Titolo emblematico, tematica attuale, storia antica. No, non è una nuova puntata editoriale sul conflitto russo-ucraino o israeliano-palestinese che angoscia i nostri giorni, sebbene i due principali focolai del presente abbiano molta attinenza con i contenuti di questo libro. Malapace(Miraggi) è un romanzo nato dalla riformulazione di uno scenario storico non molto approfondito in verità tra i banchi di scuola. Parliamo della Francia della Repubblica di Vichy, argomento che l’autrice, Francesca Veltri, ha affrontato per ragioni professionali.
Come l’Italia, anche se per diverse dinamiche, la Repubblica transalpina era divisa in due parti durante la Seconda Guerra Mondiale, in un arco di tempo che va dal 1940 al 1945, ben più lungo rispetto alla separazione avvenuta di fatto all’indomani dell’8 settembre del 1943 sul territorio italiano. La parte meridionale della Francia, convenzionalmente chiamata Repubblica di Vichy, era di fatto un satellite del Terzo Reich sebbene si dichiarasse neutrale sulla carta. Dopo l’invasione nazista e l’occupazione del nord del paese, lo Stato francese aveva trovato un compromesso per sopravvivere in quanto entità politica e culturale, accettando una condizione di “malapace”, volendo estendere il titolo del libro al contesto storico fin da subito.
Fatte queste doverose seppure sbrigative premesse, il titolo dell’opera e l’ambito in cui la vicenda si snoda costituiscono elementi già sufficientemente precisi su cui incardinare qualche riflessione utile per il presente, perché in letteratura è necessaria una ricerca di natura esistenziale e spirituale: laddove l’attuale interroga il presente è necessario attingere al passato per poter arrivare a deduzioni più vaste e complete da parte della nostra coscienza. Francesca Veltri ci guida in questo processo con ponderatezza, ma altrettanta decisione, e nel definire personaggi credibili, tra loro complementari eppure opposti, attraversa una serie di situazioni e stati d’animo talmente intricati da rendere così bene la tragedia che si consuma pagina dopo pagina. La Storia non può essere solo un fatto memoriale, si caratterizza per atti, azioni che in determinanti momenti vanno oltre le ideologie e le convinzioni personali. Pertanto non mi soffermerò sui caratteri principali dei protagonisti, preferisco lasciare al lettore l’onere di empatizzare con François, Antoine, Martine e Jean-Pierre; chi legge ha il diritto di regalarsi un giudizio pieno o parziale, riflettere doverosamente e vivere l’azione come se si svolgesse sulla propria pelle.
Da parte mia, invece, cercherò di addentrarmi nello spirito che caratterizza il romanzo e nella complessità che i contesti e le convinzioni personali generano, nell’intento di deragliare da un dibattito attuale dominato dall’opinionismo da talk show, più interessato a eccitare gli animi che a ragionare. Non è importante maturare immediatamente un’idea definita, questo non è un romanzo che intende osannare i vinti e crocifiggere i vincitori, ma è pur sempre un testo che ribadisce la labilità tra idea e coerenza al cospetto della necessità. Le parole di Francesca Veltri tentano di andare oltre determinate contrapposizioni, la Storia è terreno comune quando riesce a trovare, per quanto possibile, chiavi interpretative che sappiano infondere un senso di condivisione e appartenenza. Per certi versi tutti i personaggi del romanzo sono degli sconfitti, uomini e donne non privi di ingegno e di cultura, abitati da passioni incontenibili, da un senso di bene comune dai propositi nobilissimi. Eppure, qualcosa di più grande nelle loro vite incrina questo assetto di idee e i protagonisti si ritrovano a rivedere posizioni e lottare su postazioni divenute quasi irriconoscibili tenendo conto proprio dei presupposti iniziali. Si è spesso portati a ritenere che certi cambiamenti siano frutto del trasformismo e della convenienza personale, al contrario Malapace riesce a far emergere la perfetta buona fede delle parti, prigioniera nell’ineluttabilità degli errori dettati dalle contingenze, nonché dalle terribili conseguenze che il contesto politico e sociale impongono. Volendo trovare un parallelismo, oggi come allora ci si chiede se sia un bene sacrificare lo Stato, inteso come entità di valori e luogo di espressione collettiva, in nome di una non identificata sopravvivenza, chiamando con la parola pace un mero esistere. Ci si chiede se sia necessario ribadire i principi di libertà e combattere fino in fondo laddove le forze individuali e plurali possono arrivare o se non sia meglio cedere sul terreno dei diritti in funzione di uno stato di relativa quiete. Sono domande urgenti che da qualche anno a questa parte hanno ritrovato dimora nelle coscienze di molti. Mai come in questi tempi avvertiamo i confini sottili di una pace che in un nonnulla si converte in resa o addirittura prostrazione. Nulla di nuovo sotto al sole, è solo che a tali dinamiche del tutto comuni nella Storia ci eravamo disabituati per via di decenni di stabilità, crescita, fiducia e prosperità farcite da considerazioni storiche fatte con il senno del poi. Questo romanzo arriva a interrogarci su questioni delicatissime, sulla necessità di dover fare scelte dure, con consapevolezza e fuori dalla retorica nazionalista, pacifista o non interventista, andando verso le ragioni che spingono gli attori politici a muoversi e che determinano le misure del campo da gioco con o senza il consenso popolare.
Malapace non risparmia critiche alle dottrine politiche dell’epoca (i cui echi non si smarcano dall’attualità), non elude il processo di autocritica all’interno della trama in cui si muovono i personaggi: nello sfondo della vicenda si intravedono momenti dove le attuazioni delle utopie, nelle declinazioni più drammatiche, scuotono convinzioni granitiche mettendo a repentaglio valori personali, imprescindibili, e Francesca Veltri, atomizzando il proprio Io autoriale in varie creature letterarie riesce a entrare nel vivo di certi sentimenti attraverso una grande capacità di immedesimazione, strumento di cui la letteratura non dovrebbe fare a meno, in particolar modo in un’epoca in cui tutto viene polarizzato dall’esperienza personale e/o familiare, senza ricercare un senso più ampio dei contesti. In altre parole, si tratta di un romanzo che intende fare i conti con la Storia andando oltre le storie mettendo da parte la buona fede e l’appartenenza.
Termino questi spunti con un passo brevissimo, esempio di una capacità rappresentativa notevole da parte di Francesca Veltri, decisamente lucida e schietta nella narrazione, senza risultare tagliente in maniera forzata. La parte affilata di questa faccenda spetta al non detto, al silenzio, un invito a nozze per il lettore. A chi legge lascio le conclusioni.
«Immaginai Martine che usciva insieme alle SS da quella stessa porta, il cappotto sulle spalle perché all’Est avrebbe fatto freddo, un po’ curva sotto il peso della valigia, forse appena affannata, in viso la smorfia di sfida che le riusciva così bene. Mi chiesi se si fosse fermata a guardare per un attimo la donna che l’aveva venduta, prima che la portassero via.
Com’è che aveva detto a Jean-Pierre, in quel parco di Leningrado? Fammi vedere la faccia di quest’umanità per cui si fanno le rivoluzioni».
