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Può un solco senza seme dare frutti?

Può un solco senza seme dare frutti?

Può un solco senza seme dare frutti? Quello di Luca Ragagnin sicuramente: frutti allo stesso tempo dolci e amari, succulenti e un po’ aciduli.

Un solco senza seme è un libro impossibile da classificare e complesso da approcciare. È una raccolta di scritture in versi, come recita il sottotitolo, o, meglio ancora, “scritture con gli a-capo”, come le definisce l’autore stesso. 35 anni di testi (1988-2023) pubblicati e inediti (come Mangimonio), ispirati ad antiche leggende (gli “oracoli caldaici”) o a malattie, sale d’aspetto e corsie d’ospedale, frutto di anni di lavoro di scalpello e continuo rimuginare o scritti di getto “abbarbicato su uno scoglio”.

Il lettore si immerge in questo viaggio nel tempo, un tempo intimo e personale, perché tutto ciò che accade e che il poeta mette in versi, anche se comune e universale, spesso fatto di quotidianità appartenenti a tutti, è filtrato sempre attraverso la propria personalissima esperienza, e naviga tra versi irregolari, scoscesi come pendii alpini, frastagliati come le nostre coste, irruenti come la risacca, rimbalzando tra rime e assonanze mai banali, che cullano e scuotono.

Quello che colpisce immediatamente è proprio la padronanza del verso, della metrica, l’alternarsi continuo di strutture differenti, che dietro l’immediatezza nasconde un elaborato labor limae (come Orazio, e il paragone non risulti blasfemo, che per le prime 10 delle sue Odi utilizzò 10 versi differenti). Spostandosi, così, tra le raccolte (il libro è una raccolta di raccolte, una summa poetica, Lu cunto de li cunti) sentiamo echi di ermetismo e decadentismo, simbolismo e surrealismo, ma anche la musicalità di certi poeti spagnoli (Fosfeni di bianco e poi bianco, scrive Ragagnin; Nel bianco infinito,/ neve, nardo e sale cantava Lorca).

Riemersi annaspando dal mare burrascoso di certi versi, rimaniamo ora abbagliati da improvvise illuminazioni (Radura che il sole attanaglia./La corazza della sorte/sepolta sotto il peso della luce), ora sprofondati in abissi senza fondo, travolti dalla tempesta e sopraffatti dal divino, sperduti nell’immensità del cosmo, annegati nel grembo (materno come della Terra, che tutti ci accoglie), ascoltando echi di tristezze e rimbalzando su silenzi assordanti. Andando avanti nella lettura, siamo costretti a fare i conti con la caducità dei nostri corpi, il nostro essere fatti di atomi esattamente come tutta la realtà che ci circonda, vediamo i segni del tempo e della malattia sulla pelle e sulle ossa, miseri corpi abbandonati e prostrati (la carne ha fatto naufragio in terra straniera), ma anche nelle nostre anime, di cui, al contempo, sondiamo le profondità e ammiriamo le mille sfaccettature, attraversiamo il luogo capovolto della morte. Oscilliamo, assieme all’autore, tra bisogno di amore e d’appartenenza e senso di solitudine (sono solo come un boia al termine del giorno….Peggio sarebbe ritornare ancora/in mezzo alle persone./Ma la mia solitudine/ha un numero da circo) e ci imbattiamo di frequente in inni alla luce, ma soprattutto alla voce, alla parola, strumento principe con cui affrontare le nostre piccole e grandi sfide quotidiane e spesso difesa unica contro i mali del mondo (Si he perdido la vida, el tiempo, todo/lo que tiré, come un anillo, al agua si he perdido la voz en la maleza,/me queda la palabra)[1]. Ma, in fondo, non c’è differenza tra luce e parola, tra buio e silenzio, i sensi si confondono (il nostro canto…si distingueva appena dalle ombre).

Ricerca, scoperta (scavare, cercare viaggiare, navigare, annegare, perdersi in antri oscuri, grotte, recessi) e rimedio (ferite, lame, solchi, fessure, ma poi corde, lacci, suture, incollaggi, cucire le feriterilegatore di anime) sono temi ricorrenti nell’opera, che oscilla, appunto, tra il viaggio, fisico e spirituale, e l’aspirazione a riparare a colpe proprie e altrui. 

