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VANILLA ICE DREAM – recensione di Lorena Carella su Exlibris20

VANILLA ICE DREAM – recensione di Lorena Carella su Exlibris20

Scritto da Roger Salloch nel 2019 e pubblicato dalla Miraggi Edizioni, nella collana tamizdat, nel 2020, Vanilla Ice Dream è un romanzo distopico sull’America di un ipotetico 2021.

Uno scenario abbastanza immaginario eppure contrassegnato, al suo interno, da dettagli che fanno presagire le discontinuità di un presente portate allo stremo.

Protagonista della vicenda è Carter Hollmann, uno scrittore di viaggio che rientra in America dopo anni all’estero.

“Non era trascorso nemmeno un mese dal suo rientro a casa e Carter aveva già la sensazione che l’attuale regime avesse trasformato l’America in un guscio…”, un guscio che aveva le sembianze di una terra “antica e sconosciuta” in cui notava di perdere le parole fino a non riconoscersi quasi più.

Il Paese che ritrova, infatti, pare essere stato trasformato dalla presidenza di un uomo bianco “con una messa in piega arancione”; in cui il razzismo, che conosceva anche indirettamente essendo stato sposato con Meredith, una donna di colore, è diventato qualcosa di accuratamente organizzato.

Ciò che sconvolge Carter è la cupa e profonda indifferenza nella quale il Paese è precipitato; un’indifferenza che all’inizio del romanzo notiamo tutta nel racconto della morte di un ragazzo nero investito da un furgone dopo, forse, essere stato sorpreso a rubare in un negozio e cacciato via dal titolare. Un avvenimento tragico che, tuttavia, pare non coinvolgere e sconvolgere nessuno.

“L’autista del furgoncino suonò il clacson. Il suono era quello di un basso cupo in una scala musicale. Ma la sua voce era stanca. Già successo, già fatto, già investito ragazzini neri, le anime oppresse hanno a malapena un corpo all’inizio.”

È proprio la visione di questa scena a inaugurare l’intera vicenda: un’azione quotidiana ma, al contempo, l’esemplificazione, tragica, di una condizione umana ben più ampia.

Le rivolte razziali e la connivenza nei confronti di azioni come questa minano e marcano, altresì, il contesto sociologico col quale Carter Hollmann si confronta.

Spinto da due amiciRachel e Bob, piuttosto indifferenti ai problemi sociali, Carter inizia a lavorare in una scuola di scrittura dove tra gli allievi conosce e stringe amicizia con Julio Orijniak.

Portoricano per metà di nascita e con alle spalle un’infanzia burrascosa, caratterizzata da quello che egli chiama mal de ojo, Julio si guadagna da vivere lavorando per una compagnia di traslochi impegnata ad aiutare le famiglie nere a trasferirsi in insediamenti protetti.

Tutto questo fa anche parte di un progetto sviluppato da Mandy Lemmour, datore di lavoro di Julio, un vecchio uomo benestante costretto a letto.

I fotografi lavorano con Julio scattando immagini di questi insediamenti protetti destinati agli uomini di colore per fornire materiale visivo a un videogioco. Tra di loro c’è anche Meredith, l’ex moglie di Carter, dalla quale lo stesso divorziò dopo un violento litigio che causò all’uomo l’allontanamento dalla figlia.

Il videogioco, basato su quello che viene chiamato l’incidente del Lago Michigan, mette in luce il lato oscuro del Sogno Americano dove capitalismo e razzismo congiurano a un inquietante esperimento di ingegneria sociale. Una nuova dimensione si aggiunge quando alcuni personaggi governativi vengono coinvolti, usando il gioco per iniziare un registro nazionale di famiglie nere.

Domande, riflessioni, visioni, si concatenano così nella mente di Carter, descritto come “il miglior commentatore della realtà in circolazione” che, pertanto, dovrà fare i conti con ciò che vive e con l’amore: da un lato quello naufragato per Meredith, dall’altro quello per Catherine che conosce da sempre.

Un racconto che alterna immagini presenti e passate e che rivive scostante, discontinuo nella descrizione delle stesse, proprio come fossero tutte fotografie, protesi cognitive di quanto giornalmente vediamo o vogliamo vedere.

In tal senso, viene quasi naturale un parallelo tra il personaggio di Carter Hollmann e quello di Thomas, protagonista del film di Michelangelo Antonioni Blow Up.

All’inquietudine di Thomas, caratterizzato dal regista padre del concetto di alienazione sul grande schermo come l’emblema di un personaggio che non si accontenta di riprendere cose straordinarie ma vuole indagare la realtà quotidiana spiandola quasi come da un buco della serratura per poterne così cogliere l’intimità più nascosta, fa da contrappunto il personaggio di Carter, anch’egli assetato di verità. Una verità che cela tutta nella scrittura, vista come lo strumento utile per “portare alla luce l’essenza di ciò che contava” davvero.

Uomini attivi eppur spesso distratti, disfunzionali nelle proprie emozioni e, al contempo, frenetici.

Nel Carter di Roger Salloch si evince tutta l’incapacità di rassegnarsi a un silenzio passivo e compromesso e di rimando, la volontà di osservare, raccontare il tutto da un altro, e nuovo, punto di vista per poter finalmente scoprire cosa “realmente sta succedendo qui”.

Emblematico il tal senso lo scambio di battute con Catherine:

“Catherine strinse la mano di Carter.
Pensi che potrei arrivarci? Le chiese.
Dove?
A essere di nuovo me stesso. Come il cuore di questo Paese. Come la canzone. Nonostante il Presidente. Il nostro mal de ojo. È possibile?”

Con uno stile controllato, asciutto, incisivo e una sintassi paratattica e fulminante quasi come scatti fotografici ripetuti, Vanilla Ice Dream, vuole porre le basi per un atto deliberato di resistenza, necessario a superare le pulsioni razziste di un Paese descritto in tutte le sue ombre e chiaroscuri, quasi a esorcizzare anche quella paura che attanaglia oggi la maggior parte delle persone.

Una paura incontrollata e che assume il volto di ciò che è diverso e ignoto: di un colore, di un credo religioso diverso, di diversi modi di descrivere lo stesso mondo.

