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Ulisse Orsini e il peso insostenibile della libertà – Angelo Di Liberto su Modus Legendi

Ulisse Orsini e il peso insostenibile della libertà – Angelo Di Liberto su Modus Legendi

di Angelo Di Liberto

Quando nel 1926, in una nota a “Il Castello”, Max Brod divulga la volontà di Franz Kafka di fare terminare il romanzo con la morte dell’agrimensore K. proprio quando dal castello arriva la concessione all’uomo di poterci vivere e lavorare, Kafka apre una questione mai risolta sul rapporto tra essere umano e libertà.

Già nel quinto paragrafo del quinto libro di Fëdor Dostoevskij, “I fratelli Karamazov”, dal titolo “Il Grande Inquisitore”, l’autore russo mette l’Inquisitore nella condizione accusatoria contro il Cristo ritornato, che aveva tentato di portare la libertà a un popolo non in grado di riconoscerla e di usufruirne. In questo al pari di Vasilij Vasil’evič Rozanov, che nel suo “La leggenda del grande inquisitore” analizza quel rapporto in seno al potere ecclesiastico, vero responsabile della deriva nichilistica dell’essere umano, allontanato da se stesso e da Dio.

Perché sei venuto a infastidirci?, dice l’Inquisitore a Cristo, disvelando quell’inquietante verità del bisogno di un’autorità che governi e induca l’illusione di felicità negli uomini, che è una finta libertà, che acquieta e abiura l’incertezza.

La domanda viene ripetuta ancora, è il cardine di un consolidamento di potere, perché è nel binomio potere-libertà che l’Uomo fa i conti con la persecuzione, la solitudine e la colpa dinnanzi all’autorità.

Il terribile e ingegnoso spirito, lo spirito dell’autodistruzione e del non essere, – continua il vecchio, – il grande spirito parlò con Te nel deserto, e ci è stato tramandato nelle scritture che egli Ti avrebbe «tentato».


E prosegue, “I fratelli Karamazov”, col dubbio su chi fosse nel giusto, se Cristo o colui che l’interrogò.

In questa enunciazione vi è la forte opposizione dell’essere e del non essere, che è propria del gioco sottile del potere, che tenta di annientare qualsiasi volontà. L’Uomo acconsente perché il peso della libertà è insopportabile.
L’irresolutezza, secondo l’Inquisitore, condurrà l’essere umano a innalzare una nuova Torre di Babele al posto del Tempio di Dio, in mezzo alla pena, agli affamati, ai torturati, nel ciarpame e nelle discariche del mondo. E in questo inganno consisterà la sofferenza. Nel non trovare un posto nel Castello, nel non poter incontrare Klamm, il sommo funzionario, sfuggente, iperboreo, a cui K. vuole rivolgersi per risolvere la sua situazione. In ceco “klam” significa inganno, illusione, e tale sarà il funzionario, le cui competenze non verranno mai esperite nel romanzo.

Ulisse Orsini invece non ha nessuno a cui rivolgersi. Nella sua innocua nullità non ha nemmeno un Mefistofele moderno che gli insidi l’anima. Ulisse Orsini è un ultimo, un esodato, un rifiuto, una crosta purulenta, un ibrido umanoide senza identità. Ce l’aveva, Ulisse Orsini, ma l’ha persa. È stato costretto, Ulisse Orsini, ad andare via da casa, dal lavoro, dalla società. Ulisse Orsini non esiste più. E al suo creatore, Sergio La Chiusa, non resta altro che regalargli la parte in un romanzo per tenerlo in vita, da cui entra ed esce, con un “tu”, con un “noi”, a seconda di chi lo segue, se i lettori da soli o insieme a lui, il protagonista, lo scrittore e chissà chi.

Calma però, calma: Ulisse non sa d’essere in un romanzo: è un personaggio serio, a suo modo, e invece di perdere tempo mettendo in discussione i ruoli cerca una via d’uscita.

Lo inducono ad andare dal dottor Klammerman, il deus ex machina, in ospedale, che il suo sia un caso clinico?, quest’Ulisse che sragiona, che non sa che farsene della sua libertà, ora che la società non lo vede più.

Ma è l’inizio di un’odissea tra gli antispecisti, tra statue e manichini, in un condominio frequentato da fantasmi, tra incendiari ed enigmisti, con la sua valigia piena di vestiti o di niente, come un moderno “Bad Boy Bubby”, alienato, visionario pronto a tutto, che non è capace di ribellarsi, o per meglio dire, che in una smaniosa, affettata e quanto mai disperata ribellione non trova la felicità.
E allora vaga tra discariche e relitti umani scambiati per guru, mentre Sergio La Chiusa svuota le frasi del superfluo, quei pensieri che a Ulisse Orsini mancano, vanno e vengono si fanno ipotattiche paralisi dinnanzi all’abisso.

Come aveva fatto nei precedenti testi, La Chiusa, “Che ci facevo sulle scale di un caseggiato in rovina? La mia situazione mi sembrava così irreale che sospettai di essermi inventato tutto (“I Pellicani”, pubblicato da Miraggi Edizioni, finalista al Premio Italo Calvino – Menzione Treccani; al Premio Bergamo, al Premio Giuseppe Berto e al Premio Megamark) e “Tali interrogativi mi spaventano e m’allontanano pericolosamente dalla realtà” (“Madre nel cassetto”, pubblicato da Industria & Letteratura), dicevo, come aveva fatto nei precedenti testi, lo scrittore induce il suo protagonista in una realtà deliroide fatta di frasi stroboscopiche sapientemente dosate, che allargano la visione del lettore e la costringono a vedere tutto in primo piano, non esiste più la tridimensionalità, la visione di fondo, ogni cosa è percepibile accanto all’altra, senza soluzioni di continuità ma con forme nitide e riconoscibili nonostante non siano scisse dalle altre.

A La Chiusa non resta che l’ironia, il tragico umorismo come primordiale autocoscienza del personaggio, in questi tempi in-drammatici e non più tragici. E così Cristo torna tra noi, in una versione burlesque e anacronistica alla James Ensor, autore del quadro che lo stesso La Chiusa cita nel romanzo, “L’entrata di Cristo a Bruxelles”, un’opera pittorica del 1889, in cui Gesù è attorniato dalla trasfigurazione epigonale di categorie ridicole. Buffoni, medici, paladini, maschere da ruolo sociale. Quest’opera è da subito ribattezzata “L’ingresso di Cristo nella città della moda e degli eventi nel 2004”, alludendo a Milano, nella sua impostura più spietata, città finta e di superficie.

«Cari concittadini, come potete vedere vi abbiamo riportato Gesù in persona, la nostra giunta comunale ha lavorato a lungo per arrivare a questo risultato che ci ha permesso di vincere un’agguerrita concorrenza internazionale. Tutte le capitali europee se lo contendevano: Parigi, Berlino, perfino Londra, che avrebbe voluto metterlo in coppia con la regina ed esibirli insieme a Buckingham Palace, e più tardi al museo delle cere, e siamo davvero onorati che nonostante le molte proposte alla fine Gesù abbia scelto la capitale morale del Belpaese per ripresentarsi nell’arena pubblica, e ciò è motivo d’orgoglio per la nostra città delle opere, sempre all’avanguardia, sempre un passo avanti… Ma ora basta! Ve l’abbiamo fatto vedere!».

