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I Pellicani – recensione di Andrea Inglese su ALIAS

I Pellicani – recensione di Andrea Inglese su ALIAS

Nullatenente aizza il padre paralitico: esperimento umoristico a porte chiuse

La violazione della verosimiglianza, in ambito narrativo, è considerata oggi una duplice offesa, che si perdona a pochissimi e gallonati scrittori, di preferenza già morti. È un’offesa nei confronti di un intreccio ben costruito, che non malmena le attese del lettore, e lo è ancor più nei confronti di quel vero, o di quel reale allo «stato puro», che una certa narrativa insegue tenacemente, utilizzando le vie della cronaca nera, della storia con molte maiuscole o dell’esplorazione dell’io, che l’autofiction fornisce di contorni molto elastici. Sergio La Chiusa, nel suo romanzo d’esordio i Pellicani cronaca di un’emancipazione (Miraggi edizioni, pp. 190, € 17,00), si colloca con disinvoltura proprio sul terreno poco frequentato dell’inverosimiglianza. Il suo narratore non solo è poco affidabile, ma necessiterebbe di un’urgente perizia psichiatrica. A ogni pagina, invece di portarci diligentemente al cuore della realtà, per dare senso a qualche fenomeno storico o sociale di pubblico interesse, ci spinge in una zona marginale, dove non accade nulla di rilevante, salvo il suo forsennato elucubrare. A ben vedere, cose turpi, oltreché grottesche e ridicole, accadono nel romanzo di La Chiusa, ma esse emergono in seguito a quella spoliazione radicale dell’ambientazione sociologica e dei meccanismi psicologici ordinari, che ricordano gli esperimenti beckettiani della prima Trilogia. E in fondo i Pellicani può essere letto come un esperimento anomalo, che mette a confronto, in un huis clos claustrofobico, la coscienza risentita e velleitaria di un figlio con l’ebetudine di un padre paralitico.

Pellicani figlio, sconfitto sul piano sociale e professionale, decide di tornare dal padre che non vedeva da anni. Ritrova l’appartamento, ma in un palazzo spopolato e in rovina. Dentro ci vive effettivamente un vecchio, con il nasone simile a quello paterno, ma vegeta su di un letto in condizioni deplorevoli, incapace di comunicare, di nutrirsi e di espletare le più elementari funzioni fisiologiche. Una signora se ne occupa, venendo regolarmente a lavarlo e imboccarlo. È a questo punto che il sottotitolo acquista tutta la sua importanza. Pellicani figlio si mette in testa di riscattare la propria inadeguatezza, trasformando il vecchio paralitico in un ribelle, che sia in grado (in vece sua) di fronteggiare l’orrido sistema produttivistico. Emerge in questa situazione non solo il carattere umoristico del romanzo, ma anche il suo fondo satirico: il volontarismo del logos – nel duplice senso di «raziocinare» e «discorrere» – si scontra con la placida e tetragona resistenza del bíos. Questo limite, però, non è accettato e compreso dal giovane Pellicani, che rivela così di aver introiettato proprio gli imperativi sociali contro cui pretende di battersi. «Ma sostanzialmente il materiale era di prima scelta. Bisognava lavorarci un po’. Si trattava in definitiva di rianimarlo, rimetterlo in movimento perché potesse ribellarsi in maniera completa e credibile». Nonostante se ne vada in giro in completo grigio topo con valigetta da manager, Pellicani figlio è un nullatenente. Ha tentato di mettersi al passo con «la smania di rinnovamento», ma invano. Possiede un’unica cosa soltanto, un’anticaglia del secolo passato: la propria coscienza, che non è poi nient’altro che un potente dispositivo d’inghiottimento e trasfigurazione della realtà. Giulio Mozzi, nella quarta di copertina, la definisce «un’infernale chiacchiera», sottolineando come il piacere della lettura nasca dalla maestria stilistica con la quale l’autore ci conduce nei meandri a un tempo foschi e carnevaleschi di questa parola.

La Chiusa potrebbe sottoscrivere la dichiarazione di poetica di Robert Pinget, altro umorista e guastatore della verosimiglianza. Nella sua postfazione a Le libera (1984) scriveva: «Non m’interessa tutto ciò che si può dire o significare, ma la maniera di dire». La Chiusa, attraverso l’eloquenza sballata del suo personaggio, ci ha restituito un tono, che appartiene precisamente alla nostra epoca: è il tono del risentimento impotente contro l’organizzazione sociale, quel tono che ritroviamo spesso in quelle vittime che, da un momento all’altro, possono trasformarsi in carnefici.

I Pellicani – recensione di Lorenzo Marotta su La Sicilia

I Pellicani – recensione di Lorenzo Marotta su La Sicilia

Fiumi di parole per i “Pellicani” riuscita commedia dell’assurdo

Un allucinato avvincente romanzo quello de “i Pellicani” di Sergio La Chiusa, edito da Miraggi e finalista al Premio Italo Calvino 2020. Il protagonista, Pellicani, un quarantenne – vestito grigio un po’ sdrucito, valigetta e portamento da uomo d’affari – ritorna vent’anni dopo nel quartiere dove si trova la casa del padre ottantenne. Nulla è come prima. A resistere alla furia speculativa della riqualificazione urbanistica è rimasto lo scheletro solitario dell’unico immobile disabitato. Solo in alto filtra da sotto la porta una flebile luce. È lì che avanza, tra rovine e oscurità, trovando alla fine disteso sul letto il padre, un vecchio rottame rinsecchito che se ne sta muto in balia di una donna che l’accudisce e di un televisore acceso sui cartoni animati.

Inizia da qui l’estraniante discorrere del protagonista sulla tirannia esercitata in privato dal padre, la sua furbizia, i possibili pensieri nel rivederlo dopo tanto tempo, assieme ai tentativi di accreditarsi agli occhi del padre come persona socialmente arrivata e abituata ai viaggi. Per darsi un tono ed essere credibile ostenta in continuazione la valigetta, con il ripetere che è di passaggio e di dover ripartire subito per la Cina. Uno scorrere torrentizio di considerazioni, riflessioni, sospetti, illazioni, accompagnati da ombre sullo sfondo di pareti scolorite, pianerottoli bui, appartamenti vuoti. Il tutto reso con immaginifica capacità narrativa dall’autore. Molteplici i registri stilistici: l’ironico, il comico, il sarcastico, il tragico-comico, il sentimentale, il cinico. Maschere che si rincorrono e si sovrappongono, nella rappresentazione del Pellicani padre, indicato come “il paralitico”, “l’imbecille”, “il furfante”, “il renitente”, rispetto al Pellicani figlio, proteso all’azione, al movimento, “verso l’anarchia della gioventù”.