A ricorrere più volte nel romanzo è il riferimento al capitolo quarantadue di Moby Dick, assegnato da Carter ai suoi studenti e assunto come spunto di riflessione da adottare nel quotidiano. In queste pagine Melville fa riferimento alla bianchezza della balena simbolo di tutto quello che può considerarsi oscuro e maligno.

“Guardavano alle cose come se fossero state scolpite nella pietra. Voleva che sapessero che c’è sempre un altro modo di percepirle, magati da una prospettiva completamente opposta. Le offese che si possono rivolgere a un uomo nero che si odia sono le stesse per un uomo bianco. Non c’è differenza tra negro bastardo e bastardo muso pallido. In pratica, voleva parlare loro dalla prospettiva opposta, opposta a quella da cui parlavano all’autorità del momento.”

Pienamente inserito nelle recenti rivolte razziali in America, Vanilla Ice Dream, nel suo intento profondo, sembra porsi parallelamente ai cori e agli striscioni del movimento Black Lives Matter, introducendo vicende che, seppur immaginare, sanno cogliere la più intima e spiazzante attualità.

Spiccata è la capacità analitica di un artista poliedrico come Salloch: narratore, sceneggiatore, fotografo e commediografo statunitense che vive e lavora a Parigi, autore già di Una storia tedesca (Miraggi, tamizdat, 2016) capace di fotografare e concatenare con maestria e rigore avvenimenti per creare storie che raccontano contrasti, implosioni, rimandi che parlano al presente ma anche alle nostre speranze e alle nostre più taciute fragilità.

Un romanzo importante e necessario.

Perché è arrivato il momento di non avere più paura.

Qui l’articolo originale:

PAGINA BIANCA – recensione a cura di Paolo Pera su Letto, riletto, recensito!

PAGINA BIANCA – recensione a cura di Paolo Pera su Letto, riletto, recensito!

Di fronte al libretto Pagina bianca (Miraggi Edizioni, 2020) di Gianluca Garrapa si possono avere sentimenti contrastanti, un lettore esigente come me troverebbe indigeribile una simile sperimentazione (non solo linguistica, ma soprattutto formale), eppure il compito del recensore – ripete sempre un mio amico – è trovare quel poco di buono ovunque, in ogni opera. Questa è stata la mia motivazione. Mi limiterò dunque a quelle cose che ho trovato realmente affascinanti, e pure a interpretare un poco la sperimentazione attuata in queste pagine.

Già dal titolo possiamo arrivare a intendere l’intento principale di Garrapa: disseminare la parola per il foglio, facendo sorgere (risorgere?) il bianco dello stesso. Già la poesia di per sé lavora molto sullo spazio non inchiostrato, altresì qui l’autore smembra la poesia sparpagliandone i pezzi. L’effetto parrebbe quasi brutale, e vorrebbe pure avere un intento evocativo: quasi come se la parola – in sé, nuda e cruda – dovesse racchiudere l’infinitezza raccomandata; l’autore – come chiunque sappia scrivere – deve conoscere la portata ontologica del linguaggio, ma un lettore diseducato a questa ricettività altresì trovandosi di fronte a un tale laboratorio si sentirà ben estraneo. In questo dismembramento v’è qualcosa di interessante che non riesco a cogliere appieno, ha però catturato la mia attenzione quella breve sezione intitolata “paese” dove si traccia (proprio in questi termini) una breve storia di quanto fu la nostra penisola nei tempi che ci precedono. 

Aggiungo in più che al fine di ogni percorso – che Garrapa compone a mo’ di novello Pollicino – ho avuto come l’impressione che il tutto dovesse suscitarmi una certa ilarità, soprattutto nelle svariate parole richiamanti i pasti quotidiani. Ciò fu parecchio piacevole, invero: quasi come le canzonature di un vecchio amico.

La parte che più si avvicina alla poesia, però, non ha a che fare con alcun tentativo di versificazione presente in questo testo, anzi sta ben piantato in quelle prosette (per lo più diaristiche) che partono giocose per concludersi tragiche. In queste, racchiuse per lo più nella sezione “Egli”, noto un buon ritmo in ogni micro-narrazione, e pure un espediente interessante: in fondo tali prose vorrebbero essere poesia (non che non vi sia la poesia in prosa, qui per poesia sto intendendo un’opera in versi), ebbene, il punto posto a ogni conclusione di frase prende – in Garrapa – il posto dello slash (che notoriamente occorre per posizionare sul rigo continuativo una poesia in versi). Aggiungo che tale sezione – “Egli” – è realmente uno scrigno di fantasia linguistica apparentemente nonsense, proprio per ciò gustosa e vasta.

Direi in conclusione che Pagina bianca sia un testo da leggere lasciando da parte qualunque intendimento vero di poesia, per aprirsi (e possibilmente beneficiare, dell’ironia per lo più) a questo tentativo ben studiato di stupire, che parte proprio dalla messa in dubbio della poesia stessa.

Qui l’articolo originale:

http://www.lettorilettorecensito.flazio.com/blog-details/post/94978/gianluca-garrapa—pagina-bianca—miraggi

GRAND HOTEL. ROMANZO SOPRA LE NUVOLE – recensione di Renzo Brollo su Mangialibri

GRAND HOTEL. ROMANZO SOPRA LE NUVOLE – recensione di Renzo Brollo su Mangialibri

Liberec, Repubblica Ceca. Fleischman vive e lavora dentro al futuristico Grand Hotel, costruito proprio sulla cima del monte Ještěd. Ci è entrato da ragazzino grazie al cugino Jégr, che lo ha trasformato in una specie di facchino tuttofare. Ora ha trent’anni e da quell’albergo ci esce poco. Ha un passe-partout che usa per entrare nelle camere degli altri e così conoscere le loro vite. A volte spia dal buco della serratura ciò che fa Jégr con le sue donne, buscandosi ogni tanto qualche scappellotto. Ma soprattutto Fleischman è appassionato di meteorologia, convinto che il tempo atmosferico sia la sola cosa che conti al giorno d’oggi nel mondo, perché capace di influenzare qualsiasi evento e situazione, persino la psiche umana, così come dice la sua dottoressa. Conosce ogni genere di nuvola, le loro trasformazioni, ciò che anticipano. Non è mai riuscito a lasciare la città di Liberec, da quando suo padre e sua madre sono morti in un incidente stradale, ma forse non è andata proprio così, e lui è finito al Grand Hotel. Ci ha provato più volte, salendo sopra un camion di passaggio, in taxi, ma non è mai arrivato oltre il cartello che indica la fine della città anche se, prima o poi, ce la farà. Ora ha anche una missione da compiere: aiutare il vecchio Franz, che zoppica e ha fatto la guerra, a riportare a casa i suoi amici, o quello che rimane di loro perché, come dice sempre Franz: uno deve finire lì dove è nato. Per questo, chiuse in alcuni barattoli, porta con sé le ceneri dei suoi compari che spargerà con l’aiuto di Fleischman dove ciascuno di essi è nato e cresciuto…

