Elaborare un distacco, una perdita, il senso della fine di una storia, della condivisione di un sentimento, di un affetto, di un amore, di un tratto di vita, di un’abitudine consolidatasi ormai nel tempo, sedimentatasi tra gli sguardi e il cuore, con gesti e rituali, non è per niente facile. Mai. La scrittura può aiutare. La poesia ancora di più. Perché la dimensione cui allude è altra da quella della prosa, intermedia fra sogno e reale. Con un lessico piano, di immediato impatto emotivo, immagini vivide e forza espressiva esaltata da una semplicità classica che rende le parole universali e subito condivisibili, Valerio Di Benedetto, che ha già dato numerose prove di talento artistico per il tramite della recitazione regala ai lettori di questa raccolta un’umile, umana, sentitissima ed emozionante parentesi sentimentale, senza mai immergersi in un facile sentimentalismo, ma condendo i suoi versi, a volte scabri, a volte dolorosi, sempre pienamente narrativi, col tenero ritratto, osservato da una giusta e consolante distanza, di una vita che, non dimentica del passato, bensì impreziosita da esso, prosegue in cerca di una trionfante e amorosa pienezza.
Gio Evan sale sul palco del Villanova per il suo nuovo spettacolo “INOPIA“. E la maggior parte del pubblico è subito colpita dalla sua criniera, una massa di capelli a raggiera che occupa quasi tutto il suo esile corpo. Altri sono attratti dal suo volto, specialmente dai suoi occhi che guardano timido verso il pubblico.
Infatti Gio Evan ci racconta della sua vita e di come ha trasformato le sue esperienze e la sua capacità di osservare, in occasione per rivelare il bello a se stesso e a gli altri.
Gio ci parla, in modo ironico e spensierato, di quanto sia stupendo essere insicuri e di come sia stupido doverlo nascondere, di come sia importante amare il proprio io e non fare le cose solo per apparire ma per essere, di come una persona dovrebbe esprimere le proprie emozioni e non reprimerle vergognandosi davanti al mondo.
Più che ad uno spettacolo teatrale sembra di assistere ad una chiacchierata filosofica che cattura profondamente l’attenzione. Tutto questo viene intervallato dalla lettura di poesie belle, piene di contraddizioni che rendono piacevole l’ascolto e con il suo gioco di parole che lo hanno reso celebre. Evan ci parla della sua fuga da casa, specificando che non è stato un atto di vigliaccheria ma semplicemente che doveva andare altrove, viaggiando per otto anni dall’India al sud America fino al nord Europa per scoprire la bellezza interiore nella sua grandezza e nelle sue fragilità.
Un’opera prima, un titolo intrigante. Nicola Manuppelli nella vita è un traduttore che si definisce “talent scout”: si imbatte in un autore (rigorosamente anglofono) e lo spinge, se gli piace. Come fanno gli osservatori per le squadre di calcio, gente che trascorre il tempo a scoprire buoni calciatori sui terreni della provincia. Stavolta, però, Manuppelli è sceso in campo in prima persona. Con le poesie e con quel titolo, che non passa inosservato: “Quello che dice una cameriera”. Il motivo? Eccolo spiegato: “Ho scelto il titolo come facevano i cantautori per gli album, dandogli quello di una canzone contenuta nel disco. La cameriera è una figura che ritorna in tanti pezzi, l’ho incontrata in tante cose che traduco. Io stesso sono stato un cameriere. C’è tutta una filosofia dentro questo mestiere, un mondo che mi affascina molto”.
Per quale motivo? “Perché è un figura femminile e perché vive in un universo di cose fuggitive. Mi piacciono i luoghi di passaggio, come gli alberghi e gli aeroporti. Il cameriere è un lavoro di passaggio. Lo fai per un attimo. Però dietro c’è sempre una possibilità, nasconde altre storie. Una sospensione che mi affascina”.
Come è nato il libro? “Ho cominciato a scrivere quando avevo 18-20 anni, io sono del 1977. Oddio, chiamarle cose del secolo scorso mi fa un certo effetto. Ho iniziato dopo aver letto Yeats. Si tratta di materiale distribuito nel tempo, alla fine avevo 400 brani tra cui scegliere. Sono partito suonando a casa di Fernanda Pivano per farle leggere alcune cose. Doveva essere una cosa da una decina di minuti, si è trasformata in giorni e giorni trascorsi da lei. Un’educazione sentimentale che dura fino a Blue John, scritta poco prima di sposarmi a marzo e prima di un lungo viaggio negli Stati Uniti”.
C’è un filo conduttore? “Mi piace molto immaginare, non raccontare cose mie. E’ una ricerca della bellezza intera, della bellezza pacifica non tormentata. Con un sottofondo molto hollywoodiano, all’inseguimento del lieto fine. Mi ritrovo poco con alcune tendenze attuali, che privilegiano il cinismo. E’ un atteggiamento che non amo. Cerco la bellezza come la descrive Yeats in suo verso: Come posso distinguere la danza da chi danza?”.
Ti piace confrontarti con il pubblico? “L’obiettivo è suscitare emozioni. Avrei voluto fare il cantautore, ma non so suonare. Allora ho usato le parole. Il sogno della mia vita era leggere e scrivere, lavorare con le parole, valorizzarle come facevano le vecchia compagnie di teatro. Leggere la letteratura è la forma di espressione che amo di più: vai in giro, incontri la gente. Questi sono per me i reading, un modo per fare effetto sulle persone: colpire una donna, rendere allegro un amico, avere un pubblico”.
Petr Král è un poeta Ceco, surrealista. Questa raccolta è stata tradotta da Laura Angeloni, dal Ceco, ed è la prima edizione Italiana.
