Alcuni ritratti in un libro sulle donne del Novecento
«L’Osservatore Romano», di Bianca Stancanelli
Le chiamarono «le scomode figlie di Eva»: erano laiche e religiose, «storiche, antropologhe, filosofe, teologhe», decise a rinnovare una Chiesa che sembrava ferma all’«idea dell’inferiorità naturale della donna, maschio mancato, come aveva ribadito san Tommaso». Sul finire del Novecento, quelle donne furono «una spina nel fianco della Chiesa tradizionale», ma anche la forza propulsiva di un profondo cambiamento – che continua tuttora.
Lo racconta Liliana Madeo, giornalista e saggista, in un denso capitolo del suo Donne “cattive”, variegato mosaico di figure femminili che ripercorre cinquant’anni di storia italiana, dai tardi anni Quaranta alla fine del secolo. E può forse sorprendere trovare una teologa come Adriana Valerio, un’intellettuale eremita come Adriana Zarri, una suora come Theresa Kane, che rivolse pubblicamente a papa Giovanni Paolo II l’invito a includere le donne «in tutti i sacri ministeri», in questa galleria di ritratti che s’inaugura con un’assassina, Rita Fort, e si conclude con un’ambientalista, Anna Donati, prima donna nominata nel consiglio d’amministrazione di un’azienda di Stato. Ma la scelta si spiega solo a voler ricordare che l’irruzione sulla scena di laiche che, nei loro gruppi, «facevano teologia» e di religiose non più disposte a farsi considerare «le domestiche di Dio» seminò sconcerto e spesso scandalo, ma servì a «stimolare quel pensiero sulla donna che ha portato negli anni Novanta al messaggio rivoluzionario del pontefice sul “genio” femminile».
Pubblicato per la prima volta nel 1999, oggi riedito dalla casa editrice Miraggi, il saggio di Madeo non ha perso nulla della sua freschezza. Ed è anzi ancora più attuale oggi, nel ridare nuova luce a personaggi come Franca Viola che, rifiutando di sposare il giovane che l’aveva rapita e violentata, dette il via al lungo processo che condusse a cancellare dal codice penale relitti del patriarcato come il matrimonio riparatore. Un racconto utile per misurare quanta strada sia stata percorsa dalle donne e dall’intera società in un’Italia dove sessant’anni fa era proibito anche soltanto scrivere sui giornali della pillola anticoncezionale ma nessuno si scandalizzava se al funerale di un camorrista dodici deputati inviavano corone di fiori listate a lutto in onore del defunto.
Un solco senza seme è una silloge di sillogi pubblicata per la collana Scafiblù di Miraggi edizioni nel 2024 e raccoglie scritture con gli a-capo, come ama definirle l’autore, pubblicate tra il 1988 e il 2023 e inedite (come la sezione Mangimonio). La scrittura di Luca Ragagnin privilegia spesso il significantesuono più del significato, immergendo l’orecchio del lettoreascoltatore in un ambiente fortemente legato al reale, per esempio il reale televisivo, ma anche, e soprattutto, il mondo della musica, della storia della musica, senza tralasciare esperimenti che colgono punti di colore nelle atmosfere oracolari, del cinema e di quello spettacolo interiore che può diventare spazio teatrale, oscenità del corpo e lirica che ricorda le vibrazioni fuori dall’Io di Andrea Zanzotto o l’abbandonarsi al desiderio del dirsi inconscio di Giuliano Mesa. Una scrittura di allitterazioni, paronomasie e metafore dietro cui si cela la dialettica del mondo con il pensierosentire di chi scrivecanta, sinestetici impressionismi e scrittura in pura perdita che sottrae il senso al prodotto commerciale del potere dell’Io. L’antologia di Ragagnin, o meglio la disontologia, «è per buona parte un’antologia, la sua genesi sono gli anni e i decenni trascorsi per arrivare qui» e gli strati di cui si compone danno l’idea di un’immersione di cui si gode riemergendo, a conclusione del discorsocantato «quando tutto è finito», après coup, avrebbe detto Lacan. In questo senso il viaggio sotterraneo, o in volo, dipende, è sempre un percorso concluso dal quale l’autore riparte verso nuovi incontri, dove la visceralità e la precisione chirurgica delle parole e dei timbri sono un tutt’uno con l’idea di una scrittura che vorrebbe diventare un «suono, una musica, una risonanza, un bordone, un mantra, qualcosa che inizia già iniziato e che non finisce dopo la sua fine.»
Ma se da un lato è musica, la scrittura di Ragagnin è pure «una contestazione e anche molte altre cose ovviamente, private e pubbliche», sempre risonanti del desiderio di chi scrivecompone, di chi leggeascolta, e anche della Legge\legge, interiore e sociale, dell’individuopopolo che abbia la fortuna, o la disgrazia, di avvicinarsi a una letteratura che indichi o guarisca le ferite di un pensaresentire critico sempre più raro…
Gianluca Garrapa
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Genesi e desiderio del tuo libro.
Ho smesso di consegnare a un mio libro desideri specifici. Erano troppo questo e troppo quell’altro, erano abnormi, sproporzionati, non ne ero all’altezza e non lo sapevo. Adesso lo so. Questo volume è per buona parte un’antologia, la sua genesi sono gli anni e i decenni trascorsi per arrivare qui.
Quando scrivi, godi?
No, non credo. Più che altro vado in apnea. Godo quando riemergo, quando tutto è finito.
Un estratto dal libro che è risultato più difficile o particolarmente importante: perché? Lo puoi trascrivere qui?
Non c’è. Sono materiali stratificati, si sono formati lentamente nel tempo a volte immobile della vita. Oppure, se c’è, cambia ogni volta, a seconda del pensiero che gli dedico. Ma quando una scrittura diventa libro non me ne occupo più. Non rileggo i miei libri, non ci torno sopra, voglio solo andare da un’altra parte.
Se non fosse scrittura, cosa potrebbe essere il tuo libro?
Qualcosa di molto vicino, in effetti. Vorrei che fosse suono, una musica, una risonanza, un bordone, un mantra, qualcosa che inizia già iniziato e che non finisce dopo la sua fine.
Che rapporto hai con la censura?
Sano, cioè pessimo. Indignato e rabbioso. Se pensiamo a certa letteratura europea del Novecento, a certi Paesi, ai destini di certi autori, c’è da rabbrividire ancora oggi. Però attenzione al ridicolo delle nostre latitudini perché la censura si fa strada così, con una prima ridicola picconata.
Per te scrivere è un mestiere o un modo di contestare lo status quo?
