“Per morire c’è sempre tempo. Ma quando il fato, attraverso le gesta di un terrorista, ti fa il grosso,
(enorme) favore di farti scomparire, almeno a livello formale, tirando giù un paio di torri in quel di New
York in un martedì di settembre…
Il nuovo libro di Roberto Saporito “Respira” si apre così, portandoci nella “nuova” vita del protagonista, un
commerciante d’Arte stanco della sua “vecchia” esistenza.
La tragedia che colpisce New York, ma anche il resto del Mondo, è per lui l’occasione più unica che rara, di
eclissarsi dalla quotidianità, che non sopporta più, per iniziare un nuovo capitolo.
Ma morire non è abbastanza, perchè scegliere una nuova realtà, ma soprattutto viverla, è un altro discorso.
Non ci riesce proprio a godersela del tutto, questa libertà, impegnato ad essere braccato da un ex
socio e dallo scagnozzo – leggermente infastiditi – da decisioni che ha preso prima di “scomparire”;
dagli incontri con persone che gli cambieranno la prospettiva, dalle sue continue fughe da un Continente
all’altro.
E’ morto, scomparso, eppure ogni volta deve ricordarselo, quasi fosse un mantra per continuare a
fissarlo nella memoria.
Ancora un volta Roberto Saporito si legge tutto di un fiato, senza pause. Perché a tutti prima o poi è
capitato di voler lasciare tutto e andarsene, o almeno di pensarlo.
Ma Saporito fa di più, da scrittore di lungo corso, analizza il suo personaggio, fa sognare (le case in cui si
rifugia, i luoghi cool) e fa riflettere. Alla fine meglio la mediocrità, il lasciarsi vivere o cercare qualcosa che
non si ha, o che non si sa di volere?”
Laura Angeloni si è occupata della traduzione di “Nozioni di base”, che esce per la prima volta in Italia. Il volume di Petr Kral era stato pubblicato nel 2005 da Flammarion, in francese. Miraggi lo propone nella collana Tamizdat in una versione tradotta dall’originale ceco, un lavoro portato a termine da Angeloni dopo un inizio per lei fuori dell’ordinatio: “E’ stato un libro insolito rispetto a ciò che abitualmente traduco perché non l’ho proposto io per prima – racconta –. Infatti non conoscevo né Kral né quanto ha scritto. Per una volta non ho dovuto battermi per un libro, questo mi è letteralmente piombato addosso. Ed è anche stata la prima volta in cui affrontavo un testo non narrativo. Kral ha scritto sue sensazioni frammentarie, di differente lunghezza. Possono essere di due pagine oppure di poche righe. E si è trattato di una difficoltà in più, perché non c’è un plot da seguire: ogni volta devi ricominciare, ogni volta devi affrontare nuovamente un argomento. All’inizio ho fatto molta fatica, ho scoperto il senso di “Nozioni di base” alla seconda stesura e ci sono entrata dentro”.
Ci sono state altre difficoltà?
“Kral nasce come poeta ed è un surrealista, anche in queste prose. Per lui il linguaggio ha grande importante e per questo la traduzione si è rivelata un lavoro certosino, parola dopo parola, alla ricerca del ritmo e della musicalità”.
L’inizio è stata di “non conoscenza”. E la fine?
“Alla fine mi è piaciuto. E’ un periodo in cui personalmente rifletto molto proprio su quello che è il messaggio principale del libro: vivere momento per momento, non sfuggire l’attimo che ti si propone davanti. E’ decisivo quando, come me, hai tre figlie da crescere. “Nozioni di base” è poesia delle piccole cose, che sembrano insignificanti e invece non lo sono, ti aiuta a scoprire un mondo anche dietro un semplice gesto. Penso a quando Kralracconta il momento del caffè, il taglio di una cipolla oppure la sua passione per i treni, il modo in cui si abbandona a fantasticare sulla vita di passeggeri che vedi una volta soltanto e poi non incontri più. Chi di noi non lo ha mai fatto? E’ un libro che parla di cose eterne”.
E come occorre leggerlo?
