Pellicani figlio si presenta dopo 20 anni alla porta del padre. Non si vedono da quel giorno in cui lui se n’è andato sottraendo al genitore i risparmi che erano in casa.Pellicani arriva e trova un caseggiato disabitato e in rovina, l’unico appartamento ancora abitato sembra essere proprio quello di suo padre, ma al suo interno non trova il genitore, ma un vecchio paralitico, immobilizzato a letto e assistito quotidianamente da una donna, che ogni mattina lo nutre, si occupa della sua igiene e del lavaggio della biancheria.Fin qui tutto normale, tutto plausibile, tutto verosimile, vero?E invece no, non è così. Pellicani figlio racconta in prima persona ogni suo movimento e ogni suo pensiero, ed è così che ci accorgiamo che siamo all’interno di una mente allucinata, che siamo nella mente di un Don Chisciotte al contrario.Un eroico renitente, che con fierezza critica e si sottrae alla società, che non riconosce il padre in quel vecchio paralitico, che vede in ogni gesto umano, in ogni oggetto inanimato intorno a lui, un qualche messaggio diretto a lui, un giudizio, un rimprovero, che lui, da renitente, rifiuta.L’allucinazione è la realtà in cui Pellicani si muove, portando i suoi gesti al grottesco e crudele, verso se stesso e verso il padre, in nome di quel rifiuto della società che lo anima.È un romanzo esilerante, eppure scioccante e doloroso. Sergio La Chiusa è geniale e senza remore varca i limiti del verosimile e del moralmente accettabile, con una capacità narrativa e di pensiero che generano nel lettore un’empatia disturbante.
Stando agli ultimi dati dell’AIE (associazione Italiana Editori), i libri pubblicati nel 2019 sono stati più di 78mila. Una giungla di carta all’interno della quale ci si orienta a fatica. Anche perché i colossi dell’editoria (e non solo) strizzano sempre meno l’occhio alla letteratura e preferiscono affidarsi ai prodotti editoriali, possibilmente partoriti dal personaggio di turno, la cui durata nel tempo, a dispetto del clamore socialmediatico che sono soliti suscitare, è paragonabile a un battito di ciglia.
Insomma, non è facile scovare qualcosa di interessante. Ecco perché vale la pena parlare de I Pellicani – Cronaca di un’emancipazione di Sergio La Chiusa, edito da Miraggi (186 pag., 17 euro). Un romanzo sorprendente e gustosissimo, che prevede molteplici livelli di lettura ed è intriso di quello spessore letterario che è lecito attendersi da uno scrittore. E La Chiusa lo è, non c’è dubbio: la sua parola è levigata e venata di elegante umorismo. Elementi peraltro propizi al suggestivo teatro dei paradossi da lui allestito, che rifugge da qualsiasi pretesa di linearità. A cominciare dai Pellicani, che non hanno niente a che vedere con i volatili che tutti conosciamo. Qui abbiamo invece a che fare con due uomini misteriosi (padre e figlio? forse sì, forse no, ma poco importa), che, dopo vent’anni e vecchie ruggini, si ritrovano quasi magicamente in un tempo e in un luogo indefiniti. Uno, il Pellicani-giovane, ha le fattezze di un bizzarro figuro lontano parente dei dannati di Dostoevskij; l’altro, il Pellicani-anziano, è un ottantenne paralitico bisognoso di cure che si trascina stancamente al pari del vecchio stabile in cui abita e che lo ha incatenato a una triste solitudine.
L’incontro tra i due è il detonatore di una commedia dell’assurdo sapientemente congegnata dai pensieri ad alta voce del Pellicani-giovane, che si diverte con la realtà come Vitangelo Moscarda in Uno, nessuno e centomila di Pirandello fa con il suo io: scompone, ricompone, trasfigura ciò che vede, quasi travolge il lettore con il suo torrenziale flusso di coscienza. E noi non possiamo far altro che star dietro ai suoi soliloqui tragicomici, ma senza illuderci di trovare le giuste corrispondenze tra ciò che è e ciò che appare. Perfino l’evidente asimmetria tra i due personaggi (l’invadenza del Pellicani-giovane fa da contraltare alla remissività del Pellicani-vecchio) si risolve lentamente in un enigmatico gioco di specchi, che si nutre di visioni degne di Sorrentino e lascia intravedere una bizzarra crociata in nome dell’emancipazione di entrambi.
Eppure, mentre ondeggiamo tra sogno e realtà, ci risulta difficile prendere le parti dell’uno o dell’altro. Forse perché i Pellicani sono solo due simpatici inetti a vivere che non si vergognano della loro condizione. O forse perché la stanza in cui si consuma tutta la storia è il palcoscenico con cui, volenti o nolenti, tutti noi dovremo prima o poi fare i conti per sbarazzarci delle nostre paure più profonde.