È una raccolta complessa (per stimoli e immagini contenute) scritta con parole semplici che hanno una capacità evocativa disarmante.
Alcune poesie sono quasi definizioni da vocabolario, certo, un vocabolario molto sensoriale e ricco, che partono quasi sempre da una visione soggettiva e che, strada facendo, spesso ma non sempre, si fa oggettiva. E qui, sta la magia, l’incantesimo della parola. Stravolgere tutto, dire: ah, non ci avevo pensato! Oppure: sì, è così anche per me, sono le parole che non trovavo. Altre poesie sono fotografie istantanee dai colori nitidi, altre bambole matrioska.
Definire un oggetto non è mai semplice, perché l’oggetto è più della sua forma, del suo colore, o materiale con cui è fatto. L’oggetto ha uno scopo, che a volte è lo scopo di chi lo ha pensato, tradotto, imposto a una società. L’oggetto qualche volta fa e disfa, diventa la misura del nostro giorno, lo scandisce, si fa metro.
Questo libro scritto in una prosa, deliziosa, solo apparente, è un’esperienza sinestetica; vi farà superare la cecità emotiva e sensoriale. Ho avuto l’impressione, spesso, di trovarmi tra le mani un libro interattivo, un pop-up.
La parola chiave è: stupore. Lo stupore del poeta davanti a tutto ciò che si conosce già, a memoria. Eppure è nei dettagli di ogni singolo gesto, degli oggetti, di un pensiero, che trova spazio la capacità personale di interpretare nuovi modi, nuove conoscenze, nuovi utilizzi.
Apre la raccolta un testo sul caffè. Bere il caffè al mattino che cosa può evocare? Cosa fa un sorso caldo all’interno del nostro corpo? Chi eravamo prima di quel caffè e come ci sentiamo dopo? E così, una colazione che ci ricorda le cure dell’infanzia, nostra madre.
Che cosa può diventare una camicia che ci accarezza, se riusciamo a coglierne i dettagli nel tessuto, nei bottoni, o una scala che non è soltanto fatta di gradini ma è una forma che ci permette la meditazione, il raggiungimento di una consapevolezza, il superamento di una porzione di spazio nell’atto stesso della sua misurazione.
Il treno non è solo un mezzo di trasporto ma diventa il paesaggio stesso che ci sfila davanti, diventa un inganno per i sensi quando ancora in sosta, con noi seduti, vediamo quello vicino partire, diventa un quadro in movimento con la nostra immagine che specchiandosi si fonde con l’esterno che ci corre incontro veloce, ci investe.
“I nostri treni non vanno più a vapore, ma il loro respiro è comunque più ampio dei binari che percorrono e dell’itinerario stabilito”.
Perché di stabilito sembra non esserci proprio niente; una porta, per esempio, è uno sbarramento. Uno sbarramento che non vede l’ora di essere oltrepassato, che permette il passaggio di una lettera attraverso la fessura inferiore, la porta ha una serratura, che può essere aperta in mille modi, con mille toni e determinazioni dati dai movimenti della mano, che ha un dentro e un fuori che ci attende o da cui vogliamo rimanere separati. Una porta può suscitare desideri e dubbi.
E così, se ci pensiamo, la luce, che può essere discreta o fastidiosa, inquisitrice o rassicurante, così come la fica o una cipolla possono diventare un universo completo non solo sensoriale.
Anche le azioni, quelle che ci sembrano routinarie come il passeggiare rivelano intenzioni e influiscono sulle nostre coscienze. L’affrontare una curva può dare “un senso a tutto il viaggio, trasformarlo in gioia permettendo di indugiare in un passaggio ” ricordandoci che anche i piaceri dell’amore risiedono nelle curve senza le quali, cito, si tratterebbe solo dell’ottuso movimento di inserimento ed estrazione di un pistone.
Gli oggetti ci permettono di evadere, con i loro particolari sui quali ci perdiamo a immaginare infiniti modi del sé e al tempo stesso, però, ci ancorano alla realtà. Insomma, un bel casino:
Lo spettacolo:
Ancora una volta, al mattino, assistere stupiti allo spettacolo del posacenere, dei bicchieri e della caraffa che immobili misurano la pianura del tavolo.
Petr Král ( Praga 1941), poeta e membro del gruppo surrealista ceco, lasciò il suo paese per Parigi, esule, nel 1968, per ritornarvi nel 2006. Ha pubblicato, scrivendo in ceco e in francese, diverse raccolte di versi, tra cui enquête sur des lieux ( Flammarion 2005), e curato (e tradotto) le importanti antologie: Le Surréalisme en Tchécoslovaquie (Gallimard 1983) e Anthologie de la poésie tchèque contemporaine 1945-2002 (Gallimard 2002).
Rilevante la sua attività saggistica e critica, in campo letterario e soprattutto cinematografico (dipolomato alla FAMU di Praga, è stato anche sceneggiatore).
In Italiano si può trovare la raccolta poetica Tutto sul crepuscolo (Mimesis, 2014), e alcune poesie tradotte dal ceco ( Annalisa Cosentino) e dal francese ( Massimo Rizzante) in “Testo a fronte”, 36, 2007.
Nozioni di base è stato tradotto da Laura Angeloni dall’originale ceco, raffrontando puntualmente il testo con l’edizione francese ( Flammarion 2005). Questa è la prima edizione italiana.
