Un libro, un 45 giri e le illustrazioni dell’ex tastierista dei Bluvertigo. «Si può restituire colore a un mondo che pare ormai annoiato dai sogni»
Il disco e il libro illustrato “L’ora delle distanze”, un viaggio psichedelico per riappropriarsi della capacità di sognare.
Scorrono le immagini di un videoclip. Una San Diego in bianco e nero, piatta, anonima, quasi non esistesse distinzione fra il giorno e la notte. Auto della polizia agli angoli delle strade, bolidi che sfrecciano sull’asfalto, esseri umani che si aggirano sui marciapiedi come angeli smarriti, senza un paradiso al quale ritornare. Ma quel luogo “dove” esiste ed è il momento di rientrarvi per sfuggire a un mondo ormai annoiato dai sogni. Quell’altrove, ci rivelano Lory Muratti e Andy, si chiama Distanze. Un paradosso, ma è proprio tale cortocircuito logico alla base di “L’ora delle distanze”, nuovo progetto dell’artista varesino, prodotto da The House of Love, che ha trovato il partner ideale nel tastierista e fondatore dei Bluvertigo per dare un’ulteriore dimensione al proprio poliedrico percorso. Un libro (Miraggi Edizioni), un disco (Riff Records) e un videoclip diretto dallo stesso Muratti come da anni nella sua urgenza creativa, ma questa volta, la pagina scritta è accompagnata da illustrazioni del suo co-autore, anche apprezzato esponente della pop art contemporanea. L’incontro con i due artisti è l’occasione per raccontare un progetto affascinante e per comprendere questo paradosso: «Nella vita reale le distanze sono ciò che ci tiene lontani, ma nel mondo evocato da quest’opera hanno il valore opposto, sono quell’altrove nel quale recuperare i colori del proprio essere vivi», affermano all’unisono perché mai come in questo caso si può parlare di arte a due voci nella quale si miscelano sensibilità che hanno trovato il loro punto d’incontro in quest’opera.
Urge un passo indietro, a una notte dell’inverno 2008 nella quale Andy e Lory si trovano esclusi dal mondo da una nevicata: «Avevo un soggetto per un cortometraggio – spiega Andy – che immaginava un protagonista proiettato all’interno dei miei quadri, in quella che ho sempre considerato una personale Cartoonia. Quella notte ne parlammo e l’idea rimase, mai veramente sopita ma pronta a trovare concretezza in un momento preciso». Aprile 2024: ecco l’ispirazione, un filo rosso narrativo che il Muratti scrittore ha colto in quadri che «per me – spiega Andy – erano opere non connesse fra loro, archiviate da anni» ma «figlie tutte della sua sensibilità», aggiunge Muratti. E così (ri)nasce Fluon, nome che ha un peso nella storia artistica di Andy. È lui il protagonista del libro, il “pusher del colore” che, incaricato da una donna misteriosa al telefono, porta note cromatiche in esistenze in bianco e nero. Ma, quando la giornata termina, Fluon ha bisogno di rigenerarsi con un viaggio in un luogo fatto di colore chiamato Distanze. E a introdurlo, per due musicisti, non poteva che essere un brano secondo una formula inedita: quella di un 45 giri in vinile, pubblicato lo scorso 4 ottobre, che fa idealmente da copertina attraverso la title track e da retrocopertina con il lato B dal titolo “La caduta”. «La fruizione lato A-libro-lato B può essere un buon percorso», spiega Andy e gli fa eco Muratti: «Solitamente il mio concept disco-libro era basato sulla complementarietà, mentre in questo caso i due feticci si completano». E il termine feticcio non è casuale, perché si parla di oggetti fisici che fanno da punto di contatto fra il mondo reale e quello creato dagli artisti: «È proprio questo il percorso del quale parliamo, non c’è la pretesa di lanciare messaggi – osserva Andy -. Semmai il proposito è quello di invitare chi si avvicinerà a “L’ora delle distanze” a compiere con noi un viaggio nella propria interiorità per uscire dalla decadenza che ci circonda e recuperare i colori del proprio essere umani. Perché, non è scontato, è possibile farlo». In un passaggio di “L’ora delle distanze” Lory Muratti e Andy affermano: «Qui nella controcorrente ci sentiamo gli stessi di prima ma siamo danneggiati». Ecco, forse, attraverso questo viaggio psichedelico, si può provare a riparare un po’ di quel danno.
