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Come superare la “cecità esistenziale. Nozioni di base: la recensione di Pasquale Veltri su leggeretutti.net

Come superare la “cecità esistenziale. Nozioni di base: la recensione di Pasquale Veltri su leggeretutti.net

“La curva. Piacevole diversivo nel monotono percorso di una strada, la curva dà il senso al viaggio e lo trasforma in gioia.”

Cela pensieri come questo, che si fermano all’istante, oppure proseguono su un sentiero che porta in un dove che  non ti aspetti. Inserito nella Collana Tamizdat -parola con la quale venivano indicati i testi che circolavano clandestinamente nell’ex URSS-, “Nozioni di base”  è alla prima edizione italiana, ottimamente tradotta dal ceco da Laura Angeloni. Introdotto, anticipato e impreziosito da tre brevissimi contributi di Milan Kundera, Yves Hersant e Massimo Rizzante, il libro si può leggere anche senza un ordine logico, aprendolo a caso;  i capitoli sono minuscoli mondi a sé, minuscoli eppure potenzialmente senza confini, capaci di creare suggestioni e sapori come solo la poesia può fare.  Capitoli della lunghezza di poche righe o racchiusi in meno di tre pagine, i  cui titoli, nella loro essenzialità, dicono molto: Il brindisi, Radersi, Il commiato, Altrove, Sfiorare, Coppie, L’ultima goccia, I dettagli…

E’ sufficiente lasciarsi trasportare nelle atmosfere di questi momenti fissati sulla pagina, dove si scoprono attimi senza tempo e universali, o anche situazioni di tutti i giorni nelle quali però Kral, con straordinaria sensibilità, riesce a cogliere l’inaspettato, l’elemento a cui non pensiamo e che non vediamo, ma che pure è sempre stato lì, immobile davanti a noi. E’ il passare oltre alla “cecità esistenziale”, come la chiama Kundera.

E’ un libro fatto di stimoli, sensazioni, icone, significati e profondità da cercare, di vocaboli semplici da capire e frasi perfette. Un piccolo tesoro ancora poco conosciuto nel nostro Paese, una lettura di grande fascino offerta da un grande intellettuale.

Petr Král è nato a Praga nel 1941. Esponente del Surrealismo è poeta, traduttore, saggista, sceneggiatore e critico.

Pasquale Veltri

San Francisco Rock: la recensione di Marco Caneschi su criticaletteraria.org

San Francisco Rock: la recensione di Marco Caneschi su criticaletteraria.org

Il romanzo d’esordio di Marcello Oliviero parte con un diario in prima persona. Jeff è un ragazzo di New York che lascia la Grande Mela per San Francisco. Insegue il sogno di fare musica. Poi, nel momento in cui la prima band prende corpo, il testimone passa a un narratore onnisciente. Jeff si moltiplica ed ecco che i ragazzi diventano quattro: Jeff, Ben, James, Phil. Dopo una recensione, non proprio in linea con le loro attese, del primo disco, i nostri annunciano di aver scoperto un inedito vinile degli anni Settanta. Autori sono, sarebbero, gli Sweet Nothing, una rock and roll band scomparsa nel nulla dopo la fine degli anni d’oro della beat generation. Aiutati da un mago del web, creano un fenomeno mediatico su cui l’industria musicale si getta a capofitto.

La storia ha dell’incredibile, con tutto quello che di positivo e di negativo questa parola può significare. Che poi, quando si scrive un romanzo il tutto si gioca attorno a un pendolo che oscilla tra verosimile e inverosimile. A un esordiente si può perdonare anche qualche ardita fluttuazione e si può giustificare un salto nel buio in nome dell’energia del rock e dei 20 anni.

Oliviero ama un certo tipo di musica, si coglie benissimo, e prende il toro per le corna: puoi costruirti una playlist leggendo il romanzo, puoi perfino ascoltarla e dopo darò la dritta in merito, puoi capire che se Springsteen è diventato The Boss un motivo ci deve essere. Che il circo mediatico è sempre in moto e che l’America è uno strano coacervo di ex: musicisti, agenti, produttori. D’altronde gli spazi sono sconfinati. Mettici dentro una casetta riadattata in riva all’oceano, un portoricano che gestisce un ostello e due ragazze brillanti e il gioco sembra riuscire. L’impalcatura c’è. E pure qualche dialogo efficace.

Ma al di là del fatto che gli Sweet Nothing non sono esistiti e invece tutti (o quasi) credono alla storia del loro passaggio sul pianeta, il romanzo ha una parte centrale, a mio modo di vedere, priva della passionalità che si riscontra altrove mentre cerca di recuperare energia nel finale grazie a nuovi personaggi. Da qualche parte era lecito attendersi un’analisi più approfondita del mondo degli anni Settanta, che è il mondo dei sogni infranti, non bastano un ex cantante ubriacone e un discografico carogna.