In un originale gioco di specchi l’autore mette in scena il rifrangersi del protagonista nel dare corpo, immagine e parola agli altri pochi attori e al padre che, ad eccezione di qualche movimento di mani e di labbra, rimane indifferente a tutte le provocazioni. Un silenzio che gli appare un abbandono ozioso del vecchio e che suscita contraddittorie interpretazioni che finiscono per metterlo in crisi. Una riuscita commedia dell’assurdo, tra Pirandello, Kafka e Ionesco, malgrado qualche ripetuta critica alla società di mercato. E la vecchiaia come scarto o come furbesca ricerca di protezione. Una narrazione che sfuma nel sogno, nell’irreale, perfino nell’estraniamento del protagonista che finisce per non riconoscersi, indicandosi in terza persona.

LANGHE INQUIETE – citazione di Enrica Torchio su Un libro a colazione

LANGHE INQUIETE – citazione di Enrica Torchio su Un libro a colazione

“Mio nonno è un uomo giovane e forte e su quella piazza gioca alla palla. La palla si batte col pugno, la palla è grande quanto un’arancia ma pesa come un melone, e mio nonno e gli altri uomini sono a messa e dal fondo, quando il parroco si dilunga, fanno vedere la palla e il parroco si sbriga, conclude in fretta, un pater e un’ ave veloci, poi tutti sulla piazza per la sfida degli uomini giovani e forti.”

Marco Giacosa – Langhe inquiete

“Ma se noi ogni estate continuiamo a mandarlo sulle langhe, per forza finirà col farsi un’anima Fenoglio, anche se alla nascita non ce l’aveva. Quanto a me debbo dire che quella miscela di sangue di langa e di pianura mi faceva già da allora battaglia, nelle vene, e se rispettavo altamente i miei parenti materni, i paterni li amavo con passione, quando a scuola ci accostavamo a parole come “atavismo” e “ancestrale” il cuore e la memoria mi volavano subito e invariabilmente ai cimiteri sulle langhe.”

Beppe Fenoglio – Ma il mio amore è Paco
I Pellicani – recensione di Demetrio Paolin su Istituto italiano di Cultura Montreal

I Pellicani – recensione di Demetrio Paolin su Istituto italiano di Cultura Montreal

Il romanzo i Pellicani di La Chiusa è un’opera prima dell’indubbio valore, come dimostra anche la segnalazione al Premio Calvino 2019. Altresì è un testo di non facile catalogazione, in quanto romanzo certamente rischioso per le sue scelte normative e fuori canone. Per farcene un’idea possiamo partire da una semplice e preliminare ispezione grafica.

Il libro è diviso in capitoli, segnalati da una numerazione in caratteri romani progressiva, ma a colpire è in primo luogo il pieno di queste pagine, pochissimi gli a capo, la narrazione pare organizzarsi in spazi metrici a forma di rettangoli in cui le parole si susseguono, non si trovano stacchi o segni dialogici o interventi di mimesi del parlato. Le frasi si susseguono le une dietro le altre, queste producono paragrafi e infine capitoli.

Ci si aspetta, quindi, alla lettura un romanzo, in cui la verbosità e l’onnipresenza di chi parla siano centrali, anzi onnicomprensive. La storia del romanzo è appunto il temporaneo ritorno a casa di un figlio, che chiameremo “giovane”, dopo 20 anni di assenza. Un lasso di tempo enorme, che però il giovane, non più tanto giovane a dire il vero, pare non aver vissuto e così torna nella sua vecchia dimora, pensando che tutto sia rimasto intatto. Al di là di una sostanziale rassomiglianza del quartiere, che lo accoglie, l’uomo, vestito in maniera trasandata e con una lisa valigetta 24 ore, simbolo di un lavoro che fu, trova il caseggiato dove ha vissuto in fase di decadimento e fatiscenza; nonostante questo si ostina a pensare che tutto sia come prima e prende le scale per raggiungere la casa del padre: trova il campanello “Pellicani”, il suo cognome, e entra. Nell’alloggio, che è irrimediabilmente il suo anche se più disordinato e dismesso, vive un uomo di circa 80 anni, un vecchio come lo definisce il protagonista, che assomiglia a suo padre, ma che non può essere lui, anche se il naso è proprio quello del vecchio Pellicani. Il romanzo è quindi la cronaca di questa convivenza tra il giovane e il vecchio all’interno dell’appartamento dei Pellicani.

Il testo si svolge quasi completamente all’interno delle mura dell’appartamento, così da giustificare proprio la struttura chiusa e asfittica dell’impaginazione del testo, non ci sono esterni, aperture di squarci, se non brevissimi, che indicano come il romanzo si risolva sostanzialmente in un lungo monologo del giovane. Il romanzo infatti è scritto in prima persona, una prima persona attraverso cui passa l’intera narrazione: lo stile e la scrittura sono notevoli, un vero pezzo di bravura e virtuosismo, soprattutto perché l’autore riesce a instillare in chi legge una sorta di sotterranea sfiducia nel narratore, e nel modo in cui racconta ciò che vede. Questa rottura del patto, ogni narrazione in prima persona prevede una tensione testimoniale a dire la verità, dà il colorito comico grottesco al romanzo, una sorta di sentimento del contrario, omaggio a Pirandello, che lo stesso La Chiusa cita indirettamente quanto appunto carica il naso del vecchio di tutta la possibile identità tra “padre” Pellicani e “vecchio” Pellicani. Nello stesso tempo la verbosità del romanzo in alcuni punti è anche il suo punto debole, questa logorrea dell’Io chiuso in se stesso avrebbe potuto essere gestita con più forza se l’Io narrante avesse accettato il dialogo con gli altri personaggi del romanzo che esistono solo in funzione della sua narrazione. Ciò detto i Pellicani è un ottimo esordio di un autore che speriamo presto di rileggere con la sua nuova opera.

