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Cuenca vince il premio della Fondazione Biblioteca Nazionale brasiliana. “Ho scoperto di essere morto” dal 2018 con Miraggi

Cuenca vince il premio della Fondazione Biblioteca Nazionale brasiliana. “Ho scoperto di essere morto” dal 2018 con Miraggi

Prestigioso riconoscimento per João Paulo Cuenca. Allo scrittore brasiliano è stato assegnato il premio della Fondazione Biblioteca Nazionale, che – dal 1994 – va ad autori, traduttori e progettisti grafici che hanno dato lustro alla produzione intellettuale ed estetica del grande paese sudamericano. L’annuncio è stato dato lunedì 27 novembre a Rio de Janeiro, Cuenca si è imposto con “Descobri que Estava Morto” nella sezione romanzi, intitolata allo scrittore e poeta Joaquim Maria Machado de Assis.

Miraggi ha acquisito i diritti dell’opera per l’Italia, che sarà presentata in anteprima a Roma in occasione di “Più libri più liberi”, la fiera dedicata all’editoria indipendente e ospitata dalla Nuvola di Fuksas, all’Eur, dal 6 al 10 dicembre. Con il titolo “Ho scoperto di essere morto”, tradotto da Eloisa Del Giudice, il romanzo di Cuenca sarà in vendita da gennaio 2018.

Funambolico Ragagnin, un ritratto cubista di sé. La recensione di Alessandra Chiappori su LuciaLibri

Funambolico Ragagnin, un ritratto cubista di sé. La recensione di Alessandra Chiappori su LuciaLibri

“Agenzia Pertica” dello scrittore torinese è un libro irriverente nei confronti del lettore, un falso thriller che – digressione dopo digressione – si rivela un esercizio di consapevolezze metaletterarie, un viaggio un po’ onirico, un po’ alcolico e un po’ spericolato nel mondo della narrazione

Agenzia Pertica (176 pagine, 16 euro) è il nuovo lavoro di Luca Ragagnin edito dalla torinese Miraggi. Non a caso, questo romanzo-non-romanzo inaugura una nuova collana che la casa editrice ha deciso di chiamare Scafiblù: così infatti a Napoli erano chiamate le imbarcazioni utilizzate per il contrabbando di sigarette. A ispirare Scafiblù è dunque un’idea di clandestinità applicata a quegli autori italiani che hanno il coraggio di portare sulla pagina messaggi scomodi, disobbedienti, perché no anarchici, in un anticonformismo che può esser di stile, oppure di contenuti. Un contrabbando che diventa un obiettivo nei confronti del confine implicito che distingue ciò che si è soliti trovare in libreria dai libri che invece, probabilmente, non ci finiranno mai.
E a ben vedere – anzi, a ben leggere – il libro di Ragagnin approda in libreria carico del suo contenuto di contrabbando, fuori da ogni schema, insofferente alle regole della narrazione e irriverente nei confronti del lettore, fedele alleato al quale dovrebbe, con buona probabilità, affiancarsi agevolando quell’esercizio così naturale e spontaneo da apparire forse scontato: la lettura.

Scrittore o investigatore privato?
Ma di scontato in questo romanzo non c’è niente: nemmeno il fatto che si possa parlare di un romanzo. Domizio Pertica è il protagonista di questa strampalata storia, è un autore fallito, al cui attivo ci sono ventisei romanzi diversissimi per temi, struttura e genere, per soluzioni editoriali e per editori, via via cambiati fino all’auto-pubblicazione. Una sola cosa accomuna tutte le sue opere: l’insuccesso di pubblico. Ragione per cui, dopo tanto lavoro inutile, Domizio ha pensato di lasciar perdere la scrittura e di dedicarsi a un’altra attività, un’agenzia investigativa privata, che si chiamerà Domizio Pertica Divinazioni & Sbugiardamenti & Alibi. Collaboratori dell’impresa, Venus Diomede, praghese bionda e in abiti succinti conosciuta in un bar di dubbia fama e diventata la compagna con cui condividere la triste mansarda torinese e una merla indiana alcolista di nome Zappa. Niente è scontato, nemmeno il fatto che, in quanto animale, Zappa non parli. Infatti la merla è più che loquace, e sul cedro del Libano davanti casa, dove ama svolazzare, fa amicizia con altri esseri tra cui Pepe la gazza e Trambusto il gatto poeta che si esprime in rima.
Obiettivo tutto particolare dell’agenzia, sarebbe quello di fornire alibi ai delinquenti, casi risolti a cui il romanzo dovrebbe dare spazio, raccontandoli. “Sei qui per leggere un thriller”, scrive Pertica, attivando un’attesa incessante e la suspense tipica del genere. Ma poi apre, divaga, non torna, non spiega, non chiude, nella disattesa totale è lui stesso a fornire gli alibi, sbugiardandosi e smontando la sua stessa scrittura, in una rivelazione un po’ alcolica, un po’ onirica e forse un po’ disperata a cui la lettura, interruzione dopo digressione, finisce per assomigliare.