La cosa più interessante è l’interattività di questo libro. Su http://www.sanfranciscorock.it/ e dal diario iniziale di Jeff si scopre che parti del racconto rimangono su internet. Con, direi inevitabilmente e meritoriamente, tanta musica e la possibilità di dialogare con l’autore stesso. Peraltro compositore. Due parole su Miraggi Edizioni, casa editrice di varia che nasce a Torino nel 2010. A sfogliare il suo catalogo si nota una pregevole cura grafica e tanti autori giovani. In bocca al lupo davvero.

 

Marco Caneschi

Non risponde mai nessuno: la recensione di Fabrizio Ottaviani su Il Giornale

Non risponde mai nessuno: la recensione di Fabrizio Ottaviani su Il Giornale

Come distillare l’essenza del fallimento

Tre macchine da scrivere ricoperte d’edera, appartenute a un poeta dimenticato; e poi matti raggiunti dalla sassate di ragazzini feroci, parenti elettivi di vecchi professori di matematica con un figlio malato. Evocando un mondo dove esistono ancora la natura, il mestiere e il dolore irredimibile. Ghelli ridà energia alla tradizione del racconto italiano più realistico, l’unico forse in grado di raggiungere l’essenza di quel fallimento che preferiamo negare, ma che riguarda più persone di quanto non sospetti il nostro senso di colpa.

Fabrizio Ottaviani – Il Giornale

Coriandoli a Natale: Poetarum Silva ospita Tomas Bassini

Coriandoli a Natale: Poetarum Silva ospita Tomas Bassini

Me la prendo comoda, per quanto possibile. Cerco di rintracciare ogni prova tangibile che testimoni quello che c’è stato fra me e Lei. Sono diventato quello che si potrebbe chiamare un “topo da biblioteca”, mi sono messo a studiare come non ho mai studiato in vita mia: con diligenza, con regolarità, pure con una certa pignoleria da primo della classe. Voglio recuperare ogni materiale disponibile, dagli scontrini dei negozi dove siamo stati ai conti dei ristoranti, dai biglietti del cinema alle lettere d’amore; voglio avere tutto sopra al tavolo senza saltare i capitoli e senza dare per scontato anche il più limitato particolare, voglio fare il bravo studente, per una volta, e non puntare solamente sulla faccia tosta. Me la prendo comoda nel senso che ci metto tanto; è da non credere quanto materiale probatorio si possa accumulare in soli tre anni di relazione, quanto ne venga fuori anche all’ultimo momento quando si pensava il lavoro oramai finito. Ecco appena rintracciato, in questo preciso istante (ore 5.18) un documento scritto di mio pugno di cui mi ero completamente dimenticato:

G.* dov’è che sei? G. cos’è che vuoi? G. ma come faccio a farti innamorare? Tu dormi mentre io rimango in poltrona e ti mando saluti vari ed eventuali. Ecco, vediamo un po’. Ti saluta la lampada a luce gialla di questa portineria, ti salutano le chiavi delle camere, i porta-chiave, i numeri attaccati, le cassette della posta. Ti salutano i registri da compilare, le schede di notifica, i numeri progressivi, le assenze e le presenze. Ti salutano le foresterie, le federe dei cuscini, la biancheria e il cambio biancheria. Ti saluta lo stanzino dei portieri e il frigo-bar che mi rimproveri, i biglietti attaccati ai vetri, gli avvisi e il telefono che rimane zitto. Ti saluta qualcuno che di tanto in tanto passa e non dice niente. Ti saluta la segnaletica e il piano d’evacuazione d’emergenza, gli estintori rossi. Ti saluto soprattutto io, cara G., che qua non sembra ma mi faccio stanco, mi prendo tutte le occhiaie e divento scorbutico, più del dovuto. Ti saluto io che ugualmente mi mantengo e di nuovo ti saluto. Buonanotte G. P.S. Sono quello nella fotografia. Il primo da destra ma anche da sinistra.
P.P.S. Ma quanto posso essere scemo qualche volta?

