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QUATTRO GIORNI – recensione di g.cr. su Repubblica (Torino Libri)

QUATTRO GIORNI – recensione di g.cr. su Repubblica (Torino Libri)

Novantasei ore per salvarsi

Quattro giorni concessi dalle autorità penitenziarie a seguito di un lutto in famiglia a un uomo che sta scontando una condanna per traffico internazionale di stupefacenti; novantasei ore per tentare di salvarsi da una malattia che minaccia di ucciderlo. Ambientato tra le valli del ponente ligure e le lande peruviane chiuse e buie o all’improvviso accecate dal sole, con prefazione di Dario Voltolini, il romanzo a fumetti “Quattro giorni” pubblicato nella collana “MiraggINK” della torinese Miraggi è tratto da “Quattro giorni per non morire” dello scrittore e poeta Marino Magliani (Sironi, 2006). «Una storia cruda, dura, emozionante e asciutta», come la definisce Voltolini, scaldata dall’eco della letteratura sudamericana di cui Magliani è innamorato. La sceneggiatura è firmata da Andrea B. Nardi e le tavole dal torinese Marco D’Aponte, diplomato all’Accademia Albertina, che nel 2000 ha disegnato il fumetto più grande del mondo, la “Storia del traforo del Frejus”, collocato in Piazza Statuto. Sue anche alcune storie de “La valigia del cantastorie” di Guido Ceronetti, due graphic novel tratte dai gialli del commissario Martini, “Tazio Nuvolari, compagno del vento” sceneggiato da Pit Formento, “Cento anni nel futuro” di Riccardo Migliori e “Sostiene Pereira”, adattamento di Marino Magliani del romanzo di Tabucchi.

L’ARTICOLO ORIGINALE:

VIT(AMOR)TE – intervista a Valeria Bianchi Mian su Oubliette Magazine a cura di Emma Fenu

VIT(AMOR)TE – intervista a Valeria Bianchi Mian su Oubliette Magazine a cura di Emma Fenu

Vivere è appartenere a un altro. Morire è appartenere a un altro. Vivere e morire sono la medesima cosa. Ma vivere è appartenere a un altro dal di fuori, e morire è appartenere a un altro dal di dentro. Le due cose si assomigliano, ma la vita è il lato di fuori della morte. Perciò la vita è la vita, e la morte la morte, perché il lato di fuori è sempre più vero del lato di dentro, tanto che è il lato di fuori che si vede.” – Fernando Pessoa

Valeria Bianchi Mian
Valeria Bianchi Mian

Valeria Bianchi Mian è straordinaria. Esula dall’ordinario grigio e sfumato, dallo stereotipo, dal serioso e dal melenso, dal banale e dal già visto e già sentito.

È una donna rossa di capelli e di utero, filosofa bambina, psicoterapeuta e psicologa di formazione junghiana, scrittrice, poetessa, saggista, fautrice di psicodrammi e di pièce teatrali, illustratrice, artista, insegnante di Scienze Umane, blogger. Collabora per “Psiconline” e per il nostro “Oubliette Magazine”, ha pubblicato “Favolesvelte”, silloge di poesie; “Non è colpa mia”, un romanzo noir; ha curato (con me) l’antologia di racconti “Una casa tutta per lei” e “Vit(amor)te”, una silloge di quarantaquattro poesie dedicati ai ventidue arcani maggiori, disegnati dall’autrice stessa.

Ho raccontato molto, eppure è poco rispetto alla sua biografia, e nulla rispetto alla sua essenza.

Perché, se volete conoscere Valeria, dovete specchiarvi, guardarvi negli occhi ed essere pronti a salire sulla sua giostra, scalzi e scarmigliati. E poi lanciarvi nell’abisso di animus e anima, mentre lei vi sorride.

E.F.: Chi è Valeria? Chi è la donna, la psicoterapeuta, la scrittrice, la poetessa, l’artista, la madre, la figlia, la bella e la bestia?