Quanto è superata la forma mentis del Novecento? Quanto sono distanti da noi relativismo, disintegrazione e disseminazione del senso, panestetismo elitario? Può essere letto come un test in merito il quarto libro (in ottanta anni) del più raffinato e celebrato scrittore russo vivente, Saša Sokolov, Trittico (Triptich, 2011), edito in italiano da Miraggi (traduzione di Martina Napolitano, pp. 240, € 21,00) summa e consuntivo di una intensa parabola creativa della quale, dopo due decenni di silenzio, lo scrittore russo torna a riallacciare i fili, sospesi tra il modernismo faulkneriano (Scuola di scemi), lo sperimentalismo neoavanguardistico (Inter canem et lupum) e il postmodernismo (Palissandreide).
Trittico si interroga e interroga anche noi su quale sia stata e sia oggi la strada dell’arte, su chi ancora è disposto a credere alla costruzione del bello in sé, svincolato da ogni fazione e mozione. In una Russia già affetta dal putinismo la risposta è stata desolante. Ma anche altrove il ritorno di uno scrittore un tempo leggendario ha avuto flebile eco, tanto che quella di Martina Napolitano, promotrice a livello internazionale del verbo sokoloviano, è la prima traduzione in assoluto.
Tra prosa e poesia
Il dubbio esito del test non è comunque ascrivibile al nuovo Sokolov, che non è mai epigono di se stesso e propone una chiave espressiva, fluida, sintetica, resa aerea dal ritmo. Perché, in primo luogo, Trittico è una sfida a cancellare definitivamente i confini tra prosa e poesia: dopo avere messo in tensione, in tutti i suoi libri, la prosa fino a un grado di densità fonico-espressiva così estremo da rallentarne la fruizione ben più che in poesia, lo scrittore russo opta ora per versi liberi meno compressi e esasperati della sua prosa; l’attrito si sposta tra semantica – vaga, astratta, eterea – e ritmo, che avanza a spire, in un afflato pressoché ininterrotto (mai un punto fermo) eppure placido, sobrio, non riconducibile a nessuna tipologia metrica (men che meno al sillabotonico della tradizione russa) ma intenso e trascinante, sacrale per la sacralità intrinseca che ha la parola in Russia e, al tempo stesso, ludico per ineffabile leggerezza.
Trino e uno, quasi a evocare un intrinseco agnosticismo cosmico, il libro è la sommatoria di tre poemetti, uniti e distinti secondo criteri imperscrutabili: il ritmo connotante non cambia, ma nel primo i versi molto lunghi tendono a avvilupparsi, a scorrere gli uni sugli altri, mentre nel secondo sono altrettanto lunghi ma dinamici, quasi volanti, e nel terzo si passa a versi brevi e scanditi.
Il tessuto poetico è però inconfondibile e omogeneo, contraddistinto da catene allitterative che divengono autentiche macchie d’omofonia estese a più versi: per darne un’idea senza ricorrere alle pur eccellenti doti mimetiche della traduttrice, prendiamo «nelle trattorie di Rimini e Taormina», che è praticamente in italiano nel testo. Allo stesso modo, in assenza quasi totale di personaggi in qualche modo definiti (non ci sono neppure le maiuscole), gli argomenti di un poema sono presenti in misura ridotta negli altri, molti motivi sono trasversali a tutti e tre (e a tutta l’arte di Sokolov, salvo quello del catalogo, elenco, registro, fin tassonomia linneana, che è distintivo di Trittico).
Il polilinguismo verte prima più sul latino e il greco, poi sul tedesco, infine sullo spagnolo e il sanscrito (sempre per flash, per isole, senza invadenza). Insomma, data la dominante musicale nell’immaginario e nella terminologia, si potrebbero intendere come tre pezzi, tre brani, suscettibili o meno di assemblarsi in sinfonia.
Il primo, Ragionamento, è una scansione pressoché ininterrotta del procedimento del catalogo, in primo luogo di riflessioni, di discorsi, e poi via via di lingue, forme d’arte, errori, o semplicemente fogli e documenti contabili. Superato lo sconcerto iniziale, ci si rende conto di essere entrati in un universo nel quale la comunicazione avviene principalmente in seconda persona, sia singolare che plurale (cui si aggiunge il «voi» russo di rispetto): da un lato il narratario è il soggetto, il «tu» eterno della poesia si autoflette, parla in realtà dell’«io», dall’altro si avvicenda un numero non identificabile né definibile di personaggi, che si chiamano, s’interrompono, si sovrappongono di continuo.
Ragionamenti differiti
La narrazione è straordinariamente fratta, si ha l’impressione di essere in qualche luogo imprecisato assieme a un numero sterminato di persone che dialogano. Il tempo, invece, è quello canonico di Sokolov, del tutto indistintamente presente, passato o futuro, un tempo in cui «la sabbia dispersa nel sahara/ dai sette samurai,/ si sistemerà, si incollerà/si riunirà, tornerà come prima». Al «ragionamento» principale, come prevedibile, mai si arriverà, anche se potremmo inferire che in qualche modo lo sono gli altri due testi.
Nel secondo poemetto, Gazibo, il luogo è all’apparenza ben definito, il padiglione da giardino del titolo, con grafia modellata sulla pronuncia del termine inglese (che non esiste in russo); altrettanto lo è il tempo, dalle prime stelle al crepuscolo del mattino, durante il quale le voci alle quali siamo ormai abituati, e che in queste circostanze assumono da subito una connotazione ultraterrena, quasi vampiresca, discutono del bello in arte.
L’intercambiabilità cronotopica assoluta è perciò accompagnata qui da alcune specifiche concrezioni: da una riunione di trovatori del 1111, alla Germania rinascimentale a una cornice tardo ottocentesca. C’è anche un abbozzo di personaggio, il musicista cinquecentesco Antonio Scandello, girovago per le corti tedesche, accostato o assommato all’Ebreo errante, proiettati entrambi sul destino esule del creatore, in termini assoluti e specifici (Sokolov è in emigrazione dal 1975).
Solo qui troviamo una parvenza di intreccio, plurimo e mutevole, ma estremamente dinamico e coinvolgente: il racconto in prima persona di una vedova di guerra («io» è però ora lei, ora il marito) che dal bacio rituale in chiesa con uno sconosciuto passa senza soluzione di continuità a una maratona erotica quasi ininterrotta, alla quale il partner zoologo e/o musicista aggiunge continui tradimenti con le femmine di bonobo che ha messo a disposizione delle sue ricerche; alla crisi coniugale segue l’ospedale psichiatrico, l’arruolamento in un reggimento musicale e la morte mentre si esibisce in trincea.
La chiusa è un evidente climax, e il terzo testo, Il filornita, riparte da atmosfere più rarefatte, fondamentalmente una rappresentazione teatrale in un museo zoologico nel quale avvengono misteriose apparizioni, in primis di una «secca señora» ispanofona che è la dama-morte visitatrice comune a tutti i testi di Sokolov: l’addio non potrà perciò arrivare se non da un cicerone in gondola che salpa dall’isola di San Michele a Venezia, sacrario degli artisti del Novecento.
In italiano tanto incoercibile fantasia linguistica resta sorprendentemente viva grazie alla molto efficace e raffinata traduzione di Martina Napolitano, capace di reinventare con lecito arbitrio porzioni del tessuto paronimico e di innescare con raffinata sensibilità musicale la fascinazione sommersa del ritmo, che continua, come nell’originale, a trasmettere scosse e vibrazioni: «un contesto, un carattere, un tratto del continuum,/ un arto perso in corsa, un pezzo, volendo, di destino».