Scrivere può essere una contestazione e anche molte altre cose ovviamente, private e pubbliche. In qualche caso diventa un mestiere. Può essere una missione, una vocazione, una malattia, la lista è lunghissima. Ma molto dipende dalla storia sociale di uno stato, dal periodo storico. E da cosa fa quello stato per la salute culturale della popolazione.
Valeria Carletti è innanzitutto una stalker di professione e una groupie accanitissima. Cerca sempre di infilarsi nei backstage dei concerti e, perché no, se possibile anche nei camerini, così da scambiare quattro chiacchiere con i suoi artisti preferiti. C’è però un piccolo dettaglio da aggiungere: Valeria è in carrozzella, ma sogna comunque di fare uno stage diving. Ma non importa se ciò (per ora) è irrealizzabile, perché la musica la fa sentire viva, e molti cantanti ormai la conoscono bene e sono diventati veri e propri amici (Zen Circus, Dario Brunori, Samuele Bersani, Max Gazzé, eccetera eccetera). Poi con il suo cane Luna… Anzi, diciamolo bene: la sua cana… Ecco, con la sua cana Luna, si aggira sempre per le vie di Torino con le cuffie nelle orecchie. Ogni canzone le spalanca mondi ed emozioni fortissime, che la fanno vibrare di quella vita che a volte sembra sfuggirle. Perché sì, la sua non è soltanto una storia di entusiasmi e di “andràtuttobene”! Tutte cazzate, quelle. Ci sono anche i momenti bui, in continuazione. Alcuni amici le dicono che lei ascolta troppe canzoni tristi, ma non importa: si sa che le canzoni tristi sono anche la cosa più bella del mondo. E poi Valeria ha già organizzato in un’occasione un festival (naturalmente incentrato sulla musica) avente l’obiettivo di discutere, e se possibile abbattere, le barriere architettoniche: l’Oltranza Festival. Ora sta già pensando a una seconda edizione. E per via di tutto questo attivismo, di conseguenza, non riesce proprio a sopportare gli odierni governanti, del tutto indifferenti alle fatiche degli ultimi ma con la bocca sempre impastata di cristianesimo. Valeria, in effetti, talvolta pensa: “Chissà come si vergognerà quel crocifisso che tengono in mano”…
Cinquanta canzoni. Cinquanta canzoni che, se si ha tempo e voglia (trovateli), si possono anche ascoltare su internet grazie a QR Code presenti all’inizio di ogni capitoletto. Cinquanta canzoni che ci introducono alla vita, alle esperienze e agli innumerevoli concerti a cui Valeria Carletti ha preso parte. E va specificato: cinquanta canzoni di artisti per lo più indipendenti, tanto si sa: ormai (concordo con Valeria) la buona musica si trova soprattutto da quelle parti. Questo è dunque un diario, ma un diario di un genere molto sghembo e simpatico. Stracolmo appunto di musica (sono felicissimo di aver dovuto recensire io questo libro, dato che con gli Zen e Brunori ci sono cresciuto, e quindi…) e stracolmo di emozioni. Non tutte positive, sia chiaro, ma non stiamo qui a trattare Valeria come una poverina, né al contrario come una donna di forza eccezionale o altre scemenze del genere. Valeria è una donna, punto. Anzi no: devo aggiungere una cosa (del resto sarei qui proprio per questo). Valeria è una scrittrice. Questo infatti è un libro magnificamente scritto, struggente in molti punti, e capace di trasmettere un dolore intenso come solo certi libri sanno fare. Ci pone insomma dinanzi alle difficoltà della vita (di lei, ma anche nostra) con grande sincerità. In conclusione, davvero, qui c’è bellezza.
Qui l’articolo originale: https://www.mangialibri.com/oltranza-disavventure-di-una-vecchia-groupie
Saša Sokolov (Ottawa, 1943) è uno delle voci più importanti ed originali del panorama letterario dell’emigrazione russa del secondo Novecento. Esule nella vita, dal 1975, e nell’animo, è autore di tre romanzi: La scuola degli sciocchi (Škola dlja durakov, 1976; traduzione di Margherita Crepax, Salani 2007); Tra Cane e Lupo(1980); Palissandreide (Palisandrija, 1985; traduzione di Mario Caramitti, Atmosphere Libri 2019); oltre che di diversi saggi “proetici”. Trittico è l’ultimo e più maturo frutto della sua ricerca.
Sul pannello di destra del Giardino delle Delizie di Hieronymus Bosch – quello raffigurante “l’inferno musicale” – campeggia la misteriosa figura dell’Uomo-Albero. Il corpo di questa creatura è costituito da un guscio d’uovo schiuso sorretto da due gambe-tronchi calzati di scialuppe. Il suo volto – in cui alcuni hanno voluto vedere l’autoritratto del pittore fiammingo, altri addirittura quello dell’anticristo – è rivolto verso l’osservatore, mentre lo sguardo è diretto alla bisca ospitata all’interno del suo corpo, che osserva con aria indifferente e sorniona, come a una cosa che non lo riguardasse. Sul capo porta un disco inclinato su cui alcune figure ibride marciano tenendo per mano i corpi nudi dei dannati. A completare la scena, in alto a sinistra si trovan o, tra le altre cose, un paio di orecchie trafitte dalla lama argentea di un pugnale.
L’Uomo-Albero – atipico direttore d’orchestra nell’“inferno musicale” del trittico di Bosch – sembra una figura quanto mai adatta per parlare di un altro trittico, che, anche se meno grottesco, non è per questo meno musicale, né meno brulicante di strane creature. Si sta parlando dell’ultimo libro dello scrittore di lingua russa Saša Sokolov, Trittico (Triptich, 2011), tradotto in italiano da Martina Napolitano per i tipi di Miraggi Edizioni. Il volume, che, come gli altri della collana “janus|giano”, gode del pregio di riportare il testo originale russo a fronte, raccoglie e presenta per la prima volta al pubblico italiano tre componimenti poetici pubblicati inizialmente sulla rivista letteraria “Zerkalo” durante gli anni 2000.
I tre “pannelli” che vanno a comporre Trittico – Ragionamento (Rassuždenie), Gazibo, e Il filornita (Filornit) – sono suddivisi in strofe numerate di lunghezza variabile non rispondenti ad alcuno schema metrico tradizionale. La scelta di adottare il cosiddetto verso libero non è casuale da parte di Sokolov e, come non manca di sottolineare la traduttrice nella prefazione al libro, sembra rispondere alla precisa volontà dell’autore di risalire alle origini prime della poesia e della lingua, che sono confuse con quelle della musica. I tre componimenti infatti abbondano di riferimenti e indicazioni musicali che conferiscono al testo un carattere quasi librettistico. Anche la struttura corale (mnogoloso p. 42), e il carattere performativo dell’opera, da leggersi espressamente “a voce non troppo alta”, “come un recitativo” (p. 37), sembrano confermare il desiderio dell’autore di ricongiungersi alle origini ancestrali della poesia, intesa prima di tutto come dialogo polifonico sul Bello (izjaščnoe) che dovrebbe trascendere la sfera dell’umano.
