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Due sorelle e Berlino sullo sfondo: Hardy ci racconta “La vita è stanca”

Due sorelle e Berlino sullo sfondo: Hardy ci racconta “La vita è stanca”

Un romanzo-diario: la storia di due sorelle, con Berlino sullo sfondo. Intorno a loro animali parlanti, un musicista, una senzatetto voce narrante. “La vita è stanca” racconta un desiderio comune a tutti, quello di trovare un senso alla propria esistenza. “È nato da un’esigenza filosofica – spiega Batsceba Hardy –. Volevo raccontare quello che avevo nella testa attraverso pensieri, dando vita a storie fantastiche. Mi sentivo come se stessi scrivendo le Affinità elettive di Goethe con uno spirito “Anime” giapponese, un misto di magia e – al tempo stesso – di filosofia”.

Parliamo di Annalia e Andrea, i protagonisti.
“Sono sorella e fratello, che poi diventa sorella dopo essersi sottoposto a un intervento chirurgico. So benissimo di che cosa parlo, perché ho approfondito l’argomento prima di scriverne. So quali siano i tempi e le sofferenze di un’operazione di questo tipo. Ma non mi interessano i valori sociologici, le identità di genere. Il personaggio per me resta un individuo unico, anche se in trasformazione. E’ molto più mia, più mentale come cosa. Il resto lo lascio dire agli altri”.

Può apparire come una storia senza uno sviluppo cronologico.
“E invece c’è. Si comincia con Andrea che parte da Milano e raggiunge Annalia a Berlino. Lo stacco finale è invece aperto, può succedere come non succedere. C’è pure una vecchia homeless, che è la voce narrante: è un personaggio vero, che soggiornava davanti a una banca e che ho conosciuto. L’ho chiamata Elfriede. La sua è una storia che già c’era e che è entrata dentro “La vita è stanca”.

Perché la vita è stanca?
“Perché si può morire per stanchezza come andare avanti. E’ un ossimoro, come io mi penso un ossimoro vivente. Una stanchezza non solo fisica ma quella per cui, alla fine, ti chiedi se sei ancora vivo. In questa società siamo ormai oltre l’alienazione. C’è chi tenta di sopravvivere drogandosi: di potere, di televisione, di cose da fare. E c’è chi resta ucciso da questa performance continua”.

per conoscere Batsceba Hardy

“Volevo uccidere J.-L. Godard”: il racconto di Marco Archetti su Il Foglio

“Volevo uccidere J.-L. Godard”: il racconto di Marco Archetti su Il Foglio

“Invece delle proiezioni ci fu un’assemblea. Potete immaginare un’idiozia più grande al festival di Cannes? Quegli idioti, allora, erano il potere.”