È il titolo del libro di Liliana Madeo, appena ripubblicato. Mezzo secolo di storia italiana, dal 1946 al 1998, da Rina Fort a Anna Donati. Sono «donne con il gusto della provocazione, con un proprio progetto di vita, capaci di scelte radicali, di scelte a volte perverse. Donne scomode. Le madri delle ragazze del nuovo millennio»
Di Nadia Tarantini
Sono «le donne che rifiutano un destino predeterminato e scelgono di buttare all’aria tradizione, gerarchie, persino il rispetto della legalità», le protagoniste di un libro di cronaca, di storia, di cultura – che si legge come un romanzo, o una raccolta di racconti. Lo si dice spesso, ma in questo caso l’arte grande di cronista di Liliana Madeo, autrice di Donne “cattive”. Cinquant’anni di vita italiana (Miraggi edizioni), sfocia spesso e volentieri nella sapienza letteraria che troviamo in altri suoi libri, e compiutamente in Si regalavano infamie. Antonina e Teodora le potenti di Bisanzio, pubblicato da Pironti nel 2021.
Un libro, Donne “cattive”, ripubblicato nel 2023, a ventiquattro anni dalla prima edizione con La Tartaruga, che conserva l’incredibile freschezza delle scoperte, con il vantaggio di poter suscitare sorpresa e interesse in chi quegli anni – dai Cinquanta in poi – non li ha vissuti. Trama, personagge e personaggi, relazioni e ambiente: il tutto intessuto con abilità per creare curiosità e riflessioni su fatti di cronaca e di costume, su fenomeni sociali e criminali, in una rete di donne diversissime: la pluriomicida Rina Fort a fianco di Franca Viola che ci ha regalato la fine del matrimonio riparatore; la marchesa Casati e Tamara Bormioli, accomunate dal desiderio di diventare altre, di calcare i palcoscenici del potere e della vita di lusso; Doretta Graneris, che inaugura i decenni dei giovani assassini delle famiglie, per soldi; e Pupetta Maresca, la prima donna di camorra. E poi Ilaria Occhini dama bianca di Coppi, antesignana delle rovinafamiglie per amore; Vera Piegai, Lorena Nunziati, che sfidano poteri forti e Chiesa con atti di consapevole audacia o forse di incoscienza. Le teologhe che vengono allo scoperto, le femministe, la prima donna nella stanza dei bottoni (Anna Donati).
Tutte «donne con il gusto della provocazione, con un proprio progetto di vita, capaci di scelte radicali, di scelte a volte perverse a volte audacemente innovative. Persone cariche di valenze simboliche»; «in grado di innescare meccanismi grazie ai quali in Italia sono nate leggi degne di un paese democratico»; «Donne scomode. Le madri delle ragazze del nuovo millennio». Il libro tra-scorre così dal secondo Dopoguerra alle soglie del Duemila, regalandoci quadri precisi e arguti del passare del tempo, del mutare delle abitudini e delle passioni; si comincia dal 1946, con l’immaginario ancora pervaso da simboli arcaici: «Una specie di demonio si aggira dunque per la città, invisibile, e sta forse preparandosi a nuovo sangue», scrive Dino Buzzati all’indomani della scoperta dei cadaveri di una donna e i suoi tre figli, pluri-omicidio di cui sarà accusata (e per i quali poi condannata all’ergastolo) Rina Fort, amante del marito e padre della famiglia. E si finisce nel 1998, dentro al moderno scontro fra diritti alla salute e diritto al lavoro: «In quella stanza dei bottoni non era stata mai ammessa una donna» ovvero Anna Donati, designata dal ministro del Tesoro Ciampi a far parte del Consiglio di Amministrazione delle Ferrovie dello Stato.
Trama, ambienti, personagge e personaggi – ricostruzione documentata di ogni momento storico in cui le vicende si sono svolte: dall’economia al teatro, dalle condizioni sociali e personali delle protagoniste alla musica e al cinema. E la scrittura di Liliana Madeo. Scrittura abile, esperta, arguta, di cronista avvezza ai grandi fatti di cronaca come agli eventi e ai personaggi della cultura, disinvolto scivolare in una scrittura letteraria. «È una trentenne con viso ovale, pelle olivastra, zigomi alti, occhi scuri, bellissimi. Veste cercando sempre di “essere in ordine”, ha maniere spicce. Sa rispondere con durezza a chi la infastidisce. È una friulana brusca e silenziosa. […] A Milano arriva a 16 anni. […] Con una rabbia antica in corpo, fin da quando era una bambina selvatica, che al paese si distingueva da tutti perché odiava le bambole […] Due facce diverse dell’Italia contadina vengono alla luce sotto i riflettori dell’aula. Da una parte c’è Rina Fort, icona arcaica di una femminilità oscura, tetra, possessiva, la donna che nell’appartenenza a un uomo trova la sua identità e il senso della propria vita. Dall’altra parte ci sono le donne della famiglia Ricciardi, che sfilano davanti alla corte con gli abiti neri, gli scialli sul capo». «Nessuno ebbe dubbi. Anna (Anna Fallarino, marchesa Casati Stampa, n.d.r) provava piacere, si divertiva a fare quei giochi proibiti. Una viziosa […]. A nessuno venne in mente che quella di Anna potesse essere un’altra storia. Che […] forse lei aveva spezzato le barriere che definiscono e censurano il desiderio femminile».
E, infine, la Milano del 1946, quando Rina Fort lascia l’appartamento della strage: «La città è ancora poco illuminata. Ma Milano ha ripreso a vivere, la gente ha incominciato a uscire la sera. […] La voglia di dimenticare, di recuperare il tempo perduto esplode. La prima estate di libertà è una frenesia di balli, canzoni, giochi di sesso. Un’estate calda, con tutte le aspettative di rinascita ancora intatte. La pace che è scoppiata dà al ridere e al sognare il senso della speranza. L’Idroscalo si è affollato di corpi smagriti ma bene in mostra. Svolazzano le gonnelline delle ragazze in bicicletta. Le notti si sono fatte piene di piroette, magari di ragazze che per mancanza di cavalieri ballano fra loro, di danze sui selciati, negli spiazzi aperti fra le macerie, nei cortili delle case popolari, nella Galleria che le bombe hanno scoperchiato. In canottiera, in abiti di cotonina rivoltati».
L’immaginario multiforme di Bianca Bellová si esplica in declinazioni sempre diverse, testimoni di una irrefrenabile capacità inventiva. A metà fra le suggestioni della Tempesta shakespeariana e l’inesauribile affabulazione delle Mille e una notte, L’isola è un romanzo singolare, ricco di arcana fascinazione. Nel costruire una narrazione apparentemente lontana nel tempo e nello spazio, l’autrice parla in realtà del nostro mondo, dell’avidità che lo domina. Un luogo terrifico dove i più poveri rubano a chi ha poco o nulla. Come nel libro di Shahrazâd tutto origina da un tradimento: a Palermo una bellissima fanciulla ama un affascinante saraceno il quale le nasconde di avere moglie e figli in Oriente. Una volta scoperto il suo segreto la ragazza, distrutta dall’umiliazione, gli taglia la testa. Sin dall’inizio amore e morte appaiono indissolubilmente legati. L’oscura Signora si manifesta agli uomini come in una pellicola di Ingmar Bergman. Teste di bambini perduti spuntano dalla roccia, la bocca piena di muschio secco, le orbite degli occhi vuote. Processioni di flagellanti percorrono le vie cittadine, dove corpi in putrefazione e insepolti appestano l’aria. La peste nera è materia di racconti terrificanti. Patriarchi e congregazioni si azzuffano in terra Santa, adombrando i conflitti fra le diverse confessioni che ancora oggi lacerano i corpi e le coscienze.