Un non-romanzo tortuoso e irriverente
C’è un inizio della storia, anzi no, è un falso inizio, come rassicura la voce narrante. Da quel momento, cioè da subito, appare chiaro come la storia non inizi, ma si avvii invece un tortuoso percorso tra le voci di Domizio, del narratore, di qualcun altro che fa le sue veci e irrompe nel testo. Il lettore cerca, attende, immagina e passeggia nei boschi narrativi colto di sorpresa a ogni capitolo. Perché naturalmente, in questo romanzo tutto speciale, anche gli elementi paratestuali contravvengono alle regole, e dunque i titoli dei capitoli parlano, scherzano e giocano. Il disinvolto appello al Prezioso Lettore diventa una delle cifre distintive del testo di Ragagnin, disinibito e al contempo sagace, inaugura un capitolo zero che scivola dalla libreria sotto casa a Céline e a Mallarmè, con strizzate d’occhio ironiche di tanto in tanto, spruzzi di realtà che inserita sulla pagina bianca diventa elastica, si adatta. E poi sberleffi al mondo dell’editoria, che Domizio ben conosce. “Scemo mi ci sento”, ammette, salvo poi correggere il tiro e interrogarsi sul fatto che forse scemi erano tutti gli altri, i lettori che non lo capivano e ancora di più gli editori. Un modello da cui allontanarsi, magari sperimentandone altri, e ancora altri, in un pastiche-metaromanzo come questo, che mescola tutto, e in continuazione mette in dubbio, disattende le aspettative del lettore portandolo fuori dai cliché interpretativi, e chiedendogli complicità.
Prezioso lettore dice la voce narrante di volta in volta diversa, mutante e velata di quella finzione che, altrove, in un romanzo classico, sparirebbe dopo la prima riga. È uno spericolato gioco a zig zag, su e giù per le scale dei congegni narrativi, in barba al pubblico, e soprattutto a quelle regole editoriali (ma, ancora prima, narrative) che ben poco tra le righe sono criticate per la propria rigidità, il proprio essere inespugnabili e inattaccabili. Del resto, Pertica le ha provate proprio tutte, anche pubblicare un libro bianco, ma non c’è stato niente da fare, il successo di scrittore non lo ha incoronato mai. Epilogo inevitabile, l’appendice, che raduna stralci dei ventisei romanzi di Pertica che hanno segnato il fallimento della sua carriera, ognuno con relativo esergo e commento di improbabili e divertenti recensori

Un funambolico esercizio narrativo
È un florilegio di generi, stili, forme e soluzioni narrative che, tutte insieme, scompaginano la narrazione, destrutturando l’attesa del lettore e costruendo invece un mirabolante esempio di romanzo il cui cuore è proprio il suo stesso essere un non-romanzo. Magie della scrittura, punti di forza di una metanarrazione che, seppure anch’essa parte di quel mondo da bistrattare, è la chiave di apertura del congegno di Ragagnin per il lettore. Tra dialoghi assurdi, voci e narratori, il lettore è lanciato in mezzo al campo pluristratificato di una metanarrazione che racconta di sé, del suo farsi ma anche del non riuscire a farsi, delle abilità da scrittore affatto improvvisato, dei giochi tra enunciatori ed enunciatari di quella riprovevole letteratura da scribacchini furbi, che agganciano il lettore e lo portano con sé fino in fondo, decretando il successo. Invece qui non c’è aggancio ma costante sgancio, inciampo, non-narrazione costruita con arguzia dentro una cornice narrativa, dove anche gli elementi paratestuali concorrono al tempo stesso ad abbozzare una cornice di insieme e a smontarla, rivelandone con ironia e un po’ di amarezza la consistenza nulla.
Ma chi è poi, davvero, Pertica? Basta una manciata di pagine e già ci è chiaro che la voce che ci si rivolge in presa diretta è un prodigio della scrittura, mutevole, scrittore fallito, coscienza alta, trasformista, dialoghista, filosofo e persino fine poeta e rimatore. Domizio Pertica, un po’ autore, un po’ maschera, un po’ narratore, un po’ essenza pura della fantasia di uno scrittore a cui crediamo di avvicinarci sempre più, scoperchiando matrioske, smontando falsi inizi, incipit e attese fomentate e mai raggiunte.
“Avete mai visto un romanzo thriller incominciare con una digressione una divagazione di carattere squisitamente letterario” si domanda il nostro Domizio Pertica, o chi ne fa le veci. La vicenda thriller, misteri e colpi di pistola, tarda ad arrivare. Il dubbio, alla fine, è che davvero si possa parlare di vicenda e non, invece, di viaggio un po’ onirico, un po’ alcolico e un po’ spericolato nel mondo della narrazione. E se è vero che talvolta, per essere capiti, i romanzi giunti alla fine devono essere ripresi dall’incipit, tornando all’inizio palesemente finto e ingannevole, sembra chiaro come questo primo esperimento inaugurale di Scafiblù sia un funambolico esercizio di consapevolezze metaletterarie, registri, voci e apparati narrativi piegati all’ironia un po’ pessimista e un po’ divertita di un autore, che dipinge in modo cubista il ritratto di sé scrittore come cliché: uno, nessuno e forse centomila Domizio Pertica.

http://www.lucialibri.it/2017/10/29/funambolico-ragagnin-ritratto-cubista-se/

Al disagio della vita non risponde mai nessuno: le storie di Simone Ghelli

Al disagio della vita non risponde mai nessuno: le storie di Simone Ghelli

Non risponde mai nessuno” segna l’esordio di Simone Ghelli con Miraggi. Dieci racconti con un minimo comune denominatore che deriva da un’esperienza personale dell’autore, quella fatta come obiettore di coscienza presso un ospedale psichiatrico di Siena, città dove si è laureato. “La componente personale è sempre molto forte. Parto da un’esperienza vissuta, poi modifico. In questo caso si parla di gente che soffre una situazione di disagio di varia natura, di persone che si ritrovano abbandonate o si sentono abbandonate”.

Lo definisce bene la prefazione di Wu Ming 2.
Il vero filo conduttore è la vergogna, dei personaggi verso se stessi e dell’autore verso il genere umano di cui fa parte. Si permette che certe situazioni esistano, voltandosi dall’altra parte. Si vive nell’indifferenza, senza fare nulla”.

Come è nato il libro?
All’inizio era molto diverso. Quasi un anno fa mandai la raccolta a Miraggi, era parecchio disomogenea e diversi lavori erano già apparsi su riviste. Non pubblicavo da tanto, avevo bisogno di uscire dal guscio. Hanno letto, è piaciuto, mi hanno fatto sapere che non c’era fretta. Se c’è questo tempo, mi sono allora detto, riprendo il materiale. Per la prima volta avevo la fiducia dell’editore e la possibilità di lavorare senza pressioni. Sono nati altri racconti e, alla fine, dei dieci originali ne sono rimasti la metà”.