“Lentamente, non in un solo fiato dall’inizio alla fine, anche se è corto. Lo devi prendere in mano a seconda di come stai o di come vivi. E’, in fondo, come un libro di poesie. Dai il tempo a ciò che leggi di depositarsi e vedrai che tante cose ti verranno in mente dopo”.
Palloncini, lecca lecca, coriandoli per il pubblico che è stato condotto dalla protagonista e dai suoi compagni di spettacolo in un «Luna Baci» coloratissimo, gioioso, pieno d’amore. Sì, perché le poesie raccolte in «Il Luna Baci» sono poesie d’amore. Amore per i colori, per le carezze, per il batticuore del primo incontro, per la strada, tanta, da fare per promuovere un lavoro che è prima di tutto una ragione di vita.
Poco più che trentenne, e questo è il primo dato da tenere in considerazione. Gli altri due sono il lavoro in un’osteria e Vigevano come città di origine. Li ritroviamo (tutti) in a “A fuoco vivo”, il primo romanzo di Ivan Ruccione. Inizi come poeta – una selezione delle sue prime opere è stata inclusa nel 2012 nell’antologia collettiva “Ho tutto in testa ma non riesco a dirlo” (Bel-Ami edizioni) -, poi i racconti, altre poesie e l’incontro decisivo: «Il libro è nato su Nazione Indiana. Ho sempre seguito questo blog letterario, perché è uno dei migliori. Un giorno del 2013 ci provo: prendo delle mie poesie e le spedisco all’attenzione di Francesco Forlani. Per gli articoli che pubblicava, mi sembrava il redattore più adatto alla mia sensibilità letteraria. Dopo qualche ora mi risponde: “Queste poesie buttale nel cesso, non sono all’altezza del tuo talento. Il tuo passo è quello del narratore. Mandami dei racconti”. Gli spedisco quello che mi sembrava il più bello. “Non è niente male – mi dice -, ma è troppo lungo. Mandamene uno che non superi le due cartelle”. Lo cerco, lo revisiono, nei successivi scambi di e-mail salta fuori che lavoro in cucina. Mi dice: “Alt. Fermati. Scrivimi un racconto che parli del tuo mestiere”. E così, quando verso le 23 torno a casa dal ristorante in cui lavoravo, mi metto a scrivere. Finisco alle 4 del mattino e spedisco. Alle 10 ricevo una mail che dice: “Bellissimo. Alle 11.30 sarà pubblicato. Tu forse non lo sai ancora, ma questo è l’inizio di un romanzo bellissimo. Mettiti sotto e scrivi il resto della storia”. Ed eccoci qui. Di me nella vicenda c’è tutto il sangue versato per il mio lurido mestiere, il fegato corroso, la voglia che avevo di addormentarmi e di non svegliarmi più.
E’ finito Masterchef, ha vinto Valerio Braschi, che è di Santarcangelo. “A fuoco vivo” era appena uscito e Mariano, il protagonista, lavora in un hotel a Cesenatico, a una ventina di chilometri da Santarcangelo. La sua vita è esattamente l’opposto di quella offerta dai riflettori della televisione.
«Nel libro ho ricordato a tutti che cosa sia questo mestiere. In un’epoca in cui bambini e preadolescenti sognano di fare i cuochi perché condizionati dalla tv, ho voluto registrare la vita di chi ai fornelli ci sta davvero, la vita di un cuoco normale: giornate da dodici o tredici ore di lavoro, essere minacciato dai colleghi se ti ammali, lavori stagionali della durata di sei mesi senza giorni di riposo, sottopagati, o in nero, in un ambiente tutt’altro che accomodante, dove la gerarchia è ferrea e iniqua come nell’esercito. Basti pensare ai tanti giovani e meno giovani cuochi che si sono suicidati, c’è una lista lunghissima».
Mariano che persona è? Sembra un prevaricatore, nei confronti di Stefano (“O sei uomo o sei cuoco” gli ripete) ma, alla fine, sembra emergere con una sua umanità.