(*G. sta per l’iniziale del cognome che nel documento è scritto per esteso.) Così vado avanti, in questa maniera che (e non so se l’ho già detto ma credo di sì) è sicuramente poco salutare, fa male ai nervi, alle ossa, alla circolazione e soprattutto a ciò che ruota attorno al tratto gastrointestinale. È una roba mica da ridere, o se non altro a me non fa ridere per niente, tranne qualche volta, quando magari sono in vena e mi esce una risata isterica, a strattoni, come la marmitta un poco andata di quei motorini che inspiegabilmente si riprendono in salita. Sono le cuciture interne che per qualche strana ragione di tanto in tanto vanno su di giri e fanno un po’ come gli pare, poi tornano giù e si sta peggio di prima visto che quello scatto repentino da centometrista ha sbagliato tipo di corsa e non è servito a niente, se non a finire quel poco di fiato che rimaneva e che sarebbe stato molto meglio centellinare. Ho la sensazione che in qualche modo sia Lei ad aspettarselo da me. Credo che dal suo punto di vista io non abbia mai concretamente fatto niente e, sempre dal suo punto di vista, sarebbe ora che cominciassi a fare qualcosa, qualsiasi cosa. Tuttavia non è per questo che mi sono infilato in una faccenda che sta risultando molto più complicata di quanto pensassi all’inizio. Sarà che ero partito bene, anche troppo, con tutti quei buoni propositi che mi facevano apparire la cosa semplice o per lo meno naturale. Però mi sta venendo il dubbio che non ci sia niente di naturale, e sicuramente niente di semplice, nel crogiolarsi fra quegli scatoloni di vecchi discorsi e discussioni il cui sunto finale è quasi sempre lo stesso: D’accordo, è appurato che il più delle volte non ci sopportiamo, però non diciamo che ci siamo sbagliati, diciamo che sarebbe stato meglio organizzarci. Organizzarci meglio.

(…)

Schiena. Mi ricordo che aveva una schiena lunga, e credo ce l’abbia tuttora. Una schiena come un muro bianco, però morbido e con un buon odore di frutta mista. Soprattutto cocco, kiwi e banane. – Nei. Quanti ne aveva? Diamine, non mi riesce di ricordare il numero esatto. Chissà se si offenderebbe se la chiamassi appositamente per chiederglielo? Comunque ne aveva un bel numero. A me piacevano soprattutto quelli finali, più bassi, meridionali. Ne aveva sicuramente tre o quattro intorno alla natica destra. – A proposito: natiche. In fondo al muro bianco ci trovavo sempre questi due meravigliosi affari a cui non so dare un nome. Non so perché, ma a me le sue natiche hanno sempre fatto pensare alla porta di un saloon: semplice, basilare, povera, eppure uno spettacolo. È il modo in cui si aprono e si chiudono che è uno spettacolo a cui non riesco a dare un nome. Dire natiche è riduttivo, dire culo non è proprio esatto. Lo so che anche la porta di un saloon non rende bene, è un poco stupida come immagine, ma è la prima a cui mi viene di pensare quando penso alle sue natiche. E poi c’è da dire che le porte di un saloon quando si aprono si aprono sempre o su di una bella rissa o su di una bella sbronza, o almeno così mi piace immaginare. – La prima volta che l’ho portata qui, dentro al gabinetto, è stato il giorno che mi ha aiutato a fare il trasloco. Era di lunedì. Non abbiamo fatto niente ma ci abbiamo pensato, soprattutto Lei. – Abbiamo rimediato la seconda volta che ci è venuta. In piedi, davanti al lavandino, molto svelti ma convinti. C’era una lampadina fulminata che rendeva la luce ancora più perfetta. – Le volte dopo sono state molto spesso sotto la doccia. Era