Perché la scelta del racconto?
Perché è la forma in cui penso di esprimermi meglio. Ho scritto un paio di romanzi brevi, fatico con la forma più lunga. Come Raymond Carver, che abbandonò il suo romanzo perché si annoiava… In effetti le idee di molti racconti sono tentativi di scrivere romanzi perché ho comunque questa specie di tarlo. Poi ci lavoro sopra, tenendomi l’idea forte”.

E viene fuori un lavoro a tutto tondo, come un disco.
Mi piace l’idea di un libro come un album. Non a caso il titolo è quello di un racconto, come la canzone che dà il titolo a un disco”.

Non disturbare: due risate d’autore. La recensione di Simona Scravaglieri su Letture Sconclusionate

In queste ultime settimane vi ho parlato un po’ di tutto: gialli, romanzi, thriller, saggi sulla vita di grandi personaggi e via dicendo. Ieri mi domandavo cosa mancasse e poi mi è venuto in mente che io, ultimamente, ho letto anche alcuni libri divertenti. L’aspetto bello di leggere un libro divertente è non solo che ridi dall’inizio alla fine ma che anche, se ben scritto, rimani con quella bella sensazione di aver avuto e di essertela pure goduta. Questa è la storia di un autore capellone e figo, che gira in moto e che si inginocchia solo davanti ad un re, suo figlio. E’ la storia di casa Marinaccio dove arrivano telefonate dei call center che ti vogliono vendere la qualunque e di un citofono gettonatissimo da venditori di robe varie e compratori di anime per la propria congrega. E’ la storia di come affrontare diversamente la pesantezza della vita moderna anche se guardandola questa vita, a volte, pare di scorgere anche il passato da cui viene. Questa è la storia che raccoglie post pubblicati per divertimento che poi sono diventati un libro spassosissimo che fa piacere anche rileggere. Cosa c’è in questo libro insomma? Non una storia unica ma una serie di dialoghi surreali intervallati da dei piccoli racconti che sono dei castoni estremamente affascinati. Immaginate che in una casa vi siano due coniugi, nell’altra stanza sentite il loro figlio mentre mugugna concentrato sul gioco che sta facendo. Squilla il telefono di casa e lei sospira quando vede il marito partire di gran carriera per andare a rispondere. Lui alza la cornetta e si pregusta tutti i possibili modi per poter ingarbugliare la precisa scaletta che ogni operatore deve per forza seguire per poter costringere il malcapitato ad acquistare quello che sta vendendo. Ecco, questo è quello che immagino avvenga giornalmente in casa Marinaccio. Il resto come i dialoghi, la perplessità del povero operatore incappato in questa situazione surreale o il testimone di Geova che ha citofonato al campanello -che si sa essere l’antro della prova più ardua della sua vita-, è tutto scritto da Claudio e, sebbene sia fatto di botta e risposta velocissimi e che non danno scampo, il tutto è davvero divertente.

Ecco se non siete pronti ad accettare che si possa comprare un buon libro possa anche suscitare ilarità avete un concetto ben strano della letteratura. Se c’è una cosa che ricordo come la prima volta che l’ho letto, è le risate che mi sono fatta quando leggevo dell’annosa lotta per smettere di fumare ne “La coscienza di Zeno” e come mi sono stupita che un “classico” potesse esser così divertente, non tutto d’accordo, ma quel pezzo era davvero spettacolare. E Claudio ce lo dimostra con quelle piccole ma sentite piccole foto di situazioni, che ci racconta a puntino, in piccoli capitoli che intervallano i dialoghi. Non è solo un interrompere il ritmo dell’ironia, ma è un vero e proprio momento di relax fra lettore e scrittore  a dimostrazione che la realtà ci riserva più di quel che ti aspetti e che suscita emozioni solo se la si sa raccontare senza orpelli di sorta. Così la coppia anziana che mangia al ristornate, il saccente del bar e via dicendo, tradiscono il senso del mondo che passa e ci permettono di guardare in faccia un’altra epoca e un altro modo di pensare. Non è che non si evolva, ma solo che, ad una certa età, non si è più flessibili come una volta – sia fisicamente che intellettualmente – e certe volte l’adattamento richiede più volontà e tempo del previsto.

A questo fa da contraltare la considerazione che il marketing stia impoverendo il mondo della vendita e l’uomo in generale. La normalizzazione dell’uomo e l’incasellamento in tipologie di utenza fanno sì che l’operatore non possa inizialmente e non voglia successivamente andare oltre la strada che gli viene imposta. Diventa difficile capire che chi stai chiamando è una persona e che devi interagire con lei per arrivare al nocciolo duro e poter vendere. Così quando l’operatore che immagina e rappresenta nitidamente Marinaccio arriva a chiamare proprio lui la contrapposizione fra marketing e uomo diventa come quella fra ordine limitante e caos creativo. Inutile che vi dica chi vince. Dei dialoghi qui riportati solo alcuni sono usciti su FaceBook e hanno avuto un gran successo e io non nascondo che, contrariamente alla mie abitudini, ogni tanto vado sulla bacheca di Claudio a vedere se ne ha pubblicato un altro. La scrittura è fresca, ritmata e divertente. Non è eccessiva, l’alternanza fra dialoghi ironici e i piccoli castoni è ben dosata. Ben scritto, nessuna parola più del necessario serve né per la battuta e tanto meno per i momenti un po’ più seri. Nella speranza di non ritrovarmelo davanti a qualche cantiere, ne sarebbe capace, a commentare con i nonnetti lo stato dei lavori, io vi consiglio di darci uno sguardo a questo libro, di certo non lo rimetterete giù. Ricordate che una risata non ha mai fatto male a nessuno.

https://letturesconclusionate.blogspot.it/2017/10/non-disturbare-claudio-marinaccio-due.html?m=1Simona