«Davvero bisogna scegliere se essere uomini oppure cuochi. Le due cose non vanno d’accordo. Mariano ha capito che questo mestiere è un’idiozia, che le condizioni di lavoro sono disumane. Ma ormai ci è dentro e non sa come uscirne, nella vita sa fare solo quello. Le uniche cose che lo tengono a galla sono i libri, l’alcol e il sogno di diventare uno scrittore. Dunque cerca di fare di tutto per dissuadere Stefano – giovane lavapiatti diciannovenne, che sogna di diventare cuoco, suo aiutante – dall’intraprendere questa carriera. Lo massacra psicologicamente e fisicamente ma per il suo bene, affinché getti la spugna. Mariano si affeziona a Stefano perché vede in lui il suo più giovane alter ego; i moniti che gli rivolge sono come lettere spedite a se stesso».
Questa positività sembra torni anche nel rapporto con moglie e figlia, perse all’inizio del libro e ritrovate alla fine.
«Più che positività direi la voglia di non arrendersi. Il lavoro, oltre che fargli rinunciare a una vita propria, gli ha fatto perdere una famiglia. Così come cercherà di abbandonare il suo mestiere per fare lo scrittore, proverà a riavvicinarsi alla moglie e alla figlia, che non vede da tanti mesi».
Vigevano è parte importante del libro, inevitabilmente lo è anche Lucio Mastronardi. Qual è il suo rapporto di scrittore con lui?
«Di devozione. Spesso mi capita di andare a trovarlo al cimitero. “Il maestro di Vigevano” è tra i miei libri preferiti in assoluto. Sfortunatamente è uno di quegli scrittori troppo spesso dimenticati. Qui a Vigevano, ai suoi tempi – ma credo pure ora, visti i risultati -, non l’hanno mai preso sul serio, né come scrittore né come uomo. Io credo che la mia città abbia sulla coscienza il suo suicidio. Ha avuto un’esistenza travagliata, che per ovvie ragioni non ho vissuto di persona, ma che mi ha sempre affascinato. Per capirla meglio è stata fondamentale la lettura della sua splendida biografia, “La rivolta impossibile”, scritta da Riccardo De Gennaro. Sono presenti anche curiosissime corrispondenze con Elio Vittorini e Italo Calvino, piene di angosce e ossessioni. La cosa che mi mette tristezza dell’uscita del mio libro è che non posso andare tutto timido a citofonargli per regalarglielo. Ma un giorno di questi inforco la bicicletta e vado gettarne una copia nel Ticino».
Pagine scarne. Bianco dominante, perennemente. Poche parole. Spazi vuoti, giacigli di versi. E’ così Bianca Dentro, raccolta-tratteggio di un amore malsano, andato a male, si direbbe quasi marcio. Amore da cui l’autore Marco Polani esce, come ci informa anche nella premessa al libro, scolorito. “Ci si colora a vicenda per poi scolorirsi”, scrive: Bianca dunque è sì nome proprio dell’amata, ma anche comune di una persona scolorita e perciò bianca appunto.
Annamaria Suolavecchia, wedding planner (si fa per dire) del matrimonio di Renzo e Lucia, presa negli ultimi preparativi e nell’attesa dell’arrivo degli sposi, ci racconta le mille vicissitudini passate dai due promessi sposi negli ultimi due anni, da quando, cioè, “quel matrimonio non s’aveva da fare”…
Dramelot in collaborazione con Miraggi edizioni e Chef in Valigia presenta:
IL PRANZO DI NOZZE DI RENZO E LUCIA
di Marco Giacosa
uno spettacolo di e con Elisa Galvagno
consulenza artistica di Alessio Maria Romano e Francesca Bracchino
luci di Sebastiano Peyronel
musiche di Luca Mangani
“Amici e parenti tutti, siete qui convenuti, a questo pranzo di nozze, con due anni di ritardo. Avevate ricevuto l’invito per il giorno 8 novembre 1628, che era un mercoledì; purtroppo però molto in quella settimana andò storto e non se ne fece nulla. Finalmente eccoci, tutti assieme, a festeggiare l’unione di Renzo e Lucia! Sempre che arrivino…” Suolavecchia Annamaria, la wedding planner più brava di Lombardia, è indaffarata per la verifica degli ultimi dettagli del ricevimento, gli ospiti sono arrivati e mancano soltanto gli sposi. Approfittando di questo ritardo – Renzo e Lucia sono a fare le foto e si sa come funziona, le cose vanno sempre per le lunghe – la donna racconta le avventure che hanno tenuto lontani per tutto questo tempo gli innamorati. Che adesso però stanno per arrivare, questione di minuti e arrivano. O meglio, dovrebbero…
Il libro è legato al colore bianco, con la duplice valenza di purezza e di cancellazione. Credo che siamo come delle pagine bianche che vivono, si contagiano inevitabilmente con qualcun altro, per caso, per volontà o per necessità e, alla fine, si sporcano.