Il romanzo, finalista alla XXXII edizione del Premio Italo Calvino, è un bijou anche dal punto di vista tecnico, tanto da meritare la “Menzione Speciale Treccani 2019” per l’originalità linguistica e la creatività espressiva. Quello di La Chiusa, infatti, è un esempio ben riuscito di prosa poetica, che mette in vetrina un linguaggio curato nei minimi dettagli e assai distante dalle banalizzazioni con cui vengono imbanditi certi best sellers. Un piccolo poema sul senso della vita capace di trasformare l’apparente fuga dal mondo delle sue creature in un coraggioso atto di ribellione pirandelliana nei confronti della società e delle sue forme statiche.
Ma il lunghissimo monologo del giovane Pellicani, interrotto da scenografici squarci onirici e oscure presenze quasi kafkiane, è anche la cronaca di una convivenza mancata che prova disperatamente a ritrovarsi, anche se nel farlo è essa stessa una nuova impostura. Dieci e lode all’autore. Raramente infatti, per utilizzare le parole di Giulio Mozzi, “la lettura di un romanzo dà tanto piacere per la scrittura in sé”. Senza contare che qui, come del resto lo stesso critico suggerisce, c’è anche altro. Molto altro.
Sergio La Chiusa presenta il suo libro «I Pellicani» nella cinquina dei finalisti al Premio Bergamo «I protagonisti, incapaci di emanciparsi, si dibattono in una realtà spettrale, inafferrabile, inattendibile»
I disegni appesi alle pareti «rivelavano una precoce ansia di emancipazione. Bambini volanti, sollevati per aria da grappoli di palloncini colorati, ridevano entusiasti, come solleticati dalla mancanza di gravità, ma invece di prendere il largo e rimpicciolirsi nelle vaste lontananze del cielo, restavano a mezz’aria, tenuti saldamente per una caviglia da certi signori assennati, nerovestiti, regolarmente incravattati e radicati al suolo con smisurate scarpe aziendali».
Penultimo a presentare il suo libro, nella cinquina dei finalisti della XXXVII edizione del Premio Narrativa Bergamo, giovedì 27 maggio, alle ore 17, in streaming sui canali social dell’Associazione, Sergio La Chiusa, con «I Pellicani» (Miraggi, euro 17). Centottantasei pagine di monologo interiore del personaggio che dice Io, forse figlio di un forse padre in una forse ex casa sua.
Dopo vent’anni, e l’indebito prelievo dei suoi risparmi dal comodino, Io, o Pellicani junior, torna a casa del padre: unico, vecchio caseggiato superstite in un paesaggio da Waste Land, mucchi di macerie, detriti e piloni incompiuti, residui del vento della modernità che ha spazzato (quasi) tutto, con la sua «smania di rinnovamento».
Ma, nel letto, trova un vecchio paralitico che è/non è suo padre, glielo ricorda ma, insieme, non può essere lui.
Una straordinaria prova di fantasia-immaginazione, una torrentizia ambiguazione del senso di realtà, identità, e relativi rapporti fondativi.
Un «parolare» inesausto che assume in sé il crollo delle certezze, per cui l’«erlebte rede», il discorso vissuto, si materia soltanto di ipotesi e contro-ipotesi.
Come si può spiegare il sottotitolo, «Cronaca di un’emancipazione»? Quella che il protagonista sembra perseguire sin dai disegni infantili, vuole rivendicare ossessivamente, quasi «ritmicamente»…?
«Cronaca di un’emancipazione un sottotitolo ironico, che gioca con il sentimento del contrario che anima il romanzo. Innanzitutto perché non si tratta di una cronaca, cioè di un resoconto impersonale di avvenimenti, ma di una continua interpretazione, peraltro tendenziosa e contraddittoria. Poi perché le emancipazioni alle quali si allude sono delle parodie di emancipazione: il giovane Pellicani vive infatti confinato nella trappola della propria mente paranoica, il vecchio nella trappola del proprio corpo paralizzato, ed entrambi nella trappola dell’immobile fatiscente, una specie di corpo sociale in rovina. L’emancipazione che il protagonista tenta di perseguire è inoltre una reazione alla società della prestazione nella quale viviamo, e quella che tenta d’imporre al vecchio l’esito paradossale della sua personale incapacità di emanciparsi».
Il fatto che il padre forse non sia padre, il figlio forse non figlio, la camera dei giochi forse di qualcun altro, un’iperbole del discorso sull’incertezza identitaria, l’incertezza sulla sostanza reale dei rapporti, anche i più importanti, sull’incertezza, persino, della cosiddetta «realtà»?