Leggere i romanzi di Sergio La Chiusa è un esercizio di equilibrio. Vuo dire camminare su un filo sottilissimo – quello che separa ciò che reale da ciò che non lo è– cercando di rimanere in piedi, ma finendo irrimediabilmente per cadere. Cadere in uno spazio dove l’adesione alla realtà cede di continuo il passo all’immaginazione e all’invenzione, e viceversa. accadeva nell’esordio IPellicani, menzione Treccani alla XXXii edizione del Premio Calvino: “La distanza tra messinscena e vita vera è così sottile alle volte che si scivola da una parte all’altra senza nemmeno accorgersene”, diceva a un certo punto il protagonista, e accade in questo secondo romanzo, frutto di un lavoro di scrittura ventennale e sempre pubblicato da miraggi: “ma basta divagazioni. ipotesi, peraltro. mica fatti certi, indiscutibili. d’altronde, nella società dell’informazione non sono proprio i fatti a scomparire? tanto vale tornare alle nostre invenzioni, allora, riprendere il filo del romanzo…”, sentiamo dire quasi alla fine del libro al narratore. Un narratore che irrompe nel racconto, passa all’improvviso alla prima persona plurale, utilizzando un “noi” che trascina nel discorso se stesso e il lettore. e accompagna, anzi, insegue il protagonista – di nuovo, come nei Pellicani, un fallito sul piano sociale e professionale, “un personaggio incolore, una tipica risorsa in esubero” ma anche, per la sua aria pensierosa, un po’ sospetto “in questi tempi dominati da risorse umane pragmatiche, industriose e performanti” – in un viaggio-peregrinazione attraverso “la città delle opere” o “della moda e degli eventi”. Una metropoli “brulicante di affari e di futuro”, chiaramente milano, dove “non si può sostare da nessuna parte, (…), bisogna circolare sempre, e con una ragione precisa, e se proprio non si può circolare che perlomeno si marcisca in luogo appartato, deputato alla putrefazione”. e nella quale l’unico modo per riuscire a vedere, per farsi largo nella nebbia – quella interna, soprattutto, una nebbia che è “sparita dalla città delle opere, e a pensarci può darsi che si sia in effetti trasferita nella testa dei sui indaffarati abitanti” – è cogliere l’ambiguità intrinseca del mondo usando la lente dell’assurdo, dell’ironia e dello humour. e qui il pensiero corre immediatamente alle possibili origini di questa storia, ossia a quei segni che, nel saggio L’artedelromanzo, milan Kundera ha identificato come distintivi del romanzo moderno: lo “spirito dello humour” e la “saggezza dell’incertezza”. Non appena “il nostro protagonista” – che, non a caso, di nome fa Ulisse orsini ed è un vero e proprio cavaliere errante del nostro tempo, affetto da una cupa stanchezza esistenziale, indebitato e a rischio di sfratto – esce di casa per andare in banca a ritirare gli ultimi risparmi, pagare i debiti e “mettersi in regola col mondo, guardare tutti a testa alta”, ci accorgiamo infatti che la città in cui lo vedremo camminare seguendo “l’istinto di cancellazione” è raccontata intendendo “il mondo come ambiguità”, accentando il fatto di “dover affrontare invece che una sola verità assoluta, una quantità di verità relative che si contraddicono (verità incarnate in una serie di io immaginari chiamati personaggi)”.
E quindi, ecco che La Chiusa, facendoci pedinare orsini, servendosi di un umorismo a volte feroce e a volte amaro, di una lingua che magicamente sa essere allo stesso tempo limpida, asciutta, densa, allusiva, colta, triviale, ci fa entrare in quello spazio del quale si diceva all’inizio. Uno spazio dove è facilissimo perdere le coordinate del reale e lo spaesamento la fa da padrone. Una città dove l’unico punto di riferimento solido, il duomo, con i sui pinnacoli che svettano oltre la luce gassosa della modernità, è diventato “un monumento variabile, smontabile e rimontabile secondo la moda e la domanda del mercato”. Un mondo dove i luoghi appartenenti a una dimensione altra – di volta in volta surreale, grottesca, infernale – e le presenze enigmatiche e allucinatorie – una Venere dell’immondizia trasandata, indisciplinata e licenziosa, le ombre che frequentano un condominio-bordello del centro – sembrano manifestarsi per dirci com’è la nostra esistenza, per spiegarci la realtà assurda e insostenibile in cui viviamo. e così, si parte dall’ultimo piano di un palazzo fatiscente e dallo studio del dottor Guido Klammermann, al quale orsini è arrivato su suggerimento di un condomino solerte e il cui pianerottolo è zeppo di personaggi dall’aria derelitta. si passa per il corteo funebre di un morto prematuro – sebbene i morti abbiano compreso di stridere con l’immagine moderna della città delle opere, “tali testardi sabotatori dell’ottimismo non conoscono recessioni” – e per la “corsia degli incurabili” di un ospedale che non guarisce nessuno e ti mette di fronte al tuo “stato di spettro ambulante scomposto e replicato”. Fino ad arrivare – insieme a un orsini in pigiama, con una valigia piena di biancheria e senza documenti, “ed eccolo agitarsi, Ulisse, sentirsi perduto, preso nella massa anonima dei profughi” – al luogo centrale di questo romanzo: il cimitero delle macchine, collina di rottami e di rifiuti anche e soprattutto umani, rifugio di un gruppo di antispeciste per cui i diritti umani valgono anche per i moscerini, di una “tardona” naturista incinta di un imbrattamuri, sede di un movimento di piromani ragazzini e regno incontrastato dell’imbianchino Lazzaro Lanza, sedicente riformatore del mondo, messia che, seduto su un bidet incastrato in un monticello di ceramica, predica di “poter costruire ponti ideologici e spirituali” per traversare il tempo e tornare a quando “si viveva tutti in pace, nel giardino dell’eden”.
