoli dei pezzetti l’uso del pronome possessivo mio: Il mio lavoro, Il mio primo infarto, Il mio attuale editore… L’io di Sartori, micragnoso nell’arte dello storytelling (per fortuna), non lesina spietatezze e illuminazioni. Si occupa di quello di cui si può occupare una coscienza, cioè di tutto, dalla patria alla cacca.

Luca Ricci

 

Leggi la recensione di Luca Ricci anche qui
http://www.altrianimali.it/2018/07/19/cosa-leggi-questa-estate-i-consigli-dalluniverso-altri-animali-2018/

 

 

 

“Autismi”: l’intervista a Giacomo Sartori su satisfiction.se

Gli “Autismi” di Sartori tra ironia e autobiografia: la recensione di Silvia Vernaccini su il Corriere del Trentino

Non è un libro “facile” quest’ultima opera letteraria di Giacomo Sartori, Autismi (Miraggi, pp. 224, euro 16), ma di certo sa affascinare e coinvolgere gli affezionati lettori dello scrittore trentino/parigino. Sedici episodi, distinti, ma comunque interconnessi, che trovano riferimenti con l’autore in una sorta di autobiografia. “La mia città è il posto dove è impossibile essere felici … Per non parlare delle idee, che appena nate sbattono contro le pareti di roccia”. Lo stile è ironico, definisce sua madre “fanatica delle apparenze altoborghesi e criminalmente anticonformista”, attraversato da una sottile vena comica, contraltare a una scrittura con riflessi scientifici, quasi volesse ancorarla alla terra alludendo alla sua professione di agronomo: “Il mio lavoro consiste nel fare buche nella terra … Mi ci seppellisco, si potrebbe dire. Però a differenza di un altro seppellimento, nessuno poi aggiunge altra terra tra me e lo scavo … Posso guardare un rettangolo di cielo”.
Silvia Vernaccini

Domenico Mungo: «I miei racconti su Torino madre ingrata»

Domenico Mungo: «I miei racconti su Torino madre ingrata»

Come ha scritto sul Fatto Quotidiano Lorenzo Mazzoni, Il suono di Torino «è una bellissima e originale raccolta che narra il capoluogo piemontese attraverso un’operazione totale. Lo stile a puzzle di John Dos Passos e quello ermetico senza fiato di Nanni Balestrini si incontrano davanti a Mirafiori e si mischiano, con il gergo volgo-forbito di Vittorio Giacopini». Una scelta stilistica forte e per certi versi controcorrente, così come molti contenuti del libro scritto da Domenico Mungo, che in questa intervista ci svela i segreti del suo lavoro.

