CIRIÈ. S’intitola “Frigorifero mon amour” il libro dello scrittore ciriacese Andrea Serra balzato ai vertici della classifica Bestseller Narrativa di Amazon. Tema lo spreco alimentare di cui si è parlato nei giorni scorsi in occasione della Giornata nazionale di prevenzione del 5 febbraio. L’autore lo affronta in chiave ironica facendone un’opera divertente edita da Miraggi Edizioni con il sostegno del Banco Alimentare del Piemonte. È la storia di Felice che, oltre ad essere vessato dalla moglie e dalle temibili figlie, deve fare i conti con la fuga del proprio frigorifero che, dopo aver visto l’ennesimo pacco di carote ammuffite, se ne va di casa per sempre. Da quel momento il protagonista ne avvertirà la mancanza in maniera lancinante e proverà in tutti i modi a ricongiungersi con l’amato elettrodomestico. Una serie di eventi lo ostacolerà fino a quando affronterà una dantesca discesa agli Inferi per ritrovare il suo amato frigorifero e il senso della propria esistenza.
Nato a Torino nel 1975, Andrea Serra si laurea in Filosofia e per anni ha insegnato alle superiori. Attualmente lavora in un’agenzia formativa. Nel 2016 con il racconto “Il mio dentista” vince la 15ª edizione del concorso Racconti nella rete e la 2ª edizione del concorso 88.88, premio letterario nazionale per racconti brevi, ed è tra i finalisti della 15ª edizione del Premio InediTO-Colline di Torino, sezione Narrativa-Racconto. Nel 2017 è finalista alla 16ª edizione del Premio Il Salmastro e alla 10ª del Premio Internazionale Città di Sassari e vince il premio speciale della Giuria alla 16ª edizione del Premio InediTO-Colline di Torino.
L’idea di scrivere questo libro è nata tre anni fa per dare un contributo alla lotta contro lo spreco alimentare: «Prima di tutto – spiega l’autore – un contributo concreto perché una parte dei proventi andrà proprio al Banco Alimentare del Piemonte. Poi spero nel mio piccolo di aiutare a sensibilizzare sempre di più verso questo tema fondamentale, se pensiamo infatti che nel mondo occidentale si spreca una quantità di cibo tale da poter sfamare quattro volte gli 800 milioni di persone che soffrono la fame sul pianeta, non possiamo rimanere indifferenti. Spero di far conoscere il libro anche nelle scuole per sensibilizzare anche i più giovani».
Ho alzato gli occhi ed ero già a pagina cinquanta. Mi sembrava di aver appena iniziato, il treno era già in stazione ed ero l’unico idiota ancora seduto al suo posto. Questo per chiarire subito se il libro mi è piaciuto o no.
Il libro di João Paulo Cuenca dal titolo “Ho scoperto di essere morto” parla di un tale João Paulo Cuenca che all’improvviso riceve una telefonata dalle forze dell’ordine. Gli comunicano che a seguito di una denuncia appena depositata per questioni futili risulta che lui è morto già da qualche anno. João Paulo è uno scrittore. All’epoca di questa morte presunta lui era in Italia a presentare la traduzione italiana del suo libro “Un giorno Mastroianni” edito da Cavallo di Ferro. Il commissario non gli sa spiegare come mai qualcuno abbia usato il suo nome per morire. Le cose non sono affatto chiare e a questo punto, a João Paulo Cuenca non resta che cercare di svelare questo mistero. Anche perché dietro a tutto c’è la testimonianza di una donna e come ha detto il commissario, per quel che riguarda questa storia, citando il proprio scrittore preferito: non c’è nulla che una donna non riesca a peggiorare.
La ricerca lo porterà a vagare per Rio de Janeiro in un momento in cui le case vengono abbattute per far posto al nuovo, per mettera la pezza del mondiale di calcio e delle Olimpiadi ad un tessuto malandato.
Il libro è un continuo entrare ed uscire dal testo. Entrare ed uscire dalla finzione. Dobbiamo presupporre che l’episodio della presunta morte non sia mai avvenuto? Oppure è successo davvero? I verbali riportati all’interno del libro farebbero pendere per la seconda ipotesi. Cuenca in Italia, per quel libro, c’è stato davvero. Avrà anche dato all’amico Protz un manoscritto da leggere, manoscritto che poi non ha concluso, immagino, anche per le critiche dell’amico che lo trovava troppo gentrificatore, troppo votato alla politica, una lettera di uno che si vuole suicidare. E poi, il finale, perfettamente in linea con l’idea che Cuenca abbia dei manoscritti non conclusi nel cassetto. Prendiamo a piene mani dal regno dell’autofiction e del pamplet, navighiamo tra le righe di un romanzo mai banale, un caleidoscopio che restitisce molto bene l’immagine dell’autore. Una scrittura che fila via liscia e lascia sulle labbra appena un accenno di sorriso. Un sorriso dato dall’ironia che permea ogni pagina, ma soprattutto dai dialoghi fulminei, da commedia degli equivoci.
Quella di João Paulo Cuenca è di sicuro una bella scoperta. Un buon modo per iniziare le letture dell’anno. Chissà che non ritorni a fare un salto in Italia e che magari, tra qualche anno, la cosa non finisca in uno dei suoi prossimi lavori. Ne avrebbe di cose da scrivere sul nostro paese.
Ottima la traduzione di Eloisa del Giudice e molto bello vedere il suo nome in copertina.
Giangilberto Monti è uno dei massimi conoscitori di Boris Vian. Con il suo nuovo lavoro – Boris Vian, il Principe delle notti di Saint-Germain-des-Prés – ha scelto la via del docu-romanzo per raccontare un artista unico (scrittore, poeta, autore di canzoni, musicista: ma soprattutto un genio di un’epoca irripetibile) che ancora oggi rappresenta un punto di riferimento per molti.