Ed è in questo “paesaggio degenere, anzi, un’anteprima della fine dei tempi” che, alla fine di un corteo molto simile a una via crucis per il centro della città, prima dell’ennesima fuga di Ulisse orsini, capiamo due cose: non solo a stare in equilibrio sul filo teso tra reale e non reale, ma soprattutto che, in libreria, vorremo molti più romanzi come questo: perché ci mostra che è possibile abbandonare il dominio assoluto del realismo e, allontanandosi dalla mera cronaca, dai fatti, servirsi dell’inverosimiglianza per illuminare i meccanismi del reale.
Il mondo va ripensato anche dalle donne, e non solo per ciò che le riguarda: infatti non c’è niente che, riguardando le donne, non riguardi anche gli uomini.
La ceca Radka Denemarková costruisce un romanzo fluviale su più piani narrativi che è un atto d’accusa contro i totalitarismi.
La Cina è uno splendido campo di concentramento dal confini impermeabili, la Cina e un giardino fiorito, e non è una contraddizione», grida un’artista nel corso di uno del tanti incontri del peculiare diario di viaggio nell’anima dell’Europa e nell’anima di un pezzo d’Asta» di Scrittrice, la protagonista del ro manzo Le ore di piombo, Radka Denemarková, apprezzata intellettuale ceca, non sfuggite certo i temi controversi. Versatile autrice che vuole «svincolarsi dalle catene della mia lingua, del mio sesso, del mio Paese e della mia epoca », Denemarková è una delle voci più originali dell’attuale letteratura ceca. Arriva ora nelle librerie il violento atto d’accusa Le ore di piombo, con cui Denemarková ha vinto nel 2019, per la quarta vol-ta, il più importante premio letterario ceco, Magnesia Litera. Monumentale alfresco narrativo traboccante di riferimenti culturali, Il romanzo riprende nel titolo una poesia di Emily Dickinson sui momenti fatali che trasformano i destini individuali. Fatale ha del resto un duplice significato: il piombo è una sostanza che avvelena lentamente. Denemarková stessa ne ha paragonato la scrittura alla costruzione di un tempio. Le ore di piombo è un ro manzo che ricorda l’arte raffinata della calligrafia cinese. L’ampiezza e la densità del testo hanno rappresentato una sfida editoriale vinta sia per l’editore che per l’ammirevole traduttrice.
Abbiamo di fronte un’opera che si dilata nello spazio e nel tempo, basata sulle vicende di una serie di personaggi che esplorano variazioni esistenziali della stessa situazione: Scrittrice, Programmatore, sua moglie e la figlia Olivie, Amico, Marziano e la sua famiglia, Diplomati-co, Ragazza Cinese e Madre Cinese, Avvocato, Studentessa America-na, Pittore, Arrampicatore. Sulle pagine del romanzo si dipanano sotto lo sguardo attento della polizia segreta cinese, ambigui e spesso patologici legami, piccoli intrighi quotidiani e scambi di parole prive di contenuto. Il destino di questi lugubri personaggi è quello ti trovarsi di fronte alla loro ora del la verità, che per qualcuno porterà a scene di violenza familiari o alla fuga verso oriente, per altri alla dittatura dei rituali domestici o anche a un braccialetto spia. Più che un romanzo sulla Cina, abbiamo di fronte uno specchio, una luce sconsolata puntata sul labirinto di rap porti servili che legano gli europei alla Cina, che spesso mascherano solo sete di profitto.
E possibile resistere in «un’epoca in cui qualcosa di essenziale sì sta sfaldando e trasformando»? È giunta per la cultura europea l’ora fatale? Di fronte all’onnipresente paura della società cinese torna attuale la questione della battaglia spesso vana contro la propaganda (anche russa) e in favore dei diritti umani, qui personificata dal lascito ideale di Václav Havel. Dopo ripetuti soggiorni a Pechino, certo non sorprende che l’autrice sia stata bandita dal Paese per i suol contatti con la locale scena dissidente del manifesto Charta 08, che si rt-collegava alla cecoslovacca Charta 77. In quella che è forse la più inquietante linea narrativa del romanzo, per colpa di Scrittrice quest’eredità contagia Ragazza Cinese, ma la sua rivolta conduce solo alla sua esecuzione, dopo l’asportazione del reni, merce pregiata sul mercato nero degli organi. La persecuzione dei “non rieducabili” come lei si svolge davanti all’indifferenza generale, rimarcata dalle reiterate conversazioni da salotto de gli europei che contano: «Gradisce un altro bicchiere? E la sua prima volta in Cina? Com’è andato il volo? Le piace la Cina?-. In questo squallido panorama di maschi predatori e donne superficiali sembra no tutti concentrati sulla propria scalata sociale, Tra le pochissime eccezioni, Olivia e David, giovani outsider sui quali si riflettono le malattie del presente. Sulla propria pelle vivono invece la minaccia alla libertà le gazze azzurre che combattono nei cieli una battaglia impari con le cornacchie nere (‘on-nipresente polizia segreta?), e il gatto millenario Arancio e il suo discepolo Mansur, che attraversano la storia, osservando i travagli dell’uomo con sempre maggiore disincanto.