Il Cristo pare vacillare, non è più di questi tempi, il Grande Inquisitore l’ha spodestato, tra palestrati, assessori, imprenditori, tutti a chiedere sciocchezze da talk show, incapaci di focalizzare le questioni essenziali.
Sindaco e Cristo, come ne “I fratelli Karamazov”, solo che ora è una farsa, la farsa dei pomeriggi in tv, degli esperti che vedono talenti dappertutto, anche se il talento è fuggitivo ed è meglio che quello vero si disperda, liquefatto dalla prestazione posticcia di un qualsiasi saltimbanco da circo, fino a distorcere la parabola dei talenti.

Perché oggi si preferisce il fenomeno e tra tutti il morto singolo, fenomeno dei fenomeni, quello empatico, che scippa una lacrima al tizio seduto in poltrona a casa sua.

E chi vuole la verità?

Sono io il vero Ulisse, il signore è un impostore. Un personaggio! Posticcio e inattendibile pure come personaggio!

E avanti il prossimo! Senza peso, senza libertà.

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Le rovine di La Chiusa. Recensione a «Il cimitero delle macchine» su Nazione Indiana

Le rovine di La Chiusa. Recensione a «Il cimitero delle macchine» su Nazione Indiana

di Giorgio Mascitelli

Il cimitero delle macchine (Torino, Miraggi, 2024, euro 26) è il secondo romanzo di Sergio La Chiusa, anche se, come precisa l’autore nella nota alla fine del libro, la sua ideazione precede I Pellicani risalendo al biennio 2003-05 e avendo poi vissuto una serie di rielaborazioni e riscritture anche in tempi più recenti. In questo romanzo dominano le rovine, le discariche abusive, le costruzioni fatiscenti e per l’appunto i cimiteri di macchine; ora al lettore di La Chiusa un paesaggio del genere non giungerà affatto sorprendente, ma se ne I Pellicani ci troviamo in una generica periferia urbana, in questo romanzo l’azione si svolge a Milano, che nell’immaginario mediatico nazionale è la città patinata e nuova di zecca per eccellenza. Ovviamente, come sa ogni milanese salvo quelli onorari, anche a Milano ci sono posti del genere, del resto l’immaginario futurista della città nasce da quelle tre piazze e quattro vie che oggi ricorrono in tutti gli spot pubblicitari, ma il tema della rappresentazione di La Chiusa non è di ordine geografico né sociale, perlomeno nel senso ristretto e immediato che tale aggettivo prende nella narrativa realistica di denuncia. In La Chiusa la rovina è la concretizzazione spaziale della natura della civiltà contemporanea e della dimensione psichica dei suoi abitanti. Se “La visita delle rovine ci fa fugacemente intuire l’esistenza di un tempo che non è quello di cui parlano i manuali di storia o che i restauri cercano di richiamare in vita. E’ un tempo puro, non databile, assente da questo nostro mondo di immagini, di simulacri e di ricostruzioni, da questo nostro mondo violento le cui macerie non hanno più il tempo di diventare rovine. Un tempo perduto che l’arte riesce talvolta a ritrovare” (Marc Augé), le rovine di La Chiusa in realtà non hanno alcuna funzione di recupero e di rievocazione e non sono nemmeno macerie che non hanno fatto in tempo a diventare rovine, al contrario esse sono perfettamente funzionanti, come dimostra il fatto che sono fittamente popolate. Si direbbe quasi che sono state progettate per essere fatiscenti come i carceri di Piranesi, infatti esse sono regolarmente previste dal funzionamento standard del potere e questo ne rivela la natura allegorica della situazione storica contemporanea, in cui sia le città sia i rapporti tra gli uomini sono malfunzionanti e tendenti al degrado perché sono state progettati e promossi per una finalità diversa da quella di un’armoniosa vita collettiva.

In questo spazio devastato si muove Ulisse Orsini. Egli è un disoccupato, disadattato che appartiene alla stirpe degli Ulissidi, ma più che al capostipite deve qualcosa al fondatore del ramo moderno della famiglia, quel Leopold Bloom di Dublino, con il quale se non altro condivide una qualche propensione a scorgere, nella veglia e nel sonno, epifanie della bellezza in questa realtà desolata. Ulisse incarna il tipo del fuggiasco, è un fuggiasco assoluto per così dire: dapprima resosi conto di essere ormai un emarginato fugge dalle ambigue istituzioni che il mondo predispone per coloro che non ce la fanno oppure è costretto a fuggire da casa sua e da altri luoghi;  quando arriva nel cimitero delle macchine dove trova altri emarginati come lui, non molla mai la valigia e si pensa provvisorio, anche perché scopre a sue spese la verità del vecchio detto di Trotzky che è più facile morire in nome dei proletari, che qui potremmo parafrasare con reietti o appunto emarginati, che viverci assieme. In Ulisse è talmente connaturata la tendenza alla fuga che perfino quando partecipa a una dimostrazione per riformare il mondo, superando per una volta le proprie inclinazioni individualiste, viene messo in fuga dalle forze dell’ordine costituito. E questa tendenza spiega anche il finale, che per comprensibili motivi non posso anticipare qui.

Al protagonista capita di assistere nella discarica ai disperati tentativi di un bassotto di avere un coito con una cagna maremmana, destinato a fallire comicamente nel suo intento per le ostensibili differenze di taglia. In qualche modo in questa immagine vi è condensato lo scarto tra aspirazioni a una vita degna di essere vissuta e opportunità di viverla per davvero. Eppure questa immagine solleva lo spirito di Ulisse perché la vitalità del suo scopo sembra assegnare un senso a un mondo in cui anche il senso appartiene a pieno titolo alle rovine. Analogamente l’entrata di Cristo a Milano non è destinata a riprendere il racconto evangelico, come invece l’entrata a Bruxelles nel dipinto di Ensor che La Chiusa cita esplicitamente nel testo. Qui Cristo è accolto dalle autorità cittadine, trattato come celebrità per il quarto d’ora di sua spettanza e poi rapidamente dimenticato senza bisogno di alcun tradimento o voltafaccia della folla. Il racconto evangelico perde di senso nella società dello spettacolo.

Il romanzo è narrato in terza persona con cambi di focalizzazione e addirittura in alcuni passi con un cambio verso la prima persona plurale, quasi che il narratore onnisciente ci suggerisse la sua identificazione con il protagonista. Inoltre sono presenti inserti metanarrativi in cui il narratore rompe deliberatamente la finzione del racconto apostrofando il lettore. Tutte queste sono procedure, come nei classici del modernismo, volte a creare un rapporto di straniamento. Il problema non è qui fare una storia ben narrata che spieghi un po’ di tutto e un po’ di niente, ma di offrire squarci e agnizioni sul presente, quasi dei flash che illuminano frammenti di paesaggio nella notte e questo spiegherebbe perché in questo autore è presente un forte immaginario pittorico non solo in termini di citazione colta, ma di dialogo con alcuni grandi della nostra tradizione (il già menzionato Ensor, Botticelli, il prediletto da La Chiusa Brughel ecc.). Verrebbe da dire che nel romanzo ciò che conta non è il soggetto, ma lo sguardo doloroso che Ulisse grazie al chiaroscuro della scrittura di La Chiusa volge sulle persone e sugli oggetti senza mai distogliere gli occhi. Tutto questo iscrive Il cimitero delle macchine nel campo della letteratura inattuale, eppure quell’inattualità è la verità della letteratura ossia la capacità di gettare uno sguardo sul presente libero da quelle ipoteche culturali e psicologiche che la società getta su se stessa nella forma dell’ideologia se non della menzogna. E questo libro è oltremodo vero.