Monti, perché oggi Vian è ancora così importante?
«Per la contaminazione tra le arti, la capacità di anticipare la realtà, la lucidità intellettuale. E la grande sperimentazione linguistica».
Qual è stato il tuo primo incontro con Vian?
«Erano i primi anni Novanta. Mi trovavo a casa di Riccardo Pifferi – autore e regista – con il quale stavo scrivendo uno spettacolo. A un certo punto mi ha consigliato di leggere Textes et chansons, un tascabile antologico di Vian. Da lì ho iniziato a interessarmi ai suoi lavori e mi sono reso conto di quanto la mia carriera fosse affine alla sua».
A quali conclusioni sei giunto?
«Intanto che lui è molto più bravo di me… (risata). Diciamo che è diventato una sorta di alter ego intellettuale. Le sue idee sulla musica, sulla politica, sull’arte in genere, sono quelle che ho sempre avuto io. Una specie di specchio. Ma molto più bravo di me…».
Se dovessi indicare a chi non lo conosce come accostarsi a Vian, cosa suggeriresti?
«I romanzi La schiuma dei giorni e Sputerò sulle vostre tombe. E poi ascoltare del jazz. E non avere preconcetti, essere politicamente scorretti. Come diceva Jobs, essere molto affamati».
Vian era affetto da una cardiopatia congenita: sapeva che la sua vita era a tempo. Pensi che questo abbia inciso nel suo inesauribile attivismo?
«Quando hai la percezione della malattia e che il tuo tempo è molto importante, cerchi di riempirlo in tutti i modi possibili perché ogni minuto è prezioso».
Artista ma anche dirigente del reparto discografico jazzistico della Philips: come vivono queste due anime in Vian?
«Un artista vero delega molto difficilmente. Michelangelo trattava personalmente col Papa la propria paga quando gli chiedeva di finire il Giudizio universale. Ma credo sia normale, perché si vuole avere il controllo totale: un artista desidera che appaia esattamente quello che lui ha pensato di far arrivare».
Boris Vian è anche al centro di un tuo spettacolo…
«Sì, riprendo canzoni che ho tradotto e registrato e racconto la sua vita in uno spettacolo di narrazione musicale».
Operazione che stai portando avanti anche con le canzoni di Dario Fo: un libro, pubblicato l’anno scorso, e un disco, che uscirà a marzo.
«E’ la mia cifra stilistica. Sul Dizionario della canzone italiana diretto da Renzo Arbore e edito dalla Curcio, alla voce Monti Giangilberto si legge: Non è mai diventato famoso per la sua scelta di sperimentare continuamente generi e stili musicali e in questo rispecchia la sua generazione, quella cresciuta artisticamente negli anni Settanta. La mia è una concezione totalizzante dello spettacolo: la performance è un evento unico, che mescola tutto. Una sorta di comunicazione incrociata: contaminata, come si usa dire adesso. Ma noi lo facevamo già quarant’anni fa…».
[…] una telefonata mi svegliò alle undici di mattina. Era l’ultimo sabato di aprile del 2011. – Pronto. – Chi parla? – Con chi vuole parlare? – Lei è il signor João Paulo? – Sì. – João Paulo Vieira Machado de Cue… – ha un attimo di esitazione. – Cuenca. – Esatto. Figlio di Maria Teresa Vieira Machado e Juan José Cuenca? – Chi parla? – Chiamo dal 5° Distretto di Polizia. Sono l’ispettore Gomes, abbiamo tirato fuori la sua scheda dopo la denuncia per i disordini al ristorante. – E? – E c’è che qui abbiamo un altro verbale, con data 14 luglio 2008, a suo nome. – Che verbale? – Lei sa di cosa si tratta? Sì. – Non ne ho la minima idea. – Il verbale che ho qui notifica il suo decesso. – Come? – La sua dipartita. Qui c’è scritto che lei è morto. – Io non sono morto. […]– Sarebbe bene che lei venisse in commissariato a chiarire questa faccenda.
A un uomo viene comunicata la notizia della propria scomparsa. Di più: questa sua dipartita è cosa ormai datata e possiede tutta la veridicità dell’atto certificato.
Il fatto, anomalo in sé, richiede una spiegazione che sia plausibile e convincente: anche perché chi scompare, oltre a essere il protagonista del romanzo, porta anche il nome del suo autore: José Paolo Cuenca.
Prende l’abbrivio così, da un evento surreale, uno dei più interessanti libri in circolazione degli ultimi tempi, Ho scoperto di essere morto. Già tradotto in otto lingue, portato in Italia da una delle tante scelte felici della lungimirante Miraggi edizioni, questa del giovane romanziere brasiliano è opera di difficile incasellamento: la finta morte, espediente letterario non nuovo ma piegato da Cuenca in modo spiazzante, non porta di fatto all’esito più scontato, la scelta del thriller o del noir, nonostante l’ambientazione sia compresa nel magma di atmosfere dense di una Rio de Janeiro in fermento e preparazione alle Olimpiadi del 2016 – vorace, sensuale, vivissima di voci e corpi giovani in perenne movimento – che ben si presterebbe alle vicende poliziesche e ne occupa invece giusto le prime pagine.