Prima o poi andrebbe raccontata per bene, la vivacissima vita del regista ceco Ian Němec, regista e autore dei trentuno deflagranti racconti che compongono “Volevo uccidere Jean-Luc Godard”, raccolta pubblicata da Miraggi edizioni e molto apprezzata nei giorni del Salone del Libro. Talento rovente classe 1936, enfant terrible e “saltimbanco dell’est”, vispo libertino, glorioso maleducato e intellettuale fuori rotaia, fu capace, in quel cruciale festival del maggio 1968, di corrompere Monica Vitti e Louis Malle per portare a casa, con i connazionali Miloš Forman e a Jiří Menzel in concorso insieme a lui, trofei concordati a tavolino col direttore Robert Favre Le Bret. Il quale garantì l’esercizio spietato di tutta l’influenza possibile per realizzare un piano perfetto in tre fasi: mettere strategicamente in competizione l’uno contro l’altro, far guadagnare la Palma d’oro a uno dei tre e insignire di riconoscimenti non meno autorevoli gli altri due (il che avrebbe voluto dire strada spianata per ulteriori riconoscimenti nei festival d’autore internazionali). Giubilo generale: Láďa K., direttore della Filmexport e capo della delegazione ceca, già delirava di business a destra e a manca, già s’affaccendava a vendere i diritti di distribuzione mondiali, già familiarizzava a colpi di brindisi coi tedeschi dell’ovest giunti a Cannes in yacht per comprare film porno. “Bevete e fate casino!” sbraitava alzando calici e spronando le tre future star. “Porteremo a casa la Palma, il Politburo sarà contento e la gloria della cinematografia socialista sarà grandissima! Spendete e spandete, costruite i vostri contratti nelle camere d’albergo, ho un conto illimitato per le spese”. Gran talento nell’interpretare le cose alla lettera e nel cacciarsi in guai abnormi, Ian Němec obbedì, e nel racconto “Cannes 1968 e la verità su quel che accadde” – roba così scorretta non la si leggeva da un po’ – scrive: “Nella hall del nostro albergo stava seduta, troneggiando, una bella puttanella, una scura cioccolatina. Dagli scambi di sguardi avevo visto che non solo aveva un bel viso, labbra e occhi, un bel corpo e seni abbondanti, ma anche un animo meravigliosamente capace di comprendere un artista”. E fu così che prese il volo il denaro raccolto dai tre registi per finanziare la produzione di un filmino socialista sul racconto del trionfale festival. La benevolenza della ragazza fu ottenuta nonostante la cifra corrisposta non fosse completa, dietro garanzia che, all’alba del giorno successivo, il gentiluomo si sarebbe dato alla questua per versare la parte mancante dell’emolumento. Promessa mantenuta: ebbro di fedeltà alla parola data, Ian fece ingresso al Carlton e si rivolse alla prostituta. “Darling, ecco quel che ancora ti dovevo per stanotte!”. Senonché, vuoi lo champagne, vuoi i bagordi, la fanciulla non risultò essere la meretrice, bensì una principessa, moglie di un alto funzionario della delegazione ufficiale di un Paese del terzo mondo. La fucilazione sul posto fu evitata per un soffio e lo scandalo sfolgorò in prima pagina sul Nice Matin.

Dal giorno dopo, le acque si agitarono. Němec racconta: “Nei canali di scolo più oscuri si cominciava sentire: basta con l’arte borghese! Basta col festival!”. Ma i nostri tre eroi vagheggiavano ancora il trionfo. E quando, in uno sprazzo di lucidità, si accorsero che la bandiera nazionale era stata dimenticata a casa, pensarono di disarcionarla dal colonnato del palazzo del festival: Forman si arrampicò sull’asta, la spezzò col suo peso e precipitò a terra, mentre il pennone si abbatté di traverso sulla Promenade. Ma fu l’ultimo atto. Dal giorno dopo, fine dei sogni di gloria: Godard, menando colpi in testa con l’asta del microfono a chiunque reclamasse le proiezioni, sabotò il festival, mentre altri invasati laceravano schermi a coltellate. Forman ritirò il suo film e si allineò.

La storia finì con spaventose quantità di libagioni, già acquistate per i festeggiamenti, da smaltire in un colpo. E con un brusco risveglio: la cacciata dall’hotel, una hall gremita di detestabili contestatori, e la rabbia – che durerà una vita – verso i propugnatori di una rivoluzione da cui, semmai, si voleva fuggire. Quindi la fuga verso l’Italia senza pagare il conto. “Pregustandoci”, sogghigna Němec quasi fosse Dovlatov, “la quiete di una terra senza rivoluzionari”.

Marco Archetti

 

“Non risponde mai nessuno”: la recensione di Francesca Frediani su D-La Repubblica

“Non risponde mai nessuno”: la recensione di Francesca Frediani su D-La Repubblica

Un sopralluogo nella casa abbandonata dei nonni, occasione per fare i conti con il passato rimosso di famiglia. L’immagine della gatta randagia fatta sopprimere, ancora visibile nel cortile condominiale su Google Maps, che diventa il modo per lasciar scaturire il dolore accumulato. I racconti sono fatti della stessa materia di cui sono fatti gli attimi. È il modo in cui li si guarda dopo, che rende i fatti degni di essere narrati. Quello di Simone Ghelli è la pietas: per un animale sofferente, un parente strano, una versione passata di sé di cui ci si vergogna e che scrivendo si prova a perdonare. In una delle storie più belle del libro, il protagonista gira un documentario nel rudere della casa toscana del poeta inglese Peter Russell, che non verrà mai trasmesso. Metafora, forse, della scarsa accoglienza che hanno in Italia le raccolte di racconti di scrittori italiani, mentre chissà perché a quelle di autori stranieri nessuno dubita di attribuire la dignità di un romanzo.