che l’acqua calda giocava a nostro favore. – L’ho vista farsi tanti di quei bidet che se adesso mi abbasso sono convinto di trovarci ancora un pelo incastrato sotto al tappo. Legato col doppio nodo. Ma è meglio non rischiare. – L’unica cosa su cui qui dentro non ho capitolato è stata quella di pisciare, seduto sulla tazza, mentre Lei si lavava i denti. Su questo argomento non ho voluto sentir ragioni, le cose erano due: o io pisciavo o Lei si lavava i denti. – Adesso però credo che raggiungerei volentieri un compromesso, anzi, le farei tutte le pisciate che vuole, anche quelle acrobatiche, se solo si decidesse a lavarsi ancora i denti qui dentro. – Adesso. Adesso. Adesso chissà cosa diamine sta facendo. Adesso magari niente, dorme. Ma prima di dormire qualcosa avrà fatto, e non saperlo è più che fastidioso. – Aveva un maglione bianco che era di tre misure sopra la sua. Io glie ne ho lasciato uno mio, blu, dopo che mi si era ristretto in lavatrice. Adesso sono sicuro che le starà benissimo. I pigiama. Me ne ricordo soprattutto due. Uno bianco con i pallini rossi, che si sbottonava come una camicetta. E uno metà bianco e metà rosso, molto invernale, con sopra disegnati tanti gatti. – Andava matta per i pois e per i fiocchi. A volte anche per le acconciature da cinquantenne o sessantenne. – Le piacevano le vecchie collane e i vecchi braccialetti, gli orecchini giganteschi che metteva sua nonna. Anche a me piacevano ma mi sa che non gliel’ho detto troppo spesso. – Dovrei decidermi a scriverle almeno una poesia senza finale tragico. O se non altro almeno una totalmente positiva, senza nessun sottinteso catastrofico. – Dovrei riuscire a fare più di una cosa contemporaneamente. Ma forse no. – Probabilmente dovrei perdere due chili e se c’è tempo scolpire gli addominali bassi. – Sicuramente dovrei fumare meno. – Dovrei anche bere meno vino bianco e smettere completamente con la birra. Prima nemmeno la bevevo la birra. – Dovrei smettere d’aver paura dei supermercati e smettere d’andarci solamente in orari improponibili. – C’è da dire però che l’ultima volta che mi ha abbracciato dentro a un supermercato eravamo davanti al reparto frigo, settore latticini. E ci siamo abbracciati parecchio. – C’è da dire soprattutto che quella volta lì, che è stata la nostra ultima volta insieme in un supermercato, non ci siamo solo abbracciati. Lei mi ha anche detto una cosa all’orecchio, una di quelle cose che non passano inosservate. Mi ha detto, testuali parole: «Oddio, quanto ti amo». Non è tanto per il ti amo ma per l’Oddio: Oddio, Oddio quanto ti amo, non è una cosa che si sente tutti i giorni quell’Oddio. Lì, al supermercato, davanti ai formaggi semi stagionati e alle mozzarelle quell’Oddio ha fatto nel mio orecchio lo stesso rumore che farebbe un palazzo di quindici piani se venisse giù, dopo scarica di dinamite, per fare posto a un altro più bello, non di quindici ma di centoventicinque piani. – Oddio. Oddio. Oddio. Oddio. Oddio. Oddio… Oddio, quanto ti amo. Bisognerebbe avere il porto d’armi per permettersi di dire una cosa del genere. Può essere pericoloso dirlo così su due piedi, soprattutto se non si avverte l’altro che lo stiamo per dire. Oddio. Non so se è normale ma per me questa è una di quelle parole che se messe davanti a quanto ti amo stanno a significare che oramai i giochi sono fatti e che non è più possibile tornare indietro per nessuna, e dico nessuna, ragione al mondo. Oddio, quanto ti amo. – E poi qualcuno si stupisce se ho il terrore dei supermercati…