QUI l’articolo originale:

https://iicmontreal.esteri.it/iic_montreal/it/gli_eventi/calendario/2020/12/quel-che-resta-i-libri-di-dicembre.html?fbclid=IwAR3hCAmvBTLrMhAkFvL1mdP5djWNCrsKo5Pp8u_64GTgIowQX7E8qItmOHY

Langhe inquiete – intervista a Marco Giacosa di Guido Tiberga su La Stampa

Langhe inquiete – intervista a Marco Giacosa di Guido Tiberga su La Stampa

Quando a Barolo il vino si beveva dai pintoni, non nei calici alla moda

Marco Giacosa è uno scrittore che parte dalle cose piccole per raccontare la grandezza della vita. Lo aveva già fatto anni fa con «L’occhio della mucca» o con la rubrica «Cose che ho visto oggi», prima su Facebook e poi sull’edizione torinese della «Stampa». Piccole storie quotidiane capaci di diventare «narrativa» solo nel momento in cui il narratore sapeva riconoscerle come storie da raccontare. Con «Langhe inquiete» (Miraggi Edizioni), Giacosa compie la stessa operazione su se stesso. Ha recuperato una serie di post usciti sui blog e sui social, li ha cuciti insieme, ne ha fatto un libro che nel sottotitolo definisce «appunti per un romanzo». Una sorta di autobiografia che, attraverso le memorie personali e familiari, diventa anche uno specchio delle Langhe «di prima». Prima del turismo, della moda, delle colline cool e patinate.

Giacosa, attraverso i ricordi della sua famiglia, lei ci riporta alle campagne piemontesi del primo Novecento, quando i bambini andavano a lavorare dopo due-tre anni di elementari, quando la religione era più dei bigotti che dei credenti. Una vita scandita da tradizioni che lasciano tracce ancora oggi. Che cosa è rimasto in lei in tutto questo?

«Molto. A quelle tradizioni sono stato legato in modo quasi malato per molto tempo. Sono cresciuto con il codice del “si fa così” e del “non si fa”, l’ho suburra per anni senza neppure chiedermi se mi piacesse o no. Ci ho sofferto parecchio finché c’ero dentro. Poi me ne sono staccato, e a quel punto ne ho riconosciuto il fascino. Adesso che non ci vivo più sono davvero libero di sentirmi figlio delle Langhe».

Le sue pagine raccontano un rapporto stretto, ma a volte conflittuale con la famiglia. Specie con suo padre, a cui ha dedicato il libro e di cui parla spesso su Facebook. Rimpianti?

«È una cosa che succede a molti: cresci nella convinzione di essere molto diverso da tuo padre, e poi con il passare del tempo ti accorgi di assomigliargli sempre di più: te lo fanno notare, i gesti, gli atteggiamenti, il modo di camminare sono uguali ai suoi. Mio padre aveva la mania di tenere diari, scriveva, raccoglieva fotografie. È come se facesse Facebook prima di Facebook: nei suoi album non ci sono solo le foto, ci sono ritagli di giornale, commenti, poesie che aveva scritto per qualche ricorrenza, appunti dei discorsi che teneva ai matrimoni».

Lei ha scritto che l’anno passato nell’Alessandrino a fare il carabiniere di leva è stato il «migliore della sua vita». Perché?

«Perché per la prima volta ero e mi sentivo legittimato a stare lontano da casa. Mio nonno aveva fatto la guerra negli Alpini, mio padre era veterinario ma era stato ufficiale di complemento. In famiglia c’era l’idea del cittadino che deve rispondere quando lo Stato chiama».

Lei però ha studiato a Torino. Non bastava l’Università per sancire il «distacco»?

«Nel weekend rientravo ad Alessandria, mia mamma mi preparava il cibo e mi stirava i vestiti. C’era sempre l’idea, anche metaforica, del “tornare a casa”».

Lei si descrive come un bambino solitario. Era così?

«Io ho avuto la fortuna di crescere con mio nonno, in una piccola borgata come Pela, a sette chilometri da Alba. Quando da piccolo giochi in un cortile di campagna la tua socialità è data dalle persone che passano in quel cortile. E di bambini, in genere, ne passano pochissimi. Così il mondo lo scoprivo da solo: il muschio, l’uva, gli animali. A volte i contadini pagavano mio padre veterinario in natura, con un cambio-merce: ricordo che un giorno arrivò con un asino. La mia infanzia ha avuto un senso di avventura».

Non le mancava qualcuno con cui giocare?

«No. In fondo io non ho perso qualcosa, non l’ho mai avuta».

Nel libro, però, racconta di una vacanza con altri bambini in cui si sentiva isolato perché lei «non era di Alba, ma di un paese vicino». Bastavano i 7 chilometri tra Pela e la città per sentirsi diverso?

«Era come essere la provincia della provincia. Ad Alba c’erano i figli dei professionisti: a casa parlavamo in italiano, mentre noi usavamo il dialetto. La differenza era evidente, specie più avanti, al liceo: io avevo amici che lavoravano da idraulici o da muratori, molti studiavano negli istituti professionali. Erano i tempi in cui andare a bere il vino non faceva ancora figo: c’erano i pintoni, non i calici».

Le sue Langhe «inquiete» oggi sono diventate un’altra cosa. Viste da Torino, dove vive da anni, che effetto le fanno?

«Da ragazzo andavo a Barolo con i miei amici, in motorino. Ci fermavamo in piazza a parlare, compravamo la focaccia, qualche birra di nascosto al bar. Ci sono passato qualche tempo fa: ogni dieci metri un negozio che vende vino, cantine, qualcosa di turistico».

Meglio allora?

«No, no. Mi fa piacere che ci siano dei piccoli imprenditori, che non siano solo Ferrero e Miroglio ad aver trasformato le terre della Malora di Fenoglio. Però lasciatemi un po’ di orgoglio: io ho visto l’anima di questi luoghi, chi ci passa un weekend e se ne va non la vedrà mai».