Francesca Frediani

Social sì, ma senza prendersi troppo sul serio: Laura Bettanin ci racconta “Facebook blues”

Social sì, ma senza prendersi troppo sul serio: Laura Bettanin ci racconta “Facebook blues”

Nel Terzo Millennio il vero mondo sembra essere quello social. Ce ne accorgiamo tutti i giorni, tra like, notifiche e condivisioni: un flusso ininterrotto di informazioni (vere o false), di giudizi, di immagini in cui il singolo cerca disperatamente di emergere, di mettersi in mostra nella maniera più brillante per gridare la propria esistenza. Un mondo le cui contraddizioni sono raccontante da Laura Bettanin, che per Miraggi ha scritto Facebook blues: “Un’idea nata dalla frequentazione di Facebook, diventato un elemento così ingombrante nella vita della persone. E poi dal desiderio di raccontare una storia d’amore riallacciata dopo molti anni”.

La protagonista è Marta, moglie infelice di un uomo molto più anziano di lei.
“È una donna che avrebbe meritato di più dalla vita, questo è accaduto perché non ha avuto coraggio. Da ragazza incontra e sposa un uomo che mantiene lei e la sua famiglia d’origine, una famiglia sfasciata. In questa vita entra anche il vero amore, quello grande, con un soldato americano. Ma non se la sente di lasciare il marito. Si immola per queste persone, cui cerca di dare una dignità”.

Una donna che vive un’amicizia profondo con Renata.
“Marta è una donna molto curiosa. Fa la barista, incontra Renata, una libraia. Tutto nasce da un libro che ruba: il padre di Renata la scopre, ma la donna la difende. Diventano amiche e complici, dell’amore nascosto di Marta”.

Un amore che ritorna grazie all’incontro su Facebook.
“E si intuisce come Marta avrebbe l’occasione di riprendere in mano la propria e come, , al tempo stesso – e non si sappia bene il perché – non se la senta di andare fino in fondo, perché continua ad avere sentimenti di riconoscenza verso il marito”.

Che cosa è per lei Facebook?
“Ho voluto darne un’immagine positiva come negativa. Positiva perché ci possono essere opportunità di contatto vere, anche se solo per un 1%. Ho amiche conosciute su Facebook e poi c’è il rapporto con altri autori, da cui nascono idee e antologie. Tutta gente che poi, per fortuna, puoi conoscere direttamente, ai saloni o ai festival. Penso a Filippo Tuena, per il quale ho scritto un racconto nella raccolta Dylan Skyline (Nutrimenti), e a Laura Liberale, per la quale ho scritto un racconto sul Père-Lachaise. E poi a Luigi Grazioli di Nuova Prosa”.

Questo il positivo. E il negativo?
“Su Facebook ci sono le bufale, le litigate, gli insulti. Ho imparato a fare una certa tara. I ragazzi di oggi, i cosiddetti millennials, hanno capito che usare Facebook così è ridicolo. Invece i più anziani si prendono tremendamente sul serio quando scrivono qualcosa. C’è la gara ad arrivare primi per postare, linkare, bannare: patetico. Poi si denunciano l’uno contro l’altro con un infantilismo impressionante. Finisce per essere un mondo banale”.

Come affrontarlo?
“Frequentandolo poco oppure senza prenderlo troppo sul serio, come le chiacchiere come tra amici al bar. Meglio sempre avere delle persone fisiche con cui rapportarsi. Serve un dosaggio giusto e questo libro può essere un aiuto per quelli della mia generazione”.

“La folle storia del kamikaze che non voleva morire”: la recensione su fantascienza.com

“La folle storia del kamikaze che non voleva morire”: la recensione su fantascienza.com

Claudio Marinaccio ha all’attivo diversi libri, tutti decisamente originali e brillanti, ma non di fantascienza. È quindi la prima volta che tocca questo genere, con alcuni racconti compresi nel suo nuovo libro, La folle storia del kamikaze che non voleva morire. Quando non scrive libri si occupa di libri (e altri argomenti), per Huffpost, Wired, La Stampa e altre testate.