© Tomas Bassini

Agenzia Pertica: la recensione di Lorenzo Mazzoni su ilfattoquotidiano.it

Agenzia Pertica: la recensione di Lorenzo Mazzoni su ilfattoquotidiano.it

Dopo una serie infinita di fallimenti letterari (il più mirabolante è probabilmente quello legato alla messa in stampa di un libro di pagine bianche, nella speranza di fare successo grazie a un’opera che non stanchi i lettori), Domizio Pertica decide di aprire un’agenzia investigativa insieme alla praghese Venus Diomede, giunta in Italia in compagnia della sua merla parlante. Da qui prende, anzi prosegue, una narrazione surreale che deve molto alla letteratura noir, ma anche al realismo magico di stampo sudamericano, ai delirion the road alla vodka di Venedikt Erofeev e a una lunga tradizione di testi rappresentativi del caos e della delirante società postmoderna globale. Si tratta di Agenzia Pertica, di Luca Ragagnin (Miraggi Edizioni), opera originale, colta e divertentissima difficilmente collocabile nell’ormai trito e commerciale panorama letterario nazionale.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/01/03/libri-quattro-suggerimenti-italiani-di-qualita/4046197/

Non risponde mai nessuno: la recensione di Serena Adesso su mangialibri.com

Non risponde mai nessuno: la recensione di Serena Adesso su mangialibri.com

Livio finalmente abbandona l’autostrada per inerpicarsi tra i tornanti dissestati che lo portano nel paese dove ha trascorso la sua infanzia. Entra nella sua vecchia abitazione. Tutto sembra intatto. Come se il tempo non fosse mai passato. Eppure Livio può ancora distintamente percepire la presenza dei suoi nonni nella vecchia casa. Sua madre si è raccomandata di non “perdere” troppo tempo: una rapida occhiata e via. Eppure ci sono cose che, anche con uno sguardo apparentemente superficiale, tornano alla memoria e fanno male… Il signor Tamberi e la sua famiglia passano l’estate sempre nella stessa cittadina di mare. Ogni anno arrivano a giugno e vanno via a settembre. La moglie è schiva. Lui più solare, aperto. In spiaggia ha paura che suo figlio, che mostra i segni evidenti della malattia, si faccia male o disturbi qualcuno. Gli sta sempre vicino, gioca con lui, coinvolge gli altri ragazzi per non farlo restare solo. Ma gli anni passano, il signor Tamberi non è più quello di prima. È un uomo ormai anziano che porta a spasso accanto a se un ragazzo che resterà sempre un bimbo tra lo scherno degli abitanti della cittadina… Cesare accudisce suo padre, ormai afflitto da demenza senile, aspettando l’aiuto degli assistenti sociali. È stanco. Suo padre è tornato bambino. Lui non può permettersi una badante né suo padre può essere lasciato solo. Gli assistenti sociali regolarmente gli fanno visita, promettono che arriveranno aiuti concreti, ma – si sa – la burocrazia è lenta…

Non risponde mai nessuno è l’ultimo lavoro di Simone Ghelli, classe 1975, autore de L’ora migliore e altri racconti e di un romanzo, Voi, onesti farabutti. Dopo qualche anno di silenzio Ghelli torna con una nuova raccolta di racconti – dieci – che mette a nudo la parte più vulnerabile del nostro essere umani. I suoi protagonisti sono uomini e donne sofferenti, che arrancano, portano dentro di loro ferite indelebili, segni della loro vita, senza cedere mai alla facile debolezza. Il dolore lo si sopporta con un sorriso amaro sulle labbra, con la schiena dritta e lo sguardo rivolto verso la bellezza delle piccole cose. Dieci storie che commuovono, che coinvolgono il lettore, che parlano alla nostra anima. Ghelli utilizza uno stile immediato, paratattico, diretto. Possiamo sentire parte della nostra vita ogni suo personaggio. Il suo occhio si sofferma su un sentimento in particolare che accomuna tutti i protagonisti dei suoi racconti: la vergogna. La vergogna di aver abbandonato un parente che la gente considerava “non normale”, la vergogna per avere un figlio che “cresce solo in altezza” restando un bambino per tutta la vita, la vergogna per avere un padre afflitto da demenza senile e non sentirsi in grado di proteggerlo, di fargli condurre una vita dignitosa. In esergo Ghelli cita Deleuze “La vergogna di essere uomo: c’è una ragione migliore per scrivere?” ed in nuce è tutto qui: è in fondo questa vergogna, questa nostra debolezza, che ci rende umani, bellissimi e sofferenti.

http://www.mangialibri.com/libri/non-risponde-mai-nessuno

San Francisco Rock: la recensione di Marco Caneschi su criticaletteraria.org

I consigli di lindiependente.it per un Natale in musica: c’è anche San Francisco Rock

Il ritratto di una generazione, una nuova rock’n’roll swindle ideata da quattro ragazzi che vogliono realizzare il loro sogno di sfondare nel mondo della musica e per farlo annunciano di aver trovato un vinile inedito di una band degli anni Settanta, gli Sweet Nothing. Con questa idea i protagonisti Jeff, Ben, James e Phil cambiano completamente le loro vite ed esortano il lettore a credere nelle sfide impossibili e surreali con cui ci confrontiamo ogni giorno. San Francisco Rock è l’opera prima di Marcello Oliviero, non soltanto un romanzo di formazione, ma anche una lettura analitica che riflette sulle trame intricate che si creano oggi tra i mass media e la musica.

http://www.lindiependente.it/15-libri-regalare-natale-un-appassionato-musica/

L’uomo tagliato a pezzi, ovvero “Storia e memoria in Corte d’Assise”: la recensione di Mario Talli per il-galileo.eu

L’uomo tagliato a pezzi, ovvero “Storia e memoria in Corte d’Assise”: la recensione di Mario Talli per il-galileo.eu

Storia e memoria in Corte d’Assise

Il pretesto è la ripubblicazione, anche come rimembranza di un periodo di storia sociale, politica e del costume ormai tramontato, di alcuni casi giudiziari maturati nella Torino dei “favolosi” anni ’60, di cui l’autore del libro che li raccoglie fu testimone e resocontista attento nella sua qualità di cronista di Corte d’Assise. Sebbene il titolo del libro – L’uomo tagliato a pezzi – intenda chiaramente sollecitare l’attenzione del lettore su uno qualunque di quei “casi”, probabilmente il più efferato, Antonio De Vito (foto a destra), essendo uomo esuberante e appassionato, si propone in realtà qualcosa di più ambizioso, precisamente una rilettura, con lo sguardo di oggi, di eventi che hanno le loro radici addirittura negli anni Quaranta e Cinquanta, quando egli era un bambino e poi un fanciullo a Torremaggiore nella Puglia ove nacque e dove vide spuntare i primi soldati “mericani” sbarcati da poco che risalivano lo Stivale diretti verso il Nord, un itinerario che una ventina di anni dopo avrebbe intrapreso anche lui sul treno “Lecce-Torino carico di migranti pugliesi poveri e disperati con destinazione Malàno o Turìno…”.