Attore 2.0, in alcune webseries molto popolari: da “The Pills” a “Freaks”, a “L’amore al tempo del precariato”. Attore classico, protagonista della commedia “Spaghetti Story” di Ciro De Caro, oppure Dylan Dog in “Vittima degli eventi” di Claudio Di Biagio. E attore di strada, come racconta Valerio di Benedetto: “Nasco attore perché un giorno papà mi dice che c’è un corso gratuito, vicino casa. Provo e dopo un mese decido che sarebbe stata la mia strada, senza dimenticare lo studio: laurea in scienze motorie sulla postura degli attori in scienza, tanto per restare in tema. Da dieci anni seguo questo doppio percorso. Sono attore di strada perché io e il mio amico Luca Basile volevamo a tutti i costi vivere di questo lavoro. Lui creò questo format innovativo e insieme fondammo la Kyo Art Productions. E’ un teatro itinerante, con visite guidate a Roma in cui interpretiamo i personaggi di cui si parla. Nell’ultimo abbiamo raccontato la vicende di Bernini e Borromini. Abbiano fatto 39 sold out nei fine settimana, per 1.800 persone”.
In quanti siete? “Oggi sono coinvolti 17 attori. Ci siamo trasformati in una compagnia stabile, nel vero senso della parola. Il mio piacere sta nel vedere le persone contente di quello che hanno visto e gli attori perché comunque fanno gavetta. E sono pagati… Abbiamo creato una squadra dove ci fidiamo l’uno dell’altro”.
Perché le poesie di “Amore a tiratura limitata”? “Il libro è nato da una separazione sentimentale, ho provato a canalizzare le sensazioni in altre forme d’arte. Non avevo mai pensato alle poesie, ma ho cominciato a scrivere e alla fine mi sono ritrovato con un volume notevole di materiale. Ho capito che potevo tirarci fuori qualcosa di buono. Non volevo che fosse una forma d’arte fine a se stessa, sterile. L’ho intesa come una missione, per incoraggiare le persone che hanno vissuto una separazione (un amore come un lutto) a riprendere in mano la propria vita. Magari trovando un lato artistico mai approfondito. La separazione è un pretesto per parlare di come ci si rialza, anche facendo cose che si pensava di non saper fare: è una risalita dagli inferi”.
Quando hai cominciato a scrivere? “La prima è del 2 aprile 2015, il fatto era appena successo. Ho scritto per i primi sei mesi, poi ho cominciato ad aggiustare il tiro, rivedendo il lavoro”.
A quali sei legato? “A molte: “Itaca”, “Atlante”, “Come formiche”. Oppure l’ultima, la centesima: “Se sapessi farlo ti scriverei una poesia”, è un modo per dire che non voglio prendermi troppo sul serio”.
Ti sei ispirato a qualche autore? “Michele Mari, ma l’ho scoperto dopo, quando avevo già scritto il settanta per cento del libro… Una mia amica legge una poesia e mi dice: “Sai che mi ricordi tantissimo Mari?”. Mi ha fatto piacere il complimento e mi ha incuriosito. In realtà non conoscevo Mari, ho letto “Cento poesie d’amore a Ladyhawke”, l’unico che ha scritto”. Mi ci sono ritrovato per il percorso interno e per la brevità di testo”.
A chi diresti di leggere il tuo libro? “E’ per chi abbia voglia di fare un viaggio alla scoperta di sé, un viaggio introspettivo. Sono poesie per chi ha deciso di dare il via a una rivoluzione umana”.
Ti sei mai esercitato in letture pubbliche? “No, ma sto preparando lo stand up comico “Vale’, ma che ti reading?” per entrare in un’atmosfera più leggera”.
Io amo le cose belle, le cose ricercate, le cose preziose. E oggi proprio di questo parleremo. Oggi ci facciamo trafiggere da una freccia poetica destinata a lasciare il segno.
Oggi vi presento “Senti cosa ho scritto” di Lorenzo Bartolini, pagine in versi suddivise in tre tempi. E il fatto che “Giugno in parole” dell’anno scorso fosse dedicato a un altro grande artista – che risponde al nome di Roberto Mercadini e che firma la prefazione del libro – non è un caso.
Sono emozionata, entusiasta, orgogliosa di avere letto queste righe e di avere conosciuto il loro padrone. Tutti dovremmo avere Lorenzo come amico, come conoscente, come poeta. A nessuno dovrebbe essere negato il diritto di godere delle sue parole, parole che si posano come polvere di stelle sulle nostre palpebre chiuse, parole che illuminano di meraviglia ogni sfaccettatura della realtà su cui si posano.
Lorenzo è un attento osservatore di ciò che lo circonda e ciò che i suoi occhi, la sua pelle e il suo cuore percepiscono viene riflesso in uno stile fatto per essere letto, uno stile pulito, nitido, gentile e indagatore dell’animo umano.
Non è possibile non rimanere incantati e stupiti dalla dolcezza e dalla sensibilità racchiuse in questi fogli di carta che ci conducono per mano in lande calorose e colorate.
Salpiamo sulla barca Bartolinica per un viaggio in una poesia che ha il potere di espandersi e occupare ogni spazio libero. Una poesia che ci mostrerà tutto ciò su cui lo sguardo, il tocco e la penna di Lorenzo si sono soffermati creando parole, immaginari e cornici da riempire di bellezza.
Una prima cornice, forse La cornice, è l’Amore: ogni poro di ogni foglio di carta trasuda amore; amore per la mamma, per la fidanzata, per la nipote, per l’amico, per le città (e Torino non poteva mancare). Ogni riga è un inno ad amare e a non avere paura di farlo e di scriverlo. Ogni riga è un inno a vivere ogni stato d’animo, anche quello che porta con sé il freddo vissuto da un cuore privato per un istante dal calore dell’amore a causa di una lite. Ogni riga è un inno a curarsi a suon d’affetto e a lasciarsi trasportare dallo stupore che avvolge ciò che ai più appare ovvio.