Non disturbare: la recensione di Simona Scravaglieri su Letture Sconclusionate

E ripartiamo questa settimana dall’ultima recensione della scorsa, sbirciando nel libro di Claudio Marinaccio “Non disturbare”. Il bello di questo libro è che, non essendo un romanzo, ma una raccolta di dialoghi e racconti si può leggere anche un po’ per volta mentre il problema è che, come inizi a leggerlo, è talmente divertente che non lo metti più giù fino all’ultima pagina. Come detto è un modo diverso con il quale guardare a tutto ciò che ci da fastidio abitualmente: i call center, i venditori porta a porta, i testimoni di Geova, i tuttologi e chi più ne metta. Possiamo scegliere di subirli o seguire l’esempio di Claudio che, a quanto pare, coglie l’opportunità per ridicolizzare, con lo stile e il semplice buon uso dell’italiano, tecniche di marketing che sono diventate obsolete e controproducenti e che però in Italia vengono ancora utilizzate largamente nella speranza che il malcapitato abbocchi.
Si legge bene questo libro, in parte perché, Marinaccio, ha dalla sua l’esercizio continuo nello scrivere pezzi per riviste online e cartacee -e quindi ha quella naturale propensione dei giornalisti a individuare e perseguire il punto di quello che si racconta in poco spazio- e per il resto perché riesce a tenere un ritmo incalzante, a sottolineare lo scambio di battute, e a rallentarlo ove occorre, per evidenziare immagini particolari.
Come titolava il libro di Sini premiato allo strega qualche anno fa “Resistere non serve a nulla”, a buon intenditore poche parole!
https://letturesconclusionate.blogspot.it/2017/10/dal-libro-che-sto-leggendo-non.html

Memorie di uno psicopatico: la recensione di Paolo Risi su Zest Letteratura Sostenibile

Venedikt Vasil´evič Erofeev (1938-1990) è stato uno scrittore russo. Alcolista, accattone, randagio e, forse proprio grazie a queste peculiarità, garante di un alterità disinteressata e sotterranea, antitetica rispetto al sistema politico e filosofico del regime sovietico. Memorie di uno psicopatico, diari e appunti giovanili, seguono Venedikt nel periodo racchiuso tra l’ottobre 1956 e il novembre 1957. Si sarebbe potuto rivelare un tempo di passaggio, la transizione che prelude all’età adulta e alla collocazione tra le fila dei buoni cittadini, ma per Erofeev quell’anno e poco più delineò la virata scomposta verso la terra dei reietti. Furono 13 mesi cruciali per la sua vita, scanditi dall’ammissione con lode all’Università Statale di Mosca alla successiva espulsione, dal primo impiego al successivo licenziamento. Venedikt sceglie quindi di esplorare e respirare, in piena coscienza, i margini della società sovietica. Pare di sentire i rimbrotti, le accuse contro un giovane che, nonostante le eccellenti qualità, si sta allontanando dalla via maestra, dal binario ideologico, estetico e letterario. Assistiamo al tirocinio di uno scioperato, di un amatore occasionale, di un senzatetto che spreca il suo tempo sui libri, a rincorrere una personale riconsiderazione del dissentire e del rivelarsi al mondo. Come davanti a uno specchio deformante Erofeev vede apparati e membri di partito contorcersi, contempla il riflesso seducente del libero arbitrio e lo pone a fondamento della propria poetica. A 17 anni e poco più decide di assumere su di sé il peso della contraddizione, il compito di instillare il dubbio su morale, società, letteratura, mezzi di produzione, senso religioso e quant’altro. È la formazione spirituale (anche in senso alcolico) di chi realizzerà, circa dieci anni più tardi, il capolavoro Mosca-Petuški, viaggio e cammino di espiazione dello scrittore attraverso i sobborghi di Mosca verso Petuški, un piccolo centro non lontano dalla metropoli. La libertà che gli è data dalla strada, dal non possedere nulla e dalla possibilità di poter usufruire di briciole e parole in prestito, rappresentano il motore dell’opera erofeeviana. È uno stile di vita che contempla il pericolo, l’eventualità di rotolare esanime nei fossi e nelle gazzarre da bar, ma che allo stesso tempo è propedeutico all’accumulo, seppur caotico, di dati e formule esperienziali, di precursori dell’invenzione letteraria.

Il venerdì è blu, incredibilmente blu, talvolta si carica di viola, talvolta ha riflessi azzurri, ma in ogni caso è immancabilmente blu. Il sabato ricorda il colore del tuorlo d’uovo, liscio, giallo e brillante; verso sera diventa roseo. La domenica è rosso sangue, d’inverno è scarlatta. Se la si guarda dalla parte del venerdì blu sembra vermiglia, ma è di per sé associata a bandiere e a un muro di mattoni. Il lunedì è così rosso che sembra nero. Il martedì è marrone chiaro. Il mercoledì appare bianco a un occhio distratto, ma in effetti è di un biancastro torbido, nel quale è difficile distinguere un colore definito. Il giovedì è verde, senza alcuna impurità.