Radka Denemarková descrive un’umanità moribonda, che avreb be urgente «bisogno di una trasfusione» perché «nel suo sangue circolano liberamente i virus dell’anti-semitismo e del razzismo. La narrazione avanza per microsituazioni, per accumulazione di storie, ognuna delle quali avrebbe potuto rappresentare materiale sufficiente per una novella. Anche per questo Scrittrice può affermare a buon diritto che «probabilmente non troverò mai più l’energia per scrivere un libro come questo».
Alessandro De Vito pubblica il libro fiume della poetessa e drammaturga Radka Denemarková scritto fra Praga, Pechino, Graz e l’isola di Amrum.
È tutta una questione di recupero di memorie. Poi però bisogna intendersi sul significato di ricordo e di memoria, e anche sull’uso del singolare o del plurale. Quello che adesso fa Alessandro De Vito, 53 anni, fondatore nel 2010 di Miraggi Edizioni, figlio di Antonio, pugliese, giornalista, e di Dana, maestra, ceca di Ostrava, allora ancora Cecoslovacchia, è figlio della volontà di riannodare la memoria perduta.
La dice così. E “La memoria perduta” potrebbe essere il titolo di un libro, il suo libro, se mai lo scriverà. Per ora pubblica quelli degli altri. E oggi ha sul tavolo l’ultima fatica-follia-avventura data alle stampe, definita «la nostra più grande impresa editoriale». Esce a metà di questa settimana: “Ore di piombo” di Radka Denemarková, poetessa, drammaturga, traduttrice, una delle intellettuali più ascoltate della Repubblica Ceca. Un libro fiume, anzi mare, anzi oceano: 928 pagine scritte in cinque anni tra Praga, Pechino, Graz e l’isola di Amrum. Tre anni ha impiegato per tradurlo Laura Angeloni, che ne parla come di un classico contemporaneo che passerà alla storia e confida di aver vissuto, mentre era dentro l’opera, quasi in un’altra dimensione.
E un’altra dimensione è quella della Cina raccontata dal libro: cultura, politica, tradizioni, contrasti. «L’autrice tenta di raccontare con tutta la forza espressiva della letteratura il nuovo secolo cinese – spiega De Vito – Descrivendo quella società, ci fa riflettere su come siamo noi. La protagonista è una scrittrice affascinata dalla Cina che incontra diversi personaggi dai nomi simbolici. Quando scopre che l’essenza di quel paese è nel pensiero di Confucio, compreso l’autoritarismo che unisce e omogenizza tutto, capisce molto di più i cliché, i vizi e le contraddizioni della vecchia Europa. Essendo una donna dell’Est, cioè una persona che ha recuperato la libertà da poco, ritrova in molti nostri atteggiamenti gli stessi modi autoritari e non umani di cui spesso accusiamo gli altri».
Un romanzo non tanto sulla Cina, ma con la Cina, che racconta di noi. Bisogna affrontarlo come quando ti attrezzi per un viaggio lontano, incline alle scoperte. «È una lettura impegnativa che apre a prospettive diverse. Non ti lascia accomodato nella tua comfort zone. Altrimenti che viaggio sarebbe? Tanto vale rimanere a casa». A questo libro, il ventiduesimo della collana di letteratura ceca, e in genere al lavoro di editore, che è uno in grado di ascoltare e far viaggiare per il mondo le storie degli altri, Alessandro De Vito è arrivato recuperando le tessere della memoria familiare. «È una storia articolata – spiega – Mio padre era figlio di un falegname emigrato a Torino, che in Puglia nel 1924 ha fondato una sezione del Partito Comunista. Mentre i miei nonni cechi erano borghesi e, prima, hanno subito l’invasione nazista e poi hanno vissuto sotto la dittatura comunista, quindi erano feroci anticomunisti. I miei si sono conosciuti in Bulgaria, sul Mar Nero. Si sono visti un paio di volte e nel 1969 si sono sposati. Per tutta l’infanzia e l’adolescenza, un mese d’estate l’ho trascorso dai nonni a Ostrava. Ho smesso di andarci a vent’anni e ho perso completamente la lingua ceca».
Altri vent’anni sono passati prima che la recuperasse. «E accaduto verso il 2009, quando ho iniziato a interessarmi di letteratura». Prima ha fatto altro. Si è iscritto a Legge, ma presto finisce fuori corso. Dopo quattro anni molla gli studi e va a lavorare in un circolo Arci di Grugliasco, in cucina. Poi torna all’università, a Lettere però. E nel 2000 si laurea in Storia del cinema con una tesi sulle Nouvelle Vague cecoslovacca degli anni Sessanta. «È stato un primo recupero dell’identità ceca. Comunque, vado a lavorare in una cooperativa sociale. Solo dopo una decina d’anni, quando con gli amici Fabio Mendolicchio e Davide Reina già cercavamo di lavorare nel mondo editoriale e poi abbiamo deciso di fondare la nostra casa editrice, soltanto allora ho rimesso insieme le mie radici».