“Prendiamo piuttosto il punto di vista dell’eternità, allora diverrà chiaro che tutto, compresa la sabbia dispersa del sahara dai sette samurai, si sistemerà, s’incollerà, si riunirà, tornerà come prima” (p. 49)
Se da un lato la “danza linguistica” (p. 5) di Trittico si articola sul piano atemporale dell’Arte e nella dimensione ciclica dell’eterno ritorno, dall’altro il testo si pone espressamente come “autentico documento umano” (p. 45), che in virtù del suo legame con la phonè, con la voce, o meglio, con le voci, acquista una portata etica. In quest’opera infatti, in modo ancora più radicale che nelle precedenti, la figura autoriale si dissolve nel respiro ritmico della scrittura e del verso, e, come il corpo dell’Uomo-Albero nel trittico di Bosch, si fa concavo per ospitare una moltitudine di personaggi e di voci, a cui guarda con un sorriso misto di malizia e rassegnazione, come se non gli appartenessero, come se provenissero, appunto, da altrove.
Nella vita come in Letteratura, Saša Sokolov esorta i lettori ad abbandonare le categorie prestabilite (“ci è assai di conforto che voi non siate di quei / linnei che gli insetti e gli uccelli, / sulla sola base che i secondi / sono alati sempre, e i primi talvolta, / li riducono al comune denominatore, / […] ah, quanta ancora superficialità in loro, / quanto dogmatismo” pp. 67-69), orientandosi piuttosto verso una visione panteistica del mondo e dell’esistenza, in cui “qualunque cosa si prenda è correlata” (p. 73). Solo così si sarà in grado di pensare “a folate, nello stile del vento” (p. 63), ma anche “nello stile del fiume” (p. 65) e in quello del giunco; ovvero di uscire dalla monade del sé per divenire Altro.
In questo senso, Trittico rappresenta l’ultima tappa della ricerca dello scrittore, che porta alle estreme conseguenze il progetto di disgregazione della voce narrativa già iniziato nel suo romanzo d’esordio, La scuola degli sciocchi. Il risultato è una scrittura diafana e rarefatta che oscilla tra espressionismo astratto e preziosismo barocco, e in cui è talvolta impossibile stabilire con certezza quale sia l’argomento del discorso e chi stia parlando. Che sia, per esempio, la vedova di guerra trasformata in mosca in Gazibo, il compositore cinquecentesco Antonio Scandello, o ancora la signora ispanica che appare nel Filornita, personaggi e voci si accavallano e si confondono nelle pieghe del tessuto contrappuntistico dell’opera, che, nonostante gli appigli offerti dall’apparato di note che correda il volume, a un primo approccio può lasciare a dir poco disorientati.
Una possibile strategia per approcciare un testo di questo genere sarebbe forse quella di “tirare i remi in barca” e, inerti, lasciarsi trasportare dal flusso sonoro della scrittura, così come, del resto, l’autore stesso si lascia volentieri andare ad un’euforia puramente fonetica per la Parola, e per la sua capacità di generare associazioni inaspettate, personaggi ed episodi sempre nuovi. Questo entusiasmo si riflette, per esempio, nel leitmotiv dell’enumerazione e delle liste, che percorre in modo trasversale i tre “pannelli” di Trittico.
Già artificio principe del cosmo sokoloviano, liste ed elenchi vi svolgono una funzione opposta a quella che a loro viene solitamente assegnata, cioè invece di ordinare il discorso, hanno il compito di disperderlo ulteriormente, e di mostrare quindi il mondo e il linguaggio nella loro dimensione di caos e entropia. Ma poiché, “si sa, i dettagli sono nella lettera” (p. 37), l’elenco particolareggiato, stilato lentamente, con cura e dovizia di particolari, diventa per esteso metafora delle Belle Lettere e, quindi, della creazione di quel Bello (izjaščnoe) che è al cuore della poetica dell’autore. Inoltre, come confermano i riferimenti ai papiri e alle antiche civiltà mesopotamiche disseminati per il testo, in Trittico cataloghi, liste, fogli contabili, registri e quant’altro si legano al tema dell’infanzia della scrittura, alle cui origini si trova appunto l’esigenza di enumerare ed elencare possedimenti e beni, e di rendere conto degli scambi commerciali.
In conclusione, non resta che augurare buona fortuna (e buon viaggio!) alle lettrici e ai lettori italiani che vogliano cimentarsi con un’opera tanto complessa e stratificata come Trittico. La traduzione della sokolovedka Martina Napolitano, fedele alla sostanza originale della lingua dell’autore, sarà di certo una guida preziosa per apprezzare a pieno la bellezza e la musicalità di questo testo fuori dal comune: un vero e proprio giardino delle delizie.
SCRITTRICI CECHE. «Il secondo addio», (Miraggi edizioni), primo romanzo di Sylvie Richterová a essere stato pubblicato non in samizdat, 1994: cortina di ferro e anni di piombo, una doppia prospettiva tra illusioni e stupore
Un «vivaio di fantasmi» e anche un’«arena di sortilegi» fu Praga per Angelo Maria Ripellino. Una «trappola che, se afferra con le sue brume, con le sue male arti, col suo tossicoso miele, non lascia più, non perdona». Si direbbe che respirino ancora gli stessi enigmi e gli stessi incantesimi nella Praga meno gotica ma più metafisica, quasi cubista in cui Sylvie Richterová allestisce lo scenario del suo quinto romanzo, il primo che ha potuto pubblicare non in samizdat, uscito in ceco nel 1994 e ora disponibile in italiano nella limpida traduzione di Alessandro De Vito con il titolo immutato Il secondo addio(Miraggi edizioni, postfazione di Massimo Rizzante, pp. 156, € 18,00). Dei tredici personaggi che abitano il libro, formandovi una sorta di scombinata famiglia stretta da legami d’amore, soltanto Pavel rimane avvinghiato a Praga, chiuso in un suo rassegnato isolamento «dietro i chiavistelli del tempo totalitario». Praga continua però a chiamare indietro dalla città in cui si sono rifugiati durante gli anni settanta, una Roma colorata e rumorosa che diventa il secondo sfondo della trama, sia Marie sia Jan, i cui differenti percorsi disegnano un ponte tra due luoghi del tempo oltreché dello spazio.