Articolo originale:

Musica solida – estratto sulla Numero Uno su Rockol

Musica solida – estratto sulla Numero Uno su Rockol

Numero Uno: 1969-1974, la storia di cinque anni di successi

La storia della Numero Uno, l’etichetta di Mogol e Battisti, raccontata da Vito Vita

di Franco Zanetti

Ma questa Numero Uno, nei suoi cinque anni di vita, cos’era, chi c’era, come funzionava? Ce lo racconta Vito Vita, grande esperto di discografia e autore del fondamentale “Musica Solida”, che Rockol ha recensito qui.

Nel 1969 alcune tensioni createsi in seno alla Ricordi tra la sua dirigenza e la coppia formata da Mariano Rapetti e il figlio Giulio, responsabili delle edizioni musicali, condussero alle dimissioni dei Rapetti e di altri personaggi attivi in vari settori della Dischi Ricordi, che fondarono una nuova casa discografica: la Numero Uno. Fu coinvolto anche Lucio Battisti, la cui produzione era stata negli ultimi tempi la maggior fonte d’incasso per la Ricordi: il successo al Disco per l’estate 1968 con Prigioniero del mondo e al Cantagiro nello stesso anno con “Balla Linda”, la partecipazione a Sanremo nel 1969 con “Un’avventura” e il primo posto in hit-parade con “Acqua azzurra, acqua chiara”, senza contare gli hit scritti
per altri artisti dell’etichetta, in primis i Dik Dik e l’Equipe 84. Battisti aveva tuttavia un contratto con Ricordi che sarebbe scaduto solo due anni dopo, per cui – pur facendo parte della proprietà della nuova etichetta – non entrò a far parte degli artisti in catalogo fino al 1971.
La sede fu stabilita in Galleria del Corso 2 a Milano, e per la distribuzione venne effettuato un accordo con l’Rca Italiana.
Il logo verde dell’etichetta, con il numero 1 in bianco su campo arancione, fu disegnato da Guido Crepax, fratello del discografico della Cgd Franco. 


Subito la Numero Uno cercò nuovi artisti da mettere sotto contratto, sia con proposte inedite, sia convincendo artisti già noti a passare sotto la nuova etichetta. Nel primo gruppo rientrava la Formula 3, un complesso appena formato con tre musicisti di esperienza quasi decennale: il romano Alberto Radius, il livornese Gabriele Lorenzi e il turnista napoletano Tony Cicco. Il primo 45 giri della Numero Uno fu il loro “Questo folle sentimento”, brano rock scritto da Mogol e Battisti, che li portò subito in hit-parade, arrivando a vendere 350000 copie.

Fu invece particolare il primo album pubblicato dall’etichetta: “E poi domani ancora”. Anche in questo caso era un’artista debuttante, che però eseguiva testi in piemontese firmati dal giornalista Piero Novelli, cugino del futuro sindaco Diego Novelli, con tematiche legate alla malavita, e musicati dal fisarmonicista Mario Piovano. La sua interprete era Luisella Guidetti.

Come responsabile della promozione della Numero Uno venne assunta Mara Maionchi, proveniente dalla Ariston. Il suo primo incarico fu quello di promuovere il 45 giri della Formula 3 “Questo folle sentimento”, che riuscì a far scegliere da Vittorio Salvetti come sigla del Festivalbar 1969 e da Renzo Arbore come disco da far ascoltare tra le novità a “Per voi giovani”, contribuendo così al traguardo delle 350000 copie vendute.
Tra gli artisti sotto contratto nei primi mesi dell’etichetta ci furono poi Tony Renis dall’Rca Italiana, gli Alpha Centauri, gruppo veronese, Bruno Lauzi dalla Ariston, gli Anonima Sound di Ivan Graziani provenienti dalla CBS, Edoardo Bennato, La Verde Stagione, in precedenza alla Equipe con altre denominazioni, Annamaria Rame dalla Italdisc, i Computers, duo formato dai fratelli Gabriele e Mario Balducci, i Jumbo, Sara (Sara Borsarini), Adriano Pappalardo, Mario Berto e Oscar Prudente, mentre su iniziativa di musicisti all’interno dell’etichetta (Mario Lavezzi, Damiano Dattoli e Sergio Poggi) si formarono i Flora
Fauna Cemento.
Come assistente della Maionchi fu assunta una giovane ragazza, Manuela Mantegazza, che in seguito entrò per un certo periodo nei Flora Fauna Cemento. 
Antonella Camera, segretaria di Mogol alle edizioni Ricordi, fu assunta come responsabile dell’Ufficio Stampa insieme a Claudio Bonivento, mentre il responsabile dell’Ufficio Amministrativo era Antonio Coni, ragioniere proveniente dall’Rca e trasferitosi da Roma a Milano; il grafico di riferimento era Cesare Monti, ma i dipendenti della Numero Uno
non erano certo una moltitudine, come ricorda Franco Daldello:


“Nel momento di massima espansione della casa discografica e delle edizioni musicali, penso al biennio 1971-72, non eravamo in tutto più di dodici persone, e parlo di un periodo in cui, in certe settimane, nella hit-parade di Lelio Luttazzi c’erano quattro o cinque canzoni nostre, tra Battisti, Formula 3, Mina con brani Mogol-Battisti, Lauzi, perché con noi Lauzi vendeva, cosa che non gli era riuscita prima con le altre etichette, ed altri artisti, o comunque canzoni nostre a livello editoriale, come “Vendo casa” dei Dik Dik o “Io vagabondo” dei Nomadi o “La prima cosa bella” di Nicola Di Bari, che è una produzione Numero Uno. Noi, con una struttura tutto sommato esigua, facevamo un fatturato annuo di cinque miliardi e mezzo di lire, ma di lire del 1971-72, che rapportati al giorno d’oggi fanno una cifra enorme, e che non era solo dovuto a Battisti, ma a Lauzi, alla
Pfm, alla Formula Tre, a Pappalardo, nonché alle edizioni”. 