Il libro

Undici racconti. Undici storie che raccontano il mondo d’oggi attraverso avventure terribili seppur piene di ironia. Claudio Marinaccio racconta una realtà dalla quale è difficile uscire indenni. Una donna che soffre del delirio di negazione, la fusione tra i due più grossi colossi del mondo multimediale, il tentativo di sintetizzare chimicamente l’amore, zombi, alieni, soldati, padri pronti a tutto e kamikaze che non vogliono morire. Uomini comuni che tentano disperatamente di sopravvivere, nonostante tutto. Marinaccio si dimostra una delle voci più interessanti della narrativa italiana contemporanea con una scrittura tagliente e diretta, ma soprattutto con il suo modo di raccontare quello che viviamo e che spesso facciamo finta di non vedere.

“La folle storia del kamikaze che non voleva morire”: la recensione di Gabriele Ottaviani su convenzionali.wordpress.com

“La folle storia del kamikaze che non voleva morire”: la recensione di Gabriele Ottaviani su convenzionali.wordpress.com

Gabriele Ottaviani

In poche parole è già deciso che tu morirai, devi solo decidere la modalità. A quel punto, immobile davanti al nulla della mia esistenza, decisi di accettare la falsa offerta, cercai di auto convincermi di essere una sorta di eletto. Un prescelto mandato dal cielo per risolvere i mali che affliggono il pianeta Terra. Il mio sacrificio avrebbe condotto il genere umano alla salvezza. In fondo è così che Gesù è diventato famoso, sacrificandosi per gli altri. Il dottor Reich mi iniettò qualcosa con una grossa siringa dall’ago lucente. Mi avvolse il buio, quello vero. Percorrevo il cammino nel bosco a ritroso. C’era un sole pallido che non scaldava nulla, però era in grado di farmi sudare. Sotto la camicia avevo circa tre chili di esplosivo cuciti sulla pelle ed in tasca tenevo il telecomando per porre fine alla mia vita terrena e per condannare quella ultraterrena. Speravo di non cadere per evitare botti inutili. Mi facevano male sia le cuciture che legavano l’esplosivo alla pelle sia le ossa per le botte ricevute. La mia lingua giocava con il labbro rotto e mi resi conto che un dente dondolava pronto a cadere. Anche se dubito che nessun topolino mi avrebbe lasciato una moneta, al massimo mi avrebbe divorato una volta morto. Con l’aiuto di una mappa disegnata a matita su un foglio, cercavo di trovare la strada che mi avrebbe portato alla città dove sarei morto massacrando dei pazzi innocenti. Come una medicina che uccide il cancro. Come un veleno che uccide i piccioni. D’un tratto vidi la mia ombra più definita, barcollava e ritornava come prima, pensavo fosse ubriaca. Una luce intensa arrivava da dietro le mie spalle. Mi voltai e vidi un grosso incendio provenire dall’accampamento che avevo da poco abbandonato, non potevo tornare indietro. La mia non era pienamente codardia ma indossavo materiale esplosivo che non andava molto d’accordo con il fuoco. Incominciai a scappare come se fossi inseguito da un animale feroce. Ancora una volta correvo per cercare di sopravvivere.