Richterová, nata a Brno nel 1945, a Praga si è trasferita nel ’63 per frequentare la facoltà di lingue e letterature moderne all’università. Nel ’71 si è stabilita in Italia, prima a Roma, dove ha insegnato alla Sapienza fino al 2009, poi a Trevignano Romano; grazie alla doppia cittadinanza ha potuto tornare spesso nel suo paese di origine anche prima della rivoluzione di velluto. Nasce dall’esperienza personale, benché Il secondo addionon sia affatto un libro autobiografico, quell’insolito, straniato ma acuto sguardo bifocale che l’autrice posa sulla vicenda mentre la narra. Non si tratta unicamente della doppia prospettiva geografica da cui la storia è osservata, piuttosto del duplice stupore che percorre l’intero testo. Sulla pagina l’assurdità del regime a cui si sottraggono Marie e Jan non risalta con minore evidenza rispetto alla follia di quei nostri anni di piombo in cui si trovano a costruire una nuova vita. Malgrado l’opzione di uno stile disincarnato e asciutto, l’atmosfera emotiva del testo è così incandescente da produrvi un ulteriore sdoppiamento, se lo stupore appare acceso sia dall’insensata violenza degli eventi sia dalla loro frettolosa rimozione. Il titolo stesso evoca un’accezione biforcata: l’addio di Jan, personaggio principale del romanzo e per buona parte suo narratore, è indirizzato tanto al suo paese di origine quanto a quello di adozione, alle speranze che si è lasciato alle spalle come alle illusioni che proiettava davanti a sé.
«I movimenti, i gesti, gli atti e i fatti, che costituiscono una storia, stanno in superficie. All’interno c’è il battito del cuore e il dolore che insiste su di esso, una grande domanda aperta come la mandibola di uno spazio nero, vuoto, in silenziosa attesa. Mi sto avvicinando al limite?» dice nel libro una voce che sembra appartenere a Jan. Malgrado l’apparenza Il secondo addio non è un romanzo sulla storia e nemmeno sulla memoria: piuttosto sulla coscienza umana e su ciò che accade quando la coscienza umana si spegne. La coscienza sembrerebbe rappresentare per la scrittrice l’unico luogo in cui ognuno di noi, a maggior ragione chi ha perduto la sua patria e la propria infanzia, può davvero ritornare. È significativo che il testo si apra con la descrizione di una casa in fiamme e che l’immagine della casa, persa cercata o ritrovata, attraversi percussiva tutte le sue pagine. Spazio percorribile in ogni direzione e in cui ogni personaggio può sentirsi accolto, spalancato ai venti ma protettivo, il libro stesso ha la forma di una casa. Perfino la scrittura sembra assumerne la funzione rassicurante in questo romanzo dove tutti i protagonisti scrivono, mosaico assemblato con lettere spedite o solo immaginate, note di taccuino, frammenti di biografie e saggi, spezzoni di manoscritti mai compiuti, dimenticati o smarriti, donati affinché siano custoditi. La scrittura soltanto, sembra dire la narratrice, può salvare i personaggi dalla dispersione della memoria, dalle amnesie di quella storia che pure hanno vissuto.
Più dei personaggi, privi del resto di qualsiasi connotazione fisica, contano infatti i legami, le parole e i pensieri che si scambiano: nel libro le loro voci si sovrappongono e disorientando il lettore si avvicendano in una sorta di corale prima persona. «I secondi non si susseguono nel tempo uno dietro l’altro, colpiscono come le punture di un ago acuminato, attaccano da ogni parte, come quando piove e c’è vento, ma non si portano via l’attesa, non riescono a lavare via nulla» riflette Jan in Che ogni cosa trovi il suo posto, romanzo con cui vent’anni dopo Richterová completa di significato la sua storia ribaltandone la prospettiva. Per Il secondo addio, la cui partitura ricorda il modernismo polifonico delle woolfiane Onde, l’autrice costruisce un’architettura ferrea benché in apparenza destrutturata, adotta una forma chiusa in cui però le sequenze possono essere scomposte e riordinate dal lettore come le tessere di un caleidoscopio. La trama procede per illuminazioni e soprassalti assecondando la memoria, si dispiega per poi arrotolarsi di nuovo alla maniera di un tappeto. Nel romanzo il tempo coincide esattamente con lo spazio narrativo.
Sylvie Richterová, volendo rubare gli aggettivi usati da lei per un’altra narratrice ceca, è «uno dei personaggi più eccezionali, innovatori e difficilmente classificabili della letteratura contemporanea»: in lei, le parole provengono ancora dal suo Ritratto di Vera Linhartová, «rigore e coerenza sono le qualità che più sorprendono» perché esse «conducono regolarmente a risultati imprevedibili o almeno imprevisti». Davvero grande scrittrice, Richterová racconta un trauma che non può essere narrato seguendo strade conosciute perché ogni strada esplode con quel trauma. La scrittura che sceglie per sé, edificando la sua casa, è il materico emblema, la figura stessa della libertà.
«Micromega», 24 maggio 2024 Recensione di Marilù Oliva
In “Donne cattive. Cinquant’anni di vita italiana”, Liliana Madeo tratteggia uno spaccato sociale e culturale dell’Italia attraverso il racconto di alcune figure femminili ritenute maledette, negative, diaboliche. Tredici capitoli, tredici storie di irregolari, donne scandalose, non omologate, che hanno sfidato la morale, il buoncostume e l’ottusità.