A differenza però di quei suoi conterranei “poveri e disperati”, De Vito aveva frequentato le scuole, aveva studiato legge ed era diventato avvocato e poi, per una coincidenza fortuita, giornalista, professione che avrebbe esercitato fino alla pensione non limitandosi a scrivere articoli ma anche assumendo incarichi dirigenziali negli organismi di categoria. Che la scrittura fosse la sua vera vocazione non possono esserci dubbi di sorta. Basta scorrere questo e gli altri libri che ha scritto per convincersene. La sua prosa è come un torrente in piena: quando esonda, l’acqua produce una serie di ruscelli che si diramano in varie direzioni, a volte convergenti, altre volte no. In questo suo ultimo libro i casi giudiziari si mescolano con alcune esperienze di inviato all’estero per i due giornali in cui ha lavorato: la redazione torinese dell’Unità e La Stampa e con tutta una serie di notazioni e riflessioni pertinenti e stimolanti su aspetti, vicende e protagonisti della vita nazionale, fino a formare un amalgama variamente sfaccettato ma al tempo stesso miracolosamente compatto e unitario.

Mario Talli

http://bit.ly/luomotagliatoapezzi

San Francisco Rock: la recensione di Marco Caneschi su criticaletteraria.org

Vero o falso, solo “San Francisco Rock”: la recensione di Marco Mangiarotti su Il Giorno

Fake fruit. Un romanzo intorno e dentro la musica che si muove in 3D come un iper fumetto prestato al cinema e rompe le regole spazio temporali del racconto. Marcello Oliviero, torinese, musicista, batterista, operatore culturale e comunicatore, si rivela rivoluzionario scrittore con “San Francisco Rock” (Miraggi Edizioni), romanzo figlio della beat generation e della scuola minimalista newyorchese, sceneggiatura credibile di una serie tv. Jeff, Ben, James e Phil si scelgono nella band degli Sweet Nothing a San Francisco, anche se tutto è cominciato e poi ripassa per New York fino al cinematografico finale. Incidono un album che viene stroncato, allora s’inventano un vinile inedito degli anni ’70 ritrovato e una mitica band scomparsa che ritorna.

E  che tutti sono  costretti dal flipper scatenato dei media a ricordare. James è il ponte con Kerouac e il jazz di Charlie Parker, Oliviero ricostruisce al computer l’atterraggio a San Francisco e le strade di una città che non ha mai visto. Cinque anni di lavoro, come per la produzione di una serie o di un film. Parti del racconto rimangono sul web, è un romanzo interattivo, accompagnato da una stimolante playlist pop. «Un romanzo di formazione, una nuova “rock’n’roll swindle” per il fake discografico perfetto». Esordio strepitoso, riflessione intonata sulla comunicazione contemporanea, plot magistrale raccontato da un musicista vero. Ve lo consiglio.

Marco Mangiarotti

http://www.ilgiorno.it/speciali/blue-notes/san-francisco-rock-1.3586401

L’uomo tagliato a pezzi, ovvero “Storia e memoria in Corte d’Assise”: la recensione di Mario Talli per il-galileo.eu

“L’uomo tagliato a pezzi. Delitti e processi dei “favolosi” anni Sessanta”: la recensione di Bruno Gambarotta su Torinosette

Incombono le celebrazioni del ’68, è bene non farsi trovare impreparati”, esorta Enrico Deaglio, presentando il suo “Patria”. Ci aiuta nell’impresa Antonio De Vito che ci racconta cosa furono a Torino i “favolosi” anni ’60 da un singolare punto di vista, la Corte d’Assise, che allora era nella Curia Maxima in via Corte d’Appello. Il nuovo Palazzo di Giustizia, intitolato a Bruno Caccia, sarebbe entrato in funzione solo nell’aprile del 2001. Antonio De Vito è stato fino al 1969 cronista giudiziario per la redazione torinese de “L’Unità”, passando poi a “La Stampa” dove ha lavorato fino al 1994. Il suo libro, pubblicato da Miraggi Edizioni, nel titolo ricorda il caso più clamoroso di quegli anni, “L’uomo tagliato a pezzi”. A Chivasso nella sera del 19 settembre 1962, Ignazio Sedita, 28 anni, appena uscito di prigione, si presenta nella misera casa della famiglia Montalbano dove si trova sua moglie con i parenti e lì viene ucciso. Sono in tanti in quella casa, il cugino Giuseppe La Bella dirà: “Ignazio è stato colpito mentre lottava avvinghiato a me. Io l’ho soltanto fatto a pezzi”. Che saranno ficcati in due valigie di cartone; caricate su un taxi diretto a Savona, saranno poi gettate in una roggia a Ceva.