Il suono di Torino è indubbiamente un libro eterogeneo. Come lo definiresti?
«Oggi è quasi impossibile scrivere un romanzo classico, a mio parere, poi c’è che lo fa egregiamente, con intrecci e caratterizzazioni psicologiche congrue e coerenti. La contemporaneità è imprevedibile, così come la ricostruzione sistematica di un passato più o meno distante, come quella che sottende la narrazione di una storia altra di Torino. Ho così raccolto eventi importanti, simbolici, fondamentali, ma anche personali, ironici, tragici. Veri, verosimili o fantastici che hanno influenzato, sfiorato, intersecato la mia biografia e ho cercato di costruirne un romanzo contemporaneo, o meglio un anti-romanzo. Un esercizio stilistico ma anche di contenuti sperimentali. Con una trama sottesa che riaffiora carsicamente legando luoghi, vicende, personaggi. Confondendo i livelli della storia, certificata attraverso una rigorosa ricerca di fonti e testimonianze- essendo fondamentalmente io uno storico, un docente di letteratura e storia ed un ricercatore – e la fiction, cut-up sonori e visivi, brandelli di documentari e sceneggiature mutanti, epitaffi e visioni mistiche. Imbevute in un maleodorante tentativo di noir urbano postpunk. Questo in virtù del fatto che anche la mia esistenza è stata molto frammentaria, un romanzo a racconti ne è lo specchio più fedele. Io sono un artigiano della scrittura. Parto da una massa informe di informazioni, documenti, appunti, bozze, scritti che ho lasciato scivolare nel retrobottega della memoria o pubblicato altrove sotto forma di articoli, recensioni, appunti, epigrammi ed epitaffi e poi lavoro di cesello. Scavo. Sostituisco. Taglio migliaia di parole, paragrafi, capoversi, fino a raggiungere ad una forma più essenziale, agile e, mi auguro, organica per il lettore. Per me lo diventa, eccome! Torino rappresenta il paradigma della città globale, non intesa dal punto di vista delle dimensioni e dell’esorbitante numero di abitanti, bensì per l’eterogeneità talvolta schizofrenica del suo tessuto etno-sociale e culturale. Una città storicamente multilivello e contraddittoria. Città imperiale e plebea, monarchica e rivoluzionaria, operaia e capitalista, avanguardia delle emancipazioni e roccaforte del conservatorismo, allevata dalla cultura istituzionale, editoriale, einaudiana, rigenerata ed innervata dalle contro-sottoculture di fine millennio, nobilitata dalle lotte operaie e studentesche e genuflessa alle logiche del neobusiness globale dalla riqualificazione ambientale, culturale e politica posteriore alla crisi dell’industrialismo novecentesco. Laboratorio di rivolta e repressione. Capitale dei buoni sentimenti di De Amicis e Fogazzaro, dell’ipocrisia piemontarda del Bicerin e Fiorio, ma anche dell’esoterismo nero, del razzismo scientifico di Lombroso, del taylorismo esasperato, della follia visionaria edesotica di Salgari, del pessimismo suicida di Pavese, della rabbia dei quartieri e dei vernissage internazionali del libro, dell’auto, dell’arte e della repressione. Del monopolio delle risorse pubbliche per cultura ed entertainment appanaggio dei soliti noti, degli spazi sociali autogestiti strappati all’asfalto, al degrado e all’ottusità del demanio al prezzo di arresti, denunce, torture, assassini di Stato e fiere occupazioni ancora r-esistenti. Era pertanto difficile rendere omogenea una matassa geneticamente incoerente. Era difficile raccontare una sola Torino. Era necessario osare una formula ibrida, urticante, uggiosa, palesemente devota alla letteratura classica e oscenamente debitrice delle avanguardie letterarie internazionali. Bisognava osare, infarcire le parole di suoni ed i suoni di parole. Un mosaico presente e chiaro nella mia mente, ma arduo da dipanare organicamente all’uso del lettore prosaico e diffidente. Il suono può essere pertanto considerato un romanzo sperimentale, multilivello, fraudolento in quanto spaccia per raccolta di racconti quello che la mia inerzia indolente non ha voluto trasformare in un romanzo composito e coerente».

I racconti nella letteratura italiana hanno spesso faticato a trovare spazio tra i lettori: perché hai scelto questa forma?
«Ritengo che nell’epoca della sovraesposizione iper-cinetica della comunicazione, laddove i tempi di reazione all’istantaneità sono ridotti a pochi frammenti di tempo e la soglia di attenzione, soprattutto dei più giovani, è ridotta a brandelli infinitesimali, il racconto – che può essere letto per intero senza interruzioni, compreso e analizzato anche in un tempo limitato – rappresenta un’opportunità usufruibile facilmente e positivamente. Brevità ed intensità caratterizzano il racconto, congeniale pertanto ai nostri tempi convulsi e frammentati. Nel Novecento, peraltro, tutti i grandi autori della letteratura italiana e straniera si sono confrontati con la misura del racconto attraverso storie di fatti concreti e coinvolgenti soprattutto alla portata dei lettori più giovani. Leggere, i racconti in particolare, significa incontrare dei personaggi, farsi imbrigliare ed affascinare subito da una storia, da un intreccio e da un epilogo abbastanza rapido ma anche dal modo di raccontare di chi scrive e narra. Attraverso il racconto, talvolta, è più agevole comprendere i contenuti di una storia, ma anche i pregi estetici, le caratteristiche stilistiche, la delicata poesia e/o la sottile ironia che li pervadono». Tutti i maggiori autori del Novecento sono riusciti efficacemente attraverso il racconto, talvolta anche più che con il romanzo lungo, a lambire ed approfondire – sembra una contraddizione in termini data l’essenzialità del racconto –  efficacemente il nostro paese e ci danno il senso della ricchezza lessicale e delle vivacità creativa e spesso sperimentale della nostra lingua. Pertanto la mia risposta a questa domanda ribalta i termini: sono io che chiedo a voi “non è il racconto ad essere entrato in crisi, ma piuttosto non è forse vero che l’industria editoriale non è più disposta a riempire cataloghi, scaffali, distribuzione e visibilità con raccolta di racconti, antologie o racconti singoli?”. Bisogna vendere prodotti, che giustifichino costi di copertina adeguati, e non che abbiano l’esigenza primaria di raccontare e basta. Ecco, ritengo che non sia il racconto ad aver perso la sua forza narrativa, speculativa e divulgativa, bensì il correre forsennato dei tempi che assembla e omologa tutto al maggior consumo possibile per il maggior numero di pagine possibile».