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3 panini dal Mangialibri a «Dov’è passato l’angelo » di Jan Balaban

3 panini dal Mangialibri a «Dov’è passato l’angelo » di Jan Balaban

di Mauro Corso

Tornare a casa, prendere tre bottiglie di birra rossa forte, trovare il modo per imbottigliare un passato che non vuole saperne di essere dimenticato. Svegliarsi di soprassalto per la rottura della vetrina di un negozio di computer. Ladri che fuggono. Insonnia. Scendere, andare in un bar aperto tutta la notte. Ancora birra. La sigaretta come un catalizzatore che riavvolge il cinema della memoria. Martin è di nuovo nell’acciaieria dal nome poco originale di Nová Hut’, la fatica, i turni inumani, il calore estremo, il nero e il giallo della “Nová svoboda”, quella “Nuova libertà” dell’impero sovietico che sa molto di prigionia. Gli aguzzini sono quei russi senza volto che eppure sembrano essere dappertutto, capillarmente, in ogni aspetto della vita ceca. Tuttavia nella vita di Martin c’è Eva, più simile a una visione che a una realtà, una boccata d’ossigeno nell’atmosfera soffocante di coke e carbone. Allora fuggire da quel mondo “giallonero” diventa un’esigenza vitale, una questione di sopravvivenza e la fuga nel privato domestico non è più sufficiente a garantire quel minimo spazio vitale che permette di non crepare nella solitudine. Quello che restano sono i piccoli, inutili gesti di ribellione, come chiamare il ristorante Stalingrad “U Hitlera” (“Da Hitler), nonostante i professori di storia cerchino di soffocare ogni parallelismo tra i due tiranni…

Il romanzo di Jan Balabán è avvolto fin dall’inizio da un senso di spaesamento che arriva al lettore in modo concreto fin dalle prime pagine. Aprendo il libro a pagina 5 ci si trova infatti davanti al titolo “Diciannovesimo”. Chi legge cercherà invano errori di impaginazione o di allestimento: il diciannovesimo è davvero il primo capitolo, segno di un inizio in medias res che è come un salto per tuffarsi nel passato lontano. La vita di Martina è sospesa su un filo, da una parte il comunismo, con il suo conformismo, con le sue vite standardizzate da un’industrializzazione violenta e soffocante e con le sue ribellioni di gioventù, dall’altra una società post sovietica incerta nelle sue fumose promesse. Nei ricordi di Martin affiorano luoghi, fatti e personaggi, come il compagno di scuola Tonda Gona, che da bambino soffrì ogni forma di umiliazione da parte della sua docente. Insegnante Piskalová che gode dell’impunità dell’oblio perché “Gli insegnanti cattivi hanno la fortuna che i bambini rimuovono la crudeltà dei momenti di umiliazione nelle stanze oscure della loro anima”. Tonda Gona diventa così un personaggio tragico, al punto da diventare Tonda Antigone, in un lungo monologo che rivela come tutte le promesse del regime siano in realtà un terrificante tradimento. Martin si spinge oltre e denuncia come illusori tutti i regimi, siano essi capitalisti, comunisti, russi, tedeschi, austriaci o ebrei (sic). Il libro di Balabán è un gioco al massacro in cui la posta in gioco è la vita di un’intera generazione, passata in attesa del “passaggio dell’angelo”, quell’unico momento di riscatto che si può perdere o cogliere al volo. La prosa è densa, ricca di riferimenti alla storia e alla letteratura ceca, ma fortunatamente un apparato di note non invasivo aiuta a non perdere la bussola. Un romanzo dolceamaro per chi voglia capire qualcosa di più dei paesi che sono stati all’ombra opprimente dell’Unione sovietica.

https://www.mangialibri.com/dove-e-passato-langeloQUI l’articolo originale

Lucie Faulerová / Tecniche di scomparsa – Recensione di «Io sono l’abisso» su Pulmagazine

Lucie Faulerová / Tecniche di scomparsa – Recensione di «Io sono l’abisso» su Pulmagazine

di Riccardo Cenci

Il viaggio ferroviario, potente metafora dell’esistenza che potrebbe richiamare alla mente Moska-Petuškì di Venedikt Erofeev, o ancora La freccia gialla di Pelevin, fornisce il ritmo narrativo a Io sono l’abisso, prima opera di Lucie Faulerová a essere tradotta in Italia. Una scrittura onnivora, densa, carnale e affabulatrice non immemore della peculiare esperienza poetica di Hrabal; una sorta di monologo joyciano nel quale la parola scandaglia il reale con implacabile lucidità. Pensieri e ricordi si susseguono, trovano corrispondenze analogiche in un flusso travolgente e ininterrotto. Una confessione di estrema crudezza, ma anche percorsa da un afflato profondamente umano e mitigata da un umorismo tipicamente ceco.

Il titolo italiano proviene da un brano estratto dall’interno del testo, ed evoca inquietudini mitteleuropee. Se, come scrive Thomas Bernhard, “i nostri interlocutori cercano sempre di spingerci contemporaneamente in tutti i possibili abissi”, Faulerová espone al nostro sguardo le prospettive più vertiginose della propria anima. Il titolo originale, che letteralmente significa Ragazzamorte, ci introduce in una realtà costantemente sull’orlo del baratro. Tirando fuori dall’acqua un fantoccio che rappresenta Morana, la dea della morte nella mitologia slava, la protagonista Marie compie un gesto di sfida, una ribellione nei confronti dell’incomprensibile. Le continue allusioni alle differenti modalità del suicidio pongono l’accento sugli aspetti pratici e crudi del gesto. Residui del mondo infantile balenano nella narrazione.

La protagonista vorrebbe imparare a scomparire, come un mago, per scoprire il segreto dell’esistenza. Svegliarsi a volte è piacevole, perché si resta per un istante sulla soglia del nulla. La visita al planetario pone interrogativi impossibili sull’universo. “Il serbatoio di domande e misteri era inesauribile”, scrive Faulerová. “Dio misericordioso, quanti misteri ci sono al mondo”, scrive dal canto suo Erofeev. Anche l’individualità, sempre sul punto di sgretolarsi, appare un enigma. “Ma io chi sono da sola?”, si chiede Marie cercando di collocarsi in prospettiva con gli altri. Il suo cercare un contatto fisico nella folla anonima è un gesto per affermare la propria esistenza. Il nulla è una minaccia costante. La paura è quella di svanire, come la ripresa illeggibile di una telecamera di sorveglianza. “Forse nella realtà non esisto. Forse nella realtà sono soltanto un’imitazione”, si chiede angosciata la protagonista.

Il viaggio si rivela faticoso, fantasmagorico, irto di immagini speculari e prospettive illusorie che confondono i sensi. Le facili teorie, che presumono di avere una spiegazione per tutto, vengono demolite con corrosiva ironia. Il senso di colpa per non aver saputo impedire il suicidio della sorella e le tragiche vicende familiari sono l’occasione per una narrazione totalizzante sul senso dell’esistenza. Decidere se cercare di sopravvivere, a qualunque costo, o punirsi lentamente, o farla finita per sempre è un dilemma che lacera la coscienza. “Ed è come se avessero tirato via la tovaglia dentro di me, e tutti i piatti cadessero a terra frantumandosi in milioni di minuscoli cocci”, una immagine magnifica che ben definisce la peculiare voce di Faulerová, la sua capacità di far presentire la fragilità, il carattere effimero della nostra esistenza.