Nella primavera del 1971 Colombini abbandonò la Numero Uno (vendendo le sue quote a Battisti). Colombini portò con sé alla Ricordi Edoardo Bennato, che alla Numero Uno aveva inciso solo tre 45 giri. Nel settembre 1971, scaduto il contratto che lo legava alla Ricordi, Battisti passò alla Numero Uno, debuttando con il 45 giri “La canzone del sole/Anche per te” e registrando negli anni seguenti album e singoli entrati nella storia della musica italiana.

Alla fine del 1971 firmò con l’etichetta la Premiata Forneria Marconi, gruppo nato dall’incontro tra i Quelli, transfughi dalla Ricordi, composto da alcuni tra i più noti session-men milanesi e il flautista Mauro Pagani, proveniente dai Dalton; il debutto della Pfm, così venne chiamato da subito il gruppo dalla stampa, fu con il 45 giri “Impressioni di settembre”/”La carrozza di Hans”, due brani epocali con la collaborazione di Mogol al testo del lato A, a cui fece seguito a gennaio ’72 l’album
“Storia di un minuto”. Il gruppo fu il primo tentativo della Numero Uno di lancio internazionale di un artista, grazie alla collaborazione con la Manticore, l’etichetta fondata in Inghilterra da Emerson, Lake & Palmer.

Il 1972 vide anche la pubblicazione di un 45 giri dell’ex cantante dei Ribelli, Demetrio Stratos, con due brani cantati in inglese “Daddy’s Dream”/”Since You’ve Been Gone”, di cui il primo fu inciso nello stesso anno da Mina con un testo di Lauzi, “L’abitudine”. E proprio alla Numero Uno nacque in Stratos l’idea di formare gli Area, registrando una session per l’album di Alberto Radius da solista del ’72 insieme a Giulio Capiozzo, Patrick Djivas e Gaetano Leandro in un brano intitolato appunto Area.

Nel 1973 Mogol decise di acquistare un vecchio mulino ad Anzano del Parco in provincia di Como, e lo fece ristrutturare per allestire in gran parte di esso uno studio di registrazione all’avanguardia, e nel resto della costruzione le stanze da letto per gli ospiti, i saloni e la cucina, data in gestione ai genitori del batterista Gianni Dall’Aglio: nacque così lo studio il Mulino, che divenne il riferimento per la Numero Uno ma fu usato anche da artisti di altre etichette, come i Pooh. Lo stesso anno debuttò con l’etichetta il cantautore milanese Eugenio Finardi, che pubblicò il suo primo 45 giri con due brani rock in inglese, “Spacey Stacey”/”Hard Rock Honey”, per poi passare alla Cramps. Nello stesso periodo si sciolse la Formula 3 e Radius e Lorenzi diedero vita a un nuovo gruppo, Il Volo, con Dall’Aglio, Bob Callero al basso, Vince Tempera e Mario Lavezzi; vennero pubblicati due album, il primo cantato e il secondo strumentale, ma le vendite non furono soddisfacenti anche per la scarsa promozione.

Alla fine del ’74 Mogol scelse di cedere interamente la Numero Uno all’Rca per 400 milioni di lire e alcuni personaggi dello staff decisero quindi di abbandonare l’etichetta e accettare le proposte di altre label portandosi dietro alcuni artisti: Mara Maionchi passò alla Ricordi e la seguì Gianna Nannini, che era appena entrata come cantante nei Flora Fauna Cemento facendo in tempo a incidere un 45 giri e a partecipare nel ’74 a “Un Disco per l’Estate” con “Congresso di filosofia”; Franco Daldello si trasferì alla Cgd convincendo anche il chitarrista-cantante Umberto Tozzi, che aveva appena inciso con la Numero Uno un album con il suo gruppo, i Data.

Negli anni seguenti la Numero Uno, di fatto diventata una sussidiaria dell’Rca, continuò a pubblicare i dischi di Battisti e di qualche nuovo artista, come il cantautore triestino Gino D’Eliso e Mara Cubeddu, ex cantante dei Daniel Sentacruz Ensemble, ma i più rilevanti furono senz’altro il percussionista napoletano Tony Esposito con “Rosso napoletano” (1975) e “Processione sul mare” (1976) e Ivan Graziani, ex Anonima Sound, con i suoi album storici: “I lupi” (1977), “Pigro” (1978) e “Agnese,
dolce Agnese” (1979).

QUI l’articolo originale:

https://www.rockol.it/news-718206/numero-uno-1969-1974-la-storia-di-cinque-anni-di-successi?refresh_ce&fbclid=IwAR0-0unOyKv9BrcVbRx83hdObV7UBjN1LzveWNsbGUJKDBzjnruKqG-n87o

Penultimi – recensione di Camilla Longo Giordani su Frammenti

Penultimi – recensione di Camilla Longo Giordani su Frammenti

Chi sono i «Penultimi» di Francesco Forlani?

Un filo fatto di attrazione e compassione sembra legare Francesco Forlani alla metropoli e alle sue dimenticanze, sentimenti che l’autore indaga nel pieno della loro ambivalenza e complessità, attraverso le diverse angolazioni che assume nel suo quotidiano e silenzioso osservare. Se a ogni diversa traiettoria di sguardo corrispondono pari reazioni e sentimenti, Forlani in Penultimi si fa ricettacolo e interprete di un vasto e stratificato sentire.

Penultimi di Francesco Forlani (Miraggi edizioni, acquista) si presenta al lettore come un libello prezioso, una miniatura di grazia estremamente curata nei minimi dettagli. La pubblicazione raccoglie brevi e compiuti momenti narrativi in edizione bilingue: l’originale in francese con striature napoletane a opera dell’autore campano e parigino di adozione, affiancato dalla traduzione in italiano di Christian Abel. I testi di rigorosa brevità – poesie, haiku, pagine di diario strappate, prose poetiche, interstizi – sono intervallati da fotografie in bianco e nero, scatti sbilenchi e accidentali di uno smartphone agli angoli di Parigi. La lingua scelta da Forlani è alta, ricercata ma non per questo meno multiculturale o metropolitana, poiché sa combinare tra loro linguaggi diversi e convogliarli in un andamento lirico coeso, creando così una lingua poetica che trasfigura ed eleva a oggetto poetico anche la materia di cui parla, i Penultimi, al punto da rendere il monte Parnàso, sacro ad Apollo e da cui per tradizione mitica sgorga una fonte sacra alle Muse, il «regno di déi penultimi».