Una seconda cornice è la Vita, vita che ci appare straordinaria nella sua scansione temporale ordinaria. Vita che si compone di grandi temi affrontati con la bellezza della semplicità e della bontà di cuore. Qui la poesia riesce a smuovere le coscienze, a diventare uno spillo che ha il potere di sgonfiare quell’enorme bolla che ci costruiamo per non vedere ciò che non ci tocca da vicino. Uno spillo che fa convivere in un buco piccolissimo vino e vergogna. Ma la vita è anche gioco: un modo per rinfrancarsi dalla potenza e dall’energia delle passioni. E’ una pausa per fermarsi a riflettere e a ragionare, sospendendo quella frenesia che non è altro che una cattiva consigliera. La vita è anche non morte e quindi regno assorbente di ogni pensiero.
Una terza cornice è composta dai Ricordi poetici, lettere che sprigionano meraviglia, gioia, generosità, vicinanza, parità. Sono frammenti di attimi di riconoscimento di anime. E’ una cornice libera dove il poeta crea il suo mosaico emozionale che funge da stimolo per il lettore, il quale così potrà dare il suo valore emozionale alle parole che legge, riempiendo di luoghi, sensazioni e persone la terra, la natura e i gesti.
Questo è un lavoro che ha lo splendore e il fascino di una cometa persistente da un lato e la forza educativa ai sentimenti dall’altro. Qui le parole vibrano, si mescolano, si scuotono e danzano al ritmo di una musicalità inedita, una musicalità di cui non potremo e non vorremo più fare a meno.
I love the beautiful things, the valued things, the precious things. And today we will talk about these things. Today the poetical arrow will pierce us and it will leave a sign.
Today I present you “Senti cosa ho scritto” (You listen what I wrote), Lorenzo Bartolini’s verses divided in three times. It isn’t a coincidence that last year I talked about an other big artist in “The words of June” section: his name isRoberto Mercadini and he signs the book preface.
I am touched, enthusiastic, proud because I read these lines and I met its owner. Everyone would have to have Lorenzo as friend, acquaintance, poet. Everyone would have to have the right to enjoy his words, which place like stars dust on our closed eyelids, words that light every reality side with magnificence.
Lorenzo is careful observer and what his eyes, skin and heart sense has reflected in his style, a style to read, a clean style, a gentle style, a human spirit investigator style.
We are enchanted and amazed of his sweetness and sensitivity included in these sheets of paper, which join our hands to bring us toward loving and coloured lands.
With his ship, we sail off into the poem, a poem that has the power to grow and capture every free space. A poem that shows us Lorenzo’s reality: his gaze, his style and his pen create words, imaginations and frames to fill up with beauty.
A first frame, maybe the frame, is the Love: every pore of every sheet of paper trickles love; love for the mum, for the girlfriend, for the niece, for the friend, for the cities (and Turin is here). Every line is an ode to love and to not fear to love and write it. Every line is an ode to live every state of mind, even the state of mind that brings the cold lived by the heart when the warm of the love misses for a moment because of a fight. Every line is an ode to take care of us with the love; it is an ode to be surprised about what a lot of persons believe obvious.
A second frame is the Life, life that appears us extraordinary in its ordinary temporal scan. Life with its big questions faced with the beauty of ease and heart kindness. Here the poems move the awarenesses, they are a pin that deflates the big ball which we build around us to not watch what is not near us. A pin that creates a little hole where wine and embarrassment live side by side. But the life is a game too: a way to refresh us from the passions power and energy. It is a pause to stop and to think, without the frenzy that isn’t a good advisor. The life is a not death too and so it is a kingdom that absorbs every thought.
A third frame has made by poetical Memories: the letters give off marvel, delight, altruism, affinity, parity. They are fragments of instants of souls identification. It is a free frame where the poet creates his emotional mosaic that acts as an incentive for the reader, which will give his emotional value to the read words and he will fill up with places, sensations and people the land, the nature and the gestures.
This work shines as a persistent comet and it has the power to educate to the emotions. Here the words are vibrant, they shake, they dance with a fresh sound that will become indispensable for us.
Ho fatto la doppietta di Claudio Marinaccio, dopo il divertente Come un pugno, ho dedicato
un´ora spensierata a questo nuovo Non disturbare, uscito per Miraggi Edizioni.
Il libro è strutturato a piccoli episodi, mutuati su quel mix di parodia di situazioni tipiche (il tormentone degli scocciatori al citofono o per telefono, testimoni di Geova, gestori telefonici, banche) e mini-cronaca di costume che caratterizza anche le attività dell´autore sul suo profilo Facebook. Ritroviamo in effetti anche la stessa voce onesta, a volte cinica, politicamente scorretta, con un certo equilibrio tra sarcastico e amaro/tenero e una modalità schietta e picaresca che potrebbe essere risultato di alcune sue letture americane.
Credo di non offendere nessuno se dico che questo libro potrebbe essere una versione appunto politicamente scorretta delle operazioni tipo “Momenti di trascurabile…” di Francesco Piccolo.
Il tema portante peraltro non è banale, si tratta del surplus di stimoli uditivi e visivi a cui siamo sottoposti: discussioni da bar preferibilmente a voce alta, cold-calling* e ancora scene di cd. ordinaria solitudine da social.
L´altro filo conduttore mi pare essere la cronaca della provincia (i bar, le puntate “in città”) e dei suoitipi, con alcuni esiti che possono ricordare alla lontana il capostipite di questo tipo di satira o ritratto, il Bar Sport di Benni (che però spingeva molto di più sui pedali di satira e parodia, mentre Marinaccio alterna in questi piccoli ritratti “invettiva” anti-luoghi comuni e una certa tenerezza specie per le figure degli immancabili anziani).