Atmosfere pagane e cristiane si confondono a esaltare la complessità del caleidoscopio romanzesco. L’ombra del mito balena nell’apparizione del carbonaio cieco, mentre uomini con ali posticce cercano di prendere il volo come Icaro. La ricerca del caladrius, l’uccello che guarisce ogni male, ricorda il viaggio di Parsifal sulle tracce del Graal. La costruzione erratica conduce il lettore attraverso un labirinto narrativo: il mercante Izar, una lampada di vetro al collo che in realtà si crede essere la luce del Santo Sepolcro, solca i mari, attraversa le steppe accompagnato da uno stuolo di vichinghi, intesse narrazioni incredibili dilettando la principessa Nurit, sovrana di un regno in declino ereditato dopo la tragica morte del fratello demente. Il laudanum le ottunde l’anima e le infonde inusitata crudeltà. Abbandonata da Izar, si tormenta come Didone lasciata da Enea. Un Ragazzo senza nome, figlio di un raccoglitore di letame, non ama parlare ma canta come un cherubino. Vedere dal porto una vela tesa è per lui motivo di gioia. Sogna orizzonti avventurosi e mondi lontani.
Il tempo è il Seicento, epoca di scoperte e naufragi che già segnò la creatività del citato Shakespeare nella sua ultima fatica teatrale. L’isola è la Sicilia, ma è anche un luogo immaginario popolato di stregoni e creature fantastiche, descritto con sontuosità barocca e allegorica pregnanza. Verità e invenzione si mescolano, risultando indistinguibili. Izar tiene un diario nel quale si mostra tutt’altro che eroico, ma debole, stanco e insonne; gli avvenimenti si ammantano di una luce incerta. Una necessità intima lo spinge, anche se crede che nessuno mai leggerà quelle righe; eppure scrive per raccontare come si sono svolti i fatti, scrive perché “le storie ci salvano dalla miseria e dalle brutture di questo mondo”. Il racconto è esorcismo della morte, supremo incantamento, amuleto per orientarsi in una realtà che resta, nonostante tutto, incomprensibile.
Lory Muratti accompagna l’icona glam-rock-blues Dana Gillespie e presenta il suo libro Torno per dirvi tutto nella 13ª puntata del mitico Nuovo Roxy Bar di Red Ronnie.
Miraggi Edizioni ha di recente pubblicato all’interno della collana NováVlna Ostrov (“L’isola”, 2022) di Bianca Bellová. L’autrice ceca arriva così al suo quarto romanzoin Italia, grazie al prezioso lavoro di traduzione di Laura Angeloni. In occasione dell’uscita, Andergraund Rivista ha deciso di pubblicare un’intervista con l’autrice, che ringraziamo per la sua disponibilità.
“Il mattino dopo all’orizzonte è comparsa l’Isola. Era inondata dal sole. Abbiamo attraccato prima del crepuscolo. Sopra il porto volteggiava starnazzando uno stormo di gabbiani.” (p. 20)
Bellová si è ormai costruita una fama internazionale raggiunta da pochi altri autori provenienti dal contesto ceco, dovuta soprattutto a Jezero (“Il lago”, 2016). Le sue opere sono caratterizzate da una cifra stilistica inconfondibile, uno stile schietto e una predilezione per la paratassi, che implicano una comunicazione diretta con il pubblico e un ritmo incalzante. Con L’isola avviene un’evoluzione nella prosa dell’autrice che, mantenendo lo stile sinora descritto, costruisce un intreccio diverso. A differenza de Il lago, ad esempio, la dimensione dell’isola ha una caratterizzazione più complessa, la costruzione di un contesto più articolato e preciso. Un altro elemento di novità è rappresentato dal vasto e stratificato impiego di riferimenti ad altri testi, dalle Sacre Scritture alle opere dei poeta mistico Rūmī, un ricorrere di rimandi che dona uno spessore diverso alla struttura del romanzo. Con ciò non si intende annunciare l’incalzare di una fase di scrittura “matura”, di cui in realtà l’autrice ha dato già prova nei suoi primi romanzi.
Un elemento costante corrisponde a una delle caratteristiche principali delle opere di Bellová: il suo profondo interesse per la dimensione umana, per la stratificazione psicologica dei suoi personaggi e il realismo con cui rappresenta le sue figure. Potrebbe sembrare un azzardo o un gesto ossimorico parlare di “realismo” in riferimento a un romanzo innestato su di un’isola situata a metà tra due generi che si rifanno piuttosto al fantastico, la distopia e la fiaba. Tuttavia, è proprio in questo dichiarato distacco dal reale che Bellová riesce a costruire una riflessione sulla contemporaneità, dando ancora una volta prova dell’incredibile efficacia del filtro letterario. Se ne Il lago era la mancanza di coordinate a ristabilire il contatto del lettore con lo spazio e il tempo, ne L’isola è la dimensione del fantastico a permettere una nuova interpretazione del reale. In assenza di qualunque soggettivizzazione della realtà, l’isola non è solo una metafora geografica o un’eredità utopica alla More, ma una chiave di volta per affacciarsi al convulso mondo ipermoderno immergendosi in una vicenda ambientata in un’era fuori dal tempo conosciuto.
Ci siamo dunque rivolti all’autrice, a cui abbiamo posto alcune domande circa la realizzazione e i temi racchiusi nel romanzo.
AR: Quando ho letto il titolo del suo romanzo, mi aspettavo una distopia, associando il titolo L’isola a Utopia di Thomas More. Come ne Il lago, abbiamo un elemento geografico attorno al quale si svolge la vicenda. Tuttavia, a differenza de Il lago, però, lei non ha creato una distopia, ma una storia che ha una predilezione per l’esotico e il mondo fiabesco. Come è nata l’idea di questo romanzo?
BB: Ho iniziato a scrivere L’isola con quando è cominciata della pandemia. Dato che vi erano caratteristiche comuni all’epidemia di peste, mi sono ricordata di un mio precedente racconto, Láska všechno překoná (“L’amore supera tutto”), e l’ho riscritto un po’ (qui lo si può ascoltare in italiano, probabilmente si può trovare in forma scritta). E poi la mia mente è rimasta su quell’isola. Il periodo della pandemia ha rappresentato una pausa dalla quotidianità che conoscevamo, all’improvviso eravamo in pericolo, un virus misterioso e invisibile poteva uccidere noi e i nostri cari, e noi eravamo isolati. Improvvisamente abbiamo riscoperto il potere delle storie e quanto ne abbiamo bisogno per comprendere il caos che ci circonda e che si maschera da mondo. Questa credo sia la vera storia che è racchiusa ne L’isola: un tributo a quelle storie che le persone si raccontano da sempre. Non la definirei una favola, ma semplicemente di una storia ambientata in un periodo storico, all’incrocio tra il Medioevo, quando era possibile incontrare l’uccello caladria, che aveva poteri magici di guarigione, e l’epoca moderna, un’epoca di esplorazioni e scoperte scientifiche. Essendo il protagonista un mercante di nome Izar, deve viaggiare in tutto il mondo allora conosciuto e raccontare storie di esso.