Cuenca decide piuttosto di inserirvi gli elementi del magico sudamericano, mescolandoli poi con la cronaca sociale di un periodo storico ancora gravato da decenni di dittature militari, ma soprattutto con la spiazzante, impietosa, lucidissima e spietata dissezione del milieu frequentato da un Giovane – ma non imberbe, un giovane prossimo ai quaranta – Scrittore, dal destino (quello del personaggio e di chi ne scrive) segnato fin dalla nascita
Era l’ennesimo fine settimana di sole e gli adattatissimi cittadini di Rio de Janeiro camminavano, correvano, andavano in bicicletta sul lastricato, giocavano a calcio e alle sue varianti su sabbia – altinho, futevôlei, bobinho, gol a gol. Gli uomini bevevano acqua di cocco nei chioschi sulla spiaggia di Ipanema, si allenavano sulle attrezzature di metallo, abbronzavano i loro corpi prosperi sul lungomare.
Le donne li ignoravano sfoggiando la loro forma smagliante compressa in vestiti due taglie più piccoli, passi rapidi e sguardo rivolto verso il nulla.
Era su quel palcoscenico sfavillante che quattro decenni prima si erano conosciuti i miei genitori. Un uomo da poco arrivato da Buenos Aires – era venuto all’inizio degli anni Settanta alla ricerca di un’esistenza abbronzata e sabbatica – e una ragazza di famiglia nobile ma spiantata che lavorava in un’agenzia immobiliare. Frequentavano la stessa porzione di spiaggia. Due anni dopo la loro collisione sono nato io, e purtroppo il lato luminoso della giovane coppia si è perso nei meandri della genetica. Se mio padre era speranzoso e atletico e mia madre generosa e amorevole, di tutto questo non è rimasto nulla: da lui ho ereditato la propensione alle attività antieconomiche e la spacconeria. Da lei il genio irritabile e angosciato.
Un debutto in vita privilegiato, da cui eredita, ammette ironicamente, una “vocazione alla tristezza” quanto mai opportuna in chi voglia perseguire la via delle Belle Lettere.
La comunicazione della sua scomparsa gli impone di intraprendere un viaggio in cerca di chiarezza: è solo attraverso la sua” morte” che potrà (ri)costruire la propria identità come uomo e come scrittore. Inizia quindi un suo pellegrinaggio che lo porterà attraverso corridoi di archivi metallici” polverosi antri di enti assortiti di ripetuto squallore, “Tutti quegli archivi, che circondavano tavoli e sedie lasciando poche pareti a vista, contenevano racconti il cui ingrediente comune erano i dissapori tra gli esseri umani della mia città”. Potrebbe essere questa una fucina di altre storie, ma il protagonista non ha tempo, ha l’obbligo di concentrarsi su quella propria, di vicenda. Tanto più cha la ricerca del sé dipartito deve tener presente la vita che va avanti, con gli impegni fittizi del “prima”, ed è qui che lo scrittore brasiliano eccelle in rappresentazione e finezza di dettaglio: agendo come protagonista e guardandosi al contempo da fuori, nel distacco da sé, stila un fitto elenco delle compagnie artistiche o pseudo tali a lui vicine, disseziona un’intera fauna da débauche, trasgressori che non trasgrediscono un bel nulla. Dedica pagine divertenti e dissacranti allo spettacolo di sedicenti scrittori e artisti nullafacenti, copia rifranta di sé stessi nel tentativo abortito di differenziarsi dalla massa – da ogni massa – per una supposta superiorità intellettuale autocertificata. Fanno comunella, riconoscendosi a fiuto tra simili e al contempo vogliono disperatamente elevarsene con convinzione:
Non insistetti riguardo al testo. Avevo l’abitudine di proteggermi da questo tipo di incertezza grazie alla formula magica: questi poveracci non capiscono un cazzo.
[…] Erano designer, produttrici, stiliste e galleriste e avevano un irresistibile attaccamento alle apparenze, oltreché soprannomi monosillabici come Bi e Lu. Davano inizio ai loro incontri complimentandosi calorosamente a vicenda per poi mettere subito silenziosamente a confronto i loro accompagnatori – gli uomini saltavano i commenti limitandosi a controllare scollature e culi altrui in modo sempre meno discreto.
Numerose delle ormai sviluppate femmine che circolavano in questi giri della Zona Sud di Rio de Janeiro avrebbero vissuto con i genitori finché un uomo non le avesse tirate via da casa. Il proposito seminascosto che qualcuno le emancipasse dava loro tratti caratteriali delle donne del secolo scorso, cosa che cercavano di nascondere sotto un femminismo da social e dosi cavalline di moda e sculettamenti sulle note di anonima deep house.
Chiudevano il cerchio tipi come un fotografo brizzolato, un francese abbronzato, un percussionista di samba panciuto, un poeta d’appartamento, un professore universitario con la forfora sulle spalle, il nipote simpatico di un senatore mafioso, un graffitaro concettuale, un saggista di provincia, un direttorino col berretto, un dipendente della televisione, un editorialista di giornale – il solito circo di cretini periferici uniti dalla stessa autostima delirante e inversamente proporzionale ai loro successi.
Formavamo un’intellighenzia barbuta e vagamente artistica. Eravamo tutti molto coinvolti nella cosa artistica, benché nessuno lì fosse in grado di riconoscere cos’era l’arte. Lo scarso talento presente in quella sala sarebbe stato da lì a poco interamente corrotto dalla città – in migliaia sbarcavano ogni anno nella capitale balneare per finire con le speranze macinate e l’anima smerciata a un canale tv o a una casa di produzione audiovisiva di quest’ascendente e provinciale Hollywood che si credeva il centro di qualcosa.
In questa Rio di Stocazzo, borsa di capitale sociale dove tutti erano figli, figliocci o pupilli di qualcuno, il mio sbrilluccichio da scrittore pubblicato era visto con curiosità e una certa condiscendenza.