È così che nel 2016, alle collane di narrativa italiana e narrativa straniera, si affianca quella di narrativa ceca. Nel lavoro di editore. che consiste nel leggere, scegliere, curare storie e coltivare idee in forma di libri, De Vito ricompone il mosaico delle sue storie personali e delle sue geografie. Il modo in cui guida la casa editrice può essere riassunto da ciò che Radka Denemarková dice del suo romanzo: «Ho voluto metterci l’essenza di tutto ciò che sono riuscita a capire di questo mondo. Ma forse, soprattutto, ciò che non avevo capito». È così che si va avanti, a far libri e a vivere: si continua a ricercare.
La civiltà in parole: “La vita ti scaglia addosso i suoi temi con violenza. Le parole che in Europa piovono da ogni dove non significano niente. Le parole che in Cina si pesano su bilance minuscole significano vita o morte”.
Un riparo insalubre: “Rifiutare il senso di protezione in cui ti culla l’ignoranza, questo è il fine; l’ignoranza è una strategia di sopravvivenza, la più efficace”.
La saggezza del Maestro: “La via è ciò da cui, neanche per un istante, ci si può allontanare. Se fosse possibile allontanarsi da essa, non sarebbe la via”.
È in libreria dal 30 Ottobre Ore di piombo di Radka Denemarková (Miraggi edizioni 2024 pp. 928, € 36, con traduzione dal ceco di Laura Angeloni).
L’autrice è una delle più note scrittrici ceche contemporanee e una delle voci politiche più apprezzate del paese. Ha studiato letteratura tedesca e boema all’Università Karlova di Praga ed è ricercatrice presso l’Istituto di Letteratura Ceca dell’Accademia delle Scienze della Repubblica Ceca. Altri libri pubblicati in italiano sono: I soldi di Hitler(Keller, 2012) e Contributo alla storia della gioia (Sovera, 2018), entrambi tradotti da A. Zavettieri.
Ore di piombo è un romanzo che ci aiuta a comprendere la Cina di oggi, ma che forse ci farà scoprire ancora di più su ciò che siamo noi e la nostra Europa.
Un romanzo straordinario che non solo ci offre una finestra sulla Cina contemporanea, ma che potrebbe rivelarci ancor di più su chi siamo noi e sulla nostra Europa.
Una galleria di personaggi simbolici -un imprenditore ceco con la moglie e la figlia adolescente, un Diplomatico, un Programmatore, una Studentessa americana, un Amico, una Ragazza cinese-intrecciano le loro vite nel cuore della Cina.
Animati dal desiderio di una nuova esistenza, libera dai traumi del passato e dai pesi familiari, si ritrovano però intrappolati in ruoli che sembrano predestinati, guardiani di un ordine immutabile. Un Occidente soggiogato dal mito del profitto si fonde con un Oriente dalle radici antiche, entrambi fondati su un capitalismo “dispotico”. Personaggi fiabeschi, come due gatti filosofi, la gazza azzurra e i corvi, arricchiscono il racconto, mentre le esili voci dei dissidenti, i non rieducabili, sono sempre più emarginate, minacciate, punite, eliminate.
Le vicende dei protagonisti si intrecciano e sono pervase dalla presenza di Scrittrice, un’eroina dei nostri tempi, convinta sostenitrice dei valori democratici e dei diritti civili. Il suo influsso su ciascuno di loro è profondo, talvolta con conseguenze fatali. Ognuno vive una frattura personale che rispecchia quella collettiva: il vecchio mondo europeo è giunto a un punto di non ritorno, e l’intera società sta attraversando la sua “ora di piombo”, un’epoca di apatia rassegnata, frenesia vana, asservimento a un consumismo sfrenato.
In questo imponente romanzo, l’autrice esplora a fondo i due mondi, mescolando con maestria citazioni di Confucio, Havel e altri pensatori, nell’incontro-scontro tra culture apparentemente distanti eppure ormai così simili, smarrite in una globalizzazione che amplifica i loro aspetti peggiori.
ora delle distanze è un singolare romanzo, ma anche un singolo musicale e un 45 giri disponibile da ottobre su vinile colorato, scritto da Lory Muratti e illustrato da Andy (Andrea Fumagalli) fondatore, insieme a Morgan, del gruppo musicale Bluvertigo. Colpisce subito la bella copertina e il particolare layout a due colonne che mi ha catapultato rapidamente in un tempo in cui ero ragazzina e tenevo in mano le pubblicazioni “Urania”. Il libro è un viaggio che, traendo ispirazione dalle numerose illustrazioni dei quadri visionari di Andy, è giocoforza qualcosa di surreale e psichedelico.
Il protagonista di questa strana storia è un disegnatore costretto da una misteriosa voce al telefono nel ruolo di “pusher del colore” che, se di giorno spaccia dosi di emozioni acriliche agli abitanti disorientati e anestetizzati di un mondo in bianco e nero, di notte si rifugia nel suo laboratorio per sottoporsi a una trasfusione di colore che lo porta a viaggiare dentro le sue stesse opere: ci viene così raccontata una “contro-realtà” abitata da personaggi imprevedibili, pittoreschi, onirici e fuori dagli schemi tipo il Killer del Phon, la Regina, l’Uomo dell’Interludio e il Violinista Appeso, ma anche da personaggi molto meno irreali come David Bowie, Isabella Rossellini, Alain Delon e un suo doppio malvagio da sconfiggere in una dura battaglia a colpi di pennarello.