Valeria Bianchi Mian: Mi metto a nudo, Emma. Lo voglio fare. Valeria è una donna che dimostra meno anni della sua età. È una psicoterapeuta in gamba ed è una personalità decisamente creativa con un’energia pazzesca che si esprime a più livelli: scrittura, disegno, teatro. Valeria è Anima unita a uno Spirito indomito che solo a tratti si lascia ingabbiare e sottomettere. E perché mai, in quei “tratti”, il suddetto Spirito scivola nell’inganno? Osservando Valeria come se fossi ‘l’io narrante’ che rimane un po’ a distanza, vedo l’insieme delle concause e dico: “Questa persona è stata disponibile nei confronti degli altri. Voleva, è vero, pensare anche a se stessa mentre al contempo dispensava gratuitamente bellezza e stimoli, idee e tempo prezioso. Offriva il suo oro al mondo, Valeria. Un piccolo lucente barlume aureo, stelle e stelline, le lune e i pianeti, lei regalava qua e là, finendo (quante volte!) per mettersi in fondo alla lista o, se non proprio alla fine, trovando all’ultimo la possibilità di farsi avanti insieme agli altri, quasi a giustificare timidamente la richiesta di un giusto compenso, di una cassa di risonanza, di un podio, di un traguardo tagliato al momento opportuno, di una coppa ricca di fortuna. Insomma, ci sono anch’io, sembrava dichiarare. Sarebbe stato meglio dirlo subito. Sarebbe stato bene pronunciare più spesso dei no e pestare qualche piede in più.” Non è possibile mutare atteggiamento, trasformare Valeria in una perfetta egoista. Quel che si può fare, in accordo tra l’Io e le zone più profonde della personalità, è convincerla a canalizzare la luce del suo lavoro, a mettere un po’ più in risalto i figli di carta che ha partorito nel viaggio alchemico che l’ha condotta alla creazione di tanti libri, di idee e progetti professionali. Si potrebbe trovare un accordo: se l’Io si impegna a seguire i comandamenti del marketing, il Sé porterà nuove storie da scrivere fino a che Morte non separi Valeria da se stessa, sperando che quel momento arrivi molto tardi. Calcolando che la sua bisnonna è vissuta fino a 107 anni, direi che c’è ancora tempo per imparare a sgomitare un po’.

E.F.: Ci presenti i tarocchi come se fossimo alla fine di uno spettacolo, davanti alla platea che applaude e con il sipario in attesa di chiudersi?

Valeria Bianchi Mian: Non andrete via, Signore e Signori, prima di conoscere i nostri ospiti! Salgano sul palco le carte dei Tarocchi! Applausi! Ecco a voi i ventidue simboli antichi che fungono oggi da suggerimenti creativi. Nati nell’Italia delle Corti, gli Arcani Maggiori incedono adesso attivando suggestioni lontane, attraversano il tempo per stimolarci ancora al futuro.

Io li ho scoperti vent’anni fa e mi ci sono tuffata dentro nei Tarocchi, nell’acqua della Temperanza e della Stella, in fondo al mare lunare; ho corso con il Carro, ho girato la Ruota più e più volte. Ho incontrato Imperatrice e Imperatore sorseggiando il tè con l’Innamorato. Ho cantato follie con il Matto, ho declamato poemi insieme al Bagatto, rimescolando nell’alambicco il nucleo del mio essere, fino a disegnare (nel 2019) le illustrazioni per la silloge “Vit[amor]te. Poesie per arcani maggiori.”. Con i Tarocchi ci possiamo giocare. Possiamo inventare storie come nipotini di Italo Calvino o scoprire versi come farebbe un bambino dal Matto al Mondo, e viceversa. Alejandro Jodorowsky li ha portati nel mondo a voce alta, così come vuole il suo genio. Moltissimi sono gli artisti che nei secoli li hanno dipinti, scolpiti e fotografati.  La compagnia dei Tarocchi è disponibile per meditazioni guidate, per giochi di Psicodramma, per azioni sceniche e collane di sogni.  Insieme alla burattinaia Marta Di Giulio, qui lo dico e non lo nego, ho inventato il Teatrino dei Tarocchi: alla mia lettura immaginale si sposa la sua performance con oggetti, piume, pupazzi.

E.F.: Amore e morte sono un topos dell’arte e della letteratura: cosa ci attrae?