«Sì, la realtà nel romanzo risulta incerta, inafferrabile. In parte perché è filtrata dalla parola inattendibile e dallo sguardo allucinato del protagonista, cui la realtà visibile appare come il travestimento di una seconda realtà, enigmatica e minacciosa, e tutte le cose gli si presentano dietro un velo d’impostura, epifenomeni di un più vasto e impenetrabile complotto ordito ai suoi danni. In parte perché la realtà non solo è trasformata dagli occhi di chi guarda, ma ha anche una sua intima natura spettrale. Basta voltarsi indietro: cosa rimane della realtà del nostro passato? Le esperienze più importanti e i rapporti più solidi non risultano a un certo punto come svaporati, illusori, equivoci abbracci di spettri?».
Come nel Pirandello di «Uno, nessuno e centomila», il discorso sulla dissoluzione del senso «solido», granitico, univoco dell’identità, si concentra sul naso (è il naso di mio padre? Di un Pellicani?). Ha elevato a potenza un tema del girgentino?
«La radicalizzazione di un tema pirandelliano che però s’intreccia con molti altri temi: per esempio, per citarne uno particolarmente rilevante, il rapporto tra immaginazione e realtà, che è il tema della letteratura stessa, che viene dal Don Chisciotte e sta alle origini del romanzo moderno. Il protagonista, infatti, perennemente intento a fabbricarsi una sua realtà immaginaria, alternativa, abitabile, la realtà verbale del romanzo appunto, e in ciò è uno dei molti discendenti del cavaliere errante e dei personaggi creati da quegli autori che hanno saputo trasportare lo spirito di Cervantes nel Novecento; e quindi più ancora che di Moscarda, Pellicani mi pare un parente “povero” dei personagginarratori di Gombrowicz, e di Kien, il protagonista di “Auto da fé”, l’uomo dei libri uscito dall’intelligenza di Canetti».
Il naso è un po’ anche il becco del pellicano in copertina…
«Sì, il becco del teschio di pellicano in copertina richiama il naso particolarmente pronunciato dei due Pellicani e, anche, il Pinocchio di legno che compare allusivo in più parti del romanzo».
Se la «Cognizione del dolore» di Gadda è una lunghissima (auto-) analisi, incentrata sul tema del rapporto con la madre, qui sembra valere qualcosa di simile per il rapporto con il padre…
«La figura del padre rappresenta per il figlio una specie di specchio deformante, e infatti nel vecchio padre paralizzato, il figlio rivede sé stesso proiettato nell’avvenire: è insomma la personificazione della malattia e dell’incombenza della morte. Inoltre, il padre rappresenta anche l’autorità su cui riversare il proprio risentimento di persona incompleta, inadeguata, impotente: una specie di parodico simulacro della società che regola, pretende, giudica».
Entrambi i «protagonisti» sono due «renitenti-resistenti», alle lusinghe e seduzioni del mercato, agli stili di vita dettati dal mainstream, all’essere solo «consumatori», ecc.: come si intreccia questo tema sociale con quello dell’identità e del senso di irrealtà che sembra promanare dal rapporto fra ospite e ospitato: lontani, incomunicanti, eppure simili in questa loro resistenza/renitenza…?
«Il mercato contamina i rapporti interpersonali e condiziona le nostre identità suggerendoci insistentemente come comportarci, come vestirci, cosa comprare, quali applicazioni scaricare per stare al passo con i tempi, svalutando così le nostre esperienze, facendoci sentire sempre in ritardo, in difetto, insinuandoci un sottile, persecutorio senso di colpa. Le due dimensioni, quella sociale e quella esistenziale, procedono naturalmente insieme, nel romanzo come nella vita reale, perché una condiziona l’altra, e il senso d’irrealtà che sembra promanare dai rapporti tra ospite e ospitato proviene, in parte, dall’esterno. I protagonisti inoltre non sono dei veri “resistenti”, ma delle scorie prodotte dalla società dei consumi, e proprio per questa loro comune natura di scarto sociale si ritrovano, e anche il risentimento del figlio che si trasforma in sadismo nei confronti del padre è in certa misura un prodotto della società».
A proposito: la «modernità» ha distrutto tutto quanto era attorno al condominio dove vivevano i Pellicani. Cittadella superstite perché soprattutto reperto memoriale, sopravvivenza di un passato?
«Un reperto spettrale, sì. Il vecchio Pellicani è il passato, inservibile, e persino molesto, che s’attarda tra le macerie e, maceria anch’egli, intralcia con la sua timida ma cocciuta presenza i piani speculativi della modernità».
I cinque poeti finalisti sono stati ascoltati lo scorso 24 giugno a Fano durante le giornate di Passaggi Festival (https://www.passaggifestival.it/), mentre la Cerimonia di Premiazione del vincitore si svolgerà a Milano a settembre.
I poeti finalisti del VI Premio Letterario Internazionale “Franco Fortini” divisi per editore
Patrizio Zurru ha lavorato come libraio (riconoscimento miglior libraio d’Italia nel 2012, n.d.c.), editore, scrittore, ufficio stampa, curatore di collana, consulente editoriale e agente letterario, e a ventinove anni dalla sua prima pubblicazione (13 racconti, 3B+Z), torna con Endecascivoli (Miraggi Edizioni, collana Golem), una raccolta di sessantacinque piccoli racconti in endecasillabi.