La voce narrante passa dunque tra l’ “erano” e il “formavamo”, tra l’essere compresi in una cerchia e l’uscirsene sdegnati alla bisogna, tra l’essere autore del romanzo e protagonista stesso in un gioco raffinato, allucinato, talora allucinante.
Conscio di una sottaciuta incapacità di emergere, lo scrittore si stordisce tuffandosi in serate dal finale prevedibile fin dall’inizio, con coppie belle e prospere a immergersi in un programmato, uguale fino alla noia turbinio di eccessi, non prima di essersi passati una mano di giustificativo decoro (Era giunta l’ora di essere engagé, scrive in apertura di capitolo).
Autore e protagonista viaggiano, si cercano, ricordano i tanti scrittori sudamericani scomparsi in giovane età “Álvares de Azevedo, 20 anni; Castro Alves, 24; Augusto dos Anjos, 30; Manuel Antônio de Almeida, 30; Antônio de Alcântara Machado, 33; João do Rio, 39; Lima Barreto, 41; Euclides da Cunha, 43. In questo contesto, quelli che erano arrivati a 56 anni come Clarice Lispector, Lúcio Cardoso e José Lins do Rego erano davvero vecchi”, augurando a sé stesso simile precoce fama: la verità è che quella del personaggio è di fatto una vita vuota, “un’esistenza olografica”, stretta tra pochissima stesura di pagine e grandi promesse, invece, di scrittura, con una propensione al presenzialismo e alle del tutto dimenticabili conferenze che gli procurano più denaro, fama e sesso facile della pubblicazione – sempre rimandata – di un suo libro.
Cuenca irride, porta sotto la lente riti, vezzi e parti buie di un proprio supposto fallimento, pone in essere il dubbio sul mezzo e utilità della scrittura, Attraverso la morte di sé come personaggio, si ricostruisce con ironia in una trama a caselle che si appaiano, si sommano e non sciolgono enigmi, li moltiplicano, anzi, ricordando a tratti il meraviglioso Rayuela, Il gioco del mondo di Cortázar.
La sua è una scrittura funambolica, ricca ma non ridondante, in cui lo sviluppo della trama – pur atteso e costruito con ragionevole tensione in questo romanzo-gioco metaletterario con accenni di Carrère – passa in secondo piano, sorpassato agevolmente dalla godibilità della sua scrittura, pagine tradotte con grande cura per l’edizione italiana da Eloisa Del Giudice.
Una sorta di favola moderna, in cui gli elettrodomestici prendono vita. E, al centro di tutto, un frigorifero con la sua saggezza. Andrea Serra debutta per Miraggi con “Frigorifero mon amour”: si parla di cibo e del suo utilizzo, spesso sbagliato, argomento quanto mai importante nella nostra epoca. Ma lo si fa con leggerezza, come racconta l’autore: “Il frigorifero si rivela un attivista del Banco Alimentare: una realtà che ho incontrato e che mi ha spinto ad approfondire i temi legati allo spreco. Nel libro ci rimprovera, fornendo anche dei dati su quanto buttiamo via. Il frigo è la coscienza critica, con i suoi insegnamenti. E lo spreco alimentare è una metafora della nostra società, dove ammuffisce l’umano invece del cibo”. Come è arrivata l’idea del libro?
“In un periodo di “disperazione” familiare, quando sono nate le due bambine, che oggi hanno quattro e otto anni: non dormivano e, di conseguenza, non dormivo io. La notte ho cominciato a scrivere i primi racconti e la vena umoristica è giunta per reazione”. Perché il frigorifero? E perché le carote della copertina?
“Il frigorifero perché è un elemento centrale della nostra casa. Mia moglie, che ha un carattere duro e diretto, lo insulta anche, dicendogli “apriti scemo”. Le carote sono quelle che lei compra a piene mani e che un bel giorno riemergono ammuffite, dopo essere state dimenticate in uno scomparto. Nel libro il frigorifero scappa, arrabbiato per lo spreco di cui è testimone ogni giorno”. Comincia così una sorta di inseguimento.
“Lo racconto in forma di diario perché il protagonista, visto che non riesce a prendere sonno, si rivolge a uno psicologo che gli suggerisce di annotare tutto. La narrazione parte a gennaio e si conclude a dicembre, con una coda rappresentata da una discesa agli inferi per ritrovare il frigorifero perduto”. Sembra una favola di Esopo: là parlavano gli animali, qui gli oggetti.
“L’intento è quello. C’è una poetica degli elettrodomestici, tutti si esprimono: è una favola contemporanea, con una funzione civile e morale”. Per questo è stato coinvolto anche il Banco Alimentare?
“Scrive una postfazione in cui fornisce i numeri sullo spreco di cibo. Al Banco va anche una parte dei proventi dei diritti. Io, poi, oltre alle classiche presentazioni, ho programmato di andare nelle scuole perché, alla fine, “Frigorifero mon amour”, è un testo formativo-informativo. E divertente”.
Fra vergogna e cattiveria-Non risponde mai nessuno.
La vergogna di essere uomo: c’è una ragione migliore per scrivere? Gilles Deleuze
Bue bue bue fa il cane randagio,
e può darsi che abbai a un altro cane,
a un’ombra, a una farfalla, o alla luna,
non è però escluso che abbai a ragion veduta, quasi che attraverso i muri, le strade, la campagna, gli sia giunta la cattiveria umana. Dino Buzzati
Nella fascinazione i bellissimi racconti di Simone Ghelli mi giungono in lettura e mi riportano ai felici tempi in cui la letteratura era sinonimo di raccontare bene, con attenzione e umanità, di ciò che tormenta e affligge il vivere fatto uomo. Una letteratura realistica, neorealistica, il periodo dovrebbe essere proprio il neorealismo, al cinema e nella narrativa, un periodo d’oro italiano che molti ancora ammirano e prendono d’esempio: Cassola e poi Verga, Pavese. Leggendo Simone mi sembra di essere in compagnia di autori amati nell’adolescenza e nello stesso tempo sento lo stile originale del nuovo scrittore che contamina e si arricchisce di suggestioni fino al fantastico di Dino Buzzati.