Valeria Bianchi Mian
Valeria Bianchi Mian

Valeria Bianchi Mian: Lo stesso Eros, bellissimo dio dell’amore, compare nel mito sotto mentite mortifere spoglie alla giovane Psiche curiosa. L’Amore “mostro” si svela soltanto attraverso il sacrificio della fanciulla, si cela affinché il suo lungo viaggio possa diventare vita congiunta e unione. Mircea Eliade ci racconta le storie di amanti invisibili nello sciamanesimo, e questi “sposalizi soprannaturali” portano sempre elementi di contatto con l’Altro e Oltre, perché l’amplificazione e l’approfondimento della personalità, il completamento di Sé richiede sempre una Morte simbolica. Gli alchimisti conoscevano il segreto del regicidio, ed è lo stesso “dover morire” che il nostro Io deve accogliere se vogliamo crescere. Ogni rinuncia, ogni sacrificio dell’Io è una piccola morte.

Altre immagini simboliche della danza tra i due principi psichici, e tra le due realtà, Amore e Morte, hanno un sapore medioevale. Penso all’abbraccio tra lo Scheletro e la ragazza, per esempio, iconografia vicina al richiamo affascinante dell’amato assassino in letteratura, il cavaliere che conduce la protagonista al talamo mortale – e che ha come controcanto al maschile la keatsiana Belle Dame Sans Merci.

Nella Totentanz, è ovvio, ci finiremo tutti: belli e brutti, ricchi e poveri, re e regine e cavalieri. Saremo im-mort-alati in un affresco che vede come protagonista assoluta la nostra Nera Signora che ci tiene per mano e ci fa fare il girotondo fino al cascar del Mondo.  

Negli Arcani Maggiori la Morte ci chiama alla trasformazione: è albero in inverno che cela le sue gemme come spunti per la Primavera, è taglio di Atropo, è falce nel campo.

Non mi soffermo qui sul richiamo di Thanatos nei pazienti che ho incontrato in questi anni di lavoro come psicoterapeuta. Penso ai ragazzi tossicodipendenti innamorati della “sostanza”, intrappolati nell’abbraccio di ossa e denti, sepolti (in)felicemente insieme alle spoglie del loro stesso Io non-morto. Non è accogliere la trasformazione, sopravvivere in quel modo: è, piuttosto, optare per la versione Zombie.

E.F.: Le parole cambiano il mondo? Lo faranno? Tu ci credi?

Valeria Bianchi Mian: Io direi piuttosto che le parole cambiano insieme al mondo, in un reciproco nascere crescere e morire culturalmente. Le culture meticciano i termini e le credenze, le pelli, i colori e confini. Se non trascuriamo le nostre radici, possiamo giocare con le parole o prenderle seriamente, e possiamo conservarle per le generazioni future, riscoprirle. Penso ai dialetti, penso a mio marito che ride con mio figlio suggerendo espressioni in piemontese. Ricordo l’alfabeto segreto che inventavo bambina tra le bambine. Con le parole ci lavoro, nelle parole mi avvolgo e poi cambio parole. Verba volant ma a volte attecchiscono i significati e allora le lettere diventano parole chiave. Le parole feriscono più delle spade ma occorre coglierne il significato, altrimenti ci si travisa, ci si ingarbuglia e scattano gli insulti in quest’epoca di “fake-news” e di facili “flame”.

Mi piace stare sopra sotto dentro fuori e in mezzo alle parole e alle azioni, amo i performativi, le parole vive. Nei Tarocchi, a volte, la Morte non ha nome, eppure arriva lo stesso. Così come l’Amore, senza troppi discorsi.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

https://oubliettemagazine.com/2020/06/24/intervista-di-emma-fenu-a-valeria-bianchi-mian-fra-amore-morte-alambicchi-e-tarocchi/?fbclid=IwAR1_1I0J_mBFYrYLL83vq6S1AZOjUMV657FQDNKbUntfmoy0Wg_XOE0WpPQ

QUATTRO GIORNI – recensione di Giacomo Sartori su Nazione Indiana

QUATTRO GIORNI – recensione di Giacomo Sartori su Nazione Indiana

LIGURIA MON AMOUR

Ecco la prefazione di Dario Voltolini (illustrazioni di Marco D’Aponte e adattamento di Andrea B. Nardi; da un romanzo di Marino Magliani)

È con profonda commozione che scrivo questa nota a margine dell’ottima prova congiunta di due squisiti narratori, Marino Magliani alla tastiera e Marco D’Aponte alle matite, innanzitutto per la storia che viene narrata, ma anche per altro.
La storia che viene narrata la conosco da anni e ora me la trovo qui davanti agli occhi visualizzata con raffinata perizia da chi sa come dare corpo alle parole. Da anni non la rileggevo e rivederla così, attraverso immagini sulla pagina che vanno a mescolarsi a immagini che tenevo ancora da qualche parte nella mente, è un’esperienza piena di senso. Facile sintetizzare: tavole magnifiche per una storia potente.
Ma devo ancora una volta ricordare che la “potenza” di una storia ligure è tutta dentro la cartuccia inserita nella doppietta, ma prima della detonazione.