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Il lungo viaggio di Marie: Io sono l’abisso di Lucie Faulerová su Articolo21.org

Il lungo viaggio di Marie: Io sono l’abisso di Lucie Faulerová su Articolo21.org

di Ornella Cioni

Tutum … sh – sh-sh – fiuuu sono i suoni onomatopeici che spezzano  in frammenti i ricordi, le riflessioni, le immagini , le fantasie che si affacciano alla mente di Marie, una ragazza ventitreenne che durante un viaggio in treno dialoga con la propria immagine riflessa sul finestrino o con i flashback della sua vita che scorre come una pellicola sgranata che intercetta talvolta le luci di un altro treno che corre nella stessa direzione,  talvolta il buio di una stazione in cui una busta bianca volteggia sul binario a fianco. A  Marie piace  essere una passeggera: “A volte di notte giro per la città. Con il tram notturno, con l’autobus, o con l’ultima metropolitana. Giro per la città perché non riesco a dormire. A volte è un trucco infallibile, come una mazzata in testa. I sobbalzi, le oscillazioni mi cullano, un paio di volte sono persino piombata in un sonno profondo … Altre volte non mi addormento, ma mi sento comunque rilassata. Fare la passeggera mi calma”.  Questa volta si tratta però di un viaggio lungo, doloroso, di cui non si conosce la meta, ma come si sa e sa anche Marie , “ la meta è il viaggio in sé” e forse questo sarà un viaggio di  ritorno. Marie ci consegna via via tessere disordinate della sua vita, una vita che l’ha messa a dura prova. Una famiglia: genitori e tre figli, Adam il maggiore e due figlie Marie e Madla , di due anni minore, molto unite fra loro, vivono nel piccolo paese di Carogna nella repubblica Ceca. La vita della famiglia viene  sconvolta prima dalla malattia di Madla e dall’abbandono della madre che,  presa in una sorta di follia,  se ne va; poi Madla, quando ormai sembra guarita, si suicida.  “Non può essere un caso, è tutta colpa mia! Mia responsabilità! Perché non ho lanciato un sasso addosso a Morana come tutti gli altri anni? Perché mi son messa in testa di tirarla fuori dall’acqua? Ho salvato la morte!” Marie sprofonda nel pensiero magico, sconvolta dai sensi di colpa  per l’abbandono della madre, per la sorella, cui era legata a doppio filo e di cui non aveva saputo capire fino in fondo la disperazione, per il padre, piegato dal dolore, che ogni giorno di più ingrigisce. La perdita della sorella è un vuoto  incolmabile “A Madla penso ininterrottamente. Un binario cieco. Un tunnel senza fine. La pagina vuota di un libro”. Vive un forte senso di perdita anche di se stessa “Probabilmente non sono mai stata me stessa. Mi sono sempre intrufolata di soppiatto nei mondi degli altri. Trasferendomi in essi come in case estranee. In casa di Madla, in casa del mio primo e poi del mio secondo ragazzo, nella casa di Rochester. Forse nella realtà non esisto. Forse nella realtà sono solo un’imitazione … Non sono me stessa. Devo attaccarmi. Essere parassita. Sono dipendente. Incompleta. Una cornice senza quadro. Una scopa senza paletta. Una semiretta. Una frase incompiu- ta – tum”. La bambina che sognava di diventare una grande maga come Copperfield, che  era incantata dai pianeti, dall’Universo e  voleva scoprire il moto perpetuo, a ventitré anni ha già cambiato più  volte facoltà, fa lavori precari e umili, vive in un monolocale di una casa diroccata e coltiva un amore platonico per il falegname presso il cui laboratorio  fa le pulizie e che chiama Rochester, come l’accattivante, burbero e romantico personaggio di “Jane Eyre”.  A Marie succedono strani incidenti, che forse incidenti non sono e che lasciano pesanti tracce sul suo corpo. Si è rotta una mano cadendo da un albero, ha sbattuto violentemente la testa in  uno specchio nel bagno dello studentato, è stata vista cadere  da una scala mobile,  si è tagliata un dito, ha preso la scossa accendendo la luce con l’interruttore rotto del suo palazzo; è sopravvissuta alla scossa , ma si è tranciata un terzo della lingua e riesce a parlare sono in modo quasi incomprensibile. E’ossessionata dall’idea della morte,  affascinata fin da bambina dalla figura di Morana, nella mitologia slava dea della morte, ma anche della rinascita nei riti primaverili che si svolgevano nel suo paese. Morana, al cui fantoccio lei non ha lanciato il sasso come gli altri bambini e che lei ha recuperato di notte dal fiume per sconfiggere la morte e invece, si convince, ha salvato la morte e da allora sono iniziate tutte le disgrazie familiari. Nel tentativo di comprendere il gesto della sorella ha coltivato un interesse particolare per i suicidi e in alcune “divagazioni” della sua lunga narrazione dà molte informazioni sulle diverse forme di suicidi, del resto lei ama leggere manuali.  Ma nella lunga teoria di ricordi, fantasie, riflessioni, divagazioni che scorrono nel suo monologo, alle disgrazie e al dolore  si alternano alcuni sprazzi di luce: sono i racconti a volte ironici a volte buffi della vita  della sua famiglia, una famiglia in cui c’è stato amore, ci sono stati forti legami.  Fulerova ci accompagna in questo viaggio con una scrittura originale e incalzante che ci fa quasi trattenere il respiro quando l’autolesionismo di Marie la porta  a conficcarsi una matita in un occhio e anche dopo che l’hanno  salvata, seppur deturpata, sembra che nel suo abisso non possa in alcun modo arrivare la luce. “L’abisso è lì, vedo l’abisso, l’abisso vede me,l’abisso è in me, io sono l’abisso” è una delle frasi chiave del libro. L’ostinata presenza del fratello l’aiuterà  a prendere atto di quello che rimane della sua vita dopo le molte mutilazioni fisiche e psicologiche “Non potrò più fare una miriade di cose. Più cose cancello dalla mia lista immaginaria,  meno possibilità mi restano. Più rimango scarnificata, io e la mia vita. Tutto questo e molto di più non potrò mai fare ed essere. E’ impossibile. Eppure in tutto ciò  c’è qualcosa di maledettamente liberatorio!”. Marie dovrà accettare la perdita della sorella e che Morana diventi la sua dea interiore , la sua guida, che nella vita di ogni giorno a volte la lascia in pace a volte la assedia e allora deve fare qualcosa per togliersela di torno; del resto può ancora riuscire a immaginare che Sisifo fosse felice.

Lucie Faulerova (1989) è una delle più apprezzate  giovani scrittrici ceche. Si è fatta notare già nel 2017 col suo romanzo d’esordio, “ Gli  acchiappa polvere”,  per il quale è stata nominata  ai premi Magnesia Litera e Jiri’ Orten. Nel 2020 ha scritto “Smrtholka”, che  letteralmente  significa “Ragazzamorte”, ma indica anche la dea della morte Morana ,Titolo che è stato tradotto con “Io sono l’abisso”. Il libro nel 2021  si è aggiudicato l’ambito Premio dell’Unione Europea per la letteratura. Prima opera tradotta in italiano per l’abile lavoro di Laura Angeloni è pubblicato da Miraggi edizioni che ha un’attenzione particolare per la letteratura ceca contemporanea e per la letteratura al femminile. Il libro  di Faulerova’  è uno dei ventuno pubblicati dalla casa editrice nella collana  di letteratura ceca “Nova Vlna”, letteralmente Nuova Onda,  nome che allude alla Nouvelle Vague cinematografica cecoslovacca degli anni della primavera di Praga. La collana si propone, con un progetto organico, di far conoscere al pubblico italiano nuovi autori cechi e recuperare testi incredibilmente dimenticati  perché, come sottolinea la nota editoriale “In passato come oggi la letteratura ceca è stata portatrice di freschezza e innovazione, col suo carattere ironico, grottesco e surreale, e la capacità di immergersi nelle  profondità  esistenziali”.