Ho scoperto da vicino questa deliziosa casa editrice, Miraggi Edizioni. Uno di quei progetti precisi, rari, lucenti. Stampano i libri solo se ci credono e ritengono che l’editoria non sia una meta commerciale, ma un’utopia, un miraggio, appunto, ragion per cui, come hanno dichiarato sul loro sito, l’ intento “è da sempre quello di ‘fare’ i libri che altri non fanno, quelli che ci piacerebbe trovare in libreria, e spesso non si trovano”. Ho letto Donne cattive, della giornalista e inviata della Stampa Liliana Madeo, che recita nel sottotitolo: Cinquant’anni di vita italiana e ve lo propongo. Attraverso il resoconto di alcune figure femminili ritenute maledette, negative, diaboliche l’autrice tratteggia uno spaccato di Italia vicino a noi, che forse spiega anche molto di ciò che siamo oggi, a livello sociale e culturale. Si tratta del periodo storico che va dall’immediato Dopoguerra fino alle soglie del nuovo millennio, una parentesi fondamentale in quanto cambiano i costumi, la mentalità, si attuano alcune rivoluzioni, mentre una parte retriva rema contro vento. La trasgressione fa crollare alcuni tabù, ma a volte viene duramente additata (e punita). Tredici capitoli, tredici storie di irregolari, donne scandalose, non omologate, che hanno sfidato la morale, il buoncostume e l’ottusità. Talvolta criminali o mafiose, altre volte, come nel caso di Franca Viola, donne spartiacque, coraggiose, eroiche. Dietro di loro si staglia un paese prima messo in ginocchio, ma ora che si sta rialzando, nel tentativo di superare povertà e disoccupazione. Il costo della vita è aumentato terribilmente e gli ideali della Resistenza si scontrano contro la realtà. Tante le piaghe e le storture. Un’arretratezza di fondo, il patriarcato che mantiene salda la sua presa su assetto sociale, su abitudini, sul quotidiano. Basta poco per scorgerlo. Come quando la suocera di Franca Pappalardo le raccomanda di non lamentarsi qualora vedesse assieme il marito e l’amante. La stessa amante che poi massacrerà lei e i suoi bambini: Rina Fort, detta la Bestia. Un omicidio spietato, fatto per gelosia, frustrazione, tanta rabbia covata e la convinzione che l’altra sia una rivale da eliminare. Poi c’è la Dama Bianca che sconvolse l’opinione pubblica per la relazione col campione Fausto Coppi: contro di lei si scagliarono volgarità e anatemi. Una vicenda, questa, che è specchio degli Anni ’50 nel Belpaese. Del resto quello fu un decennio “Misogino e sessuofobico”, il diritto di voto alle donne era stato appena concesso e la verginità era un bene da preservare. Se qualcuno la rubava, poi, poteva rimediare con un matrimonio riparatore. La relazione duratura tra il celebre ciclista e la Dama Bianca viene vissuta proprio in questo contesto: “Un amore proibito, il loro, che cade nel tempo meno appropriato. Tempo di crociate religiose, di sentenze e gesti esemplari. Contro “la dilagante licenziosità dei costumi”. Contro i diritti delle donne, anche i più semplici”. Così, le protagoniste di questo libro vengono raccontate con uno stile curato che non rinuncia all’afflato giornalistico e chi legge divora le storie, una dopo l’altra, catapultate in un passato non poi tanto lontano, incantato da resoconti così precisi che sembra quasi di vederceli sfilare davanti agli occhi.
Titolo emblematico, tematica attuale, storia antica. No, non è una nuova puntata editoriale sul conflitto russo-ucraino o israeliano-palestinese che angoscia i nostri giorni, sebbene i due principali focolai del presente abbiano molta attinenza con i contenuti di questo libro. Malapace(Miraggi) è un romanzo nato dalla riformulazione di uno scenario storico non molto approfondito in verità tra i banchi di scuola. Parliamo della Francia della Repubblica di Vichy, argomento che l’autrice, Francesca Veltri, ha affrontato per ragioni professionali.
Come l’Italia, anche se per diverse dinamiche, la Repubblica transalpina era divisa in due parti durante la Seconda Guerra Mondiale, in un arco di tempo che va dal 1940 al 1945, ben più lungo rispetto alla separazione avvenuta di fatto all’indomani dell’8 settembre del 1943 sul territorio italiano. La parte meridionale della Francia, convenzionalmente chiamata Repubblica di Vichy, era di fatto un satellite del Terzo Reich sebbene si dichiarasse neutrale sulla carta. Dopo l’invasione nazista e l’occupazione del nord del paese, lo Stato francese aveva trovato un compromesso per sopravvivere in quanto entità politica e culturale, accettando una condizione di “malapace”, volendo estendere il titolo del libro al contesto storico fin da subito.
Fatte queste doverose seppure sbrigative premesse, il titolo dell’opera e l’ambito in cui la vicenda si snoda costituiscono elementi già sufficientemente precisi su cui incardinare qualche riflessione utile per il presente, perché in letteratura è necessaria una ricerca di natura esistenziale e spirituale: laddove l’attuale interroga il presente è necessario attingere al passato per poter arrivare a deduzioni più vaste e complete da parte della nostra coscienza. Francesca Veltri ci guida in questo processo con ponderatezza, ma altrettanta decisione, e nel definire personaggi credibili, tra loro complementari eppure opposti, attraversa una serie di situazioni e stati d’animo talmente intricati da rendere così bene la tragedia che si consuma pagina dopo pagina. La Storia non può essere solo un fatto memoriale, si caratterizza per atti, azioni che in determinanti momenti vanno oltre le ideologie e le convinzioni personali. Pertanto non mi soffermerò sui caratteri principali dei protagonisti, preferisco lasciare al lettore l’onere di empatizzare con François, Antoine, Martine e Jean-Pierre; chi legge ha il diritto di regalarsi un giudizio pieno o parziale, riflettere doverosamente e vivere l’azione come se si svolgesse sulla propria pelle.
Da parte mia, invece, cercherò di addentrarmi nello spirito che caratterizza il romanzo e nella complessità che i contesti e le convinzioni personali generano, nell’intento di deragliare da un dibattito attuale dominato dall’opinionismo da talk show, più interessato a eccitare gli animi che a ragionare. Non è importante maturare immediatamente un’idea definita, questo non è un romanzo che intende osannare i vinti e crocifiggere i vincitori, ma è pur sempre un testo che ribadisce la labilità tra idea e coerenza al cospetto della necessità. Le parole di Francesca Veltri tentano di andare oltre determinate contrapposizioni, la Storia è terreno comune quando riesce a trovare, per quanto possibile, chiavi interpretative che sappiano infondere un senso di condivisione e appartenenza. Per certi versi tutti i personaggi del romanzo sono degli sconfitti, uomini e donne non privi di ingegno e di cultura, abitati da passioni incontenibili, da un senso di bene comune dai propositi nobilissimi. Eppure, qualcosa di più grande nelle loro vite incrina questo assetto di idee e i protagonisti si ritrovano a rivedere posizioni e lottare su postazioni divenute quasi irriconoscibili tenendo conto proprio dei presupposti iniziali. Si è spesso portati a ritenere che certi cambiamenti siano frutto del trasformismo e della convenienza personale, al contrario Malapace riesce a far emergere la perfetta buona fede delle parti, prigioniera nell’ineluttabilità degli errori dettati dalle contingenze, nonché dalle terribili conseguenze che il contesto politico e sociale impongono. Volendo trovare un parallelismo, oggi come allora ci si chiede se sia un bene sacrificare lo Stato, inteso come entità di valori e luogo di espressione collettiva, in nome di una non identificata sopravvivenza, chiamando con la parola pace un mero esistere. Ci si chiede se sia necessario ribadire i principi di libertà e combattere fino in fondo laddove le forze individuali e plurali possono arrivare o se non sia meglio cedere sul terreno dei diritti in funzione di uno stato di relativa quiete. Sono domande urgenti che da qualche anno a questa parte hanno ritrovato dimora nelle coscienze di molti. Mai come in questi tempi avvertiamo i confini sottili di una pace che in un nonnulla si converte in resa o addirittura prostrazione. Nulla di nuovo sotto al sole, è solo che a tali dinamiche del tutto comuni nella Storia ci eravamo disabituati per via di decenni di stabilità, crescita, fiducia e prosperità farcite da considerazioni storiche fatte con il senno del poi. Questo romanzo arriva a interrogarci su questioni delicatissime, sulla necessità di dover fare scelte dure, con consapevolezza e fuori dalla retorica nazionalista, pacifista o non interventista, andando verso le ragioni che spingono gli attori politici a muoversi e che determinano le misure del campo da gioco con o senza il consenso popolare.