È una potenza che sempre sta per manifestarsi. Questa caratteristica è della terra e dei suoi migliori narratori e poeti. E io amo quella terra, con i suoi narratori e poeti. Secco, compatto, lo spirito di quella regione preme per uscire e ogni volta, anziché esplodere, vibra. Vibra in modo tale da risuonare a distanza, è un suono riconoscibile, simile ad altri (per esempio qui le Ande entrano in grandissima risonanza con i muretti a secco liguri, con la loro anima) ma in fondo unico e imparagonabile.

Ho conosciuto Marino Magliani proprio attraverso il testo qui riproposto, esemplarmente sceneggiato da Andrea B. Nardi, nelle tavole di D’Aponte. Me ne innamorai subito e la gioia per me fu grandissima quando lo vidi pubblicato. Per una volta le cose erano andate per il verso giusto e la grande qualità di uno scrittore veniva colta dall’editoria, veniva accolta e fatta vivere sulla pagina. Be’ questo è un ricordo, ed è molto dolce. Così Marino e io siamo diventati amici, come si può esserlo stando uno in Italia e uno in Olanda. Ma la qualità di un’amicizia che nasce da un testo è un qualità molto particolare. È un’amicizia in qualche modo segnata da quel testo, un’amicizia che profuma di quel testo. La chiamerei, in questo caso, un’amicizia ligure, ma non cercherò certo di spiegare cosa significa “ligure” in questo contesto. “Ligure” lo vedete subito cosa significa, leggendo quest’opera. Forse “ligure” è l’unico aggettivo topografico che invece di restringere e dettagliare il suo senso comprimendolo in un luogo (che in questo caso è di per sé stesso un luogo compresso tra montagne e mare), lo fa volare su tutto il pianeta dispiegandosi a categoria emotiva autonoma. Forse straparlo, per amore del luogo. Ma qualcosa di vero penso che lo sto dicendo. Laddove il dolore resta incapsulato in una vita che continua, laddove le occasioni perdute vivono per il fatto stesso di esserci state, laddove qualcosa per essere detto bene ha senso che sia taciuto – e molti altri “laddove” ancora – l’aggettivo “ligure” arriva a spiegare perfettamente quello che c’è da spiegare.


Marino negli anni ha scritto tante storie, tutte molto belle, solide, tanto pietrose quanto ventilate, e ogni volta è una festa (senza strepiti, eh!) leggerle. Ma per me questa è “la” storia, perché è quella tramite la quale ho conosciuto Marino. Riassumerla? Non ha senso. Solo che è struggente, questo sì che lo posso dire, fatta di uno struggimento particolare che in queste tavole, per un ulteriore gioco del destino di un incontro, risuona perfetta e risuona nelle lontananze.

NdR: il testo riportato è la prefazione di Dario Voltolini al romanzo a fumetti “Quattro giorni”, con illustrazioni di Marco D’Aponte e testo/adattamento di Andrea B. Nardi, tratto dal romanzo “Quattro giorni per non morire” (Sironi Editore, 2006), di Marino Magliani, pubblicato ora da Miraggi Edizioni, nella collana MiraggInk

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

FRANCESCO FORLANI su Libération (articolo di Claire Devarrieux)

FRANCESCO FORLANI su Libération (articolo di Claire Devarrieux)

FRANCESCO FORLANI, UN POÈTE EN CLASSE TOUS RISQUES

Le «communiste dandy» dévoile son quotidien de prof d’italien dans des collèges d’Eure-et-Loir

Francesco Forlani à Rome, le 11 mars 2012.
Francesco Forlani à Rome, le 11 mars 2012. Photo Marcello Mencarini. Leemage  

Francesco Forlani est un poète italien qui vit en France. Il a fondé une somptueuse revue internationale, SUD, et participe à l’Atelier du roman. Il écrit dans les deux langues. Il est aussi traducteur. Il est vraiment ce qu’on appelle, d’un terme un peu dévalué tant il a été utilisé, un passeur. Entre un passeur, ou un éclaireur, et un pédagogue, il n’y a pas trop de différence, parfois. Par-delà la forêt met en scène Forlani dans le rôle de professeur d’italien qui est le sien depuis trois ans. Le récit, composé de 24 chapitres comme autant de nouvelles, parcourt le petit monde scolaire, de la cour à la classe en passant par la salle des profs, avec un amour du langage qui est poétique, bien sûr, mais, profondément, qui est une forme d’altruisme, d’amour de son prochain. Sans excès, sans démagogie. On ne va pas se plaindre, on va plutôt plaisanter, et jouer le plus sérieusement du monde, pour mieux se faire comprendre.