Endecascivoli perché spiega come lo stesso autore dopo aver salito gli scalini si butta(no) in discesa liberamente. E mentre cadono e si imprimono sulla carta, sprigionano odori e afrori di un mondo che appare lontano; il latte bollito e scremato dalla nonna per fare il burro, e la polvere di carbone sottile sulla pelle del padre minatore. Un mondo in bianco e nero che sembra lontano, e invece non sono passati più di cinquant’anni. Archeologia dei sentimenti, conservazione dei beni relazionali.
Endecascivoli o della vita scandita dalla famiglia, dai parenti, dalla scuola, dagli amici, e dalle cose concrete. Dalle voci, dai gesti, dai viaggi con lo zaino in spalla, dai corpi che si spostano nello spazio, fendendolo e modellandolo per favorire naturalmente l’arte dell’incontro. Dalle foto non fatte, fatte e mai sviluppate, sviluppate e mai trovate, eppure non dimenticate. E forse non è un caso che ogni racconto sia aperto da uno spazio vuoto delimitato da una sottile cornice quadrata dove l’autore ha apposto l’immagine trasparente di quel ricordo. E donato a chi legge lo spazio per un disegno o un appunto.
Gli Endecascivoli di Patrizio Zurru sono frammenti di prosa poetica densi come la vita, che lasciano spazio alla nostalgia felice di tempi vissuti, custoditi, e ora generosamente condivisi.
Il frammento numero 52 è un omaggio al maschile della famiglia, ci sono suo nonno, suo padre, i suoi zii e parla della miniera, un intreccio di cunicoli che a suo padre faceva mancare l’aria da masticare. […]Rivedo mio padre, i suoi fratelli. In campagna riuniti nei giorni di festa. Parlavano poco […] Mangiavano l’aria che avevano intorno. Mangiavano l’aria almeno quel giorno, invece il n. 59 è la storia di un viaggio con suo padre e contiene passaggi tratti da I quarantanove racconti (Mondadori, Traduzione di Vincenzo Mantovani) di Ernest Hemingway, maestro assoluto della prosa breve. Ha voluto far incontrare il padre biologico con quello letterario?
P.Z.: In questo racconto parlo della prima volta che ho veramente trascorso del tempo con mio padre, per molto tempo assente ma per il nostro bene, e il caso ha voluto che ci siamo incontrati anche attraverso le pagine di Hemingway, quindi ho avuto questo privilegio.
Nella prefazione a I quarantanove racconti, l’autore americano scrive: «Andando dove devi andare, e facendo quello che devi fare, e vedendo quello che devi vedere, smussi e ottundi lo strumento con cui scrivi. Ma io preferisco averlo storto e spuntato, e sapere che ho dovuto affilarlo di nuovo sulla mola e ridargli la forma a martellate e renderlo tagliente con la pietra, e sapere che avevo qualcosa da scrivere, piuttosto che averlo lucido e splendente e non avere niente da dire […]» Qual è la sua modalità di scrittura?
P.Z.: Scrivo mentre cucino, solitamente, quindi non è un caso se qualcuno dice che si sentono gli odori, il richiamo forte c’è. Il racconto finisce quando il piatto è pronto. Poi magari smusso, ma è come quando in cucina si corregge il sale e si aggiungono degli aromi.
Per concludere, nella lista dei suoi classici preferiti quale occupa il primo posto?Ce lo racconta in un tweet?
P.Z.: Opere complete e altri racconti di Augusto Monterroso (Zanzibar editore); un concentrato di sintesi e colpi di scena in racconti che quasi prevedevano i tweet. Il suo “Al suo risveglio il dinosauro era ancora lì” ti apre un mondo, anzi, parecchi.