In conclusione e nonostante questo ancoraggio nella nostra attualità, penso non si faccia torto all´autore se si afferma che qui egli intendeva soprattutto intrattenere e far sorridere, non produrre particolari approfondimenti su un terreno giornalistico o saggistico.
Se si accetta questa premessa Non disturbare risulta una lettura simpatica e sorridente, conferma quella che è una buona penna e simpatizza con il lettore (o forse viceversa) con la tonalità sincera e scanzonata di chi racconta cose a un amico davanti a una birra o un vino rosso.
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*Cold callling è una definizione legale delle chiamate commerciali effettuate senza aver esplicita autorizzazione dal Cliente, qui nel mio paese è pratica considerata piuttosto grave e sanzionata – con gradazioni differenti rispetto a chi le fa, ad esempio per una Banca può comportare multe salate ma anche conseguenze più gravi – dal libro mi par di capire che in Italia la situazione sia ancora a uno stato piuttosto selvaggio.
POST-SCRIPTUM ALLA MARINACCIO
Non saprete mai se il libro mi sia piaciuto davvero. Peró sai l´autore scrive e recensisce libri per Il Mucchio e Donna Moderna…non si sa mai, meglio tenerselo buono.
Bello, sensibile come una corda di violino e straordinariamente pieno di sé, uno studente modello di una cittadina nei pressi del Mar Bianco, con alle spalle un’infanzia di guerra e di abbandono, surclassa tutti agli esami di maturità e viene mandato a frequentare l’università di Mosca. Al trionfale arrivo nel cuore dell’Unione Sovietica degli anni del disgelo segue la lenta e dolorosa presa di coscienza della meschinità delle impalcature ideologiche e dell’umanità intera, con conseguente afflusso di prosa diaristica, che nell’arco di più o meno un anno – dall’ottobre 1956 all’ottobre 1957 – registra il tracollo dei sogni, l’espulsione dall’università e dallo studentato, faticose esperienze da scaricatore e manovale e relativi licenziamenti, tre intense e rigettate storie d’amore, vita randagia e ambigua, notti al gelo alla stazione e un dilagante fiume d’alcool. Tutto interessante quanto prevedibile, non fosse che quel diciottenne attonito sognatore è Venedikt Erofeev, l’autore di Mosca-Petuški, forse il più famoso, in patria e all’estero, libro russo del secondo Novecento, alconautica epica ferroviaria che riassume l’assurdità dell’universo sovietico, lo scibile umano, il genio e la follia autodistruttiva in cento paginette, che di traduzione in traduzione –cene sono già quattro – si è via via discostato dal «referenziale» ma fuorviante titolo degli anni settanta Mosca sulla vodka. Tre amanti + una madre Arriva ora in italiano anche Memorie di uno psicopatico, il «diario» degli anni giovanili di Erofeev, appunto, tradotto da Lidia Perri per Miraggi (pp. 287, e 20,00), in realtà un grandioso brogliaccio di sperimentazione letteraria, che prefigura, spiega e motiva il futuro capolavoro di quello che resta un devastato e maudit genio unius libri. Sorprende come passioni e ribellione possano essere scientemente e – com’è ovvio per tutta la scrittura clandestina d’epoca sovietica – senza alcuna ipotesi di accesso al pubblico, trasformate in canovaccio per sketch narrativi e drammatici, visioni oniriche, riflessioni pseudofilosofiche e parodie, dove le tre giovani amanti sono ibridate, anche onomasticamente, l’una con l’altra e tutte con la madre, con la quale Erofeev prova sulla carta a regolare un gigantesco complesso d’Edipo (e l’abbandono in orfanotrofio),descrivendone, vivissima, in tre diverse occasioni, la morte. La manipolazione della realtà nel senso più ampio e integrale è già presupposto di quella poetica autofinzionale che in Mosca-Petuški trasferirà per nome e cognome l’autore e i suoi compagni di bevute sulle pagine di una narrazione apocalittica e fantasmagorica, che proprio in questo stridente impasto ontologico trova tutta la sua forza espressiva. In maniera altrettanto evidente Memorie di uno psicopatico mostra il principio organizzativo della prosa di Erofeev maturo, che è in sostanza l’aforisma espanso, lo spunto narrativo conchiuso e autosufficiente, in cui si bilancia l’incisività della micro-trama e lo scintillio della ludica metafisica dell’inezia. Tra le righe, una grande intensità tragica, che muove da autentiche crepacciature del cuore, qui evidentissime fosse solo nell’aforisma a monte di tutti gli altri, quello costantemente ripetuto dalla madre: «Tutti uguali, Venichka! Succhiamo tutti lo stesso cazzo di dio!». Tra i motivi ricorrenti, l’intenerimento, una pietà pervasiva, incontrollabile e goffa, in molte occasioni rivolta a se stesso; la risata e la