AR: Questo suo ultimo romanzo mi colpisce per la sua diversità rispetto ai precedenti, oltre che per l’enorme quantità di informazioni e di struttura lessicale (dal vocabolario marinaresco alle citazioni più erudite che utilizza). Qual è stato il lavoro preparatorio dietro un romanzo come L’isola?
BB: Essendo L’isola un romanzo scritto durante una pandemia, ho avuto molto tempo per leggere. Ho consultato libri scientifici come la Storia della morte di Ariès, oltre a varie fonti come leggende medievali, bestiari dei viaggiatori e la mitologia greca. Beh, la marineria mi interessa da moltissimo tempo e per me rapppresenta un simbolo del trionfo del coraggio umano e del desiderio di esplorazione sulla paura, sul pericolo e sugli elementi. Dopotutto, ho sposato un marinaio.
AR: Ciò che apprezzo sempre dei suoi romanzi è la sua capacità di creare un universo letterario che non esiste, ma che parla così bene della realtà da sembrare reale. Ne Il lago, c’era un mondo anonimo che dava alla storia un’universalità. In L’isola, abbiamo un mondo di fantasia ben definito e fiabesco. Non esiste, ma a differenza del mondo di Nami, ha delle coordinate. Qual è la funzione di questo filtro, di questa distanza che lei mette tra lei come autore (e successivamente il lettore) e la realtà? Permette di comprendere meglio la realtà?
BB: L’isola è ovviamente fittizia, anche se la mia editor se ne è occupata a lungo, finché non mi ha detto gongolando che sapeva già quale fosse l’isola, che supponeva si trovasse nel Mare del Nord, sopra Danzica. Mi piace che ogni lettore possa progettare ciò che vi troverà. Ma soprattutto è un modo per concentrarmi sulla storia, sui suoi personaggi e sui suoi schemi. Le realtà concrete, a mio avviso, allontanano il lettore dalla vicenda.
AR: Nei suoi romanzi manca sempre un finale positivo. A volte mi chiedo se leggerò mai uno dei suoi romanzi con un finale roseo. A parte gli scherzi, ricordo che qualche tempo fa ha detto che “il lieto fine la annoia”. Perché la annoia?
BB: Non credo che sia del tutto vero. I miei eroi, però, non si avviano al tramonto mano nella mano, ma devono sempre superare grandi ostacoli, a volte traumi, non hanno mai una vita facile. Tuttavia, cerco sempre di dare loro qualche soddisfazione. In questo senso, L’isola è la storia di riparazione a un grande torto, a un crimine. Izar torna sull’isola per espiare il suo grande fallimento e nel farlo trova sollievo dal rimorso che lo ha perseguitato per tutta la vita, anche se dovrà pagare un prezzo molto alto. Voglio dare ai miei eroi la possibilità di trovare la pace, una conciliazione, una soddisfazione.
Il lieto fine lo considero un imbroglio nei confronti del lettore, come una madre che colpisce con un lecca-lecca il ginocchio di suo figlio per impedirgli di piangere: il bambino si calma, ma non impara nulla e sviluppa una dipendenza dallo zucchero.
AR: Questo è il suo quarto libro tradotto in italiano da Laura Angeloni, il cui lavoro di traduzione è eccezionale. Qual è il suo rapporto con l’Italia? E con il pubblico italiano? E a cosa sta lavorando ora? Se si può dire 🙂
BB: Sì, Laura è eccezionale e quanto il nostro rapporto. Laura è come la sorella che non ho mai avuto, pensiamo allo stesso modo, ci commuoviamo e ridiamo per le stesse cose. Inoltre, è una traduttrice davvero straordinaria, al servizio del testo. Legge e traduce con attenzione, facendo revisioni a ripetizione finché non è soddisfatta. Mi fa molte domande per capire al meglio il testo e renderlo in modo autentico in italiano.
L’Italia è la mia Atlantide perduta. Credo di essere stata italiana in una vita passata, il che spiegherebbe perché mi ci sento così a mio agio e perché i miei libri risuonano con i lettori italiani più che altrove, persino più che nella Repubblica Ceca. L’Italia è l’unico Paese in cui è veramente possibile vivere: la lingua, il temperamento, il cibo, il paesaggio, l’architettura, il senso estetico, tutto è unico. Mi piace tornarci spesso.
Di recente, ho trascorso quasi tutto il mese di ottobre in clausura nell’appartamento di Sanremo del mio caro editore Alessandro de Vitto, di Miraggi Edizioni. Ho passato quel periodo a scrivere il mio nuovo romanzo, Neviditelný muž (“L’uomo invisibile”), che uscirà quest’anno.
Qui è possibile trovare un’intervista con l’autrice relativa a Il lago, pubblicata da Est/ranei. Sempre su Est/ranei è possibile leggere la recensione a romanzo senti/mentale.
La destrutturazione del linguaggio metaforico attraverso l’immagine: è questo il percorso poetico di Gaia Ginevra Giorgi.
Una sperimentazione che la porta a coniugare il dire con il vedere.
Non ci sono fratture tra queste parti e il soggetto finalmente torna intero.
Mente, corpo, parola, percezione in un intreccio lucido, bilanciato, molto espressivo.
“Oggi sono schiuma
sottrazione
cicatrice laterale – roccia
che frana”
La mancanza di punteggiatura, la scelta accurata del fonema creano una musicalità sacra.
E la sacralità è ricerca di geometrie e di linee e di colori.
Le pause sono respiri trattenuti, incanti, fluorescenze.
I ricordi frammenti di pulviscolo, i sogni evocazioni di un immaginario che sconfina nelle solitarie meditazioni.
“L’animale nella fossa”, pubblicato da Miraggi Editore nella Collana “scafiblù” è “il buio primitivo” di un’assenza, “il rischio del varco”, lo strappo.
È il bosco, la lacerazione, la luce del mattino.
È l’ombra, la possibilità, il confine tra selvaggio e domestico.
È la prosa che arriva senza preavviso, il ritmo accelerato della vita, la corsa verso l’irraggiungibile.