Louis Berenstein è contento che la stanza che ha preso in affitto nel Lower East Side sia buia: almeno questo è quello che ha detto al suo padrone di casa, Zed Palver, quando si sono visti per la consegna delle chiavi. A Zed ha detto anche che sta vagando in cerca una sistemazione fissa per via della crisi del Ventinove, ma a Zed non importa molto, a lui importa solo di piazzare le sue proprietà. Una volta rimasto solo, Louis è libero di guardare la sua stanza in tutta la sua umidità, come di un seminterrato all’ottavo piano, piena di mosche, con l’unico lascito del precedente inquilino che consiste in una scatola di biscotti, quegli stantii Girl Scout Cookies che qualche mese prima erano stati rifilati pure a lui a Philadelphia. Eppure non gli basta quella prima occhiata per far caso all’enorme neon a forma di fenicottero che dal palazzo di fronte manda una luce rosa. Louis dorme, beve, si dimentica di mangiare e conosce Theodore, la trapezista col nome da uomo che sta nell’appartamento a fianco al suo, insieme bevono e si addormentano. Poi c’è Bertha, che aspetta l’ascensore sul pianerottolo per andare a fare la cameriera all’ultimo piano del palazzo di fronte, quello col fenicottero rosa, anche detto Il Paradiso. Louis ci andrà a trovare Bertha a lavoro, ma certo non sarà facile salire all’ultimo piano perché pure lì non mancano le anime in pena che interrompono la salita, e non ne mancano neppure di labirinti e guardiani balordi sulle porte e sugli ascensori, messi lì per ostacolare l’ascesa di Louis, non un uomo probo, forse nemmeno un peccatore, ma certamente un disperso…
“Uno dei più grandi scrittori sconosciuti d’America”, così Hedda Hopper definì Aaron Klopstein in un articolo che Miraggi Edizioni propone come prefazione all’edizione italiana de I perdenti. Sempre leggendo quello che la Hopper scrisse di Klopstein si viene a sapere che fu amico di Hemingway e Fitzgerald, e che con loro passava le nottate nel Lower East Side, a volte raccontando a voce le sue storie, come un bardo che avesse ricevuto il dono della poesia. Poi ci fu il litigio con Hemingway e il rifiuto in blocco degli editori, i tentativi di diventare attore e i racconti sotto pseudonimo scritti per le riviste pulp, che per molto tempo furono l’unica fonte di reddito di Klopstein. E in effetti a leggere questo romanzo, specialmente nelle prime pagine, con le metafore che immettono qualcosa di disgustoso e squallido nella realtà, si ha la sensazione di leggere un romanzo hard-boiled in cui però manca il detective, la vittima, il ricattatore. Nei dialoghi sempre tesissimi c’è un conflitto onnipresente, che non è solo quello tra i personaggi, ma anche quello interiore in cui emerge la sofferenza esistenziale del disperso. Viene quasi da chiedersi come sarebbe la letteratura americana di oggi se al fianco di nomi influenti come quelli di Hemingway e Faulkner, si potesse aggiungere quello di Klopstein, che non poté mai godere della fama che meritava nonostante l’incredibile forza narrativa. Infatti, leggere I perdenti è come fare più esperienze in una: c’è il piacere di abbandonarsi al racconto perfetto; la voglia di scendere in profondità nel testo che solo i grandi classici sanno suscitare; e poi c’è quella sensazione di stare leggendo qualcosa di unico, un romanzo che mentre propone una storia indica anche un nuovo modo di fare letteratura.
Quando la potenza della scrittura e la fantasia si coniugano nascono questi gioielli. Il libro inizia con una sorta di vademecum che è preambolo ai capitoli e un elenco di nomi -Cerca di ricordarti.
Conosciamo Berg che è un bambino che va alla scuola materna, non va affatto volentieri. Lui non è un bambino e basta è: goffo, distratto, impreciso, stupido, bambino parentesi, maldestro incompreso, intermittente e ha tanti nomi tutti inventati così come inventata è la sorella con la quale discute come fosse sempre con lui, assumendo le forme di oggetti vari a lui preziosi, ed ha le sue “copertine “ come Linus ma non sono copertine.
“Ho tre anni e la vita sta diventando difficile……”
E a tre anni trova la radio noiosa e comincia il suo ritornello “ mamma, comprami GIRADICCHI! Io DICCHI…..” Comincia da piccolo ad amare la musica che insieme alla fantasia e ai tratti della sua personalità non l’abbandoneranno mai.
E con questo bagaglio già così pieno fin da piccolo affronterà la vita, con delle difficoltà ogni volta diverse e uguali con cui fare i conti. La madre insegnante, il padre con un maggiolino giallo a pois rosa. I nonni di mare e quelli di città. Con ognuno crea un rapporto unico, con qualcuno anche speciale e sarà la nonna di mare quella con la quale vivrà esperienze di complicità e amorevolezza e che lo porterà un giorno anche a crescere più in fretta e a scoprire l’inutilità del dolore.
Lo troviamo tra i ragazzi dell’orario alla scoperta di se e degli altri, a volte impacciato o timido, “la prima ombra di barba … la barba fu un piccolo trama “, a 16 anni Amanda “ era come arrivare impreparati ad una interrogazione”.
Con “ gli amici della panchina “ a parlare della passione comune: LA MUSICA , forse l’amore suo più grande, quello che non è mai svanito. La musica diversa da quella che ascoltavano gli altri “stavo sviluppando una curiosità maniacale e bulimica “. Sopra un treno per andare a pranzo dalla nonna di mare durante il periodo del servizio militare, vicino casa di nonna, che buttava la pasta quando vedeva il treno passare dal balcone.