E navigando tra le poesie sorge all’improvviso, come uno scoglio non segnalato, un Atto unico, anzi, un Misfatto unico, rappresentazione tragicomica della razionalità portata all’estremo, scevra da ogni contatto con la realtà, scarnificata, ridotta all’essenza del pensiero matematico, ragione pura, sofismo senza sbocco, assassinio del sentimento. J’accuse contro la ricerca esasperata della perfezione fine a stessa, senza limiti e condizioni. Riflessione amara sull’impossibilità di qualsiasi cambiamento, sull’incapacità di comunicare, sull’inevitabile condanna alla solitudine e al vuoto.

Attraverso percorsi sempre privati e personalissimi, che prima dei fatti mostrano un proprio vissuto, le proprie esperienze che appaiono quasi per caso comuni anche a tanti altri, andiamo, poi, alla scoperta, o riscoperta, di titoli e personaggi, che, dallo schermo delle TV, hanno attraversato e raccontato mezzo secolo di storia italiana, perché niente meglio della televisione rispecchia l’evoluzione (o l’involuzione) del nostro Paese e degli italiani nel secondo dopoguerra.

E di qui approdiamo al cinema: schizzi e bozzetti, immagini e musica, di un mondo meraviglioso, popolato da personaggi straordinari, eppure intimamente familiari, ritratti sempre con uno sguardo partecipe.

E la musica a dettare i tempi di ogni strofa, a dare il ritmo a voci e ricordi, un ritmo pieno di variazioni, un alternarsi di arsi e tesi, a trasmettere la sensazione che tutta l’opera sia intrisa di questa passione difficile da tenere a freno e che trova la propria consacrazione nell’ultimo “capitolo” Trentawatt (che a me fa venire in mente un piccolo amplificatore).

Anche la scrittura trova qui la sua apoteosi, in una forma assolutamente originale: brevi saggi in bilico tra versi e prosa.

Un’immersione, dunque, nella musica, sguazzando tra i generi (dal rock alla classica, dal jazz al pop) e al contempo sorvolandoli alla scoperta di suoni e sfumature, trasportati dal ritmo di versi che di volta in volta si adattano all’artista celebrato e dal calore di una passione che non vede cali di tono.

Orazioni che ci lasciano penetrare nelle vite e negli animi di musicisti e movimenti che hanno segnato, ciascuno a suo modo, la propria epoca. Personaggi fuori dal coro, originali, spesso irriverenti, come la scrittura di Ragagnin, sovente contro, come gli Henry Cow. È proprio il brano dedicato a questi ultimi (La calza di lana o di ferro) che rappresenta, almeno per me, appassionato dell’Underground inglese a cavallo tra la fine dei ’60 e i ’70, la vetta più alta toccata dall’autore: una celebrazione senza fronzoli, schietta, al contempo lucida e appassionata, di una band straordinaria.

A quasi cinquant’anni dal loro scioglimento, rimangono i portavoce della libertà mischiata al piacere, i depositari della genialità del rock, i proprietari del vero e sincero donarsi all’udienza con tutti i mezzi tecnici e umani possibili.

[1] Blas de Otero – En el principio

di Fabio Sarno


QUI l’articolo originale: https://www.exlibris20.it/un-solco-senza-seme-di-luca-ragagnin/

Le “Donne cattive”che raccontano cinquant’anni di storia italiana

Le “Donne cattive”che raccontano cinquant’anni di storia italiana

Nel libro di Liliana Madeo, uscito in nuova edizione nel novembre scorso, le protagoniste testimoniano l’arretratezza moralista del nostro Paese. Figure irregolari scelte dall’autrice che «si oppongono alle gerarchie e danno scandalo, arrivando persino a uccidere».

Di Laura Bertolotti. Questo articolo è uscito su www.heraldo.it

Ci sono donne cattive? Parlarne dopo la Giornata internazionale per i diritti della donna sembra quasi sacrilego, quando qualcuno si ostina persino a considerarla la “festa della donna”, per poche ore con fiori e auguri. E allora cerchiamo di uscire dalla gabbia ideologica che vede le donne sempre brave, multitasking e comunque con una marcia in più. Dobbiamo ammettere che l’argomento è di per sé debole e presta il fianco a facili critiche.