Penultimi, presenze silenziose che persistono lungo i margini, «tre boccioli di rosa sulla piattaforma, in pieno \ inverno \ di piena neve», sono coloro che appartengono alla dimenticanza, dimenticati dagli altri e dimentichi di sé, «senza memoria alcuna della faccia». Sono coloro che a bordo di un vagone di treno in ritardo mattutino non vengono chiamati dai datori di lavoro, perché nessuno si è accorto della loro presenza «oltre l’assenza». Sono un intatto «specchietto \ da bagno sul marciapiede» destinato allo sgombero, che in silenzio assiste ai nostri ignari passi, sono «due amici sulla strada coricati» o «due amanti sopra un materasso». In relazione ai Penultimi, Forlani si fa cantore del rimosso, essendo insieme spettatore e protagonista, come lo dimostra il repentino passaggio alla prima persona plurale del componimento 25.:«Come penultimi oggi eravamo tanti», per chiudersi «Così ci diamo al mondo anche noi». Allora la runner che corre tra le vie asfaltate è cantata subito dopo i «commessi viaggiatori» e il signore che «a prima vista pare normale» «se non avesse per calze delle buste \ di plastica che dall’orlo sbuffano».

Trovare univocità di messaggio o di sguardo in Penultimi non è possibile né auspicabile: Francesco Forlani in queste brevi opere finite accoglie il lettore al suo fianco e gli mostra quello che lui vede, e soprattutto come lo vede, ogni giorno. Dalla lettura di Penultimi non bisogna aspettarsi una partenza e un approdo, precisi interrogativi e lucide soluzioni, pena la delusione e l’incomprensione; quello che ci richiede il libro è più semplice: un affido viandante e flaneuristico.

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Penultimi sfugge dunque all’univocità, come ne sfugge la realtà che è suscettibile allo sguardo, e quello che si vede oggi, non sarà ciò che ritroviamo domani: una questione di prospettive. Ci sono pieghe dei nostri paesaggi quotidiani che rimuoviamo alla vista, svaniscono dalla nostra realtà oggettiva, con l’eventualità che passi una vita intera senza che si riesca, o semplicemente si possa, vedere quello che si accumula ai lati delle nostre orbite. Ed è qui che interviene la letteratura, e in questo particolar caso la lettura di Penultimi, per togliere il velo e indirizzare fasci di luce su dettagli sfocati. Anche al saper guardare serve un certo esercizio, e alla questione di prospettiva si unisce anche una questione di attenzione:

Ho pensato a tutte quelle volte che mi è capitato di percorrere una spiaggia a sera deserta, fuori stagione, un campo di calcio dimesso, un luogo qualunque abitato dalla compresenza di quello che era in un tempo prima nel pieno e di quello che appariva ora nel dopo.


Francesco Forlani dimostra in questi componimenti due o tre grandi doti di narratore, l’attenzione di osservanza e un senso compassionevole, scevro di patetismi, che ci riporta d’un tratto, oltre la geografia e alla temporalità, al sentimento corale che riempie le vie di Conversazione in Sicilia.

«Basta un sorriso, davvero poca cosa, al penultimo \ incrociato o seduto a una fermata o nel clic-clac \ dei portali dei convogli», riflette Forlani nel suo vagabondaggio crepuscolare casa-lavoro. Di fronte al riconoscimento di esistenze penultime, nasce nell’autore un sentimento collettivo, che accosta all’estraneità la compartecipazione ma anche la gratitudine. In particolare quest’ultima si presenta come una predisposizione peculiare e interessante, che riconosce al penultimo la sua funzione precisa e importante in una metropoli alienante che si sta facendo sempre più desertica: «Fino a quando ci saranno i penultimi questo vorrà dire che c’è ancora margine per l’umanità, che non siamo giunti alla fine del viaggio, al termine della notte».

In linea con la materia poetica è la scelta dell’ambientazione che fa da cornice ai componimenti. Ogni frangente è ambientato ai margini del giorno in un perenne paesaggio crepuscolare, dall’«alba buia» che si confonde con la «fine del giorno», immersi in un «istante di luce sospeso» che si tinge di «pastello, in un virato seppia» e toglie il colore della differenze che fa la luce del giorno. I luoghi sono i treni, i vagoni vuoti o affollati della metrò, le strade stanche alla fine della giornata, quando capita di incontrare e prestare maggiore attenzione ai penultimi: «Lei dormiva sottocoperta e lui periscopiava il mare d’asfalto come un naufrago perlustra le distese d’acqua in attesa di aiuto».

Libro dalla natura composita, nella forma e nella sostanza, le ultime pagine di Penultimi si allontanano dall’impressione narrativa e si dipanano in una prosa di più ampio respiro, ma che non tralascia l’enigmaticità lirica, in cui trova spazio l’interrogativo – «Quando è cominciato tutto questo?» – e la riflessione ragionata:

Ammettere che la pietra gettata ha scalfito il tratto, ridotto il camminamento, costretto a levare i ponti e ficcato la mente nello specchio d’acqua putrida del fossato che ci separa e unisce a loro dal lembo a lembo delle forze schierate in campo.

Nonostante Forlani ponga lo sguardo diretto sulle atrocità del presente e ne riconosca l’inumanità, «perché inumano non è immaginare la morte ma immaginarsela trascinando con sé altri destini che non ci appartengono», persiste fino in fondo il sentimento di compassione, gratitudine e vitale fiducia nel genere umano che tiene insieme un libro multiforme e irrimediabilmente romantico:

Basta il pensiero di queste cose e quelle a far sollevare lo sguardo, a osservare meglio di fuori sporgerti per scoprire che quelli che sembrano i tratti ingrugnati del nemico sono solo il riflesso del tuo stesso volto nell’acquitrino di cinta e che un solo rimedio al fronte interno vale a quel punto, liberare il portale, calare il ponte, issarsi a riveder le stelle e respirare forte e dire: vita, ehi vita mia, urlare: grazie.