La morte è come il vento, pensa Fleischman. Perché il vento, meteorologicamente parlando, sta al principio e alla fine di ogni cambiamento del tempo; sposta le nuvole, come vite umane, da una parte all’altra del mondo. Così è la morte, se ci pensiamo bene, anche se il ragazzotto strano, mezzo matto e disadattato, è forse la persona meno indicata per raccontare un fatto di cronaca. Difficile credere alla sua attendibilità, che pare fragile come la fragilità delle nuvole, che non sono che polvere raccolta dall’umidità. Persino la scomparsa dei suoi genitori potrebbe non essere andata così come la racconta alla sua dottoressa. Ma prima o poi ci arriverà a dirla tutta, a descrivere la realtà e spiegare molte cose di sé. Il problema è a chi. Il bestiario di gente che lo circonda non è certo promettente. A Ciuffo, che sostiene di essere stato in America e vorrebbe ritornarci? Alla dottoressa, che però ama la storia dell’incidente stradale? O forse alla bella Ilja? Jaroslav Rudiš ci propone una storia bizzarra, piena di ombre e poche luci, proprio come un cielo nuvoloso tormentato dal vento, dove gli sprazzi di sereno vengono soffocati dal grigio della pioggia. Ma il giovane Fleischman è un personaggio carico di poesia malinconica, che per evitare di affogare nella melma della vita si aggrappa alla meteorologia, la sua sola arma contro gli uomini che lo sottovalutano e non lo apprezzano. Grand Hotel è anche una storia di confine, quello della frontiera ceco-tedesca, e di confinati in un luogo fuori dal tempo, aggrappato alla cima del monte Ještěd come un nido d’aquile. I brevi capitoli ci lasciano il tempo di riflettere sulla condizione di Fleischman che non aspetta altro che il vento buono che lo porti via da lì, questa volta per davvero.

Qui l’articolo originale:

https://www.mangialibri.com/libri/grand-hotel-romanzo-sopra-le-nuvole

I PELLICANI – recensione su Le parole e le cose

I PELLICANI – recensione su Le parole e le cose

[Esce oggi per la collana “scafiblù” di Miraggi Edizioni il romanzo I Pellicani di Sergio La Chiusa, finalista Premio Calvino 2019, Menzione Speciale Treccani. Ne presentiamo l’incipit e un estratto del secondo capitolo, preceduti dalla nota di Giulio Mozzi che accompagna il libro (it)]

Il giovane Pellicani è un chiacchierone. Si presenta una sera – una sera tardi – nella casa del padre, casa dalla quale si era allontanato – dopo aver sottratto certi risparmi da un certo cassetto – vent’anni prima. L’immobile, un condominio di sei, sette piani, è disastrato. Ma la scritta «Pellicani» sul campanello dell’ultimo piano c’è ancora; e la porta è appena accostata. Il giovane Pellicani – un completo grigio un po’ sdrucito, una valigetta ventiquattrore portata solo per darsi un tono – vuole fermarsi una notte e via, andare altrove: ha degli affari in Cina, sostiene. Il padre avrà dimenticato i fatti di vent’anni prima, lo accoglierà volentieri. Tuttavia nell’appartamento il giovane Pellicani trova solo un vecchio. Somigliante un po’, questo è vero, soprattutto nel naso, a Pellicani padre. Ma un vecchio, insomma! Va bene che sono passati vent’anni… Parla, parla, il giovane Pellicani, raccontando tutto ciò che fa, tutto ciò che vede, l’appartamento, la biancheria stesa in una stanza, la donna che tutti i giorni viene a cucinare il minestrone al vecchio; parla, parla, il giovane Pellicani, e noi lettori siamo presi in questa sua infernale chiacchiera, nel suo ostinato non credere a ciò che vede, nel suo ipotizzare, reinventare, spiegare, trasfigurare la banale realtà che gli si presenta davanti: finché ci arrendiamo, smettiamo di farci domande, non ci interessa più se il vecchio nella casa sia o non sia Pellicani padre, se l’uomo nello specchio sia il vero Pellicani giovane o un impostore: ci interessa solo abbandonarci al fervore di questa inesauribile chiacchiera. Rare volte la lettura di un romanzo dà tanto piacere per la scrittura in sé; e rare volte tanta ricchezza narrativa viene con tanta disinvoltura stipata in un solo romanzo, in un solo appartamento, quasi in una sola stanza.

Giulio Mozzi

* * * 

Non che avessi intenzione d’installarmi in casa sua, intendiamoci, ma i miei impegni m’avevano portato nei dintorni e mi pareva scorretto non andare nemmeno a vedere come se la passava. Tutto sommato era pur sempre mio padre. Mio padre? Ho detto mio padre? Lo ammetto, a volte mi lascio trascinare dall’entusiasmo. A ogni modo m’immaginavo la sorpresa: vedermi comparire dopo vent’anni, realizzato nonostante il suo scetticismo, e con tanto di completo grigio topo e valigetta da manager. Anche se va detto che il completo era un po’ sciupato, per via delle notti passate in trasferta, e la valigetta conteneva solo pochi articoli di cancelleria rubati in ditta tanto per non andarmene a mani vuote, e una mutanda di ricambio, anche, per gli appuntamenti importanti. Ma non ci avrebbe fatto caso: la gioia di rivedermi avrebbe messo in secondo piano i dettagli, e anche se c’eravamo separati in malo modo scambiandoci ingiurie sulle scale non m’avrebbe negato ospitalità per una notte. D’altra parte il tempo risolve tutto, risana i rancori, rimargina le ferite, e non era per nulla detto che rimuginasse an- cora sui risparmi che gli avevo prelevato dal comodino prima di partire, a titolo di liquidazione, per così dire.