Un bel leggere già dalla prefazione tanto accattivante da farmi scegliere i due temi individuati da Wu Ming 2 come traccia da seguire nel legare i racconti. Fra vergogna e cattiveria, storie di difficoltà, famiglie composte da persone con handicap, oppure semplicemente più fragili, famiglie che per tutte la vita saranno segnate da una specie di vergogna, di dispiacere e nello stesso tempo oggetto della cattiveria altrui. Sono racconti di cui mi piace riproporvi qualche stralcio per gustare la pulizia del linguaggio
Qui Giovanni, il protagonista lavora con i matti, e ne sente tutta la tragica inanità “Tutte le sue ore di studio e le idee romantiche sulla follia, che gli erano sembrate così forti da poter reggere l’urto contro ogni realtà, si erano sbriciolate nel giro di pochi minuti il giorno in cui un infermiere gli aveva chiesto se avesse per caso già fatto il vaccino contro l’epatite. In un attimo Giovanni aveva ripensato a tutti i malati che aveva toccato – altro che ospiti: quelli erano malati e contro la paura il linguaggio non aveva potuto niente – e improvvisamente aveva accusato un giramento e si era dovuto sedere perché gli tremavano le gambe e davanti agli occhi erano comparsi tutti quei puntini, proprio come quelli che erano rimasti impressi nella fotografia.” da racconto I tafani della Merse
Seguiamo il racconto in cui il protagonista va con lo zio per filmare la casa di un poeta e raccogliere testimonianza di quel che era stato. Qui nella fase finale del racconto “Quella sera cenammo nella villa di proprietà della presidentessa dell’associazione, dove era stato allestito un banchetto pieno di cose buone. C’erano professori, assistenti, studiosi, poeti: ognuno con qualcosa d’interessante da dire. Tutto quel parlare su qualcuno che non c’era più è diventato l’assordante fuori campo sonoro del finale che lascia spazio alla vera poesia. Il silenzio sopraggiunge per rendere un po’ di giustizia e ristabilire un ordine su cui quest’uomo aveva lavorato nei suoi ultimi trent’anni. È il mondano che infine non può più niente davanti a un guscio vuoto abbandonato sulla riva dell’oceano, che aspira ad essere un’increspatura sulla corrente.” Da Natura in versi dove si immagina di andare nella casa del poeta Peter Russel, alla Turbina, nell’estate del 2005 e con le sue poesie raccontare quell’abbandono, abbandono che il poeta aveva sentito anche in vita. La casa è quieta,tutto è immobile… Nel leggere rimane il desiderio di andare a leggere tutto su questo poeta nel continuo movimento, nell’andare da una lettura ad un’altra.”Il 22 gennaio del 2003 a Pian di Sciò morì il poeta inglese Peter Russell, considerato dalla critica uno dei più grandi poeti inglesi del secolo scorso. Dal 1983 viveva nel paese valdarnese, Castelfranco Pian di Sciò, al quale nel momento della sua morte donò l’intero patrimonio librario, di lettere e documenti.” da ValdarnoPost.
Dai versi a Non risponde mai nessuno, il racconto di Cesare e Luciano, figlio e padre, nel momento in cui è il figlio a dover decidere per il padre, dai versi alla realtà. Con dialoghi plausibili, dialoghi che ci appartengono, Simone riesce a portare noi lettori nelle case, nelle situazioni, come se ci fossimo anche noi seduti a quelle sedie accanto a Luciano, alle bollette che non apre, ai contratti che fa e disfà, al declino di una lucidità che lo priva dell’autonomia. Nella solitudine del vivere la figura del sociale diventa solo un modulo da riempire, una fila d’attesa da rispettare.
Tutti i racconti sono utili, utili alla lettura e al dialogo interiore, dialogo che non dovrebbe cessare mai nel continuo interrogarsi sulle azione di cui ci si vergogna o di cui si è consapevoli della cattiveria insita eppure si compiono lo stesso.
Nelle prove che ciascuno affronterà ci sarà sempre quella vergogna e cattiveria insita nella miseria delle azioni umane.
I consigli di lettura di Panorama.it per febbraio, a cura di Andrea Bressa: c’è anche Lorenzo Bartolini
In questa lista vogliamo segnalare anche un bel libro di poesie firmato dal romagnolo Lorenzo Bartolini. Il titolo, Senti cosa ho scritto, è anche una sorta di suggerimento: il miglior modo per godere di questi versi è andare a sentire dal vivo l’autore nelle sue numerose performance. Ma le parole di Bartolini sanno arrivare anche con una lettura silenziosa. Si può sperimentare una grande vicinanza ed empatia con l’autore, che ci parla di sé, guardandosi da dentro mentre raccoglie la realtà attorno. Il libro è organizzato con una disposizione decrescente delle poesie: dalle più lunghe fino agli haiku delle ultime pagine, un ritmo molto efficace che trasmette un senso di sempre più totale essenzialità.