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La pianura degli scherzi – recensione di Lorenzo Mazzoni su Il Fatto Quotidiano

La pianura degli scherzi – recensione di Lorenzo Mazzoni su Il Fatto Quotidiano

Libri, dall’Argentina arriva una sfida avvincente: ‘La pianura degli scherzi’

Muoveva all’attacco, prendeva fiato; apriva le gambe e la fessura vaginale si dilatava formando un cerchio che lasciava affiorare un uovo piuttosto appuntito, che era la testa del bambino. Dopo ogni spinta sembrava che la testa sarebbe uscita: minacciava, ma non usciva; arretrava come il rinculo di un fucile, il che per la partoriente significava il rinnovo centuplicato di ogni dolore. Allora, il Folle Rodríguez, nudo, con la terribile frusta attorno alla vita – il Folle Rodríguez, padre di quello sgorbio infingardo, precisiamo – piantava i suoi gomiti nel ventre della donna facendo sempre più forza. Eppure, Carla Greta Terón non partoriva. Ed era evidente che ogniqualvolta quello sgorbio attuava la sua agile ritirata, lacerava – in definitiva – le dolci viscere materne, la dolce pancia che lo conteneva, che non riusciva a vomitarlo. Veniva a crearsi una nuova lacerazione nel suo otre“.

Uscito per Miraggi Edizioni nella collana Tamizdat (progetto curato in collaborazione con Francesco Forlani e Francesco Ruggiero, che raccoglie traduzioni di autori di alta qualità letteraria che difficilmente arriverebbero al lettore italiano del mercato editoriale mainstream), La pianura degli scherzi, dell’argentino Osvaldo Lamborghini (a cura di Vincenzo Barca e Carlo Alberto Montalto) è un testo (o meglio, una sequenza di testi da capogiro) complesso, a tratti difficile. Una sfida avvincente per un lettore. Un gioco infinito di nomi e parole, un linguaggio che passa dal formale all’informale con una naturalezza spiazzante, un registro gergale e un registro aulico che si ritrovano a battagliare, a lusingarsi l’un l’altro.

Ne La pianura degli scherzi convivono le innumerevoli influenze stilistiche che hanno formato lo stile originale e unico di Lamborghini, uno stile che sembra rifiutare la linearità della prosa tradizionale, e che trasforma la psicoanalisi freudiana, il post-strutturalismo di Lacan e il libertinismo del marchese de Sade in qualcosa di nuovo, gaudente, viscerale. Uno stile che assorbe il lettore. Leggendolo, tre autori mi sono venuti in mente, con le enormi e sostanziali differenze narrative e lessicologiche che li dividono, ma accomunati dallo stesso coraggio di arrogarsi il diritto di essere se stessi: Pedro Lemebel, Severo Sarduy e Louis-Ferdinand Céline.

Perché il godimento era ormai stato decretato lì, per decreto, in quei pantaloncini sorretti da una sola bretella di un cencio grigio, lercio e sfilacciato. Esteban gliela strappò e restarono all’aria le natiche senza mutande amaramente malnutrite del bambino proletario. Il godimento era lì, ormai decretato, ed Esteban, Esteban con una sola manata strappò la lurida bretella. Ma fu Gustavo a gettarglisi addosso per primo, il primo ad avventarsi sul corpicino di Storpiani! Gustavo, che sarebbe poi stato il nostro leader nell’età matura, in tutti questi anni di fallita, storpia passione: lui per primo conficcò il vetro triangolare lì dove cominciava lo spacco del culo di Storpiani! e ne prolungò il taglio naturale. Schizzi di sangue si sparsero in ogni direzione, illuminati dal sole, e il buco dell’ano si inumidì senza fatica come per facilitare l’atto che preparavamo. E fu Gustavo, Gustavo a trafiggerlo per primo col suo fallo, enorme per la sua età, troppo affilato per l’amore“.

L’opera di Osvaldo Lamborghini non è facilmente raggruppabile in categorie generiche, poiché abbraccia e combina elementi di poesia, prosa e teatro. Figura radicale e a tratti clandestina nell’Argentina peronista e post-peronista, una delle anime delle avanguardie del Paese sudamericano prima che il regime militare devastasse un intero tessuto culturale e sociale e facesse diventare di gran moda i voli di sola andata sul Rio della Plata e sull’Oceano Atlantico, Lamborghini con il suo neobarocco per il volgo, le sue eccentricità linguistiche, le sue divertenti trovate, il ritmo forsennato delle sue parole è senza dubbio uno scrittore da scoprire, e La pianura degli scherzi un’opera che va senz’altro letta.

In sospeso, il prezzo del pane. In sospeso, la quotazione del miele delle api del Libano, che non libano più. «Riso con latte? Vogliamo tornare a Treblinka!». Ai palestinesi manca qualcosa, è il Dottor Mengele che manca ai palestinesi? È terribile il dolore di (questo) amore. È terribile il fallimento di un’arte amata, per esempio questa. Ma niente di equiparabile all’espulsione dal partito. La porta si chiude, camminare, giungere fino all’angolo. E fino all’angolo si giunge, fino a quest’angolo. Punto: divieto, il semaforo rosso, di un rosso vivo, un fuoco che estrarrebbe nei dal nulla. Ogni neo sarebbe un nuovo principio (solare). In quest’angolo si mozzica il filtro della sigaretta. Una poltrona in un cinema: la guerra. La Germania intera si mobilita. È formidabile. L’Argentina (Argentina, Argentina!) specula sulla caduta dell’impero britannico. La Polonia schiacciata, così è la vita. Silenzio. Silenzio nell’oscurità, oscurità nel silenzio, una mano indifferente (…) I cingoli dei carrarmati e la lampo del pantalone lottano contro ostacoli simili, imprevedibili monticelli, fossi. Ma comunque: comunque. Qui il pene eretto, lì la svastica che sormonta l’Arco di Trionfo (di catrame). Lo stesso grido di ricchioni percorre tutto il pianeta. Stiamo trapiantando organi. Le Malvine nel cuore di Buenos Aires. Nel chilometro Zero. Il debito esterno in un bosco pietrificato“.