In questo viaggio lungo una notte, troviamo musica, letteratura e pittura in modo da coinvolgere tutti i sensi nella lotta quotidiana di chi non vuole arrendersi a vivere in una realtà corrotta in quanto abitata da un’umanità che ha dimenticato l’importanza dei sogni e delle emozioni e che, sconfitta dal vuoto che avanza, vive immersa in un mondo in bianco e nero pericolosamente privo di sfumature: “Un mondo annoiato dai sogni è un mondo da far saltare in aria” ci dicono gli autori. Esiste, dunque, un’alternativa a questo nostro mondo violento, ignorante e vinto da regimi che indossano l’abito della democrazia, in cui la perdita di ciò che avevamo duramente conquistato decenni fa, ci ha portato a vivere in assenza di sentimenti, soffocati da rapporti malsani e fasulli, a convivere con persone che ci rubano il tempo – specie quello libero, preziosissimo – senza neanche chiedere scusa.
I sogni e i colori presenti nella dimensione parallela delle “Distanze” in cui si ritrova l’io narrante, rappresentano non solo una fuga da una realtà divenuta insostenibile, ma anche la cura, il rimedio, la possibilità di mantenere vivo il sogno viaggiando dentro noi stessi per poi provare, una volta tornati alla dimensione in bianco e nero, a invertire la rotta: infondere nuovo colore nelle persone vuol dire trasmettere speranza e ridare la giusta rilevanza ai sentimenti veri, specie in chi li aveva persi da tempo, perché solo chi emana vibrazioni positive potrà partecipare a una festa nel mondo a colori inventato dagli autori. Bisogna, quindi, avere coraggio nell’affrontare un viaggio dentro noi stessi: a volte occorre arrivare a scordare chi siamo per ricominciare, decostruirsi, per usare un termine molto attuale, perché ciò che succede dentro di noi può essere utile a trasformare anche ciò che avviene fuori da noi.
Qui nessuno esprime la sua opinione. Qui valgono solo le opinioni collettive… l’ignoranza è una strategia di sopravvivenza, la più efficace…La Cina è sorriso e pazienza».
La scrittrice ceca Radka Denemarková ambienta in Cina una rappresentazione globale delle nevrosi contemporanee in un originale e fluviale romanzo da 900 pagine che da Praga ci porta a Pechino, attraverso le vite e gli incontri di personaggi simbolici: Scrittrice (l’eroina del racconto), Program-matore, Imprenditore, Diplomatico, Amico, Studentessa americana, Ragazza cinese, Madre cinese, i Dissidenti non rieducabili, i Gatti filosofi ed altri animali, come nelle fiabe.
Il libro si intitola Ore di piombo, è tradotto da Laura Angeloni, ed esce dall’editore Miraggi nella collana NováVIna che prende il nome dalla Nouvelle Vague della Primavera di Praga. Entrano in questo esercizio letterario citazioni di Václav Havel, il poeta-presidente della resurrezione nazionale post 1989, e continui riferimento a Confucio, in una tradizione che nemmeno la rivoluzione culturale aveva intaccato: «In cima alla piramide c’è l’ubbidienza ai genitori… Ogni politico, ogni imprenditore, giura devozione all’altissimo Segretario del Partito Comunista… I cinesi l’ubbidienza ce l’hanno nelle ossa… La Cina è la caricatura della disperazione degli ex detenuti appena usciti dal carcere». Si respira lo humour nero e surreale degli scrittori cechi, poesia, invenzione, la denuncia cruda delle ipocrisie europee sulla violazione dei diritti umani: «L’Occidente finanzia con molta generosità tutto cio che si accompagna all’aggettivo tibetano, soprattutto se ha a che fare con monaci, pratiche di guarigione, artisti, misticismo. Ma non è disposto ad appoggiare i tibetani nella loro battaglia contro i cinesi per la liberazione del Tibet». La Cina – dice Scrittrice – si sta comprando il mondo.
Arriva su una vespa blu. E si presenta con un libro in anteprima, copertina crema e titolo rosso: “Ore di Piombo” di Radka Denemarkovà, a breve in libreria.
«È la mia biblioteca su due ruote, ci faccio dei veri e propri tour riempiendo le sacche da viaggio di libri», spiega mentre si toglie il casco Fabio Mendolicchio, uno dei tre editori di Miraggi, insieme con Alessandro De Vito e Davide Reina. Entriamo da Barbagusto, nel cuore di San Salvario.
Siamo un po’ in anticipo sull’orario di pranzo perciò possiamo scegliere il tavolo e ci accomodiamo a quello vicino alla porta finestra: alle nostre spalle una parete di bottiglie di vino, a destra un cortiletto con una luce ancora calda per l’autunno.