« Mi trovavo a passare da queste parti per affari », avrei spiegato esibendo con noncuranza la valigetta, che ora stavo usando per ripararmi da una pioggerellina molesta che intanto che ragionavo sembrava rammentarmi con una certa minuziosa pedanteria che non avevo nemmeno un soprabito. Ma che importava il soprabito? Papà si sarebbe congratulato per la mia carriera di cui valigetta e completo grigio topo erano sintomi indiscutibili, io avrei minimizzato scrollando le spalle con aria superiore: « Ah, la valigetta dici? Sciocchezze, pensa che ho solo messo su un’impresa d’import-export, roba da nulla », e avrei chiesto se per caso c’era ancora il mio letto, lui sarebbe filato tutto contento a preparare la biancheria pulita per l’ospite illustre e tanti saluti. Al mattino sarei ripartito per la mia strada. Perché io, sia messo subito in chiaro, sono un individuo indipendente, e anzi metto l’indipendenza sopra ogni altro valore.

« Papà », mormorai, ma la parola mi era sembrata sconcia, e mi era morta sulla lingua lasciandomi un repellente sapore zuccheroso, come di sciroppo per la tosse. Mi ricomposi. Guardai meglio il tizio che, coricato su un letto matrimoniale, mi scrutava con due occhi terrorizzati. Mica era mio padre! Macché! Un vecchio era! E per di più aveva tutta l’aria di un paralitico, ridotto a un manichino dalla vita in giù. Che ci faceva un tale relitto in casa di mio padre? Come si permetteva di occupare il suo posto? Avevo la tentazione di aggredire il vecchio abusivo, ma mi trattenni. D’altro canto le cose non erano per nulla chiare. Potevo, per esempio, essere capitato in casa d’altri. Il nome sulla porta non provava nulla. Mio padre non era certo l’unico Pellicani in circolazione. Poteva benissimo trattarsi di un altro Pellicani… Un altro Pellicani? Mi veniva da ridere a pensarci. Ma la cosa m’intrigava tutto sommato. Mio padre si levava subito di torno. Del resto, che voleva? Non ci vedevamo da vent’anni! Doveva intromettersi proprio ora? In ogni caso, restava da capire chi era costui. Un Pellicani legittimo? Uno che occupava il posto che gli competeva? Rinsecchito, prosciugato, ridotto per così dire all’osso, aveva invero una cert’aria da individuo non del tutto in regola: sembrava insomma un renitente, uno che resisteva illegalmente al mutamento dei tempi e invece di rispondere all’appello del mercato se ne stava per conto suo, dedito magari a una vita contemplativa che non era in linea con le politiche vigenti: mentre lo scrutavo sembrava muovere le mandibole a vuoto, come impegnato in una sua ruminazione incessante e puntigliosa.

« Buon appetito », dissi, e poi, per rassicurarlo, visto che mi fissava con un’aria preoccupata, aggiunsi che ero diplomato in ragioneria e che sapevo come comportarmi in casa d’altri, e rimarcai quel “casa d’altri” come per caricarlo di sottintesi, che però io stesso non avevo compreso. A dire il vero non avevo le idee chiare. Improvvisavo e stavo sul vago circa le ragioni della mia visita e in attesa che il vecchio rivelasse per primo le sue intenzioni investigavo, tastavo il terreno, chiedevo se non fosse imprudente passare la notte con la luce accesa e la porta aperta, se la luce non potesse per esempio attirare in casa individui molesti, e intanto gli camminavo per la stanza con la mia valigetta leggermente sgocciolante e notavo che intorno alla lampada da letto ruotavano come indemoniati certi insetti minuscoli: « Di questi tempi non si sa mai chi può capitarti in casa », continuavo allusivo, perché avevo come il sospetto che aspettasse qualcuno e che non avesse lasciato la porta aperta senza ragione. Il vecchio però non si lasciava scappare nulla. Doveva avere un carattere chiuso, reticente, e così ostinato che per convincerlo a svelare i suoi piani ci sarebbero volute tecniche d’interrogatorio avanzate, e manette, catene, cavi elettrici e altri strumenti sofisticati di cui ero sprovvisto. Anche se a dirla tutta sembrava più che altro un paralitico che aveva perso l’uso della parola, magari per merito di un ictus provvidenziale che gli aveva strappato per sempre i tormentosi dilemmi del linguaggio. Mentre investigavo tra le medicine ammucchiate sul comodino in cerca d’indizi, il vecchio, notavo ora, andava schiacciando con una mano una pallina antistress, come se la mia comparsa l’avesse messo in uno stato d’agitazione.

D’altro canto era comprensibile che diffidasse dello sconosciuto che s’aggirava per casa con la valigetta e che dal suo punto di vista d’ottantenne, e per di più paralitico, poteva passare per un messaggero dei tempi nuovi, uno di quei rottamatori che vanno casa per casa a raccattare ruderi e anticaglie da portare al macero, un angelo della morte insomma che per rendersi più accettabile e stare al passo coi tempi s’era mascherato da uomo d’affari invece di manifestarsi nel costume tradizionale di scheletro incappucciato con tanto di falce da tetro mietitore, che, montando un tristo cavallino grigio, anch’egli tradizionale, e quindi scheletrito e spelacchiato, sarebbe stato costretto ad arrancare inverosimile nel traffico sulla sua cavalcatura svogliata e claudicante e sorbirsi pure le lamentele degli automobilisti, anche per via degli escrementi che il cavallino disseminava per strada, come per protesta – e d’altra parte come non capirlo, il cavallino: la vecchiaia, i polmoni oppressi dall’inquinamento, nell’animo il peso di un lavoro a tempo indeterminato per cui non provava una vera vocazione e che per di più comprometteva la sua immagine pubblica, e mentre trasportava penosamente il suo impresario ossuto certo nell’intimo suo vagheggiava un’altra vita, e nonostante l’età avanzata, i reumatismi, i primi sintomi dell’artrosi, s’immaginava magari d’essere scritturato per uno spot pubblicitario su qualche marca di shampoo e galoppare libero di tristanzuoli ingombri su una sterminata spiaggia atlantica portando allegramente in groppa una bell’amazzone bionda coi capelli al vento, e le natiche carnose e compiacenti, invece del cinto pelvico dell’impresario che gli straziava la pelle e gli ricordava a ogni passo il suo triste destino di subordinato e messo di sciagure… Ebbene, dicevo? Ah, licenziato il riluttante e lagnoso cavallino, peraltro obsoleto per via degli sviluppi nel settore dei trasporti, era giunto con un comodo suv nero dai vetri oscurati, l’aveva lasciato in un parcheggio sotterraneo e si era presentato in modo discreto, con tutti gli attributi della legalità e del libero commercio, tra cui appunto una valigetta piena di contratti e moduli vari. Anche se il vestito a ben vedere era stropicciato e rivelava che a dispetto della valigetta il tizio era dedito a lavori sordidi e manuali: nella giacca si notavano persino strappi e scuciture che lasciavano trapelare in una mente immaginativa sospetti di dispute, anche violente: le resistenze dei soggetti ormai superati, vecchi testardi che non volevano liberamente sottoscrivere il contratto che veniva loro proposto, e invece di lasciarsi prendere con un mite cenno di consenso, polemizzavano sino all’ultimo e lottavano persino accanendosi ridicolmente con le unghie contro il vestito del rottamatore salito dal regno delle ombre. Normale quindi che il vecchio stesse sulle sue. D’altro canto, anche l’arrivo a ora tarda, notturna, era equivoco e non si sposava con la legalità, incline invece alle ore diurne. Diffidare delle apparenze! Diffidare! mi dicevo complimentandomi intimamente con il vecchio che restava chiuso in un mutismo impenetrabile.