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Chiedi a papà – recensione di Lorenzo Marotta su La Sicilia

Chiedi a papà – recensione di Lorenzo Marotta su La Sicilia

“Chiedi a papà”, un bellissimo romanzo sull’enigma di ogni singola esistenza

Un romanzo intenso e coinvolgente “Chiedi a papà” del ceco Jan Balabán, edito da Miraggi 2020 nella bella traduzione di Alessandro De Vito. Pubblicato nel 2011, un anno dopo l’improvvisa morte dell’autore, con una Nota dell’amico e poeta Petr Hruška al quale aveva consegnato il manoscritto nella versione definitiva. Al centro della narrazione la morte dell’anziano medico Jan Nedoma nello stesso ospedale dove aveva lavorato. Con lui i suoi tre figli, Hans, Emil, Katerina, e la moglie Marta, alle prese non solo con l’evento luttuoso, ma anche con le accuse contro di lui di corruzione e di complicità con il regime comunista da parte di uno dei suoi migliori amici. Un’ombra sulla condotta del padre e del marito che mette in moto il flusso dei pensieri dei parenti, ciascuno a vivere la perdita attraverso l’intreccio di ricordi, di dialoghi, di monologhi interiori, di riflessioni, sul tema della vita e della morte, la sua unicità e irrimediabilità. Un’immersione dello scrittore nelle pieghe indecifrate dell’animo umano dinnanzi al mistero della morte, di quella morte. Il venir meno, in quell’istante, della luce, anche quando, come per Jan Nedoma ed altri malati, attaccati ad una macchina per dialisi. Luogo della narrazione la città mineraria di Ostrava, tra veleni di fumi, vodka, divorzi, menzogne, solitudini. Singole esistenze che si trascinano tra lavoro, delazioni, corruzione e privilegi della nomenclatura comunista.  Un romanzo che non ha una trama lineare, per il dispiegarsi del tumulto di pensieri e di visioni oniriche dei protagonisti, resi con grande bravura immaginativa da parte dell’autore. L’incipit è dato da un canile affollato di randagi malridotti, il cui grido è sopraffatto dallo stridore acuto di un treno in corsa. Emil è lì con la moglie Jeny in cerca del cane da portare a casa. Ma a prevalere è “la porca memoria”, la stessa di cui un tempo andava orgoglioso. Un rincorrersi e accavallarsi di ricordi, di visioni, che attraversano la mente e agitano i sogni anche degli altri fratelli. Dettagli di vita nel ricordo del padre, tante sequenze di episodi accaduti, di atti mancati. Un racconto che procede per immagini, evocate attraverso poetiche descrizioni sulla luce all’inizio del crepuscolo, di percorsi nei boschi, di gigli nei campi che nessuno vede, di notti buie come l’impotenza della malattia che prelude alla fine. “E così avevo caracollato fino a casa dall’ospedale dove mio padre non poteva più alzarsi, tantomeno riprendere il suo letto”. Un bellissimo romanzo sull’enigma di ogni singola esistenza, nei suoi legami famigliari, sospesa fin dall’inizio nella sua unicità, tra luce e ombra, con la paura del distaccarsi progressivo della vita.

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Langhe inquiete – recensione di Raffaele Viglione su IdeaWebtv

Langhe inquiete – recensione di Raffaele Viglione su IdeaWebtv

“Langhe inquiete”, prima vera prova di narrativa pura per Marco Giacosa

Lo scrittore Marco Giacosa (foto a destra), che ci piace considerare “un albese in prestito alla città di Torino”, ha appena pubblicato, con Miraggi edizioni, Langhe inquiete (foto sotto), sua prima vera prova di narrativa pura, dopo al­cuni racconti usciti nel 2014, che si aggiunge a “L’Italia dei sindaci”, un saggio d’attualità, scritto come fosse un lungo reportage, “Disasterchef” e “Il pranzo di nozze di Renzo e Lu­cia” che sono libri atipici: il primo è composto da micronarrazioni, rac­conti brevissimi con i me­de­simi protagonisti dall’inizio alla fine: i giudici del famoso programma Tv Ma­sterchef e l’io narrante; il secondo è la riscrittura, scena per scena, dei Pro­messi sposi, con una lingua della strada, contemporanea, «diciamo che al “plot” lì ci ha pensato Ales­sandro Manzoni», ironizza lo stesso Giacosa.
Langhe inquiete è una collezione di racconti autobiografici, dall’infanzia ai giorni nostri o quasi. Episodi minimi o e­normi (come la malattia della madre e la morte dei genitori), mai marginali, sempre personali, in cui però, chiunque può trovare un qualcosa di sé. Con la particolarità che, pagina dopo pagina, la scrittura adotta uno stile più articolato, avanzando di pari passo con l’età del protagonista dei brani narrati.
«La maggior parte del libro è costituita da parole scritte nel corso di un tempo che ha un inizio e una fine, dal 2010 al 2012», ci spiega l’autore «quando avevo molto da dire, mi esplodevano dentro le cose, e le ho dette con la scrittura di quel tempo, con gli strumenti che avevo allora. Quelle parole so­no rimaste lì per qualche anno, poi le ho riprese e le ho riviste (di­ciamo “risuonate”?) con gli strumenti che ho adesso, però non le ho toccate molto, non ho riscritto niente, per non togliere loro, appunto, l’anima. Diciamo che ho tolto qualche ingenuità».
Sul perché dell’inquietudine del titolo, Giacosa precisa: «Diciamo che sono inquiete le Langhe che io proietto nella mia mente: quindi ero forse io, inquieto, ma perché erano loro, le Langhe, che mi inquietavano, nella mia condizione di figlio di quella terra». E il suo essere figlio di questa terra torna anche nei ringraziamenti con cui si chiude il libro: Beppe Fenoglio e Michele Ferrero (di cui si parla più volte nel testo) in cima a tutti. Sull’ordine scelto, lo scrittore chiosa: «Sono andato dal grande al piccolo, che però, essendo mio, è per me più rilevante. Fenoglio è generico, è un’opera; Ferrero è una filosofia, quella filosofia ha fatto molto per le Langhe e per la mia famiglia (parlo di welfare, non di stipendio). Passo poi a persone che nessuno conosce, che per me sono importantissime, fino a mia moglie».