Non potevo iniziare il mese con una lettura migliore: Ho scoperto di essere morto, del brasiliano J.P. Cuenca (traduzione di Eloisa Del Giudice; Miraggi Edizioni) è un testo splendido. Se dovessi riassumerlo scriverei: rabbia, allucinazioni, invettive politiche, bisogno triviale di sesso, abbrutimento intellettuale, topografia calviniana di Rio de Janeiro, echi di polizie segrete d’altri tempi, alcolizzati carioca col morbo di Kafka, radical chic abbronzati e ridicolizzati.
Questo tra le righe. La trama ufficiale narra di J.P. Cuenca, autore e omonimo dell’autore, che dopo una lite con i vicini viene a scoprire dalla polizia che esiste un verbale che notifica il suo decesso. Per risolvere questo mistero il protagonista si muove attraverso Rio de Janeiro, tra macerie di quella che la città fu, nuove costruzioni in vista delle Olimpiadi, salotti e feste di giornalisti, teatranti, attrici di soap opera, favelas guardiane di ogni orizzonte, arroccate sulle colline. Procedendo nella narrazione ci si accorge che il mistero diventa sempre più fitto, ci si perde di frequente, insieme all’io narrante, in quella che potrebbe essere definita l’angoscia di ogni scrittore: il mostro della pagina bianca.
Personaggio fittizio e reale, il J.P. Cuenca che accompagna il lettore attraverso i cantieri aperti della metropoli carioca, è un essere vivo, diretto e feroce. Anche verso la storia del proprio Paese: “’Questo posto è un cazzo di Poltergeist. Ogni volta che c’è un cantiere qui nel Centro, e ne avete aperti un sacco a causa delle Olimpiadi, si trovano spessissimo cadaveri e ossa spezzate, come nel Cimitero dei Nuovi Neri nella zona del porto. Schiavi. Ma voi nascondete tutto di nuovo. Come se nessuno avesse visto niente’. A dire il vero, nessuno stava a guardare”.
Memorabili le pagine dedicate ai party degli intellettuali, omaggio velato al Gatsby fitzgeraldiano, con starlette che scaldano sushi nella propria vagina prima di offrirli agli ospiti, pavidi redattori che distribuiscono anfetaminico Mdma, orge, ballerini di samba, letterati disperati. Un mondo artistico allo sfascio: “Il progresso dell’umanità deve poco ai romanzi (…) Hitler, fanatico tra le altre cose di Don Chisciotte e Robinson Crusoe, leggeva un libro a sera e aveva una biblioteca personale di decine di migliaia di volumi, superato tuttavia da quella di un altro lettore compulsivo, Josip Stalin (…) la letteratura muore un poco ogni volta che qualcuno alza la voce per difenderla su uno di quei palchi costruiti perché si creda ancora nella sua esistenza. Lasciarla morire mi sembrava un’ottima idea per salvarla da se stessa”.
Pamphlet urbano, autofiction, noir, confessione allucinata e allucinogena, Ho scoperto di essere morto, mi ha ricordato, per certi aspetti, le opere di un altro sudamericano allergico al realismo magico: Efraim Medina Reyes, penso soprattutto a C’era una volta l’amore ma ho dovuto ammazzarlo e Tecniche di masturbazione tra Batman e Robin.
E anche il libro, bellissimo, di un altro autore straordinario: Baku, ultimi giorni, di Olivier Rolin, dove il protagonista, dopo anni dalla sua folle e macabra sentenza, torna nella camera 1123 dell’hotel Absheron di Baku per scoprire se morirà come aveva previsto.
«C’è nebbia fuori/la scambio per miopia/ma non è un difetto congenito/ho solo guardato troppo/e straccato le pupille/sono sana e senza scuse/Non stravolgo nulla/non ho fondi di bottiglia/ti giudico bene anche da qui/senza alcuna vicinanza/senza polpastrelli tattili/il muro è opaco e sono onesta/non imbroglio più, ho solo pietà/e le bugie bianche per te/le lascio ai bambini.»
(Martedì)
Quello che vive tra la pentola sul fuoco e lo spazzolino da denti, il tubetto di dentifricio lasciato a metà, spremuto male; l’interstizio, lo sporco sotto un vaso mai spolverato. Simmetrie e realtà tridimensionale, quello che ci circonda in fondo ci racconta, quello che possediamo assorbe la nostra storia e ogni oggetto diventa un pezzo di noi che racconta noi. E allora sarà facile riconoscere quello che siamo stati in una cornice senza foto, guardare una bottiglia vuota, un vaso di marmellata quasi finito, per far tornare una storia che ci parla di ricordi e di tutto quello che siamo stati mentre quella marmellata la mangiavamo a cucchiaiate.
Il gioco che fa la nostra mente è semplice anche se a noi, delle volte, appare straordinario; apri un cassetto, una matita spezzata giusto al centro della sua traiettoria, un po’ di polvere, un aereo di plastica che un giorno qualcuno ha fatto finta di far volare; e quindi se gli oggetti vivono della nostra vita, e se quello che ci circonda quotidianamente si impregna del nostro passato, è fondamentale riconoscere alle cose il potere di poterci raccontare, e altresì è importante, talvolta, togliere il potere a quella tazza rimasta nella credenza, che magari ti riporta ogni tanto l’immagine di lei, di lui, che da lì beveva il suo cappuccino e poi magari ti sorrideva con le labbra sporche di bianco.
Giulia Fuso è nata a Perugia nel 1988, questa sua raccolta di poesie porta il nome di E dentro luccica pubblicata da Miraggi edizioni, il disegno di copertina è a cura di Emanuele Copernico.