Mendolicchio si presenta subito come editore che «vede i fenomeni da un’altra prospettiva». «Leggo i libri solo quando sono in produzione, mai prima — dice — diciamo che sono il lettore 1, da me poi inizia il viaggio nelle librerie». E a proposito di viaggi, scopriamo subito che Mendolicchio non solo fa i tour dei libri in vespa con la Ubik, ma ama anche cucinare in libreria. Perché è si editore, ma anche musicista e chef. «Ho studiato all’alberghiero e sono arrivato all’editoria per uno scherzo del destino. Ho fatto un corso di grafica creativa perché volevo applicare le nuove competenze alla mia passione per la cucina e poi con la grafica sono arrivato all’editoria grazie a un amico, mi è sembrato un percorso naturale dato che leggevo e tutt’oggi leggo moltissimo, ma non ho mai abbandonato la passione per la cucina, anzi mi piace contaminare i due mondi, per esempio i miei tour in libreria con le cene sono un format amatissimo dagli autori e dai lettori, oltre che dalle librerie».
Arriva l’oste, e scegliamo un tris di antipasti della casa, tondelli al pesto, agnolotti di Bra e Barbera (mezza porzione), acqua e un calice di Ruché. Poi torniamo a chiacchierare di libri ed editoria.
Tour in vespa e cene in libreria, ma una casa editrice torinese come Miraggi che storia ha, perché si diventa editori? «Siamo nati con il sogno di fare narrativa di viaggio, il nostro pubblico erano i viaggiatori, ma negli anni abbiamo cambiato pelle. Credo che se vuoi fare l’editore e vuoi diventare grande devi avere a disposizione grandi capitali, altrimenti devi accontentarti di quello che fai, nel enso che sei un artigiano e il tuo prodotto è l’oggetto libro, noi siamo artigiani dell’editoria».
Invito a pranzoArrivano i primi e il profumo del pesto e del ragù ci distraggono. Ma riprendiamo subito, un po’ provocatori: ma allora fare l’editore è un miraggio? Fabio Mendolicchio sorseggia il vino, sorride «un po’ sì forse, i miraggi esistono, il nostro miraggio è di fare libri belli con grande rispetto del lettore, ci piace fare libri che gli altri non fanno».
Ma è un sognatore disilluso Mendolicchio: «Ahimè è cambiata la vita del libro, è diventata brevissima, prima le novità duravano mesi, ora ogni 25 giorni c’è una nuova uscita. Il libro è un po’ come il latte, scade velocemente, solo che il latte si trasforma, diventa formaggio o altro, i libri no: tornano in casa editrice». E quindi? «Quindi mi ricordo il nostro primo Salone del libro nel 2010, eravamo solo io, De Vito e Reina, in tre facevamo il lavoro di 15 persone, con grinta ed entusiasmo. Oggi siamo diventati una cooperativa e tra i nostri piccoli successi — ce ne sono tanti — per esempio abbiamo lanciato Guido Catalano, un autore da 40 mila copie».
Il primo è finito e davanti ai piatti vuoti Mendolicchio continua serio.
«Negli ultimi 14 anni il mondo è cambiato tre volte e siamo cambiati anche noi come editori, abbiamo virato dall’orizzonte iniziale dei viaggi e abbiamo aperto la linea editoriale Baskerville, la nostra strada maestra di letteratura, italiana e dal mondo, divisa in quattro collane. La prima è Tamizdat. Col termine samizdat si indicavano, nel blocco comunista e in Urss, le opere straniere fatte circolare clandestinamente. Tamizdat erano i samizdat delle traduzioni: al suo interno Miraggi pubblica traduzioni di autori che difficilmente arriverebbero al lettore italiano, per contenuto scomodo, idee, tempismo, nonostante il valore letterario e culturale. Poi c’è Scafiblù, come venivano chiamate le imbarcazioni dei contrabbandieri di sigarette a Napoli, e tornando all’idea di clandestinità di Tamizdat, questa collana è dedicata agli autori italiani che seguono vie non ordinarie». Arriva il caffè. E prima di bere: «E poi c’è NováVlna, la collana di letteratura ceca, in ceco significa “Nouvelle Vague” e Janus|Giano, collana dedicata alle traduzioni con testo a fronte».
Il caffè lo beviamo entrambi amaro, in un sorso. Quindi per sopravvivere avete scelto le micro-nicchie di autori e di lettori?
«Ci siamo dati un’identità, chiedendoci quali libri potevamo proporre in un mercato così nervoso e frenetico che gli altri non pubblicavano».
E va bene?
«Abbiamo un bel riscontro, quello che ci fa andare avanti».
Ritorniamo all’attacco, quindi i miraggi esistono o no? Ride finalmente dopo un pranzo un po’ amaro come il caffè.
«I miraggi esistono eccome! Altrimenti non saremmo qui a combattere come editori, a leggere e pubblicare libri, l’anno prossimo sono 15 anni».
Lasciamo Barabagusto che ha ospitato le confessioni dell’editore in una sala accogliente e amica. E ci scappa l’ultima domanda sulla felicità.
«Certo che sono felice dice l’editore chef — indossando il casco — cucino e leggo tutti i giorni. Non ha prezzo alzarsi al mattino, portar tuo figlio a scuola e decidere quando inizi a lavorare e quando vuoi staccare. Il mio miraggio è fare l’editore e poterlo fare come mestiere a tempo pieno sempre di più». Sale in vespa, saluta e parte lento. Ci allontaniamo con l’idea che fare l’editore è un po’ come creare una libreria a bordo di una vespa, si va piano e non c’è molto spazio, perciò bisogna avere coraggio e fare delle scelte».