Après avoir enseigné la philosophie en terminale au lycée français de Turin, Forlani découvre les collèges. «Mon appareillage théorique et didactique avait subi la même révolution qu’un char d’assaut russe transformé en foodtruck après la chute du Mur», écrit-il, sans être pour autant en train de dévaluer la tâche qui se présente. Il s’agit d’un poste réparti sur deux établissements d’Eure-et-Loir, à Dreux et à Anet. Comme il lui manque le permis de conduire qui lui permettrait d’utiliser la voiture qu’il n’a pas, rejoindre les deux endroits où il a été nommé est compliqué. Des collègues secourables – bêtise et inélégance n’ont pas droit de cité dans cette histoire, pas plus que la fatigue ou le découragement – un usage efficace de l’autostop également, pallient l’absence de transports en commun.

Photocopieuse.L’auteur habitant à Paris, les journées de cours commencent avec le premier métro. Les travailleurs de l’aube comme lui, et les exclus qui restent à quai, peuple de la nuit, sont évoqués dans Penultimiles Pénultièmes, un recueil bilingue (1) publié en 2019. «Sur le chemin de la maison j’ai croisé deux pénultièmes. Il y en avait une qui dormait dans la soute, tandis que l’autre scrutait la mer d’asphalte comme un naufragé fouille l’étendue d’eau du regard dans l’attente d’éventuels secours.» Dans Par-delà la forêt, pas le temps de rêver, il faut ruser avec le début et la fin de la sonnerie, parier que la photocopieuse va marcher si on s’en sert au dernier moment. Et, plutôt que s’attarder à contempler ses contemporains, il convient d’abord de maîtriser sa classe, cette forêt de jeunes adolescents.

Forlani a recours à un interlocuteur qu’il tutoie : «Tu sais que je ne te juge pas, et pourtant je sais que tu me juges. Beaucoup de choses ont changé depuis le temps où j’avais ton âge.» Naguère, l’élève craignait de se faire mal voir. Aujourd’hui c’est le contraire. «Car chacun de nous sait très bien que si l’un de vous l’a catalogué comme antipathique, il est fort probable que l’année à venir ne sera pas une promenade de santé, et cela, indépendamment de la matière enseignée.» Autre terrain miné : les parents. «Du jour au lendemain, les parents d’élèves se sont transformés en ennemis du corps enseignant.» Un chapitre attristé est consacré à la tendance à «l’inquisition».

Acronymes irrésistibles. Par-delà la forêt, qui tient son titre des trois mille hectares de bois qui séparent les deux collèges, est sous-titré «Mon éducation nationale». Il peut arriver à Francesco Forlani de philosopher à partir des arbres, mais il ne généralise jamais. A Dreux, il enseigne dans un REP + (Réseau d’éducation prioritaire, les acronymes sont irrésistibles pour le poète), et à Anet dans un collège normal, où les élèves sont majoritairement blancs. Sans se faire d’illusion sur sa mission, il préfère, c’est évident, la mixité du premier.

Un atelier pâte à pizza, un marathon de lecture du Petit Prince dans toutes les langues enseignées dans l’établissement, l’étude comparée de «ta gueule» et «vaffanculo» en passant par «mal di gola», mal à la gorge, qui permet à chacun d’envoyer son voisin se faire foutre en se touchant simplement le cou ou en toussant : le professeur d’italien est apprécié. Il a obtenu de l’inspection le droit de faire cours en chapeau. Il porte un costume clair et une cravate rouge. Il a 50 ans quand le plus vieux des enseignants en a 30. Il se présente volontiers comme un «communiste dandy». Dans la «police familiale» que représente la vie scolaire, il est «l’oncle fantasque venu d’un pays exotique», explique le collègue d’histoire.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

https://next.liberation.fr/livres/2020/06/19/un-poete-en-classe-tous-risques_1791800