E in crescendo a fare per un periodo il commesso in un negozio di dischi e poi in un’altra città e un’altro amore e… Con salti temporali tra un capitolo e l’altro e tanti rimandi in cui la vita del bambino, ragazzo, adulto è un vortice che assorbe tra fantasia e realtà e tanta tanta umanità.
È un racconto ironico, pieno di tenerezza di malinconia di una vita unica e speciale che appassiona dalla prima pagina.
E non finisce con l’ultima pagina del libro ( pag 665), perché c’è una playlist di tre pagine da sentire
“ per chi ha paura della fine, del silenzio, ovvero l’inutilità del dolore ……………..Se vuoi farne parte ti serve un suono “.
Non è facile recensire questo libro perché c’è tanto da dire, può essere solo letto. E merita di essere letto, si cresce insieme al bambino intermittente e a volte ci si scopre intermittenti , quasi come lui.
Era gennaio quando nella posta di Limina è giunta una silloge che ho custodito con cura, con il proposito di sfogliarla, allettata da allegati inconsueti, una copertina bipartita su cui è rappresentato il contrasto Vita-Morte, anticipato dallo stesso titolo, con il gioco ambiguo delle parentesi che attivano più livelli di comprensione, e l’immagine del XXI tarocco, quello che illustra il Mondo, “mai fisso, mai immoto”, come è definito in prefazione. A distanza di mesi la riprendo, spinta dalla curiosità di cogliere il connubio parola-immagine che ho intuito ci fosse. In effetti, si tratta, nell’intenzione dell’autrice, Valeria Bianchi Mian, psicoterapeuta junghiana, di Poesie per arcani maggiori, come recita il sottotitolo. La silloge raccoglie poesie giovanili e quelle scritte tra il 2014 e il 2019, accostate alle figure degli arcani illustrati dalla stessa Bianchi Mian. “È una Totentanz che punta alla rinascita, è un cerchio che si fa spirale attraverso ventidue disegni” mentre il fil rouge pare sia la natura viva in un processo in divenire continuo, ciclico, che fa ritorno a se stesso.
La silloge si presenta come un viaggio esoterico, ricco di riferimenti al mondo dei tarocchi e alla loro simbologia. Ogni testo, infatti, è introdotto dalla figura di uno degli arcani maggiori presentati dal numero 0 al 21. Il testo di apertura appare una sorta di presentazione dell’autrice, il suo procedere per tentativi come se fosse un lupo di Chernobyl o o la gazza che si spinge dal bosco alla periferia. Si vorrebbe però una sopravvivenza dal ticchettio nucleare, un rifugio per scongiurare la follia diffusa. Non a caso la poesia è introdotta dalla figura del Matto che rappresenta lo spirito libero e geniale, l’energia originaria del caos, l’imprevedibilità e allo stesso tempo l’innocenza e la follia. È il viandante che avanza verso l’ignoto senza paura.
Sessantacinque racconti come messaggi in bottiglia lanciati nello splendido mare della Sardegna in balìa delle onde, messaggi che arriveranno a qualcuno e saprà farne buon uso. Qualcuno? Chi? Saranno i lettori appassionati che scopriranno i volti, i sorrisi, i paesaggi di una Sardegna magica e anche di una Sardegna che si porta addosso la croce di quella sofferenza con una dignità che non ha eguali, aspra e vera come la sua terra. Un libro di piccoli frammenti con una metrica perfetta come una partitura di Alban Berg, un album di ricordi che hanno rifugio nell’anima e trovano spazio sulla pagina. Ogni frammento è un bozzetto con una prosa poetica che lascia spazio a finali, a volte anche a discrezione del lettore, come in un gioco di scatole cinesi. All’apparenza malinconici ma con toni forti, con una scrittura che è un fendente in diagonale come un rasoterra di Gigi Riva.
C’è un filo rosso che tiene insieme questi racconti, queste piccole gemme incastonate: la memoria. Perché i ricordi sono quelli dell’infanzia e della gioventù, relazioni familiari forti, quelle che riempiono la vita, sacrifici, sofferenze, la felicità di stare insieme, esistenze fatte di piccoli gesti e di grandi valori, felicità, anche tragedie.
L’appartenenza a questa terra che soltanto chi è nato può comprendere nei suoi aspetti più intimi, accarezzare le croste delle sue ferite, amarle, eppure ci sono momenti in cui bisogna renderle visibili per farne capire il valore e soltanto la dignità e la grandezza della letteratura può rivelare. Diverse volte è capitato di vederlo arrivare ancora sporco e con il carbone attaccato addosso, non c’era stato tempo per una doccia, non c’era stato perché c’era qualcuno da tirare fuori dai pozzi crollati, qualcuno vivo, altri no.
Questo libro non l’ho trovato soltanto originale nella sua composizione. L’ho trovato straordinario perché sovvertiva tutti quelli che sono i canoni della narrativa tradizionale, dando un ritmo e un linguaggio nuovo, quello di una narrazione dell’anima, una scrittura ribollente fino all’inverosimile. Racconti che paiono oscuri e che sono illuminati sulla pagina da uno spirito vero.