QUI l’articolo originale: https://tinyurl.com/3bwjymhm

L’abisso fuori dal finestrino, «Io sono l’abisso» di Faulerová su «Robinson»

L’abisso fuori dal finestrino, «Io sono l’abisso» di Faulerová su «Robinson»

di Alessandro Catalano

“A Madla ci penso ininterrottamente. Un binario cieco. Un tunnel senza fine. La pagina vuota di un libro”. L’assenza della sorella risuona in ogni parola di Marie, la protagonista di Io sono l’abisso, che isolata da tutto e da tutti cerca a fatica di uscire da un mondo di cicatrici, ferite e “dolori fantasma”.

Se già il romanzo di debutto, Gli acchiappapolvere (2017), non era passato inosservato, con Smrtholka, del 2020, la giovane scrittrice ceca Lucie Faulerová (1989) ha vinto il prestigioso premio Magnesia Litera e il premio dell’Unione Europea per la letteratura. Il titolo ceco suonerebbe alla lettera “Ragazzamorte”, uno dei nomi della dea Morana, tradizionalmente legata ai riti primaverili della rinascita. Per la difficoltà di trovare un efficace equivalente è stato cambiato in uno dei pensieri ricorrenti della protagonista: “l’abisso è lì, vedo l’abisso, l’abisso vede me, l’abisso è in me, io sono l’abisso”.

Pubblicato nell’empatica traduzione di Laura Angeloni, fedele e inventiva traghettatrice di gran parte della letteratura ceca recente, questo romanzo prosegue il meritorio lavoro portato avanti dall’editore Miraggi. Nella collana “Nová vlna” (il rimando è alla celebre nouvelle vague del cinema ceco degli anni ’60) sono stati pubblicati in sei anni 21 volumi, in maggioranza di autori contemporanei, ma con grande attenzione alle scrittrici. Questa notevole letteratura al femminile, che nel caso della Faulerová è legata anche a una forma narrativa originale, è ancora troppo poco nota fuori dalla Repubblica Ceca.

Io sono l’abisso è il resoconto di un lungo viaggio in treno, con l’intera vita della protagonista che scorre davanti al finestrino: è una partenza o un ritorno a Carogna, il paesino da cui è scappata? Tutto ciò che ci viene raccontato si svolge davanti ai nostri occhi, anche gli episodi del passato, come se gli scompartimenti del treno rappresentassero stanze della memoria, che ci vengono aperte da una narratrice non sempre affidabile. Il movimento del treno determina il ritmo. Le espressioni onomatopeiche, che riflettono i rumori della locomotiva e degli scambi, danno vita a una raffinata tessitura linguistica, sottoposta a continue accelerazioni e rallentamenti, nell’estenuante tentativo di ricostruire un ordine. 

Marie ha appena ventitré anni, ha già cambiato facoltà all’università due volte, ma soprattutto ha dovuto fare i conti con la follia della madre e il recente suicidio della sorella, che aveva già combattuto contro un cancro. La realtà frantumata della sua vita riemerge in modo disordinato, solo pian piano acquisisce senso e i tasselli si rimettono insieme. I suoni del treno funzionano come un metronomo della memoria, che oscilla tra i demoni interiori della narratrice e la dolcezza di ricordi ormai lontani.

Ma Io sono l’abisso non è soltanto un romanzo sul dolore, la simbiosi tra la protagonista e la sorella offre all’autrice la possibilità di sviluppare un altro gioco nel gioco. La frequentazione di seminari esoterici di vario tipo, dove “la questione è sempre la stessa: purificarsi, concentrarsi, armonizzarsi”, permette allo stesso tempo di ironizzare goliardicamente, con tutta la spensieratezza della gioventù, sulle questioni essenziali. Lucie Faulerová sa osservare il passato come se fosse un film e il finestrino fosse lo schermo sul quale la memoria può proiettare la vita, tornando a piacere avanti e indietro, alla ricerca dell’istante chiarificatore, che naturalmente non c’è: “La registrazione termina qui, poi non c’è più niente, qualcuno deve aver disconnesso le telecamere di sorveglianza”. 

Marie non è mai stata se stessa, si reputa una “parassita”, “una cornice senza quadro. Una scopa senza paletta. Una semiretta. Una frase incompiuta”. E al lettore viene progressivamente presentato un quadro di autolesionismo: un dito tagliato, la fronte sbattuta contro lo specchio, una matita colorata nell’occhio, la lingua recisa che la rende quasi muta, metafora anche di un linguaggio che non riesce a esprimere il dolore. Una personalità da ricostruire, che ha abbandonato il padre e il fratello Adam, e sembra più volte sul punto di seguire il destino della sorella Madla: “come sull’orlo di un abisso che a furia di scrutarlo ti scruta dentro lui”.

Marie è oggi una vera esperta in materia di suicidi, conosce macabre statistiche su chi salta da un tetto, cerca di annegare, si impicca, etc., percentuali che cercano invano di rendere comprensibile l’atto della sorella. E di mettere a tacere i propri sensi di colpa e cancellare un ricordo in particolare: il fantoccio di Morana, coperto di paglia su una croce, viene lanciato nel fiume e colpito con i sassi da tutti i bambini del paese. La protagonista invece non lo fa e decide di recuperare il fantoccio e nasconderlo nel bosco: “Ho salvato la morte!”. È quello il momento in cui è iniziato tutto? 

Io sono l’abisso è una ricerca, drammatica e poetica allo stesso tempo, del senso della propria vita, della possibilità che Marie possa ancora vivere “in un mondo in cui Madla non c’è”.

Segnalazione di «Duramater» sul Blog del «Fatto Quotidiano»

Segnalazione di «Duramater» sul Blog del «Fatto Quotidiano»

di Maurizio Di Fazio

Ada Sirente segnalata col suo Duramater tra le «quattro autrici per l’estate: dal ‘taccuino’ alle voci degli expat, ecco i libri da portare con sé»:

Vanta natali abruzzesi anche Ada Sirente (il nome è d’arte), autrice di un libro straordinario come Dura mater (Miraggi Edizioni), sperimentale e intriso di un post-stream of consciousness, palpitante di preziosa poesia. Mariella è nel letto numero 5 della terapia intensiva. Una cicatrice demarca il confine tra un limbo di visioni e la realtà che le sfugge. È in coma farmacologico, operata al cervello. Dubita di sé, non riesce a ricostruire gli eventi. Una cicatrice separa anche i suoi due luoghi: Roma, un fondale di carta, e l’Abruzzo, la sua terra antropologica. Miscelando un affilato argot medico e corruschi tratti lirici, alla fine la strada da percorrere è una sola: quella del capetiempe dei contadini abruzzesi. Il ripartire sempre daccapo insieme al volgere delle stagioni, sublimando il dolore delle sciagure: quelle individuali, quelle collettive di terremoti e frane.