C’è una sorta di continuità (purtroppo) per quanto riguarda i Promessi sposi: quello che viene considerato il romanzo italiano per eccellenza è spesso visto, al tempo stesso, come uno dei momenti meno eccitanti del percorso scolastico, associato solo a compiti e interrogazioni. Accadeva ieri, accade oggi. E lo ha scoperto anche Marco Giacosa quando, incontrando i ragazzi delle scuole superiori, raggiungeva sempre un punto critico parlando di Alessandro Manzoni. “I ragazzi vedevano i Promessi sposi come una cosa noiosa, da rifiutare a prescindere – racconta il blogger-narratore-giornalista -. Io li leggevo proprio in quei giorni e, forse per l’età, ne avevo un’altra idea. Mi dicevo che non era possibile accostarsi al romanzo solo in quel modo”.
E qual è stata l’intuizione di fondo?
“Quella di riscriverlo con un linguaggio accattivante, senza che venisse interpretato come una presa in giro dei Promessi sposi, come una loro banalizzazione. Ho invece reso omaggio a Manzoni inserendo delle parti originali. E’ nato così Il pranzo di nozze di Renzo e Lucia: in un libro di 176 pagine sono racchiuse le oltre 800 dell’originale. Ho ridotto in miniatura tutte le scene, restando fedele all’impianto manzoniano, con l’obiettivo di coinvolgere il lettore”.
Un obiettivo che deve essere quello di ogni libro: se non coinvolge, a che cosa serve?
“Io ho il massimo rispetto per gli insegnanti e per il loro lavoro, i Promessi sposi sono materia di studio. Ma pochi professori chiedono ai ragazzi: vi è piaciuto, vi sta piacendo? Perché il romanzo di Manzoni deve essere anche lettura e la piacevolezza è il primo criterio. Io l’ho scritto così, sperando di avercela fatta”.
Oltre all’espediente di un racconto più concentrato, c’è anche quello di un linguaggio su piani.
“E’ un misto di quotidianità (come slang e espressioni dialettali) e di rispetto dell’originale. Non è stato un esercizio banale o facile, ho adoperato molta cura nell’armonizzazione dei registri”.
Perché partire del pranzo?
“E’ un’idea nata parlandone con Fabio Mendolicchio, lo chef in valigia. Abbiamo pensato a come avrebbe potuto essere il pranzo del matrimonio di Renzo e Lucia, visto che è uno degli elementi meno noti del romanzo, come le nozze stesse. Per moltissimi, ancora oggi, i Promessi Sposi si chiudono quando i due si ritrovano. A me è piaciuto partire proprio dal pranzo, dall’evento che si tiene nel palazzotto che fu di don Rodrigo. Qui entra in scena Suolavecchia Annamaria, la wedding planner più brava di Lombardia. E’ lei che accoglie gli invitati, in attesa di questo momento da due anni, dal 1628. Ma gli sposi sono in ritardo, causa foto, e Lucia avvisa con un whatsapp. Annamaria, allora, intrattiene gli ospiti raccontando con semplicità quali sono state le vicende che hanno portato a questo momento, ovvero i Promessi Sposi come li ho riscritti”.
Ma non c’è solo il romanzo: il pranzo fa parte di un progetto più ampio.