La folle storia del kamikaze che non voleva morire, Claudio Marinaccio, Miraggi. Claudio Marinaccio ha una gran bella prosa, che si manifesta in tutta la sua spiccata policromia quale che sia il testo cui decide di dedicare tempo, passione e attenzione, che si tratti di un articolo, di un saggio, di un racconto, un romanzo o un post su Facebook: intelligente, vivace, colorata, brillante, sapida, arguta, lieve ma mai superficiale, seria ma niente affatto seriosa, convincente, originale, ironica, sarcastica, irriverente senza la benché minima traccia di spocchia egoriferita che è invece di norma caratteristica peculiare di chi si sente Moravia ma ha problemi anche col plurale di valigia. In questa sua nuova opera, che convince, commuove, emoziona e fa riflettere sin dalla dedica, Marinaccio, in Delirio di negazione, FooG, Una giornata da dimenticare, Una barba lunga un mese, Il tragico inizio di una storia non banale, Pelle, Amore farmacologico, Un viaggio mentale in una terra desolata, La folle storia del kamikaze che non voleva morire, Così diversamente uguali e La ballata del ladro di anime, un capolavoro di bravura che fa pensare che un giorno Haruf, Fante e Chandler si siano stretti la mano e abbiano deciso di collaborare, un vero romanzo a sé, ritrae con crescente – il filo rosso che unisce le parole disegna nel cielo del testo un vero e proprio climax ascendente – autorevolezza, sardonica gioia e al tempo stesso una solennità potente e aulica benché mai pedante e/o pesante, ed esaltata dalle splendide illustrazioni di Luca Garonzi, che, altamente narrative a loro volta, punteggiano e intervallano la narrazione, tutte le declinazioni dell’alterità rispetto all’anonima quotidianità della prepotenza del vivere. Imperdibile.

“Volevo uccidere J.-L. Godard”: la recensione di Gianfranco Franchi su mangialibri.com

“Volevo uccidere J.-L. Godard”: la recensione di Gianfranco Franchi su mangialibri.com

Unico libro del regista ceco Jan Němec (1936-2016), originariamente pubblicato in patria nel 2011, Volevo uccidere J.-L. Godard è stato tradotto per la prima volta all’estero proprio qui da noi: merito di Alessandro De Vito, sanguemisto italo-ceco, studioso di cinema, e della sua Miraggi. Il libro è il battistrada di una nuova collana consacrata alla letteratura ceca: si chiama NováVlna, come la Nouvelle Vague cecoslovacca degli anni Sessanta, e si propone di rappresentare il carattere di “nouvelle vague permanente” della letteratura ceca, spesso venata di grottesco e surreale, comunque profondamente esistenziale. Němec ci restituisce, in questi trentuno sketch e racconti, scritti tra 1970 e 1990, un mosaico della sua vita: a dar retta al traduttore, questo libro è la vita di un uomo “individualista, donnaiolo, combattivo, orgoglioso, visionario, in piedi nella buona e nella cattiva sorte” e al contempo è la fotografia di un’epoca: “Est e Ovest, sovietici e americani, retroscena del cinema, attori, registi, donne, scrittori e spie”. È la restituzione dei rovesci della sorte di un giovane artista, protagonista della cinematografia cecoslovacca, enfant prodige di fama internazionale, finito a vivere esule in estremo Occidente, costretto a tirare a campare tra improbabili lezioni a Yale, una buona serie di filmini ai matrimoni, parecchia nostalgia e una necessaria dose di creatività. Secondo De Vito, la lingua di Němec è “poco letteraria e colloquiale, nervosa e farcita di modi di dire e battute. Non ci si stanca di ascoltarlo, che sia il divertimento delle situazioni paradossali da ‘bon vivant’ individualista, autore di folli e pericolose goliardate per prendere per il naso i comunisti grigi e ottusi, oppure la rabbia e la pena dell’esule che si deve arrangiare mentre trova solo muri di gomma anche nei produttori americani”. Non credo si possa consigliare questo libro soltanto ai cinefili o ai cinematografari, in genere, pur dovendo ammettere che è loro che si rivolge, in primis, questa pubblicazione, per via del fascino di questo vecchio irregolare della “settima arte”. Němec, da scrittore, ha una personalità tracimante, un fertile nervosismo e una piacevole debolezza nei riguardi delle donne e della libertà, in genere; politicamente è quanto di più vicino a un anarchico si possa immaginare, perché davvero l’artista ceco appare riottoso a qualunque autorità e a qualunque potere, davvero sembra istantaneamente irriverente, in certi contesti, e caustico e facile allo sberleffo (o al teppismo, o alla bravata). Come parecchi artisti puri, non sapeva stare al mondo. O forse proprio non voleva.