Malapace non risparmia critiche alle dottrine politiche dell’epoca (i cui echi non si smarcano dall’attualità), non elude il processo di autocritica all’interno della trama in cui si muovono i personaggi: nello sfondo della vicenda si intravedono momenti dove le attuazioni delle utopie, nelle declinazioni più drammatiche, scuotono convinzioni granitiche mettendo a repentaglio valori personali, imprescindibili, e Francesca Veltri, atomizzando il proprio Io autoriale in varie creature letterarie riesce a entrare nel vivo di certi sentimenti attraverso una grande capacità di immedesimazione, strumento di cui la letteratura non dovrebbe fare a meno, in particolar modo in un’epoca in cui tutto viene polarizzato dall’esperienza personale e/o familiare, senza ricercare un senso più ampio dei contesti. In altre parole, si tratta di un romanzo che intende fare i conti con la Storia andando oltre le storie mettendo da parte la buona fede e l’appartenenza.
Termino questi spunti con un passo brevissimo, esempio di una capacità rappresentativa notevole da parte di Francesca Veltri, decisamente lucida e schietta nella narrazione, senza risultare tagliente in maniera forzata. La parte affilata di questa faccenda spetta al non detto, al silenzio, un invito a nozze per il lettore. A chi legge lascio le conclusioni.
«Immaginai Martine che usciva insieme alle SS da quella stessa porta, il cappotto sulle spalle perché all’Est avrebbe fatto freddo, un po’ curva sotto il peso della valigia, forse appena affannata, in viso la smorfia di sfida che le riusciva così bene. Mi chiesi se si fosse fermata a guardare per un attimo la donna che l’aveva venduta, prima che la portassero via.
Com’è che aveva detto a Jean-Pierre, in quel parco di Leningrado? Fammi vedere la faccia di quest’umanità per cui si fanno le rivoluzioni».
Quanto è superata la forma mentis del Novecento? Quanto sono distanti da noi relativismo, disintegrazione e disseminazione del senso, panestetismo elitario? Può essere letto come un test in merito il quarto libro (in ottanta anni) del più raffinato e celebrato scrittore russo vivente, Saša Sokolov, Trittico (Triptich, 2011), edito in italiano da Miraggi (traduzione di Martina Napolitano, pp. 240, € 21,00) summa e consuntivo di una intensa parabola creativa della quale, dopo due decenni di silenzio, lo scrittore russo torna a riallacciare i fili, sospesi tra il modernismo faulkneriano (Scuola di scemi), lo sperimentalismo neoavanguardistico (Inter canem et lupum) e il postmodernismo (Palissandreide).
Trittico si interroga e interroga anche noi su quale sia stata e sia oggi la strada dell’arte, su chi ancora è disposto a credere alla costruzione del bello in sé, svincolato da ogni fazione e mozione. In una Russia già affetta dal putinismo la risposta è stata desolante. Ma anche altrove il ritorno di uno scrittore un tempo leggendario ha avuto flebile eco, tanto che quella di Martina Napolitano, promotrice a livello internazionale del verbo sokoloviano, è la prima traduzione in assoluto.
Tra prosa e poesia
Il dubbio esito del test non è comunque ascrivibile al nuovo Sokolov, che non è mai epigono di se stesso e propone una chiave espressiva, fluida, sintetica, resa aerea dal ritmo. Perché, in primo luogo, Trittico è una sfida a cancellare definitivamente i confini tra prosa e poesia: dopo avere messo in tensione, in tutti i suoi libri, la prosa fino a un grado di densità fonico-espressiva così estremo da rallentarne la fruizione ben più che in poesia, lo scrittore russo opta ora per versi liberi meno compressi e esasperati della sua prosa; l’attrito si sposta tra semantica – vaga, astratta, eterea – e ritmo, che avanza a spire, in un afflato pressoché ininterrotto (mai un punto fermo) eppure placido, sobrio, non riconducibile a nessuna tipologia metrica (men che meno al sillabotonico della tradizione russa) ma intenso e trascinante, sacrale per la sacralità intrinseca che ha la parola in Russia e, al tempo stesso, ludico per ineffabile leggerezza.
Trino e uno, quasi a evocare un intrinseco agnosticismo cosmico, il libro è la sommatoria di tre poemetti, uniti e distinti secondo criteri imperscrutabili: il ritmo connotante non cambia, ma nel primo i versi molto lunghi tendono a avvilupparsi, a scorrere gli uni sugli altri, mentre nel secondo sono altrettanto lunghi ma dinamici, quasi volanti, e nel terzo si passa a versi brevi e scanditi.
Il tessuto poetico è però inconfondibile e omogeneo, contraddistinto da catene allitterative che divengono autentiche macchie d’omofonia estese a più versi: per darne un’idea senza ricorrere alle pur eccellenti doti mimetiche della traduttrice, prendiamo «nelle trattorie di Rimini e Taormina», che è praticamente in italiano nel testo. Allo stesso modo, in assenza quasi totale di personaggi in qualche modo definiti (non ci sono neppure le maiuscole), gli argomenti di un poema sono presenti in misura ridotta negli altri, molti motivi sono trasversali a tutti e tre (e a tutta l’arte di Sokolov, salvo quello del catalogo, elenco, registro, fin tassonomia linneana, che è distintivo di Trittico).
Il polilinguismo verte prima più sul latino e il greco, poi sul tedesco, infine sullo spagnolo e il sanscrito (sempre per flash, per isole, senza invadenza). Insomma, data la dominante musicale nell’immaginario e nella terminologia, si potrebbero intendere come tre pezzi, tre brani, suscettibili o meno di assemblarsi in sinfonia.
Il primo, Ragionamento, è una scansione pressoché ininterrotta del procedimento del catalogo, in primo luogo di riflessioni, di discorsi, e poi via via di lingue, forme d’arte, errori, o semplicemente fogli e documenti contabili. Superato lo sconcerto iniziale, ci si rende conto di essere entrati in un universo nel quale la comunicazione avviene principalmente in seconda persona, sia singolare che plurale (cui si aggiunge il «voi» russo di rispetto): da un lato il narratario è il soggetto, il «tu» eterno della poesia si autoflette, parla in realtà dell’«io», dall’altro si avvicenda un numero non identificabile né definibile di personaggi, che si chiamano, s’interrompono, si sovrappongono di continuo.