Le storie che ci raccontano queste pagine sono ore strappate al quotidiano, e ogni poesia porta in calce un titolo evocativo che ci fa subito capire dove la nostra poetessa vuole portarci, almeno per quelle righe. Giulia Fuso è dotata di uno stile poetico che rasenta la prosa, e più si va avanti nella lettura e più ci si convince che se la struttura dei versi fosse stata orizzontale e non verticale, avremmo potuto leggere della narrazione stilisticamente accattivante. C’è la magia e il male del quotidiano, di un pettine che passa tra i capelli e si impiglia, delle ore fermi a una stazione ad aspettare un treno (o forse noi stessi), ci sono le ore passate in una stanza o seduti a un tavolino di un bar, dove il mondo fuori accade ma quello che fa rumore è poi il mondo dentro.
«Mi dici che sono/ come i nodi dell’ulivo/io cerco similitudini/ e trovo malattia/ Metti cerotti waterproof/ sui miei buchi da guerra mondiale/ che, da lontano/ sembrano soluzioni/ ma sono appena/ tamponi misericordiosi/ Non li lascio, trappo/ zoppico docile/ e la carne fresca/ è la mia Caporetto.»
(G.)
Ci si arrampica, su queste poesie, e a volte, durante la salita, si cade, e ci si sbuccia le ginocchia, e saremmo costretti a cercare cerotti, acqua ossigenata: le parole di Giulia. Ogni frase sembra viva, sotto i nostri occhi; evocazioni di un attimo, di una giornata, forse di un’ora, in cui tutto è cambiato o forse, in cui tutto è rimasto maledettamente uguale mentre noi, invece, eravamo in cerca di mutazioni.
«Accadi sempre per riflesso/ io non ci penso e mi capiti/ tra i piatti della cena/ e le calamite del frigo/ in un coltello unto/ che spalma solo ansia/ Mi ricordi quando fuori/ inciampo nelle scarpe/ e non mi fermo, continuo/ adolescenziale e pigra/ con i lacci che si ciancicano/ e urlano, ma non ascolto/ Mi appanno e non rifletto/ sono uno specchio/poco esemplare.»
(Bloody Mary)
E Giulia Fuso ci prende la mano, e ci fa tornare bambini, ci costringe a riporre la nostra fiducia nelle sue vocali sporche di confettura, nelle sue consonanti rimaste incastrate nella raccolta differenziata, in frasi brevi che come pesci rossi girano in tondo dentro un’ampolla piena a metà di acqua.
E se ogni oggetto è capace di possedere una propria personale narrazione del nostro passato, è anche vero che delle volte, per liberarci di qualche fetta di ieri, siamo costretti a cestinarlo, quell’oggetto ingombrate.
«Ho comprato le matite/ per correggerti gli apostrofi/ sono dodici, appuntite/ le ho in tasca da quattro giorni/ si muovono e graffiano/ mi grattano le cosce/ e diventa tutto rosso/ il tuo errore, il mio appunto/ tanto che poi mi confondo/ e divido malamente/ non trovando più l’originale/ in questa pozza fonda.»
(Not found)
Una raccolta di poesie scritte con il corpo, dove ogni sensazione, che sia di pelle o di muscoli o di ossa, viene sviscerata e messa in bella mostra, davanti ai nostri occhi. E voi non lo sapete, forse non potete immaginare, la stanchezza antica di un corpo dopo la battaglia con le sue parole; non potete immaginare, non potete sentire la mano che trema ancora, la mente che corre, ancora, la schiena fatta a pezzi, e la bocca asciutta come un acquario dal vetro rotto, dove i pesci cadono in terra, come le parole che cadono sul foglio.
Vita da editor ha chiesto alle case editrice quali siano stati i loro bestseller del 2017. Ecco l’intervento di Miraggi
Miraggi (Alessandro De Vito, direttore editoriale)
Il libro più venduto del 2017 è stato Parigi XXI, di Iacopo Melio. Ne sono particolarmente fiero perché la sua poesia (eh sì, i primi 6 libri più venduti sono poesia, chi lo direbbe?) ha una forza tenera e dirompente, ma implacabile, che unita al peperino toscano che è lui fa capire molto bene perché sia così seguito (ed è un segnale molto positivo di questi tempi, che in molti seguano e sostengano il suo cuore e le sue sacrosante battaglie). Per il resto, dato che Miraggi ha diverse anime, siamo molto contenti del successo di tutta la collana di traduzioni Tamizdat, il cui bestseller è Memorie di uno psicopatico di Venedikt Erofeev, nome di culto.
“Lembi di memoria personale”? No, non è solo questo. “L’uomo tagliato a pezzi”, il libro di ricordi di Antonio De Vito, è piuttosto il realistico quadro di un tempo, di un’Italia che fu e che difficilmente chi non sia nato intorno alla metà del secolo scorso fa persino fatica a credere che sia esistita. Oggi, che durante una delle campagne elettorali più assurde alle quale io abbia mai assistito, in cui rispunta fuori inopinatamente il concetto di “razza”, rileggere le pagine di questo prezioso “documento” ci fa improvvisamente ricordare cose delle quali avevamo addirittura perso la memoria.