A furia di diffidare però mi venne il sospetto che costui non solo non era mio padre, ma nemmeno si chiamava Pellicani, che il nome sulla porta era parte di una messinscena e che ero vittima di un’oscura macchinazione. Provai a chiamarlo per metterlo alla prova. « Pellicani », dissi come sovrappensiero, mentre, senza mollare la valigetta, ma con le pantofole ai piedi, mi aggiravo per la stanza simulando interesse per i mobili, « Pellicani », e subito con la coda dell’occhio vidi sulla specchiera la testa di Pellicani voltarsi verso di me. Caso? Coincidenza? Riprovai: « Pellicani », e poi ancora: « Pellicani », « Pellicani », « Pellicani », andavo ripetendo camminando intanto per togliergli punti di riferimento, e tutte le volte il vecchio ruotava la testa con un movimento meccanico, come inseguendo il suo nome che volava inafferrabile da un punto all’altro della stanza. Bisognava riconoscere che rispondeva correttamente agli stimoli. « Allora, sei proprio un Pellicani? », chiesi infine fissandolo in volto. Il vecchio sembrava acconsentire con gli occhi, che gli si erano illuminati, invasi da una specie d’orgoglio di casta. Doveva trattarsi di un Pellicani autentico. Un Pellicani doc, per così dire. Anche se restava un che di dubbio in tutta la persona.

Qui l’articolo originale:

KRAKATITE – recensione di Eva Luna Mascolino su SoloLibri.net

KRAKATITE – recensione di Eva Luna Mascolino su SoloLibri.net

Miraggi Edizioni, 2020 – Grazie a Krakatike, Čapek si riconferma un caposaldo della letteratura ceca della prima metà del Novecento, capace di intercettare con largo anticipo le tendenze e i drammi collettivi che, seppure in maniera diversa, avrebbero interessato l’intero pianeta due decenni dopo.

Dopo la recente traduzione italiana de La fabbrica dell’Assoluto a cura di Giuseppe Dierna per Voland, nel mese di giugno è arrivato in libreria anche un altro suggestivo romanzo dello scrittore ceco Karel Čapek, questa volta inserito nella collana di letteratura boema NováVlna di Miraggi Edizioni. Si tratta di Krakatite, apparso per la prima volta nel 1924 e ora arrivato nel nostro Paese grazie allo straordinario lavoro sul testo di Angela Alessandri. La vicenda, che come spesso accade nella produzione dell’autore parte da presupposti fantascientifici ai limiti del distopico, si sviluppa su dei binari sempre meno prevedibili e riesce a intrecciare tematiche, livelli di interpretazione e significati di straordinaria pregnanza, in cui la fisica dialoga con l’amore, la chimica con gli interessi politici e l’economia con i ricatti morali.

La storia è quella del chimico Prokop, che un giorno si ritrova uno strano signore alle calcagna mentre passeggia sul lungofiume. Solo in un secondo momento capisce che si tratta di un vecchio compagno di studi non del tutto raccomandabile, Tomeš, anche se intanto una strana debolezza psicofisica gli fa perdere il controllo della situazione. Il risultato? Senza volerlo, prima di perdere i sensi, confida al suo interlocutore più di quanto dovrebbe, rivelandogli di avere inventato una polverina bianca perennemente a rischio esplosione: la Krakatite. Al suo risveglio, Prokop si accorge del fatto che la singolare invenzione, il cui nome si ispira al vulcano Krakatoa, è stata rubata con prontezza da Tomeš. Prova dunque a rintracciarlo e va fino a casa sua, ma l’uomo è scomparso con la sua potenziale arma di distruzione di massa e al suo posto sopraggiunge una giovane donna velata, che chiede a Prokop di aiutarla a ritrovare Tomeš per una questione di vita o di morte.

Da qui prende il via un’avventura singolare, durante la quale il protagonista perde più volte i sensi per via di problemi di salute, agguati ed episodi fra i più mirabolanti, e che di capitolo in capitolo lo portano a spostarsi per il Paese in un duplice tentativo disperato. Da un lato, infatti, vorrebbe dare una mano alla sconosciuta ed evitare che qualcuno perda la vita se lui non dovesse intervenire in tempo, mentre dall’altro lato vuole assicurarsi che Tomeš non venda all’acquirente sbagliato la sua Krakatite, trasformandola in una minaccia per la sopravvivenza della specie umana in un periodo – quello a cavallo tra le due guerre mondiali – particolarmente teso dal punto di vista diplomatico. Così, se da una parte il chimico è sfortunato perché non riesce a ritrovare il ladro in nessun modo, è pur vero che la sua ricerca lo porta a conoscere altre donne di cui si innamora perdutamente e a rimanere l’unico in grado di produrre nuova Krakatike, oltre a conoscere fino in fondo i meccanismi di funzionamento.