LA VITA MOLTIPLICATA – recensione di Marina Guarneri su il Taccuino dello Scrittore

LA VITA MOLTIPLICATA – recensione di Marina Guarneri su il Taccuino dello Scrittore

Leggo i primi due racconti in metro; mi sorprende subito la natura delle storie: le seguo come quando tentiamo di ricostruire nella mente un sogno appena svanito, al risveglio. Mi ritrovo a percorrere le sinuose vie dell’insondabile umano, con una sensazione piacevole, che passa dall’alienazione iniziale a un grande entusiasmo alla fine. C’è qualcuno che mi sta dicendo delle cose, forse importanti, su come reagisce la mente di fronte a determinati eventi della vita: un adolescente che riceve un’educazione severa, in uno spazio familiare militarizzato, che fugge dalla realtà che lo opprime, alimentando fantasie morbose fortemente aggrappate alla propria passione per la musica e c’è un uomo che percorre i sentieri della memoria in cui la protagonista è una donna, Vera, di nome, ma di fatto? La sua presenza, come un fantasma, si nasconde nelle immagini che vengono fuori da un vecchio album di fotografie. Cavalcare i ricordi è un gioco pericoloso per la mente e, in un attimo, tutto può diventare solo una proiezione dell’inconscio.Torno a casa entusiasta. Mi piace la scrittura di Simone Ghelli, genera empatia e io la trovo piena di suggestioni, a tratti anche poetiche. La malattia di Ascanio Ascarelli è una sorta di porta segreta verso un mondo interiore in cui la riflessione diventa una lunga pausa dalla vita più che preoccupazione per la sorte della stessa; la mania di un giovane apprendista, che legge i manoscritti spediti a un editore, di attaccarsi alla spazzatura letteraria come un accumulatore seriale, racconta una verità che conosco. La somma dei secondi e dei sogni: quante vite fanno tutti quei minuti passati a scrivere? Mi immedesimo anche nel libraio che chiude la libreria con la morte nell’anima e la lettura dei racconti a seguire è un’occasione per incontrare un’umanità varia in cui ci si riconosce e per la quale si fa persino il tifo, come per il professore che compie un atto rivoluzionario, interpretando in senso letterale il “compito di realtà” previsto in una circolare ministeriale e invita i propri studenti a descrivere come vedono la scuola e come vorrebbero che fosse. Le conseguenze sono quelle che ci aspettiamo ma che sarebbero diverse, se fossimo in una società che non ragiona seguendo sempre i soliti schemi mentali. Tra le righe di ogni storia risulta chiaro il messaggio dell’autore: la vita che viviamo, in fondo, è un insieme di dimensioni sovrapposte, che moltiplicano la realtà in piani invisibili, ma indispensabili.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

https://trentunodicembre.blogspot.com/2020/06/miraggi-edizioni-grand-hotel-romanzo_18.html

GRAND HOTEL – recensione di Marina Guarneri su il Taccuino dello Scrittore

GRAND HOTEL – recensione di Marina Guarneri su il Taccuino dello Scrittore

GRAND HOTEL – Romanzo sopra le nuvole 

“Il clima e le nuvole sono l’inizio di ogni cosa, di ogni dialogo e di ogni storia e saranno anche la loro fine.”
Questa vicenda comincia con un traguardo raggiunto. “Ce l’ho fatta”, ripete qualcuno che, nel giorno del suo compleanno, si sta godendo il regalo atteso da tutta una vita: salire in alto, con le nuvole a portata di mano, l’orizzonte che si staglia oltre la città amata e odiata, tenendo sotto controllo altitudine, vento e direzione e, in sottofondo, la musica del silenzio. Un prologo che sul momento mi strania, perché non riesco a dare una collocazione spazio-temporale al narrante e non so cosa voglia dirmi. Ma la curiosità irrompe subito nell’incipit del primo capitolo: “Il mio nome è Fleischman”.Così, conosco il trentenne protagonista di questa storia.
Fleishman è un ragazzo problematico, tendenzialmente asociale, bullizzato dai compagni durante gli anni di scuola, in cura da una psichiatra in seguito al trauma causato dall’incidente stradale in cui ha perso entrambi i genitori; ha sempre la testa fra le nuvole e non solo in senso figurato: lui vive in simbiosi con esse. Le nuvole lo tranquillizzano, gli hanno insegnato a perdonare, gli hanno tenuto compagnia negli anni più difficili della sua infanzia. Fleishman ne studia le forme, le analizza, come fa col clima, quando registra la temperatura, la pressione atmosferica, le precipitazioni, la direzione e la forza del vento. Sulle pareti della sua stanza c’è un enorme grafico, con degli appunti: “questo è il mio mondo. Il mio diario. La mia tabella di marcia.”