Ricordiamo piuttosto che l’8 marzo vuole essere, ogni anno, un momento di riflessione sui diritti ancora non riconosciuti in molti Paesi del mondo e sempre pericolosamente in bilico o dimenticati, per esempio, nei rapporti affettivi e nei contratti di lavoro, anche in piena democrazia.

Ma resta il nodo delle cosiddette “donne cattive”. Esistono, anche se riservano qualche sorpresa. Ce ne parla Liliana Madeo nel suo saggio che si legge come un romanzo, Donne cattive. Cinquant’anni di vita italiana (Miraggi, 2023), già pubblicato nel 1999 e uscito in una nuova edizione nel novembre scorso.

Protagoniste di un dopoguerra cui ribellarsi

Liliana Madeo è stata inviata del quotidiano La Stampa e ha lavorato come consulente del Tg2 per il programma “Mafalda – Dalla parte delle donne”. Tra i suoi numerosi libri ricordiamo Bianco, rosso e verde. L’identità degli italiani (a cura di Giorgio Calcagno, Laterza 1993), Si regalavano infamie. Antonina e Teodora, le potenti di Bisanzio (Tullio Pironti 2021), Donne di mafia. Vittime Complici Protagoniste (Mondadori, 1994, poi diventata serie televisiva nel 2001 e ristampato da Miraggi nel 2020).

L’autrice ha voluto mettere al centro di Donne cattive la lentezza e la difficoltà per le donne di muoversi nel dopoguerra, che aveva tradito le loro aspettative».

«Ho scelto le donne che venivano clamorosamente alla ribalta della cronaca, tutte personagge esemplificative di quel momento storico, anche le cattive senza virgolette, perché si muovevano tra moralismo e perbenismo imperanti – approfondisce Madeo -. Queste donne cattive rifiutano il loro destino e la tradizione che le vuole spose e madri amorevoli. Sono le irregolari che si oppongono alla morale, alle gerarchie, alla Chiesa, alla loro famiglia e danno scandalo, arrivando persino a uccidere».

Lo scandalo della Dama bianca 

Madeo raccoglie tredici emblematiche storie di «persone cariche di valenze simboliche. Ciascuna con una precisa collocazione geografica, magari uscite dall’ombra e dal silenzio senza neppure l’orgoglio e la consapevolezza della propria diversità, ma in grado di innescare meccanismi grazie ai quali in Italia sono nate leggi degne di un Paese democratico».

Troviamo la vicenda di Rina Fort, su cui la cronaca nera versò fiumi di inchiostro nell’Italia degli anni Cinquanta, uscita povera e distrutta dalla guerra. E anche la sua è una storia di povertà, di benessere appena raggiunto e subito perso, di una catena di sfortunati avvenimenti che la portarono a macchiarsi di omicidio.

Il talento dell’autrice è di incorniciare le storie nella più grande storia del nostro Paese e non è fiction, ma rispettosa documentazione e volontà di collocare i fatti nel loro tempo e nelle norme che lo regolano.

Nel libro troviamo anche la “dama bianca”, al secolo Giulia Occhini, amante di Fausto Coppi, così soprannominata dal colore del montgomery che indossava quando Coppi, nel 1952, vinse il Giro d’Italia. Negli anni Cinquanta l’abbraccio fra Stato e Chiesa era molto forte, ci ricorda l’autrice, erano i tempi della santificazione di Maria Goretti, che ispirava libri, drammi e canzoni.

La verginità era un valore, arrivare al matrimonio non illibata e non dirlo allo sposo costituiva “ingiuria grave”, riconosciuta dall’ultima sentenza della Cassazione che applicò tale principio ancora nel 1973. Come poteva essere giudicata una donna che in quegli anni lasciava un matrimonio per seguire un altro amore? Una donna cattiva.

Tra le ribelli anche una teologa scomoda

Nel libro ci sono ritratti come quello di Loriana Nunziati, che sposa con rito civile Mauro Bellandi, ignorando i consigli del vescovo, i due sono quindi dichiarati “pubblici concubini” in forza del diritto canonico e di conseguenza scomunicati.