Dopo un incidente sono stato costretto a utilizzare la sedia a rotelleL’incontro con una donna paralizzata ha cambiato il mio sguardo
Andare a oltranza vuole dire superare tutti i limiti, o cercare di farlo. Ma partiamo dall’inizio, perché mi ha riguardato personalmente e mi ha aiutato a capire parecchie cose. Per tutto l’anno scorso, dopo un incidente, sono stato un disabile. Niente di troppo grave, se vogliamo, ma ho avuto una gamba fracassata che non mi ha consentito di fare una vita normale: primo mese, sempre a letto al Cto; secondo e terzo mese, un po’ a letto e un po’ in sedia a rotelle in una struttura di degenza da cui non vedevo l’ora di uscire. Ma non sarei potuto tornare a casa perché la sedia a rotelle non passava nell’ascensore. Ho dovuto aspettare il momento in cui ho potuto provare a muovermi con le stampelle, alla faccia del fissatore esterno, un’incastellatura di cinque anelli da ognuno dei quali due chiodi attraversavano le mie povere ossa; un vero strumento di tortura. Laura era preoccupatissima: «Aspetta ancora un po’. Abbi pazienza». Ma alla fine ce l’ho fatta: sono tornato a casa appoggiandomi da solo sulle stampelle e sul piede sano. Dopo pochi giorni, abbiamo azzardato la prima uscita, Laura e io. Era arrivata la primavera. Poche decine di metri al giorno, intorno all’isolato, poi una capatina fino a Porta Palazzo e poi, qualche settimana dopo, il primo grande obiettivo: arrivare in Galleria, a salutare Cristiani, a bermi il mio bianchetto seduto da Cecio o da Ciro o da Stefano, a veder passare qualcuno che mi sorride e dice «Va meglio, eh? Abbiamo saputo… Mamma mia!». In effetti la gamba e la caviglia continuano a farmi un male cane anche se prendo gli antidolorifici. Ma l’importante è essere fuori.
E qui arrivo al dunque: in Galleria ho conosciuto Valeria, sulla sua carrozzella elettrica con la sua cagnetta Luna; ho capito che era affetta da qualche brutta forma di paralisi. Dopo un paio di incontri di sfuggita, si è fermata a un tavolino da Stefano, sull’angolo di via della Basilica, vicino al mio. L’ho salutata, mi ha risposto con quella che poteva sembrare una smorfia e che invece, ho capito, era un sorriso. Lì per lì non ho neanche afferrato quello che diceva: «Puoi ripetere, per favore? Ah, sì, oggi è proprio una bella giornata».
La gente passava e qualcuno guardava il mio gambone, le mie stampelle e la sua carrozzella. Intanto era arrivata l’estate, mi avevano tolto il tremendo fissatore esterno e avevo finalmente potuto rimettermi una paio di pantaloni normali. Sembra una cosa da niente, ma andare in giro con braghe da ginnastica extralarge per più di sette mesi ti toglie la voglia di vivere, ti senti solo un vecchio relitto.
E poi ecco l’autunno, e io avevo incominciato a camminare con una stampella sola. «È uscito il mio libro!», mi ha detto un giorno tutta contenta. «Libro?». «Sì: l’ho scritto io!». Me lo porge, e vedo sulla copertina una bellissima caricatura di lei in carrozzella con Luna in braccio. Leggo ad alta voce: «Valeria Carletti. A oltranza. (Dis)avventure di una vecchia groupie. Miraggi edizioni». Non so bene che cosa sia un groupie, ma me lo faccio spiegare e scopro che è un fan di un cantante o di un musicista rock. La guardo con occhio interrogativo e lei mi fa di sì ridendo: lei è proprio una groupie. «Posso comprarlo?» le chiedo al volo. Ha una borsa con parecchie copie e me ne dà una, «Mi fai la dedica?». E lei, con difficoltà ma senza titubanze, riesce ad aprire il libro e scrive «A Giorgio» sul frontespizio. Cosa dire? Anche se ho fatto finta di niente mi sono commosso. Che grinta!
Passano pochi mesi. Laura e io abbiamo letto il libro, lo abbiamo apprezzato e lo abbiamo poi detto a Valeria quando l’abbiamo di nuovo incontrata in Galleria. Lei mi ha fatto i complimenti perché adesso cammino solo con il bastone e ride: «Fa anche chic!». Poi ci dice di guardare le prime recensioni del suo libro su Amazon; le trovo subito sul telefonino e leggo la prima: «Paola. 5 su 5 stelle. Fatevi un regalo, leggete questo libro! Recensito in Italia il 18 gennaio 2024. Acquisto verificato. Un libro pieno di vita, musica, sentimenti, tutto legato insieme dall’ironia! Divorato in pochissimo tempo, tante risate, qualche lacrima e tantissime emozioni. In tanti possono ritrovarsi in quelle parole perché la “disabilità” ha varie forme e io vorrei riuscire ad affrontarla con la stessa caparbietà di Valeria». «Poi c’è quest’altra» e vado avanti a leggere: «Anna Maria Burrafato 5 su 5 stelle. Un viaggio dentro la consapevolezza. Un libro prezioso che regala l’opportunità di cambiare punto di vista e provare a percepire il mondo così come lo sente Valeria: con commozione, gioia, tristezza, speranza e amore. Un libro pieno di empatia e pieno di musica. Un libro così empatico proprio grazie alla musica e al suo enorme potere salvifico e di espressione interiore. Personalmente l’ho trovato molto intenso. Offre spunti musicali davvero interessanti per chiunque ama la musica ed è sempre alla ricerca di scoprirne nuove perle. Da leggere. Io l’ho divorato in due giorni». L’autunno volge al termine. Incontro di nuovo Valeria in Galleria: «Domani c’è la presentazione al Circolo dei Lettori!» mi dice raggiante. «Venite?». Il Circolo dei Lettori, massima aspirazione per chi scrive un libro. Sala gremita: tutti giovani, bei giovani; atmosfera di amicizia e di spirito positivo, tutto intorno a Valeria; all’inizio c’è la sua assistente logopedista che traduce, ma alla fine è proprio lei, al microfono, che parla, parla bene e riesce a farsi capire da tutti. O forse siamo noi, che finalmente riusciamo a capirla? Laura e io abbiamo preso il taxi per venire perché la gamba mi fa ancora male, siamo i più anziani, ma ci sentiamo giovani con loro e come loro.
«Ma che belle persone, che bel tutto… sono proprio contenta per lei; se lo merita» dice Laura mentre siamo ormai in scesi in via Bogino. «Chiamiamo il taxi?». Io faccio segno di no, brandisco il bastone con gesto da Brancaleone e indico la direzione di casa dicendo: «A oltranza!». E, passo passo, ci avviamo sottobraccio verso Porta Palazzo.
Può un solco senza seme dare frutti? Quello di Luca Ragagnin sicuramente: frutti allo stesso tempo dolci e amari, succulenti e un po’ aciduli.
Un solco senza semeè un libro impossibile da classificare e complesso da approcciare. È una raccolta di scritture in versi, come recita il sottotitolo, o, meglio ancora, “scritture con gli a-capo”, come le definisce l’autore stesso. 35 anni di testi (1988-2023) pubblicati e inediti (come Mangimonio), ispirati ad antiche leggende (gli “oracoli caldaici”) o a malattie, sale d’aspetto e corsie d’ospedale, frutto di anni di lavoro di scalpello e continuo rimuginare o scritti di getto “abbarbicato su uno scoglio”.
Il lettore si immerge in questo viaggio nel tempo, un tempo intimo e personale, perché tutto ciò che accade e che il poeta mette in versi, anche se comune e universale, spesso fatto di quotidianità appartenenti a tutti, è filtrato sempre attraverso la propria personalissima esperienza, e naviga tra versi irregolari, scoscesi come pendii alpini, frastagliati come le nostre coste, irruenti come la risacca, rimbalzando tra rime e assonanze mai banali, che cullano e scuotono.