La sua presenza e collaborazione vengono quindi contese tanto sul piano politico quanto su quello sentimentale tramite il ricorso a sotterfugi, scambi di persona, contrattazioni e dilemmi etici, in un intreccio mirabolante che mescola la speculazione tecnologica a numerosi altri elementi narrativi. Non per niente, optare per una scelta sana, ragionevole e prudente vuol dire talvolta rinunciare a una certa felicità personale, o ancora peggio sacrificare la propria libertà e sottomettere ogni singolo aspetto dell’esistenza al controllo di gente ambigua e opportunista. Il labirinto in cui si muove Prokop è pertanto sprovvisto di segnaletica e lo incastra in una posizione continuamente scomoda e precaria: per tirarsene fuori senza ferire chi lo circonda o senza mettere in pericolo l’intera Europa non potrà appellarsi solo alle sue competenze da scienziato, ma mettersi in gioco con sangue freddo e creatività dalla prima all’ultima pagina.

Con un stile raffinato e al tempo stesso spassoso, che solletica e stimola la lettura con gli espedienti più moderni e originali, grazie a Krakatike Čapek si riconferma un caposaldo della letteratura ceca della prima metà del Novecento, capace di intercettare con largo anticipo le tendenze e i drammi collettivi che, seppure in maniera diversa, avrebbero interessato l’intero pianeta due decenni dopo. Riscoprirlo oggi, in particolare per merito della lodevole ricerca qualitativa di una casa editrice indipendente, significa riflettere sul secolo da cui proveniamo da una prospettiva inedita e osservare l’animo umano nelle sue più sordide sfaccettature. Il tutto, fra l’altro, riemergendo dalla lettura con meravigliosa e profonda leggerezza.

Qui l’articolo originale:

https://www.sololibri.net/Krakatite-Capek.html

CON BATA NELLA GIUNGLA – recensione di Paolo Ciampi su ilibrisonoviaggi

CON BATA NELLA GIUNGLA – recensione di Paolo Ciampi su ilibrisonoviaggi

Me lo ricordo come se fosse ieri il negozio di Bata a due passi dalla stazione e da piazza Santa Maria Novella, la serie di vetrine e l’insegna con le lettere rosso vive. Bata era un marchio conosciuto, quasi di casa. Le sue scarpe stavano nel mio mondo e non c’era altro d’aggiungere, niente che la curiosità potesse fiutare. 

Bata: un nome così semplice, così famigliare, che per me era un’azienda italiana, come la Nutella e il Mulino Bianco. Ci ho messo molto per scoprire che la sua storia comincia in quella che un tempo era la Cecoslovacchia per poi resistere alle guerre e alle dittature del Novecento. Che questa impresa con fabbriche e punti vendita in tutto il mondo discende da una modesta famiglia di calzolai. Che per scampare al nazismo e allo stalinismo a un certo punto l’Europa viene lasciata per la giungla del Brasile, dove anche una birra è nostalgia. E che questa destinazione non è solo fuga, non è solo investimento produttivo, è anche la possibilità di una nuova vita, in città comunità che nascono dal niente. 

Sì, tutto questo l’ho appreso solo l’altro giorno, immerso nelle pagine di Con Bata nella giungla della scrittrice ceca Markèta Pilàtovà, proposta da Miraggi con l’ottima traduzione di Alessandro de Vito (mi piace, per inciso, che il nome del traduttore figuri in copertina).

E’ una gran bella storia da leggere, questa, densa di personaggi affascinanti, umori vari, sviluppi imprevedibili tra due continenti e geografie più complicate del cuore e degli affetti. Un’avventura sempre riscaldata da una visione forte, quasi utopica, da impresa che non si limita a guardare solo i conti – più volte inseguendo Bata mi è affiorato il nome di Adriano Olivetti. Senza trascurare altri temi, importanti: il distacco dalla propria terra, la possibilità di far convidere dentro di noi anche un’altra patria, l’appartenenza che ci assegna la lingua, la fedeltà a noi stessi e alle nostre radici.

Eppure non si tratta solo della storia, ma del modo con cui è raccontata. Markèta restituisce vita, trasmette la verità che non è solo quella dei fatti accaduti. Costruisce un mosaico di sguardi e punti di vista e fa in modo che la sua voce diventi la voce di chi non c’è più. Adopera la prima persona persino per la fabbrica dismessa.

Questo libro adempie a ciò che a un certo punto afferma Dolores, una delle protagoniste. Noi siamo qui, possiamo essere qui, finché qualcuno pensa a noi. E questo succede ed è dono raro, bellezza che per una volta ci teniamo stretti.

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UNO DI NOI – recensione di Martino Ciano su sudDiario

UNO DI NOI – recensione di Martino Ciano su sudDiario

I racconti in versi di Daniele Zito

Un racconto in versi, uno scarno ma essenziale spaccato che tratteggia la banalità del male.

La pacchia non è finita, ma è appena iniziata. È una delle dichiarazioni più forti di questo libro e che dà inizio alle danze. Catapultati tra quattro amici che solo per gioco danno fuoco a una baraccopoli, diventiamo partecipi di un miscuglio di “frasi fatte”, di slogan da marciapiede, di inutile retorica sospinta dall’ignoranza. E sullo sfondo, il rimorso di uno dei quattro protagonisti, che sente il peso di un’azione vile che ha ridotto in fin di vita una bambina.

Proprio per la sua “profonda” banalità, perché il male è sempre il risultato di una superficiale lettura delle cose e dei fatti, questo libro fa riflettere. Tra queste pagine non vi è nessuna ricerca linguistica, nessun orpello, nessun dettaglio; vince la crudeltà, spicca l’ignoranza, trapela solo l’indifferenza. Anche nel tenue rimorso di uno degli incendiari si fanno spazio le giustificazioni che dovrebbero ridurre questo atto a una marachella andata male.

Daniele Zito ha raccontato in poche pagine una vicenda dei nostri tempi dando risalto al concetto di male. Ed è proprio questa prosa scarna che ci pone davanti all’essenza della malvagità che, in questo libro, non è solo “ispirata” dal contesto, ma è anche una prova di appartenenza a una comunità malata, guidata dagli slogan e immersa nella spettacolarizzazione dell’ovvietà e della banalità.