Sventolando il vessillo della provvisorietà, Venedikt Erofeev rinuncia a combattere contro le istituzioni e il mondo esterno. La sua follia, il suo autoproclamarsi alieno, abbraccia una sorta di comunione con il divino, che si configura nell’immaginario ortodosso con il termine Jurodstvo, la follia in Cristo. “La scelta del giovane Venedikt” scrive Lidia Perri, che ha tradotto l’opera per Miraggi Editore e ne ha curato l’introduzione “è quella di essere reietto, di restare ai margini della società, di vivere di stenti, di privarsi di una vita materiale per avvicinarsi al divino. La figura del folle in Cristo ha un ruolo importante nella religione ortodossa, in quanto prescelto che si trova in uno stato di costante alterazione della percezione, cosa che lo eleva agli occhi del popolo”. Questa specie di lasciapassare sciamanico, di sigillo culturale e religioso, permette allo scrittore, in modo particolare nei dialoghi, di esibire la propria e l’altrui carnalità. Personaggi e caricature avvampano dalla pagina con una potenza misteriosa, colpi di rasoio e sberleffi rivolti al senso comune si alternano pagina dopo pagina e deflagra il sarcasmo contro il regime oppressivo, che impedisce libertà di espressione e di pensiero. Ma Venedikt è pur sempre un uomo mescolato alla polvere della strada, possiede una formazione che non gli permette di annunciare e promuovere verità. Dai bassifondi non c’è modo di sobillare, di attardarsi in analisi o storicizzare ciò è semplicemente e tragicamente vita. Con Memorie di uno psicopatico Erofeev mostra  di essere poeta e prosatore, intellettuale e polemista. Nelle pagine del suo diario trova spazio l’erudizione (quella che freme, quella dei 18 anni), si dilata un lucido e personalissimo filosofare, intriso di paradossi e goliardia. A tratti la comprensibilità delle considerazioni si sfrangia, assume connotati aneddotici, il rimuginamento alcolico libera il campo alla poesia, all’impollinazione dei sensi.

Lidia Perri, sempre nell’introduzione, evidenzia come i diari giovanili di Erofeev si accostino a una tradizione letteraria senza eguali e propongano al contempo tendenze e nuove fibrillazioni ideative: “Memorie di uno psicopatico è un’opera ambivalente, che si pone nella scia della tradizione, configurandosi come l’ultima delle Memorie, così caratterizzanti la letteratura russa da Gogol’ a Dostoevskij (si pensi a Memorie di un pazzo del primo e Memorie dal sottosuolo del secondo), e raccontando l’ultimo jurodivyj, il folle in Cristo: figura della tradizione ortodossa ma anche letteraria, presente in Leskov e in molti altri; al tempo stesso però, Venedikt Erofeev inaugura un nuovo approccio alla scrittura, che da lì a breve sarà chiamato Postmodernismo, nel quale si inserisce grazie ad artifici, quali, per esempio, il citazionismo e la fusione di generi”

San Francisco Rock: un romanzo generazionale tra musica e fake news

San Francisco Rock: un romanzo generazionale tra musica e fake news

San Francisco Rock è l’opera prima di Marcello Oliviero, laurea in lettere e vita professionale particolarmente intensa. E’ un romanzo che nasce da una passione personale, legata alla musica. Ma con un tema di fondo quanto mai attuale. La musica innanzitutto: “Ho iniziato a scrivere quando ho chiuso con il mio gruppo i Gardening at night. Eravamo in 5, io suonavo la batteria. Facevamo musica indie, siamo andati avanti per tre, quattro anni. Avevo ristrutturato la mia vita, sentivo la necessità di fare qualcosa e ho iniziato a scrivere.Volevo raccontare una storia che mi sta a cuore, di ragazzi che cercano di trovare una strada nella vita. Non potevo ignorare la musica, che è stato uno degli aspetti più importanti della mia esistenza”.

La musica, quindi. Ma anche un filo conduttore che si innesta nella realtà dei nostri giorni, ovvero le fake news.
Sono quattro ragazzi che vogliono emergere. Un giorno fingono di aver trovato un vinile degli anni Settanta, in cui però mettono le loro canzoni. Il trucco nasce come la volontà di ribellarsi a un sistema che non li considera, diventa la necessità di creare una notizia per far sapere che anche tu hai una storia, e qualcosa, da raccontare. Vogliono rendere vivo il loro sogno di suonare. Pubblicano il disco e lo danno in pasto a un universo che, spesso, non sa distinguere la verità tra ciò che non lo è”.

Si può parlare di menzogna a fin di bene? In fondo non fanno male a nessuno…
La storia ruota attorno alla menzogna come necessità di trovare una propria via. La menzogna che si trasforma in una storia rende appetibile la realtà, che – vista da fuori, quella altrui – ci sembra sempre dorata. Noi abbiamo questo problema: sembra che intorno tutto funzioni mentre noi non riusciamo a combinare nulla. Poi ti accorgi che questa perfezione non esiste”.

Quale personaggio impersonifica al meglio quello di protagonista-vittima della menzogna?
Si vede molto in Keith. E’ un vecchio bluesman che ha avuto successo con due canzoni e poi si è bruciato tra droga e alcol, mandando la vita a rotoli. Potrebbe essere un misto tra Mick Jagger e Keith Richards, se non fossero diventati i Rolling Stones. Keith torna alla ribalta accodandosi alla storia dei protagonisti, rendendola così reale: su appropria di questa menzogna”.

San Francisco Rock è una storia corale.
Lo spirito dei quattro è quello di un gruppo, di una collaborazione, con i pregi e i difetti che ci sono nell’equilibrio delle varie pulsioni. La distruzione di una band è sempre dietro l’angolo. Loro trovano l’unità e superano le sfide. Nessuno è meglio di un altro, ognuno porta se stesso”.

E San Francisco Rock è a sua volta parte di un progetto.
Di un progetto creativo. Ci sono io, ovviamente. Poi c’è Giulia Ronzani, una fotografa: due sue immagini sono sulla copertina del libro. E poi c’è Nicola Cavallaro, cantante, arrivato quarto a The Voice France nell’ultima edizione. Lui ci ha messo la voce credendo e condividendo questo sogno. E’ un libro che si trasforma in conoscenze, in relazioni. Fai tutto per gli altri e con gli altri. C’è sempre stata grande condivisione tra noi tre e il libro non sarebbe nato da me solo, anche le canzoni. Magari sarebbero state diverse, ma c’è la forza di far uscire le cose con la creatività degli altri”.