L’ossessione per le nuvole, così inconsueta, è l’elemento vincente del romanzo, quello che connota in modo originale il personaggio e rende credibile la sua voce. Per non finire in una casa-famiglia o al riformatorio, Fleishman viene affidato a un cugino sconosciuto, Jégr, col quale andrà a vivere in un hotel, nella città di Liberec, sospeso a 1012 metri sopra il livello del mare. Un’enorme fabbrica di nuvole a forma di missile rotondo, che si stringe sulla punta; una struttura senza spigoli, la cui torre si conficca nel cielo come un ago affilato.È lì che Fleishman conosce Ilja, la cameriera che lo giudica strano, salvo poi raccogliere i suoi segreti ed è lì che si affeziona a Reinhard Franz, un ex pilota nostalgico del passato, tornato in città con le ceneri di due suoi amici raccolte in un barattolo di latta, per compiere una missione importante.Ciò che ho apprezzato della narrazione è la capacità dell’autore di portare il lettore a familiarizzare con tutti i personaggi, dal protagonista a quelli secondari. È facile interessarsi alle vicende raccontate da Fleishman, quando anticipa storie ed entrata in scena di persone con la formula “ma questo ve lo dirò dopo”, creando una sorta di bolla di sospensione in cui sono racchiuse aspettative, che non saranno deluse. È con questo meccanismo di “rimando”, in grado di creare attesa e generare curiosità, che conosciamo meglio Jégr e il suo “museo del blocco orientale”, allestito nella reception dell’hotel, pieno di oggetti legati a determinati momenti della sua vita e anche Ciuffo,  ex compagno di scuola e ora nuovo cameriere del Grand Hotel, che sogna di fare fortuna in America grazie al “salvifico” Happylife, una brodaglia verde multifunzionale, utile per tutto: stoviglie, tappeti, per farci i cetrioli sottaceto, per lucidare le scarpe, per il mal di gola, per sbiancare i denti…
“Con questo pulisci i mobili e anche l’auto col tuning.”
La narrazione ingenua di Fleishman, che conserva quasi dei tratti autistici (come nella meticolosa ricostruzione etimologica di talune parole), definisce bene il personaggio e per lui non si può che provare una simpatia del tutto spontanea: la sua forza risiede nella fragilità, che emerge proprio dalle riflessioni semplici, ma di grande potenza espressiva; nella paura di abbandonare Liberec, tale da provocargli autentiche crisi di panico ogni volta che prova a varcarne i confini. Ma ad aiutarlo, nella più grande sfida della vita,  più che le parole di una psichiatra o la compagnia di una persona speciale, saranno ancora le nuvole, fedeli ed eterne compagne di viaggio, le uniche in grado di restituirgli la felicità.Il cerchio si chiude: la storia si completa con tutte le sue verità. Quando si arriva al silenzio del commiato, viene voglia di applaudire.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

https://trentunodicembre.blogspot.com/2020/06/miraggi-edizioni-grand-hotel-romanzo_18.html
DI SANGUE E DI FERRO – recensione di Rosa Elenia Stravato

DI SANGUE E DI FERRO – recensione di Rosa Elenia Stravato

Luca Quarin è un autore che non conoscevo, uno di quegli autori nei quali t’imbatti casualmente o per suggerimento, come nel mio caso, e ti insegnano ad averne cura. Perciò, oggi, sono felice di presentarvi questa mia scoperta.

Un romanzo nel quale cascherete e che vi trasmuterà in un tempo lontano ma che sentirete scorrere dentro le vostre vene come un imperativo al quale non potrete aver modo di sottrarvi: come l’amore che vi invade l’esistenza e potete solo sentirne la sua astinenza malgrado esso vi sia ad un soffio. Edito da Miraggi Edizioni, quella narrata è una storia che s’innesta in un passato che ha qualcosa di “così presente”. Lo so, sembra paradossale ma, mi darete ragione.