Gianfranco Franchi

“L’uomo tagliato a pezzi”: la recensione di Neri Paoloni su fnsi.it

“L’uomo tagliato a pezzi”: la recensione di Neri Paoloni su fnsi.it

“Lembi di memoria personale”? No, non è solo questo. “L’uomo tagliato a pezzi”, il libro di ricordi di Antonio De Vito, è piuttosto il realistico quadro di un tempo, di un’Italia che fu e che difficilmente chi non sia nato intorno alla metà del secolo scorso fa persino fatica a credere che sia esistita. Oggi, che durante una delle campagne elettorali più assurde alle quale io abbia mai assistito, in cui rispunta fuori inopinatamente il concetto di “razza”, rileggere le pagine di questo prezioso “documento” ci fa improvvisamente ricordare cose delle quali avevamo addirittura perso la memoria.

Il giovane Antonio De Vito è un “cafone” di Torremaggiore, provincia di Foggia, che approda a Torino negli anni della FIAT di Valletta, in cui non si “affittavano case ai meridionali”, in cui veniva costituito all’interno della maggiore fabbrica d’Italia un “sindacato” bianco, un sindacato padronale che aveva il compito di stroncare ogni tentativo di rivendicazione sociale. Testimonianze di un’epoca ormai lontana, scrive De Vito nel presentare la vicenda, il “processone” che dà il nome al suo libro. Il processo per l’“uomo tagliato a pezzi” prende le mosse da una storia delle prime immigrazioni meridionali nell’“altra” Italia, quel Nord che ancora oggi sembra volere, per certi versi, tornare indietro nella storia. “La provincia torinese, Chivasso, la città delle noccioline, e il clan di immigrati siciliani, la famiglia Montalbano, niente a che fare con il commissario Montalbano di Camilleri, divenuto famoso ai giorni nostri, mezzo secolo dopo Immigrati agrigentini, dalle belle terre di Caltabellotta, Sciacca, Ribera, il profondo Sud siciliano, esodo forzoso dalla miseria, braccia in cerca di sicurezza e lavoro, tutti sanno di cosa si è trattato in quegli anni Sessanta, che di mitico per milioni di uomini donne non avevano proprio nulla. Al massimo anni di speranza. Tanta fatica, tanta sofferenza, tanta incomprensione attorno a questi figli del sud costretti ad immigrare”.

Fa un certo effetto leggere quanto scrive De Vito proprio nei giorni in cui si ricorda la tragedia del Belice (e oggi finalmente sappiamo come si pronuncia: Belìce) e si scopre, o forse si riscopre, che uno dei provvedimenti del governo di allora, un governo Moro, politico democristiano tra i più illuminati, non trovò meglio che offrire ai siciliani senza più casa né speranza decine di migliaia di biglietti ferroviari di sola andata per il nord e visti per l’espatrio. Questa era l’Italia d’allora, davanti ad una tragedia che aveva fatto più di trecento vittime e distrutto per sempre interi paesi, intere comunità.

Ricorda forse qualcosa di più attuale? Il terremoto dell’altro ieri che ha colpito tre regioni del centro Italia non lo possiamo certo risolvere come allora, anche perché in Italia ci sarebbero cinquecento poveri disgraziati che, come dice un autorevole leader, sono costretti rubare (?) per sopravvivere e hanno un grave torto, un peccato originale, essere scappati dalla fame e dalla miseria, non dalla Sicilia, non dall’Italia meridionale, ma dall’Africa, dalla Siria, dall’Afghanistan, dal Bangladesh, dall’altro sud che non vogliamo neppure vedere. Che tornino nei loro Paesi, che – come ha detto un autorevolissimo Capo di Stato – sono “shit-hole”, buchi di cesso.

E’ bello quanto ricorda a noi smemorati o ignari Antonio De Vito, quando nella premessa rammenta come sia cambiato il mondo da quando, cronista dell’Unità prima della Stampa poi, seguiva i processi che si svolgevano in Corte d’Assise, a Torino. “Sono cambiati, scrive, i cittadini, i giornali, le istituzioni, i codici, i processi…E non c’erano allora, le tv, folle di cineoperatori a riprendere un pubblico interessato alla vicenda “noir”, nessun Vespa rifaceva il processo in modo mediatico, spettacolarizzando con plastici e gli esperti in studio, psicologi e periti sempre pronti a mettersi in mostra”. E, aggiungerei, ahimè, anche colleghi. E’ vero, Antonio, era tutto più alla buona. E’ vero, Antonio, il mondo è cambiato. E anch’io, quasi quasi, voglio scendere.