QUI l’articolo originale: https://tinyurl.com/465axkd2

Segnalazione di «Le straordinarie avventure del professor Toti nel mondo dei ćevapčići» su «Vanity Fair»

Segnalazione di «Le straordinarie avventure del professor Toti nel mondo dei ćevapčići» su «Vanity Fair»

di Valentina Dirindin

I libri food da leggere sotto l’ombrellone per gli appassionati di cibo e vino

Ricettari, trattati di storia, perfino libri gialli in cui i cuochi più famosi d’Italia vengono uccisi da un killer misterioso: ecco tutti i libri che gli appassionati di enogastronomia dovrebbero portare con sé in vacanza.

In ogni valigia che si rispetti c’è sempre posto per un paio di libri da leggere sotto l’ombrellone. E perché no, quei libri possono essere un bel momento di approfondimento sul cibo e sul vino, visto che l’estate è sempre un buon momento per dedicarsi a ciò che ci appassiona. Se quel qualcosa è il mondo dell’enogastronomia, ecco ad esempio che un viaggio si trasforma facilmente in un appuntamento con la scoperta di nuovi piatti, nuovi sapori e nuovi ingredienti.

Ma anche quando le ferie sono una più rilassante vacanza sotto l’ombrellone, ecco che il cibo e il vino possono tornare a essere protagonisti, e non solo nel pranzo al sacco da portare con sé sulla spiaggia.

I libri di cibo e di vino da leggere, in quest’estate 2024, sono tanti, e molto interessanti. Un’occasione utile per imparare qualcosa di più su quello che abbiamo nei nostri piatti: qualche ricetta sfiziosa, qualche tecnica particolarmente difficile, qualche storia appassionante e perfino qualche soluzione per i problemi delle nuove generazioni.

C’è tutto questo nelle letture estive a tema food & beverage che vi suggeriamo per il 2024: una selezione di libri molto diversi tra loro per scoprire qualcosa di nuovo e interessante sul magico mondo dell’enogastronomia.

QUI l’articolo originale: https://www.vanityfair.it/gallery/migliori-libri-food-cibo-e-vino

Segnalazione, «Il quarto piano» di Riccardo De Gennaro su «Repubblica»

Segnalazione, «Il quarto piano» di Riccardo De Gennaro su «Repubblica»

a cura della Redazione Cultura

“Il quarto piano”. Un uomo in fuga nei libri nel romanzo di Riccardo De Gennaro

Giorgio Lanfranchi è un cinquantenne del nostro tempo: non si è mai sposato, non ha una fidanzata, non lavora e vive con gli anziani genitori, una madre succube e un padre estraneo e burbero. La sua realtà è rappresentata dai libri, che ama e che acquista compulsivamente.

È lui il protagonista dell’ultimo romanzo di Riccardo De GennaroIl quarto piano, appena pubblicato da Miraggi Edizioni nella collana Scafiblù.

Una sera, in attesa della misera cena in famiglia, Giorgio esce rabbiosamente di casa, diretto in libreria, un posto che frequenta sin da ragazzo e che un paio di volte a settimana chiude molto tardi, un rifugio e una prigione. Qui il “?nostro eroe?”, così lo definisce il narratore, concede libero sfogo a manie, idiosincrasie, frustrazioni e accessi di rabbia apparentemente ingiustificata. Sperimenta però anche rari attimi di autentica condivisione umana e di pensiero con Maria, unica commessa con cui Giorgio senta di avere qualcosa in comune.

Quella sera, alla cassa, Giorgio si troverà però di fronte Laura, la compagna di classe di cui era segretamente innamorato. Sono passati ormai più di trent’anni dai tempi del liceo, ma l’incontro inatteso genererà in Giorgio uno stato di totale confusione in cui realtà e desideri confluiscono in un magma di pensieri e allucinazioni da cui, forse, non saprà più uscire. Una realtà inabitabile, una fuga nei libri e nell’immaginazione e un un finale fantascientifico.

Riccardo De Gennaro è nato a Torino. Per oltre vent’anni ha lavorato come giornalista dapprima al Sole-24 Ore, poi a Repubblica. Dopo il noir I giorni della lumaca(Casagrande, 2002), ha pubblicato il romanzo La Comune 1871 (Transeuropa, 2010), il libro-reportage Mujeres. Storie di donne argentine (Manifestolibri, 2006) e la prima biografia di Lucio Mastronardi, La rivolta impossibile (Ediesse, 2012).

Nel 2005-2006 è stato direttore di Maltese Narrazioni. Ha fondato e dirige il trimestrale il Reportage, giunto al suo 24° anno. Collabora come critico ad Alias, il supplemento culturale del Manifesto. Con Miraggi edizioni ha pubblicato il romanzo La realtà pura(2018).

QUI l’articolo originale: https://tinyurl.com/2z5xnnaz

Recensione su Pickline.it a  «Gli invincibili undici di papà Klapzuba» di Eduard Bass

Recensione su Pickline.it a «Gli invincibili undici di papà Klapzuba» di Eduard Bass

di Carlangelo Mauro

Un classico della letteratura ceca scritto nel 1922 e tradotto, dopo più di un secolo, da Andreas Pieralli: «In questo capolavoro di Eduard Bass lo sport è un pretesto narrativo per raccontare di valori positivi quali onestà, passione, determinazione, perseveranza, fratellanza e spirito di sacrificio, così necessari ancora oggi».

 

“Gli invincibili undici di papà Klapzuba” di Eduard Bass
“Gli invincibili undici di papà Klapzuba” di Eduard Bass

Gli invincibili undici di papà Klapzuba. Una storia per grandi e piccini, pubblicato da Miraggi editore, con le illustrazioni originali di Josef Čapek, è il capolavoro del 1922 di Eduard Bass, pseudonimo di Eduard Schmidt, che fu  scrittore, giornalista, drammaturgo, attore, cabarettista, cantante e tante altre cose. Nato nel 1888 a Praga, vi morì nel 1946. Gli invincibili è la prima traduzione italiana di Klapzubova jedenáctka, libro ambientato nella neonata Repubblica cecoslovacca, fondata nel 1918, alla fine della prima guerra mondiale con la dissoluzione dell’Impero Austro-ungarico.

Il libro racconta le straordinarie vittorie, con risultati iperbolici, e le avventure di una squadra di calcio che finisce prigioniera, dopo un naufragio, su un’isola dei cannibali. L’autore guarda anche a Verne e a Defoe. Gli Undici di Klapzuba FC è una squadra composta interamente da fratelli, allenati dal loro papà fin dalle 5 del mattino nel bosco vicino casa, poi sul prato trasformato in campo sportivo vicino la loro “casupola” a Dolní Bukviček, vicino a Kouřim, città reale. Papà Klapzuba è un contadino astuto e un allenatore intransigente, grande fumatore di pipa che per questo particolare mi ha richiamato il grande Bearzot che condusse l’Italia alla vittoria nel Campionato del mondo (diversi suoi calciatori lo consideravano infatti un padre, non un allenatore…).