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QUATTRO GIORNI – recensione di Dino Aloi su Buduàr

QUATTRO GIORNI – recensione di Dino Aloi su Buduàr

Spesso si cerca di cambiare nome a qualcosa di conosciuto per renderlo migliore o più appetibile. È successo con i netturbini che da un giorno all’altro si sono trovati ad essere chiamati operatori ecologici, stesse mansioni e stessa paga, ma pennellata di freschezza sul nome. Sorte analoga è toccata al fumetto che da un po’ di anni viene chiamato graphic novel che altro non è che l’equivalente di romanzo a fumetti. Il piacere si è subito inspessito quando, sulla copertina del libro Quattro giorni ho trovato proprio la scritta “romanzo a fumetti”. E che romanzo! E che fumetto. La storia parte, infatti, da un romanzo di Marino Magliani che è un ottimo scrittore (oltre ad essere un apprezzato traduttore) che ha ricevuto numerosi premi, tra cui il Premio Selezione Bancarella nel 2019 e il premio alla carriera LericiPea nel 2012. Il racconto è stato amabilmente sceneggiato dallo scrittore e giornalista Andrea B. Nardi e poi disegnato dal bravissimo Marco D’Aponte, eccellente fumettista che abbiamo visto esordire negli anni Ottanta sulle pagine Orient Express, grande rivista di fumetti diretta da Luigi Bernardi. Sono passati anni e la bravura di D’Aponte si è ancor più raffinata nel tratto e nello stile. Delizioso davvero questo libro, che parte da una trama avvincente e si sviluppa con una sceneggiatura ben elaborata, con salti nel tempo che contribuiscono a rendere chiaro man mano lo svolgimento della storia. I disegni di D’Aponte, molto ben impaginati si basano su inquadrature cinematografiche che contribuiscono a dare un ritmo rapido allo svolgersi degli eventi. Una bella prova d’artista, la sua, conferma ulteriore di una grande professionalità raggiunta. Una storia che è anche un omaggio alla Liguria, così come descrive perfettamente nell’introduzione Dario Voltolini, non a caso altro abile scrittore: “Ligure” lo vedete subito cosa significa, leggendo quest’opera. Forse “ligure” è l’unico aggettivo topografico che invece di restringere e dettagliare il suo senso comprimendolo in un luogo (che in questo caso è di per sé stesso un luogo compresso tra montagne e mare), lo fa volare su tutto il pianeta dispiegandosi a categoria emotiva autonoma.

Forse straparlo, per amore del luogo. Ma qualcosa di vero penso che lo sto dicendo. Laddove il dolore resta incapsulato in una vita che continua, laddove le occasioni perdute vivono per il fatto stesso di esserci state, laddove qualcosa per essere detto bene ha senso che sia taciuto – e molti altri “laddove” ancora – l’aggettivo “ligure” arriva a spiegare perfettamente quello che c’è da spiegare.

Un bel lavoro di équipe che si avverte subito, con armonia e amalgama.

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QUATTRO GIORNI – recensione di Bruno Morchio su Il Secolo XIX

QUATTRO GIORNI – recensione di Bruno Morchio su Il Secolo XIX

Nonostante abbia imparato a leggere divorando giornaletti, che negli anni della mia infanzia e giovinezza riempivano le edicole, quando mi accosto alle forme attuali del fumetto lo faccio con l’animo del dilettante. Eppure, dopo aver letto Quattro giorni, il graphic novel tratto dal romanzo di Marino Magliani, pubblicato da Miraggi, con disegni di Marco D’Aponte e sceneggiatura di Andrea B. Nardi, sono rimasto affascinato dalla capacità degli autori di rendere quanto sembra più difficile esprimere in un fumetto: atmosfere e stati d’animo.

Il romanzo (Quattro giorni per non morire, uscito per Sironi Editore nel 2006), Gregorio Sanderi, che sta scontando in carcere una condanna per contrabbando internazionale di oggetti d’arte e che va incontro a morte certa; la sua unica speranza di salvezza è la terapia – nota solo a un medico di Città del Messico – che potrebbe salvarlo, ma a cui non gli è permesso di accedere. Così, durante la licenza concessagli per la morte della madre, decide di organizzare la fuga in Sudamerica dal paesino dell’entroterra ligure dove è nato e cresciuto. Il racconto dei quattro giorni che ha a disposizione per fuggire raccontano una Liguria di silenzi, luci e ombre del fondovalle, e il viaggio interiore dell’uomo nel proprio passato.

Un romanzo “letterario”, dalla trama esile, che attinge alle grandi lezioni di Calvino e Biamonti, e che costituisce una sfida temeraria per chi voglia trasferirlo nel linguaggio del graphic novel.

Eppure gli autori ci sono riusciti, utilizzando tra accorgimenti: un richiamo puntuale ed efficace a brevi frammenti del testo, il flashback come risorsa narrativa che dà corpo al travaglio interiore del protagonista, e un segno grafico che esalta il chiaroscuro degli anfratti del borgo, i primi piani del volto di Gregorio, la dimensione rarefatta dei ricordi infantili; così le atmosfere e gli stati d’animo che percorrono l’intero romanzo si ritrovano nella versione “graphic”, con una notevole forza e capacità di mobilitare emozioni nel lettore. Un romanzo che si ispira a certi canoni del noir (il personaggio principale è un pregiudicato, la storia è il tentativo di sottrarsi alla vigilanza delle forza dell’ordine), ma che è per gran parte giocato sulle continue corrispondenze tra paesaggio esterno e memoria )”C’erano già quelle palme? Non ricordo più nulla” dice Sanderi appena giunto a Imperia), e si snoda attraverso alcuni incontri fondamentali soprattutto quelli con il fratello e Lori, la ragazza amata in gioventù. La lettura cattura e avvince vignetta dopo vignetta, pagina dopo pagina, fino all’epilogo, senza dargli tregua. Un esempio riuscito di come la traslazione tra diverse forme espressive possa conservare l’essenziale e comunicare lo spirito dell’opera originaria.

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SANTI, POETI E COMMISSARI TECNICI – recensione di Sergio Taccone su La Sicilia

SANTI, POETI E COMMISSARI TECNICI – recensione di Sergio Taccone su La Sicilia

Nuovo prestigioso riconoscimento letterario per lo scrittore Angelo Orlando Meloni. Il suo libro Santi, poeti e commissari tecnici (Miraggi Edizioni) ha ottenuto la “Segnalazione particolare” della Giuria nell’ambito del Premio Nazionale Coni Letteratura Sportiva, uno degli appuntamenti di maggior prestigio dell’editoria legata allo sport che si svolge a Roma.