Il libro è anche un duro atto di accusa nei confronti di Torino…
«Torino è una madre ingrata. Torino da secoli fagocita tutto ciò che raggiunge le sponde del Po. Partorisce, accoglie, nutre, alleva, fortifica, deprime, reprime, sbrana e sputa via. Un Conte Ugolino sopraffatto dalla storia, un Abramo che non viene fermato da Dio un attimo prima che il sacrificio abbia luogo. L’aspetto gotico, soffusamente noir e seriale, che sottende la sciarada di racconti vuole perorare la tesi che il vero responsabile di questa ecatombe è la stessa Torino transgender: un uomo-donna nero, con un cappellaccio ed un coltello a serramanico nascosto sotto il mantello. Si aggira tra Villarbasse dove compie un efferato eccidio rurale e Porta Susa a traino delle squadracce fasciste di Brandimarte inviate da Mussolini nel 1922 ad impartire una dura lezione a quella porca Torino avanguardia del Biennio Rosso, facendo capolino tra i Murazzi e Piazza Vittorio. E i suoi sotterranei. Si accanisce sulla Val Susa sotto forma di treno ad alta velocità e mortalità. Incendia il Cinema Statuto e fugge tra i mortaretti di un carnevale tragico e spolverato di neve fangosa. Deporta milioni di meridionali nella fabbrica sottratta ai nazisti dagli scioperi di guerra del ’44 con l’illusione del boom economico per incatenarli alla catena di montaggio di corso Agnelli e lasciarli senza lavoro, quindi condannarli alla morte sociale, dopo le occupazioni del 1980 ed il tradimento dei 40mila crumiri. Dal suo sottosuolo emergono artisti, musicisti, assassini, scrittori, ribelli, infami, venduti, eroi, tossici, tatuatori mistici, ultras, anarchici, pezzenti, santi e filosofi, puttane e spacciatori. E tutti muoiono a Torino oppure sopravvivono morituri, oppure incidono con il loro sangue la lapide del muro di suono digrignante che viene prodotta negli altoforni della sua civiltà industriale sepolta da un piano regolatore di riqualificazione urbana eppure disumana. Gli esempi sono decine disseminati in quasi tutti i 31 racconti, ma in realtà a me serviva un capro espiatorio, un assassino seriale, un’antropizzazione di un concetto allegorico, politico e storico per delineare organicamente il corpus tradizionale di un romanzo che, tradizionale, non lo è per niente. Pertanto la metafora che domina l’incedere del volume è caratterizzata dalla duplice icona della Torino omicida seriale che perpetra un’ecatombe lunga un secolo. Imprendibile e responsabile di lutti e sciagure come il Solito Sconosciuto che conclude, tragicamente, l’epopea rurale di Fontamara. È comunque questo un lavoro ancora nella sua fase iniziale ed incompiuta, poiché prevedo Il Suono come la prima parte di una trilogia torinese, il cui sequel è già in cantiere con il titolo del L’Altro Suono di Torino, una raccolta dei racconti in negativo di quelli comparsi nel primo volume, in grado di incastrarsi nelle zone d’ombra volutamente lasciate sospese e finalmente completare la cornice spazio-temporale e di causa effetto dei racconti».

Quanto c’è di autobiografico e quanta parte ha la fiction nella tua opera?
«La maggior parte dei racconti sono veri o verosimili. Lo spazio per la fiction è relegato al connettore delle diverse storie, costruito attraverso il grezzo canovaccio dell’eccidio di Villarbasse: una sorta di onirico gotico, allegorico neorealista. I criteri di scelta sono quasi sempre legati all’emozione, al sentimento, al caso e ad una buona dose di culo».