Dopo più di un secolo di ritardo nella traduzione in Italia di questo classico della letteratura ceca, ho cercato di sapere per quali vie ci si era arrivati; sono riuscito a contattare il traduttore Andreas Pieralli, giornalista ed esperto dell’Europa centrale che collabora alla televisione pubblica ceca e che  vive e lavora a Praga. «In realtà – mi ha risposto – la proposta di tradurre questo libro, che non conoscevo, mi arrivò dall’editore, Alessandro De Vito, anche lui traduttore italo-ceco come me. Incuriosito, lo lessi e me ne innamorai immediatamente, e così accettai». Ancora alla domanda sul perché questo libro dovrebbe interessare il pubblico italiano, Andreas ha aggiunto: «Innanzitutto perché è una storia divertente e coinvolgente, che si legge tutta d’un fiato, ambientata nel mondo del calcio, sport così amato nel nostro paese. Inoltre, perché in questo capolavoro di Eduard Bass lo sport è anche un pretesto narrativo per raccontare di valori positivi quali onestà, passione, determinazione, perseveranza, fratellanza e spirito di sacrificio, così necessari ancora oggi. E, infine, perché permette al lettore italiano di avvicinarsi a un periodo storico interessante, quello immediatamente successivo alla prima guerra mondiale, scoprendo la nascita della nuova Repubblica cecoslovacca di cui, in ultima analisi, la squadra degli 11 di papà Klapzuba non è altro che una felice metafora».

Andreas Pieralli

Infatti, gli 11 + 1, poiché il papà, allenatore-contadino, è l’uomo in più in campo che fa la differenza con la sua saggezza e previdenza, vincono non solo per l’abilità tecnica, ma per una virtù fondamentale trasmessagli in famiglia, «la pura e genuina fratellanza» (p. 48). Essi formano un solo fraterno blocco, anzi come viene detto a p. 125, «un unico blocco inaffondabile»: colpiti da una tempesta, al ritorno della partita con l’Australia, da campioni del mondo, si tengono sulla scialuppa «ben saldi l’uno sotto al braccio all’altro», scampando al naufragio grazie a delle tute di gomma gonfiabili. Tute che sono una sorta di mezzo magico fornito in tre situazioni pericolose ai figli da papà Klapzuba che a Berlino, durante una partita, aveva comprato una grande valigia con questi dispositivi. Nel primo caso, il papà, intuendo dalle foto sui giornali che i giocatori del Barcellona volevano azzoppare e mandare all’ospedale tre dei suoi figli-calciatori (che la propaganda spagnola aveva dipinto come dei cattivi «energumeni») fa indossare loro la provvidenziale armatura di gomma, così che i Klapzuba all’ingresso nel campo, con gli immancabili effetti comici, somigliano più a una «squadra di rugby» che di calcio. La seconda volta i Klapzuba, dopo il naufragio del piroscafo Timor nel viaggio di ritorno dalla partita con l’Australia e la successiva distruzione della scialuppa, si salvano coi gusci di gomma gonfiabili che li avevano trasformati in «in dodici bizzarre boe». Nel terzo caso, “la partita di calcio” con i cannibali sull’isola che in cambio della vita, salva solo per i vincitori, si dovrà giocare senza palla ma prendendosi letteralmente a calci, le provvidenziali armature li trasformano in «undici sfere animate» ̶ per i selvaggi la sfera era sacra ̶ vale a dire in «undici creature celesti» che terrorizzano i cannibali fino all’immancabile fuga sulla canoa dei Klapzuba bersagliati da lance e frecce.

La storia è anche una fiaba da collocare nel genere del libro per ragazzi, adatto però anche agli adulti – qualità che costituisce poi la caratteristica del “classico” della “letteratura per l’infanzia” – sia per l’argomento sportivo, sia per il linguaggio che si apre a vari registri, con inserimenti di articoli di varie testate sulle imprese della squadra, sia per l’umorismo di fondo che caratterizza il testo. Non mi sembra, quindi, che sia possibile ascrivere ad un genere univoco questo capolavoro che Pieralli definisce «romanzo sperimentale» nella postfazione. Memorabile la telecronaca della partita degli invincibili 11 con l’Huddersfield del cronista dello “New Sporting life”, munito di un casco telefonico, dal balcone delle gradinate; presenti allo stadio il re e la regina. La squadra era campione d’Inghilterra proprio nel 1922. Non mancano nel libro gli squarci lirici, come nella descrizione della placidità del Mar mediterraneo e del Mar Rosso (pp. 94-95) nel viaggio degli undici verso l’Australia.

Diversi inserti fiabeschi sono poi trattati con originalità: dopo che il principe del Galles, futuro erede al trono, durante la partita con l’Huddersfield chiede, tramite il papà il Re a colloquio con papà Klapzuba, di giocare con gli invincibili undici, nel villaggio boemo le «anziane» vanno in crisi poiché non sanno cosa rispondere ai bambini che chiedono come sarà il principe (p. 42) che sta per arrivare. Racconti secolari di principi e principesse con «draghi» e «carrozze d’oro» rischiano di essere cancellati di fronte alla prova della realtà. Ma una «nonna più scaltra» ebbe l’idea di rievocare ai bambini il vero paese delle fiabe, la Tartaria, rispetto a cui l’Inghilterra è un paese normale come il suo principe; la Tartaria, in cui vi sono foreste, sorgenti «d’acqua viva» draghi, le principesse con la «stella d’oro», è quella terra che si può raggiungere solo ed esclusivamente dai bambini in volo: «la sera quando chiudono gli occhietti e un angioletto ce li porta superando i nove mari». «L’isola che non c’è», insomma, nata dalle leggende delle steppe euro-asiatiche.

Altra notevole fiaba è quella del fischietto d’oro, mezzo magico che viene donato da San Pietro in veste di un povero e affamato vecchio ad Honza, il nonno dei Klapzuba, allora giovane, allontanatosi in cerca di fortuna dalla sua povera famiglia. Il fischietto lo fa arricchire trasformandolo in un arbitro straordinario; fischia tutto da solo in modo preciso e intransigente i falli. Il problema è che fischierà poi anche le truffe e le male azioni nella realtà che circonda Honza, il quale finisce per trovarsi a mal partito, circondato dalla malvagità nelle ricche città, per cui se ne ritorna al suo idilliaco paese, Dolní Bukvičky, dove il fischietto «può anche andarsene in pensione». Dopo la morte, il fischietto salverà Honza dall’inferno fischiando il fallo di San Pietro che lo scambia con un omonimo: «il sibilo trafisse l’intero spazio Celeste, da una stella all’altra, dal Sole e dalla Luna giù fino alla Terra, uno strillio terribile, urlante, che penetrava nelle ossa. L’atroce fischio svegliò Gesù Cristo, la Vergine Maria si tappò le orecchie, Dio Padre s’accigliò ed era già tutto tuoni e lampi e gli angeli svolazzavano come colombi spaventati e in tutto quel rimbombare e fischiare e nella baraonda e tra i lampi riecheggiarono severe le parole del padre Altissimo: “Pietro, Pietro, qualcuno ha subito un torto!”.
Bella anche la postfazione di Pieralli, che rilegge in senso politico le avventure degli «invincibili Undici»: il messaggio del libro, dopo il Trattato di Versailles, è «la necessità, sul piano nazionale, di cechi e slovacchi di unirsi per farsi più grandi a fronte di vicini pericolosamente inclini all’espansionismo, e, su quello internazionale, di creare un cuneo più robusto contro i futuri revanscismi nazionalistici delle confinanti potenze sconfitte».