Il cimitero delle macchine di Sergio La Chiusa è un romanzo coinvolgente nel senso più stretto del termine: l’autore usando la prima persona plurale, fa sembrare che il protagonista e la sua storia siano nelle mani del lettore e che insieme lo si plasmi e ne si diriga le sorti, in una sorta di Truman show di tempi moderni.
Un modo davvero inusuale e “furbo” per farci sentire parteci del destino del nostro eroe.
“L’ abbiamo detto che è solo? No? Lo diciamo adesso e anzi, dato che la famiglia è un impaccio per il nostro romanzo, diciamo pure che ha perso entrambi i genitori così ci siamo levati di dosso un po’ di zavorra biografica”.
Il nostro protagonista (ecco, ho ceduto alle lusinghe dell’autore cadendo nel suo tranello) si chiama Ulisse Orsini.
Un nome impegnativo che suppone una vita movimentata fatta di viaggi, avventure e incontri.
Ma più che al famoso progenio, il nostro Ulisse sembra più un Don Chisciotte de nojaltri.
Siamo stati davvero ingenerosi con il nostro protagonista (ops, ci sono cascata di nuovo)… abbiamo deciso debba essere troppo lungo e magro con braccia e gambe svitate e scricchiolanti.
Imbranato, sfigato, cammina sfruttando la striscia d’ombra lungo i muri in balia di persone ed eventi.
E infatti quando il poveretto si trova improvvisamente disoccupato, sfrattato e senza un soldo, non trova di meglio da fare che errare in pigiama per una Milano che La Chiusa fa sembrare post apocalittica, con una valigia piena di tutto ciò che gli resta: la sua biancheria intima.
Con una scrittura originale e una creatività espressiva tragico/umoristica, faremo scoprire al nostro (!) Ulisse nel suo vagabondare tra emarginati, Guru e fuori di testa che vogliono salvare il mondo, lo stridente contrasto tra edifici sciccosi su cui troneggiano le pubblicità patinate con modelli vestiti all’ultima moda e gli ambienti in cui si trovano a galleggiare i derelitti che, inevitabilmente, escono nelle tenebre e coi quali si accompagnerà.
Viene rapito e liberato, si unisce ai salvatori e alla loro lotta per sopravvivenza dell’umanità partecipando a improbabili cortei, diffondendo volantini “Anche tu puoi riformare il mondo. Movimento di Lazzaro Lanza imbianchino e riformatore del mondo. Per informazioni tel xxx disponibile anche per tinteggiature”, brucia auto contro il sistema capitalistico.
È preso da un vortice. È questo il vero lui o quello pacato e mite del prima?
D’altra parte è solo al mondo, l’Orsini.
“Pedagoghi tutti intorno a sostenere i primi passi: madri, padri, maestri d’asilo e delle elementari, insegnanti di italiano e matematica, di sostegno per i più riluttanti, e più avanti, per farsi strada in società, tutta una serie di tutori patrocinatori che indirizzano, raccomandano, procurano posti. Ulisse Orsini, invece, non ha nessuno cui rivolgersi. Non ha avuto il privilegio di un Dante per esempio: Nel mezzo del cammino della vita non si è presentato il suo idolo di gioventù uscito da un poster a prestargli soccorso nella selva di rate e bollette, tirarlo fuori dal suo monolocale in affitto e organizzargli un percorso di conoscenza articolato in tre cantiche e Cento Canti in terzine endecasillabi”.
Ma il nostro protagonista è più duro di quanto pensiamo e “tiene botta” negli incontri a volte aspri con il popolo del cimitero delle macchine nel quale trova accoglienza e rifugio.
Probabilmente fa suo il detto “Se non li puoi sconfiggere unisciti a loro” pur non essendo previsto dal nostro copione.
E torniamo al Truman show.
Ce la farà a emergere dall’incubo in cui lo abbiamo gettato?
Usiamo cookie per garantirti un servizio migliore.
Funzionale
Sempre attivo
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono strettamente necessari al fine legittimo di consentire l'uso di un servizio specifico esplicitamente richiesto dall'abbonato o dall'utente, o al solo scopo di effettuare la trasmissione di una comunicazione su una rete di comunicazione elettronica.
Preferenze
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono necessari per lo scopo legittimo di memorizzare le preferenze che non sono richieste dall'abbonato o dall'utente.
Statistiche
L'archiviazione tecnica o l'accesso che viene utilizzato esclusivamente per scopi statistici.L'archiviazione tecnica o l'accesso che viene utilizzato esclusivamente per scopi statistici anonimi. Senza un mandato di comparizione, una conformità volontaria da parte del vostro Fornitore di Servizi Internet, o ulteriori registrazioni da parte di terzi, le informazioni memorizzate o recuperate per questo scopo da sole non possono di solito essere utilizzate per l'identificazione.
Marketing
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono necessari per creare profili di utenti per inviare pubblicità, o per tracciare l'utente su un sito web o su diversi siti web per scopi di marketing simili.