Ragionamenti differiti
La narrazione è straordinariamente fratta, si ha l’impressione di essere in qualche luogo imprecisato assieme a un numero sterminato di persone che dialogano. Il tempo, invece, è quello canonico di Sokolov, del tutto indistintamente presente, passato o futuro, un tempo in cui «la sabbia dispersa nel sahara/ dai sette samurai,/ si sistemerà, si incollerà/si riunirà, tornerà come prima». Al «ragionamento» principale, come prevedibile, mai si arriverà, anche se potremmo inferire che in qualche modo lo sono gli altri due testi.
Nel secondo poemetto, Gazibo, il luogo è all’apparenza ben definito, il padiglione da giardino del titolo, con grafia modellata sulla pronuncia del termine inglese (che non esiste in russo); altrettanto lo è il tempo, dalle prime stelle al crepuscolo del mattino, durante il quale le voci alle quali siamo ormai abituati, e che in queste circostanze assumono da subito una connotazione ultraterrena, quasi vampiresca, discutono del bello in arte.
L’intercambiabilità cronotopica assoluta è perciò accompagnata qui da alcune specifiche concrezioni: da una riunione di trovatori del 1111, alla Germania rinascimentale a una cornice tardo ottocentesca. C’è anche un abbozzo di personaggio, il musicista cinquecentesco Antonio Scandello, girovago per le corti tedesche, accostato o assommato all’Ebreo errante, proiettati entrambi sul destino esule del creatore, in termini assoluti e specifici (Sokolov è in emigrazione dal 1975).
Solo qui troviamo una parvenza di intreccio, plurimo e mutevole, ma estremamente dinamico e coinvolgente: il racconto in prima persona di una vedova di guerra («io» è però ora lei, ora il marito) che dal bacio rituale in chiesa con uno sconosciuto passa senza soluzione di continuità a una maratona erotica quasi ininterrotta, alla quale il partner zoologo e/o musicista aggiunge continui tradimenti con le femmine di bonobo che ha messo a disposizione delle sue ricerche; alla crisi coniugale segue l’ospedale psichiatrico, l’arruolamento in un reggimento musicale e la morte mentre si esibisce in trincea.
La chiusa è un evidente climax, e il terzo testo, Il filornita, riparte da atmosfere più rarefatte, fondamentalmente una rappresentazione teatrale in un museo zoologico nel quale avvengono misteriose apparizioni, in primis di una «secca señora» ispanofona che è la dama-morte visitatrice comune a tutti i testi di Sokolov: l’addio non potrà perciò arrivare se non da un cicerone in gondola che salpa dall’isola di San Michele a Venezia, sacrario degli artisti del Novecento.
In italiano tanto incoercibile fantasia linguistica resta sorprendentemente viva grazie alla molto efficace e raffinata traduzione di Martina Napolitano, capace di reinventare con lecito arbitrio porzioni del tessuto paronimico e di innescare con raffinata sensibilità musicale la fascinazione sommersa del ritmo, che continua, come nell’originale, a trasmettere scosse e vibrazioni: «un contesto, un carattere, un tratto del continuum,/ un arto perso in corsa, un pezzo, volendo, di destino».
È il titolo del libro di Liliana Madeo, appena ripubblicato. Mezzo secolo di storia italiana, dal 1946 al 1998, da Rina Fort a Anna Donati. Sono «donne con il gusto della provocazione, con un proprio progetto di vita, capaci di scelte radicali, di scelte a volte perverse. Donne scomode. Le madri delle ragazze del nuovo millennio»
Di Nadia Tarantini
Sono «le donne che rifiutano un destino predeterminato e scelgono di buttare all’aria tradizione, gerarchie, persino il rispetto della legalità», le protagoniste di un libro di cronaca, di storia, di cultura – che si legge come un romanzo, o una raccolta di racconti. Lo si dice spesso, ma in questo caso l’arte grande di cronista di Liliana Madeo, autrice di Donne “cattive”. Cinquant’anni di vita italiana (Miraggi edizioni), sfocia spesso e volentieri nella sapienza letteraria che troviamo in altri suoi libri, e compiutamente in Si regalavano infamie. Antonina e Teodora le potenti di Bisanzio, pubblicato da Pironti nel 2021.
Un libro, Donne “cattive”, ripubblicato nel 2023, a ventiquattro anni dalla prima edizione con La Tartaruga, che conserva l’incredibile freschezza delle scoperte, con il vantaggio di poter suscitare sorpresa e interesse in chi quegli anni – dai Cinquanta in poi – non li ha vissuti. Trama, personagge e personaggi, relazioni e ambiente: il tutto intessuto con abilità per creare curiosità e riflessioni su fatti di cronaca e di costume, su fenomeni sociali e criminali, in una rete di donne diversissime: la pluriomicida Rina Fort a fianco di Franca Viola che ci ha regalato la fine del matrimonio riparatore; la marchesa Casati e Tamara Bormioli, accomunate dal desiderio di diventare altre, di calcare i palcoscenici del potere e della vita di lusso; Doretta Graneris, che inaugura i decenni dei giovani assassini delle famiglie, per soldi; e Pupetta Maresca, la prima donna di camorra. E poi Ilaria Occhini dama bianca di Coppi, antesignana delle rovinafamiglie per amore; Vera Piegai, Lorena Nunziati, che sfidano poteri forti e Chiesa con atti di consapevole audacia o forse di incoscienza. Le teologhe che vengono allo scoperto, le femministe, la prima donna nella stanza dei bottoni (Anna Donati).
Tutte «donne con il gusto della provocazione, con un proprio progetto di vita, capaci di scelte radicali, di scelte a volte perverse a volte audacemente innovative. Persone cariche di valenze simboliche»; «in grado di innescare meccanismi grazie ai quali in Italia sono nate leggi degne di un paese democratico»; «Donne scomode. Le madri delle ragazze del nuovo millennio». Il libro tra-scorre così dal secondo Dopoguerra alle soglie del Duemila, regalandoci quadri precisi e arguti del passare del tempo, del mutare delle abitudini e delle passioni; si comincia dal 1946, con l’immaginario ancora pervaso da simboli arcaici: «Una specie di demonio si aggira dunque per la città, invisibile, e sta forse preparandosi a nuovo sangue», scrive Dino Buzzati all’indomani della scoperta dei cadaveri di una donna e i suoi tre figli, pluri-omicidio di cui sarà accusata (e per i quali poi condannata all’ergastolo) Rina Fort, amante del marito e padre della famiglia. E si finisce nel 1998, dentro al moderno scontro fra diritti alla salute e diritto al lavoro: «In quella stanza dei bottoni non era stata mai ammessa una donna» ovvero Anna Donati, designata dal ministro del Tesoro Ciampi a far parte del Consiglio di Amministrazione delle Ferrovie dello Stato.