lacrima, vere insorgenze teatralizzate dello spirito, di una nobile, autodistruttiva sovrabbondanza interiore; il poeta e la folla, che fissa con annichilenti occhi sbarrati ogni gesto anticonvenzionale e irrituale: saranno fondanti in Mosca-Petuški, ma già qui sono il sale del libro, e li troviamo praticamente tutti concentrati nell’episodio del 31 maggio, con il narratore steso nella bara che partecipa al proprio funerale, reticente spettatore – «E non puoi aprire gli occhi… Li apri, e tutti sono lì che ti guardano..» – intento alla percezione estatica non solo dei contorni del buio ma del buio stesso e, in un contesto altamente dialogico, dell’angoscia del silenzio. Già è norma, per l’appunto, la dilagante plurivocalità, tratto poi distintivo della prosa di Erofeev, che mescola in un flusso inscindibile le più imponderabili voci interne e altrui, fa collassare e rovesciare l’istanza narratore-narratario ed è qui esplicitata anche da estratti di testi, lettere, diari altrui. Ci sono poi i cataloghi: di giudizi sul narratore, di battute degli interlocutori, semplicemente di nomi. E cosa resta nella memoria del lettore di Mosca-Petuški più che il catalogo dei cocktail (con profumo di verbena e lacca per unghie, colluttorio e antitraspirante per piedi) o quello dell’insorgenza del singhiozzo commisurata alla legge divina e umana? Più di tutto, le Memorie di uno psicopatico ci permettono di approssimarci all’essenza dell’arte e del mondo di Erofeev, al senso profondo del non senso, spesso frainteso e ridotto a un puro esercizio stilistico postmoderno, ovvero ascritto ad autentica metafisica, trascendenza religiosa (qui è esemplare l’appunto dell’ex ateo, il ragazzino formato sui dogmi del marxismo che tanto si esalta alla lettura delle sacre scritture da annotare undici passi nei quali gli evangelisti formulano assunti diametralmente antitetici). Qui, timido bevitore L’estetica onnicomprensiva di Erofeev è invece sempre ternaria: costruisce castelli metafisici di parole, poi li sberleffa, giubila di fischi, lascia trasparire un secondo livello percettivo al quale ora l’alcool come metafora dello spirito, ora la magia della creazione sembrano assumere una rilevanza autonoma; ma poi anche questi sono smentiti e irrisi, e solo a un terzo, intimo, ineffabile livello di senso, percepibile tra le pieghe più recondite del testo, si avverte una tensione irrisolta che aspira a esprimere un qualche insostenibile altro e oltre. Memorie di uno psicopatico, quindi, è essenzialmente un grimaldello per meglio fruire, meglio dirimere il densissimo affresco poetico in prosa di dieci anni dopo, ma è anche un testo godibile in sé, ricco proprio per la sua assoluta frammentarietà, agile e insieme farraginoso, non privo di articolate architetture tematiche e narrative e da leggere, nel complesso, come progressiva «presa di coscienza» dell’alcolismo, immersione in uno stato suicidale protratto ritenuto necessario a fronte dell’inadeguatezza ontologica della società, che sarà poi inteso come martirio e imitatio Christi. Qui però il narratore è ancora un timido grande bevitore, che non soltanto gioca con una purezza e un orizzonte ideale, di pagina in pagina sbaragliati dall’alcool. Tra i rivoli dell’intreccio uno fra tutti si distingue per incisività e freschezza: la storia, in molto riassunta in flash-back al 17 dicembre, di Lidija Vorošnina, ex compagnetta di banco in prima elementare e ora oggetto di adorazione e ripulsa, campionessa in una traslucida estate del grande Nord di seduzione, depravazione, volgarità sguaiatissima e dolente castità proiettata in antifrasi. Alle sue grazie e alle sue «incantevoli malefatte» il narratore non può essere indifferente, facendone un ritratto di straripante femminilità sovradimensionata alla stolida routine provinciale che è un pregevole sunto di eroine dostoevskiane. Del resto nella precoce e consapevole autodistruzione di Vorošnina il giovane Erofeev avverte un’evidente prefigurazione del proprio destino e una proiezione al femminile del suo auto-personaggio. Imperfetto e fascinoso Il lettore italiano si aspetti, allora, non un altro capolavoro, ma un libro imperfetto quanto fascinoso, fuor di dubbio molto difficile da tradurre, soprattutto per il continuo spostamento del contesto e del quadro referenziale. Nella versione di Lidia Perri è certamente un successo, anche grazie a coraggiosi adattamenti, la resa di un continuum linguistico tronfio e tenue, limpido e involuto, al di là di alcuni inevitabili abbagli traduttivi. Male comune della nostra evoluzione linguistica, il moribondo passato remoto conferma tutta la sua inadeguatezza davanti al dinamismo di una prosa diaristica.