Sembra un fatto assai distante dalla realtà di oggi in cui la convivenza è prassi normale e non preclude neppure il matrimonio religioso, ma correvano gli anni Cinquanta, come si è detto, e quelle erano considerate donne cattive.

Come Franca Viola, che si rifiuta di sposare il suo stupratore e si dovrà aspettare il 1981 perché venga abolito il cosiddetto matrimonio riparatore e il 1996, in cui la Legge 66 sancirà finalmente lo stupro come un crimine contro la persona e non contro la morale.

Era scomoda, giusto per variare l’aggettivo, persino la teologa Adriana Zarri «una spina nel fianco di quella Chiesa tradizionale – continua Madeo -, da secoli arroccata dietro verità monolitiche». Con lei un folto gruppo di donne, laiche o religiose, tra cui storiche, antropologhe, filosofe e teologhe, appunto, che alzavano una voce autorevole per scardinare i silenzi della Chiesa.

Per tacere delle “cattive, cattivissime anzi streghe” che negli anni Settanta facevano nascere il Movimento di liberazione della donna, si raccoglievano in piccoli circoli per riflettere sulla loro condizione e manifestavano apertamente per il diritto di aborto.

Il libro propone una prospettiva storica dei fatti avvenuti nella seconda parte del Novecento quando le donne venivano classificate come ribelli, scostumate, additate dalla pubblica opinione, anche solo se provavano a parlare di anticoncezionali. Non si può negare l’utilità didattica di questo testo nei confronti delle nuove generazioni perché, scrive Madeo, in Donne cattivetroviamo “le madri delle ragazze del nuovo millennio”.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

QUI l’articolo originale: https://www.heraldo.it/2024/03/14/le-donne-cattiveche-raccontano-cinquantanni-di-storia-italiana/?fbclid=IwAR3K0ha-QfMDuuf-jnJ3INlKqgLGdPKKtafZHW578kIR3wkr0hXL7Y_JWoY

Intervista a Paolo Morelli sul suo ultimo libro, «Più di là che di qua»

Intervista a Paolo Morelli sul suo ultimo libro, «Più di là che di qua»

Paolo, sei uno scrittore “esperto”, con diverse pubblicazioni alle spalle. Scrivere Più di là che di qua è stato diverso che non scrivere gli altri tuoi libri?

Scrivo sempre due cose insieme, forse perché sono dei Gemelli o piuttosto perché in questo modo arrivo sempre impreparato passando da uno all’altro. Il lavoro quindi è durato un paio d’anni, nel frattempo ne continuavo uno che ancora non è finito. Comunque questo libro è l’ultimo di una trilogia, cosiddetta del buon senso (anche se alla fine ce n’è poco), dopo Né in cielo né in terra e Da che mondo è mondo.

Parlando di un libro con così tanti rimandi alla cultura buddhista e tibetana, viene spontaneo chiederti quale sia lo spirito che lo anima…

Per me i libri sono esercizi, cosiddetti spirituali, prove di fraternità con il mondo. Come al solito ciò che volevo fare mi è apparso chiaro durante la stesura. All’inizio volevo solo divertirmi a far saltare qui e là brandelli di personaggi famosi, ma poi ho capito che sarebbe venuta una stupidaggine se non provavo  per loro compassione. Quindi si è trasformato in uno studio sulla concezione orientale della compassione, ben più coinvolgente della nostra, vale a dire la percezione reale che tutto quello che incontro fa parte del corpo della mia vita.

Se fosse un medicinale che medicinale sarebbe? E pensando ai bugiardini che accompagnano appunto i medicinali, quali potrebbero essere gli effetti collaterali?

Anche il peyote è considerato una medicina, difatti lo stregone era chiamato l’uomo-medicina. Ne ho praticato lo studio una cinquantina d’anni fa, e gli effetti collaterali sono la percezione reale (pure qui) di quanto il nostro ego soffochi la nostra personalità.

C’è una domanda che avresti voluto ricevere e che nessuno ti ha fatto?

Perché non te ne fai una ragione?

Pensando anche ai tuoi libri precedenti… se Più di là che di qua fosse un cibo, quale cibo potrebbe essere?

Abbiamo mangiato già un bel po’, ma un altro bicchiere di vino ci sta sempre bene.