Quello che colpisce immediatamente è proprio la padronanza del verso, della metrica, l’alternarsi continuo di strutture differenti, che dietro l’immediatezza nasconde un elaborato labor limae (come Orazio, e il paragone non risulti blasfemo, che per le prime 10 delle sue Odi utilizzò 10 versi differenti). Spostandosi, così, tra le raccolte (il libro è una raccolta di raccolte, una summa poetica, Lu cunto de li cunti) sentiamo echi di ermetismo e decadentismo, simbolismo e surrealismo, ma anche la musicalità di certi poeti spagnoli (Fosfeni di bianco e poi bianco, scrive Ragagnin; Nel bianco infinito,/ neve, nardo e sale cantava Lorca).
Riemersi annaspando dal mare burrascoso di certi versi, rimaniamo ora abbagliati da improvvise illuminazioni (Radura che il sole attanaglia./La corazza della sorte/sepolta sotto il peso della luce), ora sprofondati in abissi senza fondo, travolti dalla tempesta e sopraffatti dal divino, sperduti nell’immensità del cosmo, annegati nel grembo (materno come della Terra, che tutti ci accoglie), ascoltando echi di tristezze e rimbalzando su silenzi assordanti. Andando avanti nella lettura, siamo costretti a fare i conti con la caducità dei nostri corpi, il nostro essere fatti di atomi esattamente come tutta la realtà che ci circonda, vediamo i segni del tempo e della malattia sulla pelle e sulle ossa, miseri corpi abbandonati e prostrati (la carne ha fatto naufragio in terra straniera), ma anche nelle nostre anime, di cui, al contempo, sondiamo le profondità e ammiriamo le mille sfaccettature, attraversiamo il luogo capovolto della morte. Oscilliamo, assieme all’autore, tra bisogno di amore e d’appartenenza e senso di solitudine (sono solo come un boia al termine del giorno….Peggio sarebbe ritornare ancora/in mezzo alle persone./Ma la mia solitudine/ha un numero da circo) e ci imbattiamo di frequente in inni alla luce, ma soprattutto alla voce, alla parola, strumento principe con cui affrontare le nostre piccole e grandi sfide quotidiane e spesso difesa unica contro i mali del mondo (Si he perdido la vida, el tiempo, todo/lo que tiré, come un anillo, al agua si he perdido la voz en la maleza,/me queda la palabra)[1]. Ma, in fondo, non c’è differenza tra luce e parola, tra buio e silenzio, i sensi si confondono (il nostro canto…si distingueva appena dalle ombre).
Ricerca, scoperta (scavare, cercare viaggiare, navigare, annegare, perdersi in antri oscuri, grotte, recessi) e rimedio (ferite, lame, solchi, fessure, ma poi corde, lacci, suture, incollaggi, cucire le ferite, rilegatore di anime) sono temi ricorrenti nell’opera, che oscilla, appunto, tra il viaggio, fisico e spirituale, e l’aspirazione a riparare a colpe proprie e altrui.
E navigando tra le poesie sorge all’improvviso, come uno scoglio non segnalato, un Atto unico, anzi, un Misfatto unico, rappresentazione tragicomica della razionalità portata all’estremo, scevra da ogni contatto con la realtà, scarnificata, ridotta all’essenza del pensiero matematico, ragione pura, sofismo senza sbocco, assassinio del sentimento. J’accuse contro la ricerca esasperata della perfezione fine a stessa, senza limiti e condizioni. Riflessione amara sull’impossibilità di qualsiasi cambiamento, sull’incapacità di comunicare, sull’inevitabile condanna alla solitudine e al vuoto.
Attraverso percorsi sempre privati e personalissimi, che prima dei fatti mostrano un proprio vissuto, le proprie esperienze che appaiono quasi per caso comuni anche a tanti altri, andiamo, poi, alla scoperta, o riscoperta, di titoli e personaggi, che, dallo schermo delle TV, hanno attraversato e raccontato mezzo secolo di storia italiana, perché niente meglio della televisione rispecchia l’evoluzione (o l’involuzione) del nostro Paese e degli italiani nel secondo dopoguerra.
E di qui approdiamo al cinema: schizzi e bozzetti, immagini e musica, di un mondo meraviglioso, popolato da personaggi straordinari, eppure intimamente familiari, ritratti sempre con uno sguardo partecipe.
E la musica a dettare i tempi di ogni strofa, a dare il ritmo a voci e ricordi, un ritmo pieno di variazioni, un alternarsi di arsi e tesi, a trasmettere la sensazione che tutta l’opera sia intrisa di questa passione difficile da tenere a freno e che trova la propria consacrazione nell’ultimo “capitolo” Trentawatt (che a me fa venire in mente un piccolo amplificatore).
Anche la scrittura trova qui la sua apoteosi, in una forma assolutamente originale: brevi saggi in bilico tra versi e prosa.
Un’immersione, dunque, nella musica, sguazzando tra i generi (dal rock alla classica, dal jazz al pop) e al contempo sorvolandoli alla scoperta di suoni e sfumature, trasportati dal ritmo di versi che di volta in volta si adattano all’artista celebrato e dal calore di una passione che non vede cali di tono.
Orazioni che ci lasciano penetrare nelle vite e negli animi di musicisti e movimenti che hanno segnato, ciascuno a suo modo, la propria epoca. Personaggi fuori dal coro, originali, spesso irriverenti, come la scrittura di Ragagnin, sovente contro, come gli Henry Cow. È proprio il brano dedicato a questi ultimi (La calza di lana o di ferro) che rappresenta, almeno per me, appassionato dell’Underground inglese a cavallo tra la fine dei ’60 e i ’70, la vetta più alta toccata dall’autore: una celebrazione senza fronzoli, schietta, al contempo lucida e appassionata, di una band straordinaria.
A quasi cinquant’anni dal loro scioglimento, rimangono i portavoce della libertà mischiata al piacere, i depositari della genialità del rock, i proprietari del vero e sincero donarsi all’udienza con tutti i mezzi tecnici e umani possibili.
Nel libro di Liliana Madeo, uscito in nuova edizione nel novembre scorso, le protagoniste testimoniano l’arretratezza moralista del nostro Paese. Figure irregolari scelte dall’autrice che «si oppongono alle gerarchie e danno scandalo, arrivando persino a uccidere».
Di Laura Bertolotti. Questo articolo è uscito su www.heraldo.it
Ci sono donne cattive? Parlarne dopo la Giornata internazionale per i diritti della donna sembra quasi sacrilego, quando qualcuno si ostina persino a considerarla la “festa della donna”, per poche ore con fiori e auguri. E allora cerchiamo di uscire dalla gabbia ideologica che vede le donne sempre brave, multitasking e comunque con una marcia in più. Dobbiamo ammettere che l’argomento è di per sé debole e presta il fianco a facili critiche.
Ricordiamo piuttosto che l’8 marzo vuole essere, ogni anno, un momento di riflessione sui diritti ancora non riconosciuti in molti Paesi del mondo e sempre pericolosamente in bilico o dimenticati, per esempio, nei rapporti affettivi e nei contratti di lavoro, anche in piena democrazia.
Ma resta il nodo delle cosiddette “donne cattive”. Esistono, anche se riservano qualche sorpresa. Ce ne parla Liliana Madeo nel suo saggio che si legge come un romanzo, Donne cattive. Cinquant’anni di vita italiana (Miraggi, 2023), già pubblicato nel 1999 e uscito in una nuova edizione nel novembre scorso.