Alcol, fumo, zuppa di cipolla e detersivi universali: di tutte queste cose insieme sapeva probabilmente l’interno russo in cui Venedikt Erofeev cominciò a scrivere le sue prime pagine. Non ancora diciottenne si era trasferito dalla provincia settentrionale della regione di Murmansk, ai confini della Norvegia, nella capitale russa, dove si era iscritto alla Facoltà di Lettere dell’Università, che prima lo aveva ammesso con lode e dopo pochi mesi lo avrebbe espulso per inadempienza degli obblighi militari. Giornate di ebbrezza, stordimento e desolazione, quelle che videro la scrittura di Memorie di uno psicopatico, pubblicato in questi giorni da Miraggi Edizioni con la traduzione di Lidia Perri. Un po’ era una questione personale: Venedikt cominciava a riconoscere dentro di sé una vocazione autodistruttiva che lo portava all’inconcludenza, alla paralisi, e faticava a gestire il flusso di scrittura con l’imponente mole di letture che da anni affrontava, mescolando generi, autori, passioni. Il risultato, in queste pagine giovanili (che però già contengono il gesto artistico che si ritroverà più tardi), è una matassa di pensieri interni, talvolta ostentatamente intervallati da puntini di sospensione – à la Céline – talaltra invece asciutti e cristallini come poesie: «E la luce brillava. Non era la sua luminosità a irritarmi. Ma la debolezza del sogno sulle tenebre. E io sputai. Sputai nel buio. E mi deliziavo del sibilo corrispondente. Di più non potevo fare». Un po’ però c’entrava anche la storia. Non era un anno qualsiasi per l’Unione Sovietica. Stalin era morto da tre anni, e in quel 1956, durante il XX Congresso del Partito Comunista, l’allora segretario Nikita Kruscev scoperchiò il sarcofago degli orrori, denunciando deportazioni e esecuzioni di massa in nome del culto della personalità del capo. Fu un anno di liberazione e sconvolgimento insieme, in cui un enorme numero di cittadini sovietici fece ritorno a casa e si vide finalmente riabilitato dall’accusa infamante di «nemico del popolo» (solo a Mosca rientrarono 200 mila detenuti politici). Il resto della popolazione, d’altra parte, realizzò di aver vissuto, per decenni, in un incubo senza eguali, in cui regnavano insicurezza, delazione, sprezzo degli affetti e morte. Ecco, se Erofeev può dirsi interprete di quell’epoca fosca ed eccitata, lo fu nel senso di intercettarne l’assenza di lucidità, la difficoltà nel «farsene una ragione» – la psicopatia collettiva, viene da dire. Come un potente getto d’acqua, nelle pagine giovanili di Erofeev si era riversata anche l’intera tradizione letteraria russa dell’Ottocento, che ha sempre trovato nella scrittura coscienziale, nella forma-diario, un’irresistibile valvola di sfogo. «Ti fa solo male leggere Dostoevskij – scrive a un certo punto Erofeev in Memorie di uno psicopatico – Sarai senz’altro così cupo, se ti rinchiudi in camera… là sentirai qualsiasi orrore… e tutto ti sembrerà cupo e orribile… Ti hanno detto bene… Ecco, tu odi il riso e guardi tutti come una fiera dal tuo letto… E sentiamo, che hai da lagnarti? Tu sei incomprensibile, diavolo… Insomma, tutti vivono bene, come persone normali… Non ti dimenticare che vivi nella società sovietica… e non in una qualunque». Un’appartenenza necessaria, quella russo-sovietica – e allo stesso tempo da espiare – sembra ammettere Erofeev nelle pagine che preludono alla sua grande opera unica, il Mosca-Petusky, pubblicato poi nel 1970. Ed è così che riga dopo riga, episodio dopo episodio – alcuni irresistibilmente comici, altri volutamente sconci – i discorsi da ubriachi perdono la loro sconclusionatezza e si trasfigurano, tanto che se l’occhio torna indietro, li ritrova preghiere.
Rigorosamente in minuscolo. Perché l’espediente scelto per il titolo (“d’Amore. di Rabbia. di Te”) vuole mettere in evidenza i sentimenti e la persona. E’ l’opera seconda di Andrew Faber, dopo “Non ho ancora ucciso nessuno”. Formula vincente non si cambia: poesie e racconti, più o meno brevi. Cambia però, aspetto fondamentale, il filo conduttore di fondo. Come racconta Faber: “E’ il proseguimento del primo libro, uscito a luglio 2016, ma il tono è meno serio. Strizzo l’occhio alla leggerezza evitando di scivolare, spero, nella banalità”.
Che cosa è successo in questi mesi? “Il primo l’avevo scritto dopo essere uscito, in maniera pesante, da una storia lunga. Ero anche andato a vivere da solo. Ora sono più sereno, si vede nella scrittura: più spensierata, più leggera, più libera”.
E’ venuto fuori di getto oppure meditato? “Di getto. Dopo “non ho ancora ucciso nessuno” ho scritto tutti i giorni, pubblicando su Facebook. A marzo mi chiama Miraggi e mi chiede di immaginare un volume che sia pronto in tre mesi. Io rispondo di no. Mi dicono di pensarci sopra, di prendermi qualche giorno. Ho valutato quanto avevo scritto, ho visto che era pubblicabile. In tre mesi ho irrobustito il materiale ed ecco “d’Amore. di Rabbia. di Te”.
C’è un tema che predomina? “L’ho sempre detto: sono un gran fanatico della donna e anche in questo si parla d’amore, sia pure in maniera differente. E’ molto introspettivo e molto più maturo di quello precedente”.
Hai avuto modo di “testare” le poesie prima dell’uscita del libro? “Non immaginando un secondo volume, ci sono cose che portavo negli spettacoli da tempo, conosciute da chi mi segue. Diciamo che ho già verificato sul campo e che è piaciuto”.
“Ultimamente usciamo insieme” è il titolo dell’evento in cui coinvolgi Federico Sirianni, cantautore e scrittore. Come è nato il vostro rapporto? “Io vivo a Roma, ho conosciuto Federico (un genovese) a Torino attraverso Catalano. Poi mi ha invitato a una sua serata quando è venuto nella mia città, ho letto alcune poesie. Ci siamo conosciuti e ci siamo presi. Volevo restituirgli il favore e sono felice che abbia accettato”.
La stand-up comedy in forma scritta: è “Non disturbare”, di Claudio Marinaccio, torinese, scrittore (Linus, Il Mucchio Selvaggio, Gq, Donna Moderna) e lavoratore (ma mantiene il più stretto riserbo su cosa faccia nella vita: nulla di illegale, comunque…). Se negli States si tratta di uno dei generi di maggiore successo – e di maggiore difficoltà, visto che la presa sul pubblico non deve mai calare, uno contro tutti a teatro come negli show televisivi -, in Italia è una forma di intrattenimento ancora poco frequentata, se non ignorata (o evitata) del tutto. Marinaccio ha accettato la sfida, passando dal romanzo d’esordio (“Come un pugno” del 2016) a un libro costruito su descrizioni fulminanti e dialoghi nonsense. Un susseguirsi di ritratti e situazioni nato dalle sollecitazioni su Facebook.