«Sono molto lieto, – afferma Meloni – a conferma della buona riuscita del libro. Dedico questo riconoscimento alla memoria dei miei genitori».

Meloni offre una narrazione elegante e semplice (la compilazione, ammoniva Sciascia, è la forma moderna di stupidità ed è anche malafede), con un corpus di storie che mette in evidenza un calcio con evidenti segni di umanità: una statua votiva diventa la stratega per far vincere ad una squadra un campionato di paese, il bomber alcolizzato e l’arbitro dalla carriera pulita, giunto all’ultima tappa del suo cammino facendo i conti col passato. Microstorie ambientate in una Siracusa del passato dove i sogni di cuoio s’intersecano con gli amori dell’adolescenza, sfuggenti o mancati, cominciati in estate e finiti prima del rientro a scuola.

Il libro è un’elegia del calcio di provincia, spensierato o capace di regredire nel fango del dio pallone, facendo trasparire una fragilità di fondo che sfocia in una vena malinconica, con una narrazione che, tra sorrisi e lacrime, bussa alle pareti del cuore come il pifferaio barrettiano alle porte dell’alba. Meloni ci mostra nel suo libro l’eminente leggerezza e bellezza del calcio, sintesi perfetta tra dubbio costante e decisione rapida.

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LA LUNA VIOLA – recensione di Salvatore Massimo Fazio sul magazine Paesi Etnei

LA LUNA VIOLA – recensione di Salvatore Massimo Fazio sul magazine Paesi Etnei

Esilarante quanto riflessivo, il nuovo romanzo del torinese, con radici parentali nel mascaluciese, Andrea Serra, sembra proprio bissare il successo di Frigorifero Mon Amour (Miraggi, Torino, 2018). Un legame importante quello con la terra siciliana, madre indiscussa degli albori filosofici (Lentini con Gorgia, Sgalambro e i sofisti, n.d.r.), per lo scrittore e filosofo che durante il lockdown e il grande rumoreggiare di piattaforme a presentare autori in streaming, ha battezzato la prima nazionale proprio nel nostro blog, cui questa pagina è la versione cartacea. Testamento per le figlie (non solo le sue), dalle quali nasce il nome del titolo, una si chiama Viola, l’altra Luna, Andrea Serra ripercorre la carriera di ometto al liceo annoiato da una disciplina che gli pareva non giovare a nulla. Un dì (di gioia, stupore e sputacchiate) la classe frequentata riceve la notizia che le lezioni della madre di tutte le scienze, non saranno più tenute dalla professoressa che della filosofia nulla faceva per farla amare ai suoi alunni, bensì da un supplente. Eccolo entrare per nulla imponente, col volto butterato un giovane che quando parlava emetteva lapilli di salivazione. Divertente in parte, con la sua serena e armoniosa dialettica, mista a quei missiletti che lanciava nolentemente, il giovane supplente, sbalordiva gli studenti con domande semplici per risalire a tesi e pensieri di filosofi col fine unico e indissolubile che la filosofia giovava a rendere libere le persone.

Da questo incipit la vita dell’autore/protagonista cambia. Dalla conoscenza della compagna, oggi moglie nonché madre della Luna di colore Viola, ai dialoghi con alcuni suoi amici, coi quali ad oggi mantiene strettissimi legami nonostante ve ne siano alcuni nati a.C., la vita di Andrea, ‘scivola a cunette’: chiede consiglio a Giordano (Bruno) su come si agisce in certi momenti, o si ubriaca con Søren (Kierkegaard) quelle volte che si incontrano e non tornano più a casa per l’ora di cena, perché si iniziano a bere nozioni di inquietudine per risalire allo svelamento che tutto può trovare una via, una strada ben oltre quella che si pensa di conoscere. Uno scrittore coltissimo che dell’ironia ha fatto la chiave del suo successo, facendo amare la filosofia per ciò che giova: essere liberi, senza calpestare l’altro.

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MONA – recensione di Maria Laura Labriola su Cronache di Caserta

MONA – recensione di Maria Laura Labriola su Cronache di Caserta

Dopo il successo di Il lago, tradotto in più di 20 lingue, Bianca Bellová, autrice ceca, torna con Mona, tradotto da Laura Angeloni ed edito da Miraggi Edizioni. Protagonisti sono Mona e Adam. Lei è un’infermiera di un ospedale travolto dalla guerra, lui un giovane soldato che ha una grave ferita alla gamba, procurata al fronte. S’innamorano, e le loro giornate sono scandite da racconti del passato. Il racconto è intervallato da molti flashback che ci svelano la vita difficile della protagonista che da piccola è stata rinchiusa per mesi in una botola per nascondersi da chi aveva portato via i suoi genitori. In quel luogo buio e angusto inventa una scrittura segreta che le darà forza giorno per giorno. La scrittura assume così un potere curativo, così come narrare, e riesce a rimarginare le ferite. Mona supera tutto componendo poesie, e con le parole si salva. Ma cosa attira Mona verso Adam? Forse l’accettazione l’uno dell’altro e l’uscita dall’invisibilità in cui si sentono costretti. Il raccontarsi ha forza così forte per Mona? Il potere salvifico delle parole viene trasmesso da lei al capezzale di Adam. Con l’ascolto vi è una sorta di transfert tra i due, come da psicoterapeuta a paziente, così il rapporto diventa sempre più intimo.

Ella rinascerà da una sorta di immobilismo e di apatia, scoprendosi più consapevole di che tipo di donna sia. Ricordando Hemingway in Addio alle armi, ritroviamo i sentimenti come vero tema dominante. L’ambiente non è solo uno sfondo, ma personaggio reale e vivente della storia. In 176 pagine vengono narrate tre epoche della vita e 5 o 6 personaggi con una precisione certosina che rimangono nella memoria. Tutto viene condensato e amalgamato senza digressioni filosofiche o giudizi personali, ma ricavato naturalmente e semplicemente dai dialoghi e dalla trama. La sua scrittura trascina il lettore con consapevolezza di essere guidato da una mano attenta alle emozioni. Non c’è bisogno di dettagli spazio-temporali, poiché tutto quello che viene descritto è extrasensoriale: lo vedi e lo senti. La Bellová pone attenzione con i suoi romanzi a problemi contemporanei che forse, presi dal nostro quotidiano, possiamo dimenticare.