A rappresentare un filo conduttore tra le pagine è anche la musica punk…
«I racconti sono intersecati dalla liriche blasfeme ed insolentemente anarchiche dei Nerorgasmo, seminale punk rock band torinese che a cavallo dell’inizio degli anni 80 significò molto per la controcultura torinese e nazionale, ma anche di numerosi altri gruppi torinesi e non solo, ma anche di Lucio Dalla, Fred Buscaglione e gli eroi del rock e del punk internazionale. Il Suono di Torino è anche il ronzare impenitente delle sue chitarre digrignanti rabbia&disperazione, poesia e melodia in battere e levare, colate di velluto e bitume e cipressi distorti da un Marshall in eruzione incastonato in un giardinetto emostatico di Mirafiori e della Barriera di Milano.

In un’intervista hai dichiarato che “più le imprese sono disperate e più mi affascinano”: qual è oggi un’impresa disperata?
Credo che gli scrittori debbano osare, oggi più di ieri. Credo in un ruolo ancora destabilizzante, curioso, provocatorio, puro ed ingenuo dello scrittore rivolto alla società contemporanea, ed alla narrazione dei suoi mutamenti genetici e cronologici. Vedo attorno a me decine di scrittori bravi, ma sostanzialmente innocui. Ottemperati alla catena di produzione industriale della scrittura: al posto giusto nel momento giusto, senza incidere sulle coscienze, ma accompagnandone lo scorrere nell’alveo della normalità. Al cadenzar della periodicità stabilita dai contratti estorti e dal copyright e non dall’intuizione e dal talento. Osare, bisogna osare, come ha fatto la casa editrice Miraggi nel voler testardamente pubblicare Il suono di Torino, altrimenti la letteratura rimane ancella del consumismo e non si emanciperà mai come sua Cassandra. Io sono un disperato perché ti voglio amare…

Una storia finita e un libro per dimenticare: “Il disastro di una persona” di Daniele Sica

Una storia finita e un libro per dimenticare: “Il disastro di una persona” di Daniele Sica

 

Daniele Sica, “Il disastro di una persona” è un libro di poesie: come mai la scelta di questo genere?
“In realtà io non sono un poeta e non amo nemmeno le poesie, infatti ne leggo pochissime. Però,
per quello che dovevo raccontare, ho pensato che fosse il metodo migliore: ho utilizzato una sorta
di “ottica pasoliniana”, cercando il mezzo più adatto, e l’ho trovato nella poesia. Ne ho raccolte
una sessantina, leggendole una dopo l’altra si incastrano tra loro e formano la storia. Ci sono
poesie più lunghe, anche da due o tre pagine, e più corte, pure da un paio di versi soltanto, e sono
la raccolta di dieci anni di lavoro”.

Quale episodio della vita ti ha spinto a scrivere questo libro?
“Tutto nasce da quando venni lasciato dalla mia ex, Sara, alla quale ho dedicato quest’opera. Ho
vissuto periodi terribili, di vera e propria depressione: stavo chiuso in casa con le serrande
abbassate, osservavo dalla finestra la vita che passava e non facevo niente per viverla. Così ho
deciso di raccontare i giorni successivi a questo episodio che mi ha segnato, ho descritto com’è
stato il dopo e come ho reagito. Ci ho pensato molto prima di pubblicare, ma poi ho deciso di
andare avanti: è stato un bel banco di prova per me, ho capito finalmente di aver superato quel
trauma”.

Il titolo è ambiguo: ce lo spieghi?
“Me lo dicono in tanti, in effetti è così: perché non è la persona a essere un disastro, ma l’esatto
contrario. E’ la tragedia, il trauma, o appunto il disastro che una persona ha dovuto vivere il vero
protagonista. E questo titolo è anche la mia poesia manifesto. L’idea mi è venuta una sera del 2010,
quando rientravo a casa con un gruppo di amici dopo una serata di eccessi. Passando di fronte al
Castello Sforzesco, vidi una scritta su uno dei monumenti di Milano e dissi a chi era in macchina
con me: “Guarda cos’è stato costretto a fare qualcuno”. E lui, sballato dall’alcol, mi rispose: “Sarà
una persona disperata che ha trovato nella scritta su un muro l’unico modo per raccontare il suo
disastro”. Lui era ubriaco, io completamente sobrio, eppure è stato proprio lui ad aprirmi un
mondo”.