Protagoniste di un dopoguerra cui ribellarsi
Liliana Madeo è stata inviata del quotidiano La Stampae ha lavorato come consulente del Tg2 per il programma “Mafalda – Dalla parte delle donne”. Tra i suoi numerosi libri ricordiamo Bianco, rosso e verde. L’identità degli italiani (a cura di Giorgio Calcagno, Laterza 1993), Si regalavano infamie. Antonina e Teodora, le potenti di Bisanzio (Tullio Pironti 2021), Donne di mafia. Vittime Complici Protagoniste (Mondadori, 1994, poi diventata serie televisiva nel 2001 e ristampato da Miraggi nel 2020).
L’autrice ha voluto mettere al centro di Donne cattivela lentezza e la difficoltà per le donne di muoversi nel dopoguerra, che aveva tradito le loro aspettative».
«Ho scelto le donne che venivano clamorosamente alla ribalta della cronaca, tutte personagge esemplificative di quel momento storico, anche le cattive senza virgolette, perché si muovevano tra moralismo e perbenismo imperanti – approfondisce Madeo -. Queste donne cattive rifiutano il loro destino e la tradizione che le vuole spose e madri amorevoli. Sono le irregolari che si oppongono alla morale, alle gerarchie, alla Chiesa, alla loro famiglia e danno scandalo, arrivando persino a uccidere».
Lo scandalo della Dama bianca
Madeo raccoglie tredici emblematiche storie di «persone cariche di valenze simboliche. Ciascuna con una precisa collocazione geografica, magari uscite dall’ombra e dal silenzio senza neppure l’orgoglio e la consapevolezza della propria diversità, ma in grado di innescare meccanismi grazie ai quali in Italia sono nate leggi degne di un Paese democratico».
Troviamo la vicenda di Rina Fort, su cui la cronaca nera versò fiumi di inchiostro nell’Italia degli anni Cinquanta, uscita povera e distrutta dalla guerra. E anche la sua è una storia di povertà, di benessere appena raggiunto e subito perso, di una catena di sfortunati avvenimenti che la portarono a macchiarsi di omicidio.
Il talento dell’autrice è di incorniciare le storie nella più grande storia del nostro Paese e non è fiction, ma rispettosa documentazione e volontà di collocare i fatti nel loro tempo e nelle norme che lo regolano.
Nel libro troviamo anche la “dama bianca”, al secolo Giulia Occhini, amante di Fausto Coppi, così soprannominata dal colore del montgomery che indossava quando Coppi, nel 1952, vinse il Giro d’Italia. Negli anni Cinquanta l’abbraccio fra Stato e Chiesa era molto forte, ci ricorda l’autrice, erano i tempi della santificazione di Maria Goretti, che ispirava libri, drammi e canzoni.
La verginità era un valore, arrivare al matrimonio non illibata e non dirlo allo sposo costituiva “ingiuria grave”, riconosciuta dall’ultima sentenza della Cassazione che applicò tale principio ancora nel 1973. Come poteva essere giudicata una donna che in quegli anni lasciava un matrimonio per seguire un altro amore? Una donna cattiva.
Tra le ribelli anche una teologa scomoda
Nel libro ci sono ritratti come quello di Loriana Nunziati, che sposa con rito civile Mauro Bellandi, ignorando i consigli del vescovo, i due sono quindi dichiarati “pubblici concubini” in forza del diritto canonico e di conseguenza scomunicati.
Sembra un fatto assai distante dalla realtà di oggi in cui la convivenza è prassi normale e non preclude neppure il matrimonio religioso, ma correvano gli anni Cinquanta, come si è detto, e quelle erano considerate donne cattive.
Come Franca Viola, che si rifiuta di sposare il suo stupratore e si dovrà aspettare il 1981 perché venga abolito il cosiddetto matrimonio riparatore e il 1996, in cui la Legge 66 sancirà finalmente lo stupro come un crimine contro la persona e non contro la morale.
Era scomoda, giusto per variare l’aggettivo, persino la teologa Adriana Zarri «una spina nel fianco di quella Chiesa tradizionale – continua Madeo -, da secoli arroccata dietro verità monolitiche». Con lei un folto gruppo di donne, laiche o religiose, tra cui storiche, antropologhe, filosofe e teologhe, appunto, che alzavano una voce autorevole per scardinare i silenzi della Chiesa.
Per tacere delle “cattive, cattivissime anzi streghe” che negli anni Settanta facevano nascere il Movimento di liberazione della donna, si raccoglievano in piccoli circoli per riflettere sulla loro condizione e manifestavano apertamente per il diritto di aborto.
Il libro propone una prospettiva storica dei fatti avvenuti nella seconda parte del Novecento quando le donne venivano classificate come ribelli, scostumate, additate dalla pubblica opinione, anche solo se provavano a parlare di anticoncezionali. Non si può negare l’utilità didattica di questo testo nei confronti delle nuove generazioni perché, scrive Madeo, in Donne cattivetroviamo “le madri delle ragazze del nuovo millennio”.
Paolo, sei uno scrittore “esperto”, con diverse pubblicazioni alle spalle. Scrivere Più di là che di qua è stato diverso che non scrivere gli altri tuoi libri?
Scrivo sempre due cose insieme, forse perché sono dei Gemelli o piuttosto perché in questo modo arrivo sempre impreparato passando da uno all’altro. Il lavoro quindi è durato un paio d’anni, nel frattempo ne continuavo uno che ancora non è finito. Comunque questo libro è l’ultimo di una trilogia, cosiddetta del buon senso (anche se alla fine ce n’è poco), dopo Né in cielo né in terra e Da che mondo è mondo.
Parlando di un libro con così tanti rimandi alla cultura buddhista e tibetana, viene spontaneo chiederti quale sia lo spirito che lo anima…
Per me i libri sono esercizi, cosiddetti spirituali, prove di fraternità con il mondo. Come al solito ciò che volevo fare mi è apparso chiaro durante la stesura. All’inizio volevo solo divertirmi a far saltare qui e là brandelli di personaggi famosi, ma poi ho capito che sarebbe venuta una stupidaggine se non provavo per loro compassione. Quindi si è trasformato in uno studio sulla concezione orientale della compassione, ben più coinvolgente della nostra, vale a dire la percezione reale che tutto quello che incontro fa parte del corpo della mia vita.
Se fosse un medicinale che medicinale sarebbe? E pensando ai bugiardini che accompagnano appunto i medicinali, quali potrebbero essere gli effetti collaterali?
Anche il peyote è considerato una medicina, difatti lo stregone era chiamato l’uomo-medicina. Ne ho praticato lo studio una cinquantina d’anni fa, e gli effetti collaterali sono la percezione reale (pure qui) di quanto il nostro ego soffochi la nostra personalità.
C’è una domanda che avresti voluto ricevere e che nessuno ti ha fatto?
Perché non te ne fai una ragione?
Pensando anche ai tuoi libri precedenti… se Più di là che di qua fosse un cibo, quale cibo potrebbe essere?
Abbiamo mangiato già un bel po’, ma un altro bicchiere di vino ci sta sempre bene.
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