Non mancano gli appelli alla pace nel volume, sotto forma di metafore calcistiche, come nel «Discorso della Corona» del fratello acquisito dei Klapzuba, il principe di Galles, che una volta divenuto Re d’Inghilterra fa suoi gli insegnamenti di Papà Klapzuba, critico verso la monarchia («il calcio è un affare assai più arduo che regnare», p. 37) e di suo padre stesso che, nel colloquio sul campo dell’Huddersfield con il suo avversario allenatore-contadino boemo, conclude che le nazioni farebbero meglio a coltivare squadre che eserciti, al fine di dirimere le loro controversie non con la guerra ma su un campo di calcio. In un capovolgimento ironico del proclama con cui Francesco Giuseppe dichiarò guerra alla Serbia, il giovane re afferma (p. 50): «Ai miei popoli! […] promettiamo di astenerci dal commettere fallo e di non mettere la nostra nazione a rischio di subire un rigore bellico […]. Intendiamo vegliare affinché il gioco di testa non venga giammai trascurato…». La giovane Repubblica, per Bass, doveva guardare all’Inghilterra come culla della democrazia; ma ciò non poté salvarla dall’occupazione nazista qualche decennio dopo e dalla dittatura sovietica a seguire. Speriamo che al crollo del muro e alla rifondazione del totalitarismo russo da parte di Putin non segua un ennesimo triste epilogo al romanzo-fiaba di Bass che consiglio vivamente di leggere.

QUI l’articolo originale: https://tinyurl.com/3yyka9t6

Recensione a Piergianni Curti su Culturalismi.com

Recensione a Piergianni Curti su Culturalismi.com

di Francesco Bordi

Smarrirsi infinite volte in un albergo, ma per quale motivo? “Gli amanti perduti nel transfinito” sembrano suggerircene più di uno

Perdersi…

Che pensate di questo verbo, cari lettori? Ha un’accezione positiva o negativa?

«Dipende», direte voi…

«Mi sono perso di notte in una zona poco abitata. Mi sono perso nel nulla».

Oppure… «Lei si era persa nei suoi occhi». O ancora «Entrambi si sono persi nel centro di Parigi al tramonto. Che giornata fantastica!».

Evidentemente il concetto di perdersi ha una valenza che risente del “dove” e del “quando”. Ma cosa succederebbe se tale smarrimento avvenisse infinite volte in un luogo infinito?

Cosa potrebbe succedere a “Gli amanti perduti nel transfinito”?

Succede che la Miraggi Edizioni ha avuto il coraggio di credere in un testo che davvero risulta appartenere alla nicchia della nicchia. Questo fa del titolo di Piergianni Curti un libro dignitosamente emblematico dell’editoria indipendente.

In poco più di centoventi pagine l’autore dà vita ad una storia che non ha un inizio ed una fine, nel senso canonico dell’espressione, ma potremmo dire invece che si tratta di una finestra sull’infinito.

La trama, di base, non esiste: una coppia, Maria e Giuseppe, si reca in un albergo dove si rivolge al concierge per prendere una camera. Fine. Non sembra molto interessante, vero?

La chiave del libro, invece, è proprio nell’entità di questi 4 elementi. Chi è Maria e chi è Giuseppe? Sono quei famosi Maria e Giuseppe della Storia? Quel concierge è un portiere d’albergo qualunque? Ma soprattutto questo Hotel Hilbert, che prende il nome da un matematico tedesco di metà ottocento inizio novecento, che tipo di struttura è? Una sorta di residence con infinite stanze per infiniti clienti può davvero esistere nel mondo? Magari non esiste nel mondo finito, ma nell’infinito funziona egregiamente.

Come potete vedere tante le domande, perché tanti sono gli spunti di riflessione che lo scrittore, fisico e matematico, ha voluto sottoporre alla nostra attenzione.

L’idea di base è che l’hotel sia ubicato nel transfinito: un concetto introdotto dal matematico Cantor per esprimere la molteplicità degli insiemi infiniti. Di fatto lo studioso ha concepito e spiegato DIVERSI GRADI DI INFINITO nelle sue teorie.

Una volta chiarito che il luogo in cui si incontrano questi tre personaggi è collocato in un posto che non ha un limite, tutta la “vicenda”, estremamente semplice nella sua essenza, avrà conseguentemente delle sfaccettature “infinite”. Quella Maria, una influencer della castità, e quel Giuseppe, attivo nel settore della lavorazione di materiali fra i quali il legno, hanno problemi di coppia che risentono anche dell’ingombrante presenza del padre di lei. Entrambi finiscono per esternare le proprie difficoltà e il Signor F. dell’accoglienza tenterà di sfruttare la situazione per sedurre l’unica donna protagonista. Anche se… Maria è davvero l’unica protagonista de Gli amanti perduti nel transfinito? La riposta è “no”, perché esistendo infiniti insiemi, infiniti numeri ed infinite situazioni, ci saranno altre Marie che nello stesso momento e nello stesso albergo staranno subendo le stesse avances da altri signor F. di fronte ad altrettanti Giuseppe contrariati e scorbutici.

Le riflessioni, le ipotesi e le teorie ed i drammi che si consumano all’interno di queste declinazioni di persone costituiscono, di fatto, il libro di Piergianni Curti.

Il testo è un continuo susseguirsi di stimoli che vanno al di là della trama, dell’autore e dello stesso lettore. Per quanto possa sembrare assurdo, paradossale ed inattuabile, il concetto di transfinito non è poi così lontano nella vita di noi tutti. 

Intendiamoci in molti si sono espressi sulla concezione dell’infinito con annessi e connessi. La matematica è il campo più adatto per affrontare questo tipo di elaborazioni. Niente è più concreto e, allo stesso tempo, più astratto dei numeri. L’autore cita Cantor, Hilbert, Gödel, ma nomina anche Sant’Agostino, Nietzsche e Borges.

Il suo testo narra ancora della crisi di coppia che si confronta con il sesso, della crisi dei fondamenti della matematica, ma racconta anche che nell’infinito esiste una ripetitività che di fatto non potrà mai mettere la parola fine a qualcosa. Infiniti noi si troveranno a svolgere le nostre azioni infinite volte, magari cambiando qualcosa oppure senza cambiare nulla.

Gli amanti nel transfinito non è certamente il primo scritto che affronta tali tematiche, ma è certamente uno dei pochi che imposta tutta questa complessa impalcatura composita a livello di intrattenimento.

Nel titolo della collana “scafiblù”, della Miraggi, c’è un occhio critico che attrae, perché da un lato è funzionale alla narrazione, ma dall’altro lato è la narrazione stessa. Ritroviamo così religionepsicologiadelusione e speranzaingannigelosiapassionefilosofiadrammi irrisolti e addirittura un colpo di scena finale, collegato all’ingresso di un (altro?) personaggio storico.

Persino imprese colossali come la Marvel o la Shūeisha assieme alla Toei Animation (quelle di Dragonball per intenderci) si sono servite degli sviluppi di concezioni simili alle teorie utilizzate da Piergianni Curti.

Il concetto del multiverso, tanto sfruttato dai comics e dai cinecomics, o la visone delle altre dimensioni, nei manga e negli anime giapponesi più recenti, è così diverso dal punto di partenza dell’autore?

Condensare tante tematiche in poche pagine non era facile. Orchestrare ogni aspetto in maniera tale che il testo potesse essere fruibile per tutti, era ancora più difficile. Credere in un titolo del genere, in conclusione, è davvero raro.

Complimenti all’autore, alla Miraggi ed a tutte le Miraggi Edizioni che amano perdersi nel transfinito e non solo.

QUI l’articolo originale: https://www.culturalismi.com/smarrirsi-infinite-volte-in-un-albergo-ma-per-quale-motivo-gli-amanti-perduti-nel-transfinito/