Letteratura russa, il miraggio di Venedikt Erofeev. E poi Roberto Saporito, Claudio Marinaccio e Nicola Manuppelli. La recensione di Lorenzo Mazzoni su Il Fatto Quotidiano

 

Rappresentante del caos e del postmodernismo d’Oltrecortina, Venedikt Erofeev è una delle più rappresentative incarnazioni della letteratura russa del secondo Novecento. Condusse una vita dissestata, dedita all’alcolismo e all’accattonaggio, segnata da un continuo vagabondaggio di città in città. Scrisse la sua opera più importante, Mosca-Petuškì, nel 1970 (pubblicata inizialmente solo in Israele), in cui l’alter ego di Erofeev vaga per la città come un ubriacone, scoprendo infine la propria dimensione esistenziale.

Da poco è uscita, per la prima volta in Italia, Memorie di uno psicopatico (traduzione di Lidia Perri) per i tipi di Miraggi edizioni, nella collana Tamizdat (mai termine è stato più appropriato, in quanto nel blocco sovietico si indicavano con questo termine le opere, per lo più straniere, fatte circolare clandestinamente, destino che tutti i lavori di Erofeev hanno subito fino alla caduta del Muro).

Memorie di uno psicopatico è una raccolta di diari giovanili che mette in luce i temi dellautodistruzione e dei mali della società contemporanea. Mischiando esperienze autobiografiche con riflessioni filosofiche e grottesche, talvolta assurde e comiche, l’autore riesce a dare un ritratto onesto e impietoso della Russia destalinizzata. Tutto passa attraverso l’alcol. Bere e scrivere sono collegati: una via di fuga dalla pochezza quotidiana ed estasi della libertà emotiva, il lirismo e il cinismo. Una testimonianza indimenticabile di un grande scrittore che già da giovane non faceva sconti a nessuno, a partire da se stesso.

Sempre per Miraggi edizioni sono usciti altri testi interessanti, molto diversi tra loro. Si tratta del nuovo, brevissimo romanzo di Roberto Saporito, Respira, viaggio letterario sulla morte, legato idealmente al crollo delle Torri gemelle, da cui prende spunto il plot, e che investiga, supportato da una miriade di consigli letterari e di citazioni, sull’evasione e sulla libertà spirituale e intellettuale. Non disturbare, di Claudio Marinaccio, dialoghi e riflessioni (più taglienti le seconde) di vita quotidiana. Intoppi di comunicazione che assillano tutti: telefonate con offerte commerciali, i testimoni di Geova, incontri in metropolitana, spalle su cui piangere dopo una delusione d’amore. Quello che dice una cameriera, di Nicola Manuppelli, raccolta poetica incisiva e ritmata che deve molto a scrittori americani contemporanei, di cui l’autore è un importante traduttore e biografo.

http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/10/03/letteratura-russa-il-miraggio-di-venedikt-erofeev/3891776/

Agenzia Pertica: il “tristissimo romanzo comico” di Luca Ragagnin inaugura la collana ScafiBlù

Agenzia Pertica: il “tristissimo romanzo comico” di Luca Ragagnin inaugura la collana ScafiBlù

Luca Ragagnin è al quarto libro con Miraggi. Ma questo è speciale, per due motivi: perché si tratta del primo romanzo, e perché con “Agenzia Pertica” Miraggi inaugura la collana ScafiBlù, dedicata solo ad autori italiani. “E sono molto contento di essere il numero uno”, dice Ragagnin, autore di quello che definisce “un tristissimo romanzo comico”.

Perché questo ossimoro?
“Domizio Pertica è un uomo che vuole fare lo scrittore. Pubblica, ma non riesce a vivere di questo lavoro. Perde i lettori, addirittura la critica lo prende in giro. Con un atto rabbioso decide di cambiare vita e apre un’agenzia investigativa. Incontra una giovane praghese, con cui si fidanza, e lei porta da Praga il suo merlo indiano parlante. All’agenzia si uniscono una gazza ladra e un gatto di strada”.

Che razza di agenzia è?
“Sui generis, nessuno ha sostenuto gli esami per ottenere la licenza. E’ una banda di scalcagnati che ha come obiettivo trovare gli alibi per i delinquenti ma che non riesce a combinare nulla. E’ un tristissimo romanzo comico perché c’è un diffuso sentore di cose perdute e di sconfitta. La compiutezza di tutti questi personaggi si avvera nella sconfitta. Pertica perde l’amore per la scrittura. Venus Diomede perde la sua città. Il merlo perde una lingua che conosceva, venendo in Italia. E la gazza è single perché ha ammazzato la sua consorte: le gazze, come le tortore, sono inseparabili”.

E’ comunque una ben singolare compagnia di giro…
“Più che altro è un guscio narrativo, tutto si gioca sulla lingua e sui registri. Su quello che succede tra parentesi in una realtà che non parte mai. Ognuno dice la propria, animali compresi. E il trait d’union che attraverso le vicende è l’alcol, la vodka: bevono tutti come pazzi, anche gli animali tranne il gatto… I registri sono giocati molto sul basso, verso lo scorretto. A fare da contrappunto c’è un’altra voce che irrompe di tanto in tanto, in metacapitoli annunciati. E’ la voce di chi sta scrivendo, non necessariamente dell’autore. Salta fuori il sottofondo dolente, con una lingua diversa. Come un ammonimento al lettore. E’ un gioco di spiazzamento, per instillare dei dubbi. E’ una voce che fa sbalzare il sottinteso talmente coperto dalle vicende che sono comiche. Ti mostra il rovescio della medaglia”.

Parlando di investigazioni uno pensa a un giallo.
“Ci sono delle promesse, ma si capisce subito che non si tratta di quel genere. Le prime trenta pagine sono una lunga tirata del protagonista sul suo fallimento come scrittore. C’è l’affabulazione, tipica di una certa letteratura. La lingua è molto sorvegliata, anche nelle forme sgrammaticate. Ne viene fuori una favola sbilenca, con equilibri spezzati. Un libro anche apparentemente molto misogino, soprattutto in Pertica: parliamo di un cinquantenne incarognito dalla vita”.