Si sa che c’è una grande tradizione sarda nella letteratura, mi par opportuno citare scrittori del calibro di Sergio Atzeni e Salvatore Niffoi, senza dimenticare altri importantissimi, legati a una realtà culturale che non ha bisogno di lente di ingrandimento. Ecco: Patrizio Zurru è legato a questa cultura, ha radici forti. Con poche righe, essenziali, ci racconta una Sardegna fuori dal folklore, quella più amata, dai sardi e dai suoi lettori nel “Continente” che non sono soltanto i sardi trapiantati in altre realtà. L’ebbrezza linguistica è una grande avventura che sa inerpicarsi per quelle strade scoscese dell’isola tenendo salde le redini, stando dentro un reale e vissuto che si protrae nel ricordo.
Racconti brevi, come un flash istantaneo che vengono dalle radici più profonde di questa terra con una lingua capace di avvolgere gli oggetti e di aspirarne l’essenza, una sintassi sempre lucida con concessioni ad immagini di una poetica intensa. Piccoli bozzetti di vincenti e di perdenti già passati o forse che saranno anche in futuro. Storie senza paraventi, ammiccamenti, a tratti con una sottile ironia, quella che non fa ridere ma sorridere, emblema di una felicità nascosta.
Dire che sono soltanto bozzetti è una bestemmia. È Letteratura. E con tutte le carte in regola. Poi c’è il fascino della scrittura. Una voce dell’anima. Credo che sia una prerogativa o, lasciatemelo dire, un dono, che ogni autore dovrebbe avere. Ma anche in una società consumistica, dove le regole del libro sono soggette al mercato, questo è appunto un dono e non è dato per scontato.
Bene. Qui, con passo felpato, attento a non fare rumore, Patrizio Zurru ci svela il suo volto in ombra, quello di un poeta autentico. Per questo è impegnativo e bellissimo nello stesso tempo affrontare la lettura di questo libro, proprio perché non è semplice imbattersi in un narratore con questa potenzialità così profonda dell’anima e con la capacità di trasmetterla.
Non ho mai visto di persona Patrizio Zurru. Ho parlato con lui qualche volta al telefono. Quei pochi dialoghi, rapidi, essenziali, me lo hanno presentato nello stesso modo in cui ho affrontato la lettura del suo libro. Nell’attesa di incontrarlo e di stringergli la mano ve lo presento così. Credo di non sbagliare. Io ormai lo conosco. Lui forse conosceva me.
Viaggio al termine dell’amore in cerca di una verità dolorosa
Gentili lettori, quante volte abbiamo temuto che il corso delle nostre vite quotidiane si interrompesse di colpo per un evento imprevisto? E non mi riferisco alla contingenza sanitaria, ma a una frattura nella propria storia personale. Se perdere qualcuno è una delle esperienze più dolorose, cosa ne è della sottrazione di un’identità? Jakuba Katalpa è una scrittrice ceca di arguto intuito letterario, che ha fatto della geografia della perdita il fulcro di una storia. “Nèmci”, potente metafora di un’assenza, che assurge a emblema di tutto ciò che ci manca. In Italia Miraggi Edizioni ha pubblicato il libro con il titolo “I Tedeschi”, nella traduzione di Alessandro De Vito (che è anche uno dei tre editori Miraggi), e l’ha inserito nella collana NováVlna, che ormai vanta un elenco di scrittori cechi di grande respiro stilistico e ideativo. È proprio la lingua di De Vito che valorizza la parola calibrata e capace di creare chiare immagini conoscitive di Katalpa, premiando il lettore con un ritmo intenso, un effetto domino che costringe a non sottrarsi alla bellezza della storia e del linguaggio.
La vicenda si apre con un funerale a Praga, ma si sviluppa su un dubbio: «È tutta qui la questione, se invitare al funerale anche i parenti tedeschi». La figlia di Konrad, il defunto, è stata abituata dal padre a una strana storia. Durante quasi tutta la vita dell’uomo, a casa della famiglia arrivavano puntualmente dei pacchi pieni di dolciumi e altre cibarie da parte di una signora tedesca di nome Klara Rissmann, madre biologica di Konrad, che aveva affidato il figlio in tenera età a una donna di nome Hedvika, che viveva nella Repubblica Ceca, senza mai più rivederlo. Perché aveva fatto questo? “Scrive di nuovo la troia” diceva di solito con scherno. Parlava di sua madre.
Cercando di svelare il mistero, la figlia di Konrad decide di partire per la Germania, alla volta di Lahnstein, dove abitano ancora due sorelle del padre. Inizia da qui la geografia della perdita, intrecciandosi con gli anni bui della Germania, con la Seconda guerra mondiale e con la condizione delle donne nell’Europa della prima metà del Novecento.