De Vito riproduce nel libro le sue cronache avvolgendole in “lembi di memoria personale dispersa nel tempo” e restituisce con un suono di autenticità il clima di quegli anni. Non si parlava di cellulari, indagini sul Dna, telecamere di sorveglianza, e la teleselezione sarebbe entrata in uso nel 1970. Era ancora in vigore il fermo di polizia: i tre sospettati dell’omicidio di una gioielliera si presentano rei confessi dopo tre giorni di pestaggi e maltrattamenti nelle celle di sicurezza e per loro fortuna finiranno assolti. I mali della giustizia, lamentati durante le cerimonie di inaugurazione dell’Anno Giudiziario, sono rimasti gli stessi 50 anni dopo. In compenso certi procedimenti ci sembrano lontani anni luce. Il 26 giugno 1963 l’editore Giulio Einaudi, insieme ai tre autori dei “Canti della Nuova Resistenza Spagnola”, è imputato di offese al pudore e vilipendio della religione per due quartine. Quella del vilipendio è assolta per amnistia, per l’altra Sergio Liberovici e Michele Straniero sono condannati a 2 mesi e il libro confiscato. Sfilano nel libro i principi del foro e troviamo storie esilaranti, come quella dell’imputato che riesce a fuggire dall’aula mentre i giudici sono in camera di consiglio.
BRUNO GAMBAROTTA
Non risponde mai nessuno: la recensione di Fabrizio Ottaviani su Il Giornale

Non risponde mai nessuno: la recensione di Francesco Borrasso per sulromanzo.it

I racconti della commedia umana

«Danilo lavorava alla cooperativa, andava al manicomio due volte alla settimana col furgoncino bianco e il disegno di un sole sulla fiancata con cui portava allegria».
I gesti quotidiani e i movimenti consueti: parlare con un amico, preparare il caffè, spostare un oggetto, riguardare una vecchia vhs. Ogni cosa che facciamo assume quasi sempre valore nel momento in cui proviamo a ricordarla. La vita ci scorre spesso di fianco, restiamo lì, immobili, e troppo spesso ci rendiamo conto di non farne parte, o almeno non nella maniera in cui vorremmo.
E poi come una scarica, ci arriva un input, delle volte mentre siamo indaffarati nel fare qualcosa di manuale, ci piomba addosso una storia, un’immagine, un suono, una voce; e siamo costretti a scavare, a trovare elementi di residuo, e quello che ci è appartenuto ci sembra meno sbiadito.

La nostra esistenza non è un atto unico, è composta da momenti, miliardi di momenti che spesso non riescono a restare vicini e se sono gli attimi che danno valore alla vita intera è importante forse riuscire a vivere le nostre emozioni nel durante e non solamente nella memoria, quando tutti sono bravi a dirsi: beh, lì ero proprio felice, e non me ne sono reso conto.
Cerchiamo punti di svolta in modo continuo senza, apparentemente, trovarli mai, semplicemente perché quando ci capitano non riusciamo ad accorgercene; tutto diventa chiaro nel momento esatto in cui iniziamo a raccontare un evento, attraverso le parole e la narrazione, elementi che ci sembravano poco lucidi e distorti, trovano come per magia la loro collocazione.
Simone Ghelli è nato nel 1975, Non risponde mai nessuno è la sua seconda raccolta di racconti, questa volta pubblicata da Miraggi editore.

I racconti che compongono questo libro ci narrano della commedia umana, del vivere quella vita che come un palcoscenico teatrale ci costringe ogni giorno a entrare in scena, con la speranza di non dimenticare nessuna battuta chiave. Siamo all’interno di vite che non sono nostre, ma che ci rimandano l’eco di qualcosa di familiare, e possiamo provare la sensazione che ogni racconto possa essere un nostro personale ricordo, in una frase, una sfumatura, un’immagine.
E ci ritroviamo con Giovanni e le sue idee dolorose (I tafani del Merse), il suo confronto con ciò che vorrebbe essere e ciò che, in fondo, è realmente. Veniamo catapultati nei ricordi di Paolone, nella sua infanzia (Il missile), nella voglia che ha di mantenere stretto un movimento passato ma mai sbiadito. E questi racconti ci parlano di lutti (Con un figlio così), di impossibilità (Non risponde mai nessuno), di confidenze ed errori (Vedevano tutto il suo dolore).
«Con uno stacco siamo di nuovo fuori dalla Turbina. Zoom lento su tre macchine da scrivere impilate una sopra l’altra e infestate dall’edera. È l’immagine più poetica, la più commovente. Dopo il senso di abbandono che ci accompagna per nove minuti, arriva, improvvisa, questa specie di epifania. È qualcosa di definitivo, un monito con cui fare i conti».