Trama, ambienti, personagge e personaggi – ricostruzione documentata di ogni momento storico in cui le vicende si sono svolte: dall’economia al teatro, dalle condizioni sociali e personali delle protagoniste alla musica e al cinema. E la scrittura di Liliana Madeo. Scrittura abile, esperta, arguta, di cronista avvezza ai grandi fatti di cronaca come agli eventi e ai personaggi della cultura, disinvolto scivolare in una scrittura letteraria. «È una trentenne con viso ovale, pelle olivastra, zigomi alti, occhi scuri, bellissimi. Veste cercando sempre di “essere in ordine”, ha maniere spicce. Sa rispondere con durezza a chi la infastidisce. È una friulana brusca e silenziosa. […] A Milano arriva a 16 anni. […] Con una rabbia antica in corpo, fin da quando era una bambina selvatica, che al paese si distingueva da tutti perché odiava le bambole […] Due facce diverse dell’Italia contadina vengono alla luce sotto i riflettori dell’aula. Da una parte c’è Rina Fort, icona arcaica di una femminilità oscura, tetra, possessiva, la donna che nell’appartenenza a un uomo trova la sua identità e il senso della propria vita. Dall’altra parte ci sono le donne della famiglia Ricciardi, che sfilano davanti alla corte con gli abiti neri, gli scialli sul capo». «Nessuno ebbe dubbi. Anna (Anna Fallarino, marchesa Casati Stampa, n.d.r) provava piacere, si divertiva a fare quei giochi proibiti. Una viziosa […]. A nessuno venne in mente che quella di Anna potesse essere un’altra storia. Che […] forse lei aveva spezzato le barriere che definiscono e censurano il desiderio femminile».
E, infine, la Milano del 1946, quando Rina Fort lascia l’appartamento della strage: «La città è ancora poco illuminata. Ma Milano ha ripreso a vivere, la gente ha incominciato a uscire la sera. […] La voglia di dimenticare, di recuperare il tempo perduto esplode. La prima estate di libertà è una frenesia di balli, canzoni, giochi di sesso. Un’estate calda, con tutte le aspettative di rinascita ancora intatte. La pace che è scoppiata dà al ridere e al sognare il senso della speranza. L’Idroscalo si è affollato di corpi smagriti ma bene in mostra. Svolazzano le gonnelline delle ragazze in bicicletta. Le notti si sono fatte piene di piroette, magari di ragazze che per mancanza di cavalieri ballano fra loro, di danze sui selciati, negli spiazzi aperti fra le macerie, nei cortili delle case popolari, nella Galleria che le bombe hanno scoperchiato. In canottiera, in abiti di cotonina rivoltati».
L’immaginario multiforme di Bianca Bellová si esplica in declinazioni sempre diverse, testimoni di una irrefrenabile capacità inventiva. A metà fra le suggestioni della Tempesta shakespeariana e l’inesauribile affabulazione delle Mille e una notte, L’isola è un romanzo singolare, ricco di arcana fascinazione. Nel costruire una narrazione apparentemente lontana nel tempo e nello spazio, l’autrice parla in realtà del nostro mondo, dell’avidità che lo domina. Un luogo terrifico dove i più poveri rubano a chi ha poco o nulla. Come nel libro di Shahrazâd tutto origina da un tradimento: a Palermo una bellissima fanciulla ama un affascinante saraceno il quale le nasconde di avere moglie e figli in Oriente. Una volta scoperto il suo segreto la ragazza, distrutta dall’umiliazione, gli taglia la testa. Sin dall’inizio amore e morte appaiono indissolubilmente legati. L’oscura Signora si manifesta agli uomini come in una pellicola di Ingmar Bergman. Teste di bambini perduti spuntano dalla roccia, la bocca piena di muschio secco, le orbite degli occhi vuote. Processioni di flagellanti percorrono le vie cittadine, dove corpi in putrefazione e insepolti appestano l’aria. La peste nera è materia di racconti terrificanti. Patriarchi e congregazioni si azzuffano in terra Santa, adombrando i conflitti fra le diverse confessioni che ancora oggi lacerano i corpi e le coscienze.
Atmosfere pagane e cristiane si confondono a esaltare la complessità del caleidoscopio romanzesco. L’ombra del mito balena nell’apparizione del carbonaio cieco, mentre uomini con ali posticce cercano di prendere il volo come Icaro. La ricerca del caladrius, l’uccello che guarisce ogni male, ricorda il viaggio di Parsifal sulle tracce del Graal. La costruzione erratica conduce il lettore attraverso un labirinto narrativo: il mercante Izar, una lampada di vetro al collo che in realtà si crede essere la luce del Santo Sepolcro, solca i mari, attraversa le steppe accompagnato da uno stuolo di vichinghi, intesse narrazioni incredibili dilettando la principessa Nurit, sovrana di un regno in declino ereditato dopo la tragica morte del fratello demente. Il laudanum le ottunde l’anima e le infonde inusitata crudeltà. Abbandonata da Izar, si tormenta come Didone lasciata da Enea. Un Ragazzo senza nome, figlio di un raccoglitore di letame, non ama parlare ma canta come un cherubino. Vedere dal porto una vela tesa è per lui motivo di gioia. Sogna orizzonti avventurosi e mondi lontani.
Il tempo è il Seicento, epoca di scoperte e naufragi che già segnò la creatività del citato Shakespeare nella sua ultima fatica teatrale. L’isola è la Sicilia, ma è anche un luogo immaginario popolato di stregoni e creature fantastiche, descritto con sontuosità barocca e allegorica pregnanza. Verità e invenzione si mescolano, risultando indistinguibili. Izar tiene un diario nel quale si mostra tutt’altro che eroico, ma debole, stanco e insonne; gli avvenimenti si ammantano di una luce incerta. Una necessità intima lo spinge, anche se crede che nessuno mai leggerà quelle righe; eppure scrive per raccontare come si sono svolti i fatti, scrive perché “le storie ci salvano dalla miseria e dalle brutture di questo mondo”. Il racconto è esorcismo della morte, supremo incantamento, amuleto per orientarsi in una realtà che resta, nonostante tutto, incomprensibile.
Lory Muratti accompagna l’icona glam-rock-blues Dana Gillespie e presenta il suo libro Torno per dirvi tutto nella 13ª puntata del mitico Nuovo Roxy Bar di Red Ronnie.
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