La scrittura di Katalpa è un magnete a cui non ci si può sottrarre, per un bizzarro gioco di scatole cinesi, entro le quali si annidano le ragioni del male e dell’incomprensione. La specularità delle storie dei personaggi con la grande Storia crea un meccanismo ipnotico in grado di svelare la verità che risiede dietro l’identità di ciascuno di noi. “Konrad non hai mai fatto parte della nostra famiglia” mi spiega Gertrude. “Nostra madre gli mandava i pacchetti, questo sì, e non ha mai nascosto la sua esistenza. Ma non ci ha raccontato niente di lui”. Chi è Konrad? Qual è la verità della sua esistenza? Qual è il peso della memoria? Forse ci sono destini votati alla perdita, come fosse una condizione connaturata a quell’essere. E, forse, certi segreti dovrebbero rimanere tali, perché se la verità è un dovere, ciò che ne deriva è una dannazione.
Luca Ragagnin ed Enrico Remmert: intermittenze, vinili e sbronze consapevoli
Ospiti della puntata numero 23 della quarta stagione gli scrittori Luca Ragagnin ed Enrico Remmert per un’ampia conversazione intorno agli ultimi due libri di Luca (“Il bambino intermittente”, Miraggi Edizioni, marzo 2021 e “Autoritratto in vinile”, Miraggi Edizioni, ottobre 2020) e le incursioni alcolico-letterarie di “Elogio della sbronza consapevole. Piccolo viaggio dal bicchiere alla luna” (Marsilio Editori 2004/Feltrinelli 2020), scritto a quattro mani con Enrico. Sogni, incertezze, negozi di dischi, editori coraggiosi, vino, servizio militare, letteratura ad alta gradazione, vinili, infinite jam session e ancora sogni: un esaltante percorso in compagnia di due grandi autori. Ascolti da Brian Eno, Gabriella Ferri, Wire, The Raconteurs, XTC e Deep Purple.
n’inchiesta in versi per raccontare l’amore malato, la violenza di genere e l’abbandono: temi che purtroppo accompagnano la quotidianità e le notizie di cronaca
Sono 112 le vittime di femminicidio nel 2020. E nel 2021, in meno di tre mesi, sono già 15 le donne uccise per mano di chi diceva di amarle. Il bilancio sembra un fluire di sangue inarrestabile: un problema sociale e antropologico enorme. Felicia Buonomo, da brava giornalista d’inchiesta,si è sempre occupata di temi delicati legati ai minori e al mondo femminile.Questa volta, però, ha scelto di compiere un lavoro di analisi del drammatico fenomeno, attraverso un genere di scrittura che ama particolarmente: la poesia. E infatti, ‘Cara catastrofe’ edita da Miraggi Edizioni segna il suo esordio nel mondo editoriale della poesia. E’ una raccolta ben strutturata, coraggiosa, senza censure, come riportato da Valerio Di Benedetto nella nota di commento al libro. Il progetto si divide in tre parti: nella prima, c’è una sorta di carteggio e tutte le poesie iniziano con ‘Cara catastrofe’:“Cara Catastrofe, non chiedermi cosa penso/se ho un ramo di mano sulla fronte./Reggo le foglie dei miei tormenti su cui ti adagi leggero”. L’autrice tenta un dialogo con il dolore e rende partecipe il lettore. Inizialmente, l’amore ha tutte le caratteristiche di qualcosa di magico, speciale; poi, quando inizia a prendere un’altra forma, cambiano il lessico, le sonorità, le metafore. Felicia Buonomo sceglie una poesia prevalentemente breve, asciutta, ma diretta e mirata; nella seconda par
te, si entra nel vivo della violenza attraverso la fisicità. Non a caso, tra i versi troviamo ‘clavicole’, ‘braccia molli’, ‘carne debole’, ‘segni rossi sul collo’. Le immagini, potentissime, riconducono a situazioni di profonda e amara verità, in cui chiunque si trova a dover riflettere e molti sono i simboli che incidono nel ritmo e nel linguaggio; la terza e ultima parte apre a una consapevolezza dell’amore malato, che invade anima e corpo a un dopo possibile: si può uscire dal tunnel della sofferenza. L’autrice attinge a storie vere di donne che ha incontrato. E le traduce in poesia autentica, attraverso una scelta chirurgica delle espressioni comunicative. Le ferite nella pelle e nell’anima restano indelebili, ma è possibile recuperare, lentamente rimarginare pesanti cicatrici. Felicia Buonomo compie un lavoro necessario per tutte le donne, vittime che spesso si sentono colpevoli di ciò che vivono. Una raccolta di valore,che serve a sensibilizzare, a scuotere le coscienze. Ognuno può fare la propria parte. E la poesia è un ottimo strumento per affrontare tematiche così complesse, che toccano l’umanità.
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