“Scrivevo dei post, in cui prendevo in giro quelli che ti scocciano al citofono oppure al telefono. I Testimoni di Geova che vogliono convertirti o i call-center delle aziende che vogliono farti firmare un contratto. Erano dialoghi surreali. Sono piaciuti, ne ho ideati altri ed è nato il libro. Volevo creare una stand-up comedy scritta. Da noi non tira, negli Stati Uniti va alla grande: c’è un professore di lettere che ha definito la stand-up comedy un genere letterario e la insegna così. E’ libera, racconta la realtà per come è sporca. Negli States sanno ridere di tutto in maniera intelligente, partendo dalle situazioni di vita quotidiana. Come ho provato a fare io”.
Perché il titolo “Non disturbare”? “Siamo sempre in comunicazione 24 ore su 24, tra internet e WhatsApp. Non rimaniamo più da soli. Riceviamo milioni di input, tutti possono avere un’opinione e oggi manca un’intimità dell’opinione. Non sono obbligati a dirmela, invece lo fanno. Adoro una citazione di Palahniuk: “Quando ti chiedono come è andato il week-end è perché non vedono l’ora di raccontarti il loro week-end”.
Riflette il tuo modo d’essere? “Amo stare in mezzo alla gente, la mia famiglia è numerosa e nel libro spuntano nonne e zie. Ma mi piace anche la solitudine in mezzo alle persone, senza uno scambio di parole. Si tratta di spazi vitali da difendere, si deve poter ritagliare la propria solitudine”.
E’ la posizione da cui guardi chi diventa protagonista dei tuoi racconti? “Mi piace osservare quello che succede: entrare in una bar, vedere le persone, anche ascoltarle. Lo adoro. E poi mi piace passeggiare, ti dà la misura della realtà. Ti costruisci un’idea della gente e vedi le cose”.
Riveli una passione per i Testimoni di Geova… “Ora mi scrivono quando al citofono si presentano i Testimoni di Geova. Non ho niente contro di loro ma mi fa ridere questo essere fuori del tempo, questa idea di convertire al citofono”.
E’ stato complicato il passaggio dal romanzo al racconto? “Il romanzo è più vincolante nello sviluppo della trama, i racconti sono molto più liberi. A me sono sempre piaciuti i grandi classici: Hemingway, Dostoevskij, Bukowski. In loro è presente un’ironia di fondo, la mia è più cinica, quella che maggiormente si addice ai pezzetti di vita di “Non disturbare”.
Una sveglia che suona impazzita, un mercante italiano di arte contemporanea a New York l’11 settembre 2001 mentre le Torri Gemelle vanno giù. Lui si sveglia in ritardo e doveva già essere nel suo ufficio, in uno di quei due grattacieli che con una precisione chirurgica sta andando giù abbattuto da un aereo che entra nel suo ventre come un coltello affilato nella carne. In una New York impazzita e in preda al terrore, in un cocktail devastante di paura e follia, il protagonista decide di sparire («Allo specchio del motel ti osservi attentamente e non ti riconosci: non sei più lo stronzo mercante di arte contemporanea. Lui è morto (alleluja) e tu sei appena nato. Lui è sparito e tu sei comparso dalle forbici di un barbiere di provincia. Se non ti riconosci tu nello specchio, non ti riconoscerà nessuno da nessuna parte. Anche perché hai deciso che vuoi ritornare a New York, è lì che vuoi continuare a vivere, a esistere, solo che avevi bisogno di essere un’altra persona, una persona diversa da prima.»). Apre la cassaforte, prende i soldi e scappa e si eclissa, considerando il fatto che ormai tuti quelli che lo conoscono lo ritengono morto nell’attentato. Così inizia Respira, il nuovo romanzo di Roberto Saporito che anche questa volta ci dà un prova di notevole bravura. Sullo sfondo del suo libro l’11 settembre 2001 e la caduta delle Torri Gemelle. Ma non è il solito romanzo sull’argomento. Nel romanzo di Saporito non c’è la decadenza dell’Occidente ma la caduta esistenziale del suo protagonista, che appunto decide di sparire per cercare di respirare, abitatore perplesso del presente che muore quel maledetto giorno e disperatamente scompare per rinascere a nuova vita. È la storia di un moltiplicatore di futuri e di un azzeratore di passati costretto a fare i conti con il suo spirito inquieto che non sta bene in nessun luogo. Un intrigo esistenziale in cui il gioco dell’assurdo che coinvolge il protagonista rivelerà della realtà epifanie mozzafiato che lasceranno il lettore sconcertato e spiazzato. L’ 11 settembre 2001 non ha cambiato solo il corso della storia ma anche il privato di un mercante italiano d’arte contemporanea che vive a New York in perenne conflitto tra un presente che non riesce a catturare e un futuro difficile da immaginare. La sua scomparsa è il sinonimo di una fuga vera e propria che lo costringerà a vivere una frenetica corso contro il tempo in cui scoprirà di non avere avuto mai un passato. Le drammatica verità di fronte a cui si troverà è il cuore del romanzo che conquisterà i lettori e che ovviamente noi non riveliamo. Roberto Saporito si conferma, uno scrittore talentuoso che come pochi sa confezionare romanzi brevi. Anche in Respira l’autore di Alba, come nei suoi libri precedenti, ci inchioda alla pagina fino alla fine lasciandoci un immanente amaro in bocca che ha il sapore della letteratura che ci piace. Con una scrittura colta e originale Roberto Saporito ha un modo tutto personale di inventare storie come questa del suo nuovo romanzo. Tutti facciamo parte delle sue pagine, tutti ci ritroviamo, soprattutto nel finale che è un autentico colpo di grazia con cui non possiamo non fare i conti.
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