Hai ancora rapporti con Sara?
“Ci siamo sentiti alla pubblicazione del libro, volevo regalarglielo, ma ha voluto comprarselo. Lei è di Pisa, ero molto legato anche alla sua città, però quando ci siamo lasciati mi sono sentito come Foscolo e la sua Zacinto: mai avrei potuto rivederla. Ora sto organizzando una presentazione del libro proprio all’ombra della Torre: mi auguro che anche Sara possa essere presente”.

 

 

“La vita è stanca”: la recensione di Alessandra Farinola su Mangialibri

“La vita è stanca”: la recensione di Alessandra Farinola su Mangialibri

Sono passati sei mesi dall’ultima operazione, dal letto di metallo, dall’anestesia, dal candore tutt’intorno, dall’ospedale, dalla voce dell’infermiera, dalla totale asepsi. Andrea guarda il tutor a forma di sesso. Sorride. Apre l’armadietto sotto il lavandino e lo getta nella pattumiera. Ringrazia, ma non ne ha più bisogno. I giorni sono scivolati, uno dopo l’altro, come i grani del rosario di quella nonna il cui unico ricordo è proprio raccolta in preghiera col velo in testa in chiesa. Il caffè borbotta sul fuoco. Allunga una mano, spegne il gas e si ritrova a riflettere sul fatto che compie sempre gli stessi gesti. Tutto è uguale a prima. Eppure ora tutto è completamente diverso. Prende le chiavi di casa. Prima di uscire si guarda nello specchio. Le gambe sono lunghe. La muscolatura è morbida. Sono io, si dice. A volte alta. Di fronte alla sua immagine riflessa. Non appena sul marciapiede inizia a correre. E pensa che se ne vorrebbe andare. Del resto perché si trattiene in quella città che non ama? Non ha nulla lì, ha un padre che si imbarazza della sua presenza, e la madre…

L’arte è un settore in continua evoluzione e ormai, anche se in realtà l’idea del fare della propria esistenza un capolavoro non è certo nuova, si è imposto all’attenzione dei più il concetto di performance: ogni aspetto della vita viene considerato un tassello nella costruzione di una persona/personaggio. Batsceba Hardy è una fotografa, vive a Milano, a lungo è stata a Berlino, parla dell’arte dell’imperfezione, della sottrazione e della definizione e sostiene testualmente nel suo manifesto ‒ che non ama le maiuscole ed è poliglotta come tutto il suo sito Internet, spazio che più d’ogni altro la rappresenta e in cui, solo, sembra vivere davvero ‒ che “l’arte è morta. concettualmente deprivata della sua necessità di esistere. argomentazioni vuote. inutili dissertazioni. bla bla disperante. ma l’artista non morirà mai. l’artista è colui che non sa fare altro che quello che fa: pensare per astrazione ed esprimere astrazione con ogni cosa lo circonda. il diverso non per scelta ma per essenza. colui che sta al di fuori. il raccontatore di storie. l’inefficace”. In questo suo romanzo corale, caleidoscopico e psichedelico, in cui sono fondamentali l’immagine e l’immaginazione, descrive bene e in modo avvincente con la forza di un diario polifonico la storia di due gemelli, Annalia e Andrea, prima fratello e sorella, ora entrambi di sesso femminile, in cerca di sé e di un nuovo reciproco rapporto.

 

Leggi la recensione di Alessandra Farinola anche qui
www.mangialibri.com/libri/la-vita-%C3%A8-stanca

Domenico Mungo: «I miei racconti su Torino madre ingrata»

“Il suono di Torino”: la recensione di Lorenzo Mazzoni per Il Fatto Quotidiano

Il suono di Torino. Racconti urbani con colonna sonora punk (Miraggi Edizioni), di Domenico Mungo, è una bellissima e originale raccolta che narra il capoluogo piemontese attraverso un’operazione totale. Lo stile a puzzle di John Dos Passos e quello ermetico senza fiato di Nanni Balestrini si incontrano davanti a Mirafiori e si mischiano, con il gergo volgo-forbito di Vittorio Giacopini. Stragi fasciste, scioperi di guerra, orgoglio operaio, esecuzioni capitali nell’Italia della Repubblica dal gusto umano, meridionali che giungono in massa sui barconi-treno dal Sud dimenticato dagli antenati degli attuali sovrani padani, .38 e rivendicazioni urbane, ideologie morte, locali morti, centri commerciali, NoTav sulla gogna e nessuno, tranne l’autore, a ricordarci di un grande uomo e di un grande sognatore come Emilio Salgari. Torino, da queste 30 storie, ne esce gustosamente umana e farcita di sottotracce. Un libro a 360 gradi. Passione, rabbia e un addio che ha il sapore di un arrivederci (almeno sul piano letterario).