Valerio Di Benedetto con la sua poesia evoca la sofferenza di Antigone. La recensione di Anya Baglioni su magazine.gold

“Ho scritto un libro di poesie”, esordisce un giorno Valerio. Scrivere poesie nel 2017? Nel periodo in cui l’indice di lettura è drammaticamente precipitato? Ma Valerio lo conosce fin troppo bene il dramma: ne è espressione ed insieme lo sfrutta come materia, trasformandolo, facendo di esso un’ispirazione, interpretandolo in una strada per far piangere i passanti. Attore, illuminato dal genio dell’arte che permea di luce ogni sua esegesi, non ha iniziato a “scrivere poesie pensando che avrei pubblicato un libro. E’ una domanda che non mi è mai balenata per il cervello”. Quando le composizioni hanno cominciato ad essere più che qualcuna, ha determinato che sarebbero state parte di una raccolta “in controtendenza all’abbassamento culturale che c’è in questo momento”.

Gli sono bastati 10 secondi per decidere: “ho pensato alla sfida” dichiara, e “ce l’avrei potuta sicuramente fare”. Ha scritto di getto, nella notte, nel silenzio che batte quando ogni voce si è quietata, palcoscenico per il demone della sofferenza che affonda le proprie unghie nelle ore più piccole, quando ogni barriera si abbassa, seguendo la scia del sole. Un demone che ricorda un cuore che prima batteva e che l’unico modo per guarirlo, Valerio, l’ha trovato in una penna. 

Amore A Tiratura Limitata nasce dal coito di “una separazione e da una sofferenza. Il bisogno di colmare o di capire quel vuoto che hai dentro, rendendosi conto delle proprie zone d’ombra”. Tutto parte da un sentimento: uno spezzato, uno che eccede, uno che travolge, uno che cerca di curare eValerio ha cercato di “esorcizzare una sofferenza tramite la poesia”, ma puntualizza “non ho seguito nessun tipo di struttura classica”, perché non gli interessa. Adesso sta cominciando a scrivere haiku, “ma giusto per esercizio stilistico”. La considerazione del concetto di poesia stravolta da un abbandono volontario di ogni schema canonico, che riesce comunque ad essere considerata tale e Valerio si chiede se “Pablo Neruda rispettava dei canoni? È più un lavoro ad immagini. Hanno un potere fondamentale, perché si basa tutto sulla descrizione e la sensazione che lascia ad ognuno”. Evocativo, “io lavoro ad immagini” puntualizza “per il fatto che sono un attore e metto il focus su una parte che m’interessa, vado a campo largo – campo stretto, faccio un primissimo piano e da lì trovo un finale ad effetto”. Ma non è una costruzione, mi spiega. Mi fa un esempio, in cui il suo discorso si trasforma in versi senza metrica e sento lo stridere delle cicale.“M’interessa il diverso punto d’osservazione”: un rumore oggettivamente fastidioso, che al pensiero della vista dell’amore, diventa “armonia celestiale”. Piccoli quadretti, che potrebbero essere opera di Vermeer, per quanto si riesce a cogliere il dettaglio e la limpidezza di ogni particolare – quello ogni giorno visibile e quello sempre invisibile. Ad oggi, non esiste più una vera e propria corrente – come poteva essere qualche decennio fa – in tutte le varie forme d’espressione. Ci sono delle variazioni che si separano totalmente dal concetto stesso di corrente artistica. Non solo è cambiato il criterio, ma anche i canoni attuali non sono stati evoluzione dei precedenti, ma rinnovati. Il nuovo canone è assenza del canone, ma questo perché “si è ripreso tutto” m’interrompe Valerio “e non c’è più una corrente come ideologia”. E quindi solo frivolezza. Prendere la superficialità d’impatto dell’epoca contemporanea e riuscire ad essere evocativi: questo è il nuovo canone odierno. Ma a Valerio interessa solo “tirare fuori l’immagine che ho dentro di un bisogno insoddisfatto” trasformando esso stesso in canone “ma all’interno del quale mi permetto la libertà di averne uno”, perché il punto è che “non scrivo per compiacere, ma per raccontare un qualcosa”. 

La spontaneità dell’emozione: liberare l’inconscio stretto in catene, nascosto nei meandri della propria oscurità. Nel momento in cui Valerio ha provato a scrivere composizioni alle quali aveva imposto una struttura“non sono mai uscite: non funzionavano, erano artificiose”. La poesia di Valerio è “Forrest Gump visto da Notting Hill”. Un’urgenza che viene trasmessa, perché ha la natura originaria e la purezza di essere tale. Amore A Tiratura Limitata è l’excursus di una separazione, che viene descritta passo passo, post-rottura ed è uno stillicidio. Giorno dopo giorno, la sofferenza corrode il poeta e l’unico modo per esorcizzarla è scrivere: il lettore vive lo stesso dolore dell’autore, “perché l’abbiamo vissuto tutti” precisa, “non per forza è una separazione sentimentale: può essere un lutto, una perdita d’amicizia… E’ un punto di vista universale. Un archetipo e come tale appartiene a tutti”. La sofferenza di Antigone: l’umanità, “questo è il canone delle mie poesie”. Comporre una raccolta in cui si esprime un sentimento così profondo che è frutto di un altro ancora più viscerale, è una dichiarazione nero su bianco di un’immensità presumibilmente non paragonabile, né replicabile, dalla quale è difficile riemergere ed invece è successo “nel momento in cui ho pubblicato il libro come volevo io, dopo due anni e mezzo”. Un vissuto così intimo che viene reso pubblico e fatto proprio da estranei. Una concretizzazione che spaventa, ma se così non fosse “non permetteresti alle persone di essere incoraggiate dalla tua storia”. 