Il modo in cui Simone Ghelli ci accompagna in queste storie è romantico, la sua scrittura procede spedita, non perdendosi mai in inutili preziosismi stilistici; ogni racconto possiede la potenza del reale, la durezza della vita e la sacralità della memoria.
I racconti si alternano tra prima e terza persona, ma il gioco dello scrittore riesce talmente bene che, a un certo punto, anche i racconti scritti in terza persona ci possono sembrare introspettivi come quelli in prima persona.
«A vederli insieme così, in certe domeniche a braccetto, la gente giù in paese diceva che potevano sembrare davvero una coppia felice, che l’abitudine e il dolore non li avevano allontanati. Dopo aver passeggiato per il corso si mettevano seduti al bar prima del ponte sul fiume, e non facevano che ridere e guardarsi in quel modo che soltanto gli innamorati. Ma non erano che quaranta minuti, al massimo un’ora, che poi la vita tornava in carreggiata, affaticata dal peso dei problemi; il lavoro che mancava, un figlio ancora in casa a trent’anni passati, un fratello che non si capiva più dove avesse ficcato la testa.»
Sono poche le pagine che lasciano una speranza, è come se la “terribile” recita umana non possa portare altro che dolore e disperazione e anche lì dove si intravede uno spazio di luce il male, e la consapevolezza della condizione emotiva di ogni individuo, riporta una sorta di sconforto che resta come una macchia indelebile.

Non c’è una regola per vivere, non c’è una soluzione al dramma che ci può piombare addosso senza preavviso, non esiste una legge che possa condurci verso una soluzione; esiste solo la maniera che ognuno di noi ha di vivere la propria esistenza, esiste la possibilità di rifugiarsi nel ricordo quando il presente ci appare troppo duro, meschino ed ingiusto.
E anche se a volte tornare indietro nel posto di ciò che è stato può riempirci di scorie, è importante conoscere a memoria quello che siamo stati, quello che abbiamo subito e ciò che ci ha tagliato a pezzettini, per poter cercare di dare al presente una forma quanto meno diversa.

Francesco Borrasso per www.sulromanzo.it

Agenzia Pertica: la recensione di Lorenzo Mazzoni su ilfattoquotidiano.it

“Agenzia Pertica” secondo Enrico Pandiani

Agenzia Pertica, edito da Miraggi, è il nuovo libro di Luca Ragagnin, autore prolifico e colto, che ci ha abituati a storie diverse, a cambi improvvisi di direzione, ricerche alcoliche, tabagismo e musica jazz. In questo romanzo racconta, strizzando l’occhio a se stesso, le avventure di uno strano quintetto:
Domizio Pertica, scrittore fallito, ma bevitore più che consapevole;
Venus Diomede, apparizione mozzafiato, piuttosto reale;
Zappa, un merlo indiano che straparla e beve vodka;
Pepe, una gazza ladra in cerca di redenzione;
Trambusto, un gatto filosofo piuttosto furbo.
Insieme, questi cinque guasconi fondano un’agenzia di investigazioni il cui scopo principale è trovare un alibi per i delinquenti.
Con scrittura surreale e nervosa dalla quale traspaiono un certo rancore e un’allegra malinconia, Luca Ragagnin ci racconta, tramite i pensieri dei suoi personaggi, una fiaba contemporanea che pare prendere in giro la realtà. Un po’ Bolaño, un po’ Perec, il racconto si snoda in un intreccio di situazioni spesso divertenti. La scrittura, che in certi capitoli sembra accelerare in una sorta di gramelot comprensibile, in altri si placa portando il lettore alla ricerca di un senso compiuto che i protagonisti, al contrario, si direbbe non vogliono trovare.
Le ultime pagine elencano, appendice o catalogo, i ventisette romanzi scritti da Domizio. Esilaranti le critiche e i nomi delle testate dalle quali sono tratte. Una per tutte:
“È un caso interessante, degno della nostra rivista. L’autore, non il suo libro.” Il Giornale dei Casi Clinici.