Neri Paoloni

Andrea Serra, lo scrittore che accetta la sfida di farci vivere: la recensione di Marcello Fais su vvox.it

Andrea Serra, lo scrittore che accetta la sfida di farci vivere: la recensione di Marcello Fais su vvox.it

Far finta di essere ciò che non si è: ecco il grande male di molti scrittori. Insomma, l’eccesso di serietà. In troppi si arrogano il ruolo di maître à penser. Ma se non si è seri per indole innata, meglio evitare almeno di risultare ridicoli. L’umiltà rende liberi dalla schiavitù di inscenare una parte che non compete. Del resto, non tutti devono per forza scrivere testi che condensino la profondità di un La Nausea, L’età della ragione e Le mani sporche, in un unico volume – anche perché, sai che due palle!

Essere abissali non rientra tra le prescrizioni mediche. Lanciare messaggi eterni che riecheggino lungo i secoli non è il solo motivo che possa animare nello scrivere. A volte, il narratore vuole semplicemente divertire senza secondi fini o alti intenti di critica sociale. E anche riuscire in questo proposito non è in fondo meno difficile, né meno nobile. Tutto sommato, quanto disse Rino Gaetano a chi gli chiedeva di rispondere all’accusa di essere un cantautore capace solo di far ridere, non è per niente sciocco: «Faccio ridere? Meglio che fa’ piagne».

Uno dei pochi a non prendersi troppo sul serio è, per esempio, Andrea Serra, giovane scrittore sardo naturalizzato torinese. La sua ultima fatica – anche se, presumibilmente, più che di uno sforzo si dev’essere trattato di uno spasso –, Frigorifero Mon Amour, Miraggi Editore, 2018, costituisce un paradigma del disimpegno intelligente. Se i vari Volo, Moccia, e D’Avenia fanno di tutto, pur non potendoselo permettere, per risultare seri come Philip Roth e commerciali come la carta igienica, Serra evita tali pose come la peste. A lui si attaglierebbe magnificamente il bel verso di uno dei massimi poeti italiani del ’900, Giovanni Raboni: “Solo questo domando, esserti leggero”. E leggero è leggero, giocoso, divertente – per usare un francesismo – fino a pisciarsi dalle risate. Non aspettatevi la verità rivelata, piuttosto un paio d’ore di risate.

Il romanzo è la storia dolcemente grottesca di una famigliola comune (marito, moglie e due figlie), con una vita normalissima. Le situazioni e i luoghi della quotidianità, però, si caricano di tutta una serie di aspetti surreali. Il dentista diventa, quindi, una specie di serial killer mancato che si accanisce sui denti del protagonista con trapani, cemento e bombe a mano.
Il meccanico di fiducia è un napoletano imbroglione che danneggia volutamente il mezzo e poi estorce cifre esorbitanti per le riparazioni. Le colleghe di lavoro sono psicopatiche, ossessionate dalla dieta, che evitano di mangiare per riuscire a dimagrire e, dopo alcuni giorni di digiuno, sono capaci di ingurgitare anche i computer dell’ufficio.

La moglie, smaniosa di fare bella figura per le feste ancora ben lontane dal venire, si sveglia nel cuore della notte e, con una sega elettrica, taglia una quercia secolare per piantarla nel mezzo del salotto di casa a mo’ di albero di Natale. Le due bimbe, inconsapevolmente pestifere e diaboliche, chiamano il padre ogni notte, urlando, tra le due e le quattro, ponendogli gli interrogativi più assurdi. L’uomo di casa, sempre più vicino alla crisi di nervi, si arrabatta tra le mille pretese di moglie e figlie.