L’esortazione di Amore A Tiratura Limitata è quella di decidere di “andare fino in fondo all’inferno che vi siete scelti di attraversare consciamente. Se andrete fino in fondo, quando ne uscirete fuori, avrete vinto”. A un certo punto, contemporaneamente a questo progetto interiore, Valerio capisce che l’incoraggiamento può prendere anche altre strade, o più precisamente “le strade”. E’ così che realizza Umanamente In Bilico: i suoi versi su serrande. Dipinte, all’improvviso, versi che si manifestano con i colori del loro significato. E Umanamente In Bilico è figlio di Flavio Solo e Er Pinto, “miei inconsapevoli genitori”, non tanto perché gli abbiano praticamente insegnato la realizzazione effettiva del pensiero sotto una forma diversa, ma “di capire, di vedere, di provare a sperimentare e di farmi scoprire da una cosa che mi piaceva tantissimo”. Una gratitudine immensa e l’entusiasmo di investire tempo ed energia in una fusione di mani e pensieri che insieme diventano un’unica cosa: uno spray, un verso, un muro; un bandone, un’ode, un pennello… Scambiandosi menti e dita, rimane la completezza dell’opera, che vuole proseguire nel tempo ed evolversi, perché“senza condivisione è tutto arido”. Le non-rime di Amore A Tiratura Limitata sono state il risultato di un soffio che ha sospinto la mano di Valerio a strapparsi quel cuore, che stava diventando atrofico. Brevi poesie in cui in ognuna si annusa l’odore delle lacrime. Una poesia specchio per ogni emozione sopita, che il lettore non ricordava di aver provato. Un’empatia che confonde: sono io che leggo o la poesia sta leggendo me? Un’anima abbandonata su un palcoscenico che decide di mostrarsi nuda sotto i riflettori freddi, in una sala, che al momento dell’apertura del sipario era vuota.

Valerio Di Benedetto Con La Sua Poesia Evoca La Sofferenza di Antigone

Cari jihadisti… La recensione di Alessandro Gnocchi su il Giornale

Cari jihadisti… La recensione di Alessandro Gnocchi su il Giornale

Lo scrittore francese Phillippe Muray (1945-2006) è l’ennesimo segreto della cultura europea che nessun editore voleva rivelare al lettore italiano. Non solo «fa discutere» ma è davvero «controverso» (…) Sono stati quindi coraggiosi i due editori che gli hanno dato la parola: Mimesis, che oggi propone “L’Impero del Bene”, e Miraggi, che ha stampato l’anno scorso il non meno interessante “Cari jihadisti…”

Il saggio “Cari jihadisi…” uscì in Francia nel 2002. L’anno scorso è stato pubblicato da Miraggi Edizioni (traduzione di Francesca Lorandini e Oliier Maillart; postfazione di Lakis Proguidis). E’ una lettera aperta ai terroristi islamici che hanno progettato e realizzato l’attentato delle Twin Towers, a New York, l’11 settembre 2001. Sul filo del paradosso, Muray sostiene che il loro gesto è stato inutile: l’Occidente, in preda alla smania di rinunciare a individualismo e libertà, è morto ormai da tempo. Scrive Muray ai terroristi: «Credete di mettere in scacco un’intera civiltà… Mirate al mulino sbagliato. Qui non c’è nessuna civiltà».

Respira: la recensione di Francesco Clemente su Mangialibri

Respira: la recensione di Francesco Clemente su Mangialibri

Settembre 2001, New York. Un uomo si sveglia, si volta, non trova il conforto di un orologio che segni un orario. Ha la testa appesantita, dovuto ad un sonno breve e difficile. Afferra, dunque il cellulare posto sul comodino, ancora sotto i fumi dell’alcol, lo guarda un istante: è davvero tardi. Accende la macchinetta del caffè, accende la televisione, si reca in bagno. Mentre si specchia, ancora stordito e mentre la macchinetta sbuffa, dallo schermo del televisore vede che una delle Twin Towers è ammantata dal fumo, proprio lì dove ci sono gli uffici che quotidianamente ricordano il lavoro da svolgere. Non è finita, perché il giornalista non ha il tempo di gridare all’incendio e ai dispersi che un aereo colpisce la torre nord. In quegli istanti, l’uomo realizza un pensiero: “sparire”. La mente corre verso e su una Vespa degli anni Settanta, un pezzo da museo della meccanica dei trasporti, in direzione apposta a quel fumo famelico che tutto inghiotte, in un trambusto incredibile di una New York post-atomica. Il pensiero di sparire è dolce, consolatorio, un’occasione per azzerare il passato. Rinascere. Un’arte non da poco. Ma chi è morto? Un mercante d’arte…
Roberto Saporito con Respira verga un romanzo di pregiata fattura, un’opera che spicca fra tanto ciarpame narrativo, spesso propinato come “caso letterario”. Qui siamo su altre vette, le grigiastre suggestioni dell’apocalittico paesaggio della tragedia del crollo delle Torri Gemelle dell’11 settembre del 2001 si combinano con atmosfere psicologiche sospese fra Sartre e Pirandello, sciorinando uno stile davvero personale, fatto di espressioni icastiche molto elaborate, frutto di un lavoro di sintesi estetica raffinatissimo. Dal genio siciliano de Il fu Mattia Pascal Saporito riprende la suggestione della nuova identità del protagonista spacciatosi per morto, con tutto il fardello che comporta, riproponendolo con una linfa nuova, in linea con la contemporaneità, senza debordare in una sorta di insopportabile sperimentazione letteraria velleitaria pseudo-joyceana, ma cercando appunto lo spunto narrativo originale; dal genio francese de L’essere e il nulla sembra incamerare la suggestione della difficoltà per il protagonista di esercitare appieno la libertà, rimanendo paradossalmente schiavo. Respira: è l’invito amoroso che Yoko Ono fece a Lennon al momento del loro primo incontro nel 1966 ad una nota mostra d’arte. Ed è anche l’ambizione del protagonista di questa perla letteraria.

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