 

Leggi la recensione di Lorenzo Mazzoni anche qui
https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/07/18/da-roma-a-barcellona-un-viaggio-a-tappe-fra-le-metropoli-della-letteratura/4479332/

 

Andrew Faber: “La poesia rende eterno un attimo di felicità”

Andrew Faber: “La poesia rende eterno un attimo di felicità”

Andrew Faber, eccoci arrivati, grazie a  “Fermo al semaforo in attesa di trovare un titolo, vidi passare la donna più bella della storia dell’umanità”,  alla… terza fatica con Miraggi. Ma davvero è una fatica, oggi, scrivere?

“A volte lo è di meno, quasi sempre lo è di più. I tempi dei social sono frenetici, convulsi. Molto difficili da soddisfare.  Ed è da lì che molti di noi (parlo dei poeti performativi) sono nati. Il pubblico nel corso degli anni si è abituato ad avere aggiornamenti praticamente costanti. Ogni mattina insieme al caffè vuole leggere una nuova poesia. E questo si traduce in una continua produzione da parte dell’artista. Bisogna trovare i giusti riferimenti. Personalmente non smetto mai di leggere, ascoltare musica. Vedere film. Guardarmi attorno. Contaminarmi – per così dire – di qualsivoglia forma d’arte”.

Partiamo dal semaforo. Esiste? Dove si trova?
“Il semaforo esiste eccome! Sorge a poche centinaia di metri da casa mia. Ed è grazie a lui che questi tre libri hanno avuto un titolo che oltre a me, è piaciuto tanto anche al mio pubblico. Ci vado spesso, quando ho bisogno di un consiglio. Di un po’ di ispirazione. Mi metto lì. Tiro giù il finestrino. Me ne accendo una. E dopo avviene la magia. E’ un semaforo magico. Spero solo che un giorno non mi chieda i diritti!”

E la donna più bella dell’umanità come dovrebbe essere?
“Felice. Questo sicuramente. Quando una donna è felice, splende di luce propria. Esattamente come le stelle a cui chiediamo di esaudire i nostri desideri. La bellezza a cui mi riferisco è tutta lì. Nel suo sorriso. Nei suoi pensieri. Nel suo coraggio. Ci vuol coraggio ad essere felici. La poesia serve a questo. A rendere eterno anche un solo attimo di felicità”.

Tre citazioni, in apertura: Sirianni, Dalla, Vasco Rossi. Perché?
“Sono stati loro nel corso di quest’ultimo anno a ispirare tante delle poesie contenute all’interno del libro. Sono tre cantautori incredibili. Visionari. Sognatori. Sono tre poeti. Federico Sirianni è anche un amico. Ho imparato tanto da lui. Sono felice di averlo conosciuto. Il suo ultimo lavoro in studio che si intitola “Il santo” ritengo sia uno degli album più belli in assoluto, per quanto concerne la musica italiana da diversi anni a questa parte. Con le canzoni di Lucio Dalla e Vasco Rossi ho passato la mia infanzia. E ancora oggi mi domando come possano aver scritto certe meraviglie. La sera dei miracoli, Le rondini, Sally, Una canzone per te. Solo per citarne alcune. Sono veri miracoli portati in musica”.

Mi dai la definizione attuale di poeta?
“Mi perdonerai la franchezza. Ma essere un poeta oggi vuol dire avere due palle così. Vuol dire procedere contromano al mondo, correndo il rischio di ammazzarsi ad ogni angolo di vita”.

Perché il tuo è un pubblico soprattutto femminile?
“Credo che il motivo principale resti sempre la ricerca dell’amore. Non che gli uomini non ne abbiano bisogno, non dico questo. Ma una donna ne reclama con più forza l’esistenza. Ha più bisogno di credere che esista. Per questo motivo cerca conferme, molto spesso ricambiate, all’interno della poesia”.