Tra una peripezia e l’altra, come se non bastasse, è costretto a sottoscrivere la ventesima finanziaria per comprare l’ennesima lavatrice che, “come da contratto”, si autodistruggerà proprio il giorno dopo il termine della garanzia. In tutto ciò, il personaggio, figlio come altri Fantozzi, della grande attitudine italica all’esasperazione in chiave comica della nostra insana normalità, intrattiene un quotidiano scambio amicale con il suo frigorifero.

Ma quella di Frigorifero Mon Amour è una storia che non si può sintetizzare. Perderebbe inevitabilmente. La sua forza sta tutta nella penna di chi la racconta. Nella capacità di seminare due o tre climax di ilarità all’interno di ogni paragrafo. Perché della comicità non si possono mai tirare le somme, come per una tematica qualunque. Il riso è il risultato indotto da un processo che segue un suo percorso impossibile, o quanto meno inutile, da ricostruire. È un dono che si possiede o meno. Serra lo possiede e ha il buon gusto di non farlo mai pesare.

Marcello Fais

“Di notte sgomitano le crisi”: l’intervista a Tomas Bassini su convenzionali.wordpress.com

“Di notte sgomitano le crisi”: l’intervista a Tomas Bassini su convenzionali.wordpress.com

di Gabriele Ottaviani

Quando eravamo portieri di notte: Convenzionali intervista con felicità il suo autore, Tomas Bassini.

Da dove nasce questo romanzo?
Si può dire che è venuto fuori da una crisi, un mio personalissimo buco nero a cui devo dire grazie. Naturalmente una volta pubblicato il libro non appartiene più (o nel del tutto) a chi l’ha scritto, o meglio, il lettore può farsi la sua idea e dare al libro l’interpretazione che preferisce e in questo lo scrittore non ha voce in capitolo, e meno parla meglio è. Ma se mi domanda da dove nasce questo romanzo non posso fare a meno di risponderle che nasce da un fatto prettamente privato che ha un indirizzo e un codice fiscale, forse oggi anche una partita IVA.

Che cosa rappresenta la notte per lei e nell’immaginario collettivo della nostra società?
Nell’immaginario collettivo non saprei ma per quanto mi riguarda è in un certo senso l’ambiente ideale per il buco nero di cui le ho accennato. È di notte che certe crisi riescono a sgomitare e a far la voce grossa, è proprio lì che anche il più piccolo intoppo si trova in una posizione privilegiata che gli permette di guadagnare spazio e tempo, di stratificarsi senza che quasi te ne accorgi, almeno all’inizio, che dopo un po’  sì che te ne accorgi  e non è più possibile tornare indietro, e non c’è quindi da stupirsi se puoi non si riesce a dormire.

Che valenza ricopre l’abbandono?
In questo romanzo ha un ruolo fondamentale. Un po’ come se fosse l’attore principale che non esce mai di scena, e anche quando per sbaglio non c’è, anche solo per un minuto, si finisce comunque per parlare di lui. È il filo conduttore che influenza ogni cosa, in maniera sia negativa che positiva. Non è però da intendersi semplicemente come l’atto di qualcuno che abbandona qualcun altro, e nemmeno come la condizione di chi l’ha subito, ma qualcosa di molto più ampio e duraturo, molto meno occasionale.  L’abbandono in sé può essere un concetto estremamente banale, l’abbiamo provato tutti, e tutti sentendocelo raccontare ci siamo annoiati; quello che mi sembrava più interessante era vedere invece com’è che un individuo può reagire a questo, e soprattutto come questo particolare tipo di resistenza può mantenersi e svilupparsi. Quello che per il protagonista conta non è lo spazio vuoto che un brutto giorno s’è trovato davanti (quello al massimo lo indispettisce) ma ciò che può essere utilizzato per riempirlo. La differenza non la fanno le grandi giornate, dice più o meno Lui, ma tutto ciò che sta fra una grande giornata e quella dopo.

Perché scrive?
Diciamo che non ho trovato niente di meglio da fare. Ma va benissimo così.

Kerketta alla Trebisonda su La Stampa

Kerketta alla Trebisonda su La Stampa

Una serata alla libreria Trebisonda per conoscere Jacinta Kerketta, autrice Miraggi con “Brace” in occasione del Salone Off. L’articolo che La Stampa ha dedicato all’evento