“Sono tre fasi strettamente legate tra di loro. La mia versione del romanzo, come detto. Quindi le cene che organizza Fabio, con ricette (presenti nel libro) e prodotti dell’epoca. Poi lo spettacolo, ideato e messo in scena da Elisa Galvagno. E’ lei che trasporta Annamaria sul palcoscenico, è lei che racconta al pubblico i miei Promessi sposi. Libro, cena e teatro non potrebbero esistere indipendentemente l’uno dall’altro”.
Il pranzo di nozze di Renzo e Lucia di Marco Giacosa diventa un cooking show con menu originale del ‘600 di Chef in Valigia Fabio Mendolicchio (Kitchen mon amour). Una cena itinerante, proposta nei luoghi più disparati, come ci ha abituati lo “Chef in valigia”, una serata in cui gustare un menu antico, preparato dal vivo, godendosi i racconti, le curiosità e i divertenti aneddoti manzoniani di Marco Giacosa.
Anno 1630, ci si ritrova seduti al banchetto di nozze della coppia letteraria più famosa d’Italia. Mangiando con loro un menù dell’epoca, ripercorreremo che cosa è successo in quei due anni, riscoprendo i momenti più importanti della vicenda che ha tenuto col fiato sospeso intere generazioni.
Il pranzo di nozze di Renzo e Lucia di e con Marco Giacosa – Chef Mendo Fabio Mendolicchio
È facile innamorarsi dei Promessi sposi se sai come farlo.
Manuale di seduzione per lettori disaffezionati.
C’è di che riconciliarsi con I promessi sposi. Quel signore era forse poco simpatico, malgrado i buoni uffici di Natalia Ginzburg. Ma il libro di quel signore, che bello! Leggetelo e rileggetelo, ragazzi, sotto il banco, mentre il professore parla d’altro. Vi invito a una lettura clandestina di Manzoni, come se fosse un libro proibito.
(Umberto Eco, 1985)
Non c’è nulla di più concreto che ripartire, a distanza di circa 400 anni, proprio da ciò che all’epoca si mangiava. Il cibo, la tavola, il bisogno di sfamarsi tra carestie e povertà. Gli alimenti che erano facilmente recuperabili ci raccontano molto di quell’epoca, narrano meglio le storie delle famiglie, inquadrano bene le esigenze dei diversi ceti sociali. Sarà il format del cooking show di Fabio Mendolicchio, popolarmente conosciuto con L’IBRIdaCENA, che curerà la preparazione delle portate che riporteranno i commensali in un’epoca lontana, attraverso il gusto.
Sarà invece lo scrittore Marco Giacosa che condurrà il gioco dell’immaginazione, stuzzicando il vostro appetito narrativo con un racconto incantevole e coinvolgente de I Promessi Sposi e di quel tanto atteso finale.
“Gentili signori, siete qui convenuti, a questo pranzo di nozze, con due anni di ritardo. Avevate ricevuto l’invito per il giorno 8 novembre 1628, che era un mercoledì; purtroppo però molto in quella settimana andò storto, e non se ne fece nulla. Per tanto tempo il destino si è frapposto tra i nostri cari Lucia e Renzo, ma quando tutto sembrava ormai perduto, ecco la Divina Provvidenza posare su di loro la sua mano santa. E finalmente eccoci, tutti assieme, a festeggiare l’unione di Renzo e Lucia! Io vi auguro buon appetito, di cuore.”
E spero apprezzerete, tra un piatto e l’altro, il racconto che andrò a fare delle grandi e gravi cose accadute negli ultimi due anni, che hanno tenuti lontani gli innamorati, che non sono riuscite, tuttavia, a vincere il loro amore!
Marco Giacosa
Menù
aperitivo d’epoca
Ricottine in salsa di lenticchie, miele e noci
Macedonia salata di cicerchie, uva e mais a tocchi
Crostino di pane con pollo e funghi
Farinata di ceci all’antica e quartirolo lombardo
Zuppetta di cipolle con pane accomodato
Mono crostatina degli sposi di frutta fresca sciroppata
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