Il giovane Antonio De Vito è un “cafone” di Torremaggiore, provincia di Foggia, che approda a Torino negli anni della FIAT di Valletta, in cui non si “affittavano case ai meridionali”, in cui veniva costituito all’interno della maggiore fabbrica d’Italia un “sindacato” bianco, un sindacato padronale che aveva il compito di stroncare ogni tentativo di rivendicazione sociale. Testimonianze di un’epoca ormai lontana, scrive De Vito nel presentare la vicenda, il “processone” che dà il nome al suo libro. Il processo per l’“uomo tagliato a pezzi” prende le mosse da una storia delle prime immigrazioni meridionali nell’“altra” Italia, quel Nord che ancora oggi sembra volere, per certi versi, tornare indietro nella storia. “La provincia torinese, Chivasso, la città delle noccioline, e il clan di immigrati siciliani, la famiglia Montalbano, niente a che fare con il commissario Montalbano di Camilleri, divenuto famoso ai giorni nostri, mezzo secolo dopo Immigrati agrigentini, dalle belle terre di Caltabellotta, Sciacca, Ribera, il profondo Sud siciliano, esodo forzoso dalla miseria, braccia in cerca di sicurezza e lavoro, tutti sanno di cosa si è trattato in quegli anni Sessanta, che di mitico per milioni di uomini donne non avevano proprio nulla. Al massimo anni di speranza. Tanta fatica, tanta sofferenza, tanta incomprensione attorno a questi figli del sud costretti ad immigrare”.
Fa un certo effetto leggere quanto scrive De Vito proprio nei giorni in cui si ricorda la tragedia del Belice (e oggi finalmente sappiamo come si pronuncia: Belìce) e si scopre, o forse si riscopre, che uno dei provvedimenti del governo di allora, un governo Moro, politico democristiano tra i più illuminati, non trovò meglio che offrire ai siciliani senza più casa né speranza decine di migliaia di biglietti ferroviari di sola andata per il nord e visti per l’espatrio. Questa era l’Italia d’allora, davanti ad una tragedia che aveva fatto più di trecento vittime e distrutto per sempre interi paesi, intere comunità.
Ricorda forse qualcosa di più attuale? Il terremoto dell’altro ieri che ha colpito tre regioni del centro Italia non lo possiamo certo risolvere come allora, anche perché in Italia ci sarebbero cinquecento poveri disgraziati che, come dice un autorevole leader, sono costretti rubare (?) per sopravvivere e hanno un grave torto, un peccato originale, essere scappati dalla fame e dalla miseria, non dalla Sicilia, non dall’Italia meridionale, ma dall’Africa, dalla Siria, dall’Afghanistan, dal Bangladesh, dall’altro sud che non vogliamo neppure vedere. Che tornino nei loro Paesi, che – come ha detto un autorevolissimo Capo di Stato – sono “shit-hole”, buchi di cesso.
E’ bello quanto ricorda a noi smemorati o ignari Antonio De Vito, quando nella premessa rammenta come sia cambiato il mondo da quando, cronista dell’Unità prima della Stampa poi, seguiva i processi che si svolgevano in Corte d’Assise, a Torino. “Sono cambiati, scrive, i cittadini, i giornali, le istituzioni, i codici, i processi…E non c’erano allora, le tv, folle di cineoperatori a riprendere un pubblico interessato alla vicenda “noir”, nessun Vespa rifaceva il processo in modo mediatico, spettacolarizzando con plastici e gli esperti in studio, psicologi e periti sempre pronti a mettersi in mostra”. E, aggiungerei, ahimè, anche colleghi. E’ vero, Antonio, era tutto più alla buona. E’ vero, Antonio, il mondo è cambiato. E anch’io, quasi quasi, voglio scendere.
Pasquale Panella non si definisce uno scrittore, ma neanche poeta e paroliere. Rinuncia a qualsiasi etichetta, però non declina mai l’invito che le parole gli rivolgono e le sfida a viso aperto.
È appena uscito per Miraggi edizioni Poema bianco. Un testo di controversi, ma anche di antipoesia pura in cui Panella si cimenta con la demolizione di tutti i luoghi comuni della scrittura.
In un soliloquio antilirico («perché nel soliloquio c’è il silenzio, che nella realtà ossia nell’atmosfera del pianeta Terra non esiste») qui si legge ma soprattutto si sente la forza della negazione, che dovrebbe essere della scrittura la sua forza dirompente.
Poema bianco è una collezione di negazioni. In ogni parola «la doppia negazione è prepotente».
Negazioni in buona compagnia di paradossi di cui il bianco è la metafora che richiama alla mente il senso di un’ossessione, quello della pagina non scritta.
« … un libro bianco sulla mia / fame del mondo» potrebbe essere questa la definizione dell’indefinibile Poema bianco.
Ma la nostra è solo un’ipotesi. Panella scrive con un ritmo incalzante le parole di questo poema, si lascia travolgere dall’ascolto delle sue stesse parole e ne propone uno a chi legge perché « Alle volte si scrive /sapendo solo cosa /non si scrive / esattamente /o cosa esattamente / non si scrive / (pare la stessa cosa / ma non è la stessa)».
Davanti alle parole la scrittura diventa spesso un vizio e quasi sempre chi scrive non si mette in ascolto che del proprio ego.
Panella si affida a tutte le negazioni anticonvenzionali dello scrivere: «Il bello delle parole scritte / è che, intanto, io posso tacere/ mente esse fanno il loro dovere / (e intanto io posso piangere ridendo / come quando piove con il sole)».
Nelle soluzioni impensate delle parole si muove la riflessione dell’autore. Il suo Poema bianco, come giustamente scrive Lucio Saviani nella prefazione, è un rivolgersi la parola come rivolgendola a un altro.
Tra una negazione e una mancanza nella scrittura bisogna dissolvere l’ego e lasciare spazio all’altro. «Come sarebbe il mondo se noi veramente sapessimo, / potessimo ascoltare il parlar da solo dell’altro».
Poema bianco è un soliloquio antiretorico sull’ inutilità utile delle parole. Un testo antipoetico e impoetico in cui prevalgono le esagerazioni della scrittura. Pasquale Panella ci regala un testo illuminante che decostruisce tutte le ipotetiche certezze dello scrivere.
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