Dotato di una scrittura particolareggiante e minuziosamente architettata in una sinfonia di parole ammaestrate dal proprio direttore d’orchestra, si legge con una facilità estrema. Sarete tentati di raggiungere l’ultima pagina con una “curiositas” simile a quella di Apuleio nelle sue Metamorfosi. Benché la matrice storica del romanzo non concede alla fantasia ampi orpelli, la narrazione, diventa il fil rouge che legherà i protagonisti i vostri compagni di avventura. Compagni che vi porteranno a spasso tra luoghi non comuni capaci di scardinare quelle consapevolezze immutabili che preservate. Ho accostato le Metamorfosi a questa storia consapevole del paragone stonato: si, perché, la vera matrice portante della narrazione è ciò che sfugge.

Non aspettatevi di trovare una serenità o una stasi: è un romanzo che porta a burrascose affermazioni, a picchi di isteria e diventa scomodo. Si, perché ciò che si racconta non conosce riposo. Un moto. Un moto perpetuo.

Un romanzo, lo ammetto, ben scritto ma complesso: siamo nel 1972  e una bomba distrugge  Peteano uccidendo tre carabinieri. L’incidente scatenante s’inquadra come il momento in cui i panni del lettore vengono, amabilmente, distrutti e lasciano il posto ad un’esperienza totalizzante. Ed è così che parte l’inchiesta degli inquirenti che sembra portare ad un gruppo di militanti tra cui spiccano  un ragazzo e una ragazza che cercando di scampare ai carabinieri,  finiscono con l’automobile nel lago di Levico.

Nel rocambolesco inseguimento l’impatto è un urlo muto ma assordante: il figlio di tre anni rimane orfano. Proprio da qui parte una assurda routine di errori e falle nel sistema giudiziario che condanna ed assolve sei giovani ma che non riesce a chiarire le posizioni che hanno avuto quei due genitori.
Ma il passato, si sa, è sempre pronto a mostrarsi una Torre di Babele furente. Dopo dieci anni il caso viene riaperto come un’autopsia delle coscienze: Vincenzo Vinciguerra racconta al giudice Felice Casson i retroscena dell’attentato e le filosofie  più oscure della destra eversiva degli anni settanta. In un duello tra razionalità e desiderio di chiarezza, il mistero su quei due giovani, non trova quiete.

E nel limbo delle festanti incertezze diventa chiaro che, non sempre, il passato può essere spiegato dal presente. Non sempre, il passato, sceglie di raccontarsi a chi ha bisogno di risposte.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

https://rosaeleniastravato.wordpress.com/2020/06/17/di-sangue-e-di-ferro/

DI SANGUE E DI FERRO – presentazione alla Libreria Milton di Alba in collaborazione con Book Advisor (la voce di Alba.it)

DI SANGUE E DI FERRO – presentazione alla Libreria Milton di Alba in collaborazione con Book Advisor (la voce di Alba.it)

Sabato 27 giugno, alle ore 21, la libreria albese sarà invece in diretta dal cortile interno della libreria con gli amici di Miraggi Edizioni per l’evento Mira-Book, in collaborazione con Book Advisor, per la presentazione dell’ultimo romanzo di Luca Quarin “Di sangue e di ferro”. I partecipanti alle dirette potranno richiedere di ricevere una copia con dedica autografa dell’autore da ritirare direttamente in libreria.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

https://www.lavocedialba.it/2020/06/22/leggi-notizia/argomenti/eventi-17/articolo/alba-alle-dirette-della-milton-gli-scrittori-niccolo-targhetta-e-luca-quarin.html

DI SANGUE E DI FERRO – recensione di Sandor Tence su Primorski

DI SANGUE E DI FERRO – recensione di Sandor Tence su Primorski

VIDEM – Un libro interessante dello scrittore friulano Luca Quarin

L’attentato di Peteano collegato alla bomba nella scuola slovena

VIDEM – La strage di Peteano, in provincia di Gorizia, dove una bomba il 31 maggio 1972 ha ucciso tre carabinieri, ha ispirato lo scrittore friulano Luco Quarin per il suo secondo romanzo “Di sangue e di ferro”, pubblicato dalla casa editrice torinese Miraggi Edizioni (280 pagine, 19 euro). Il titolo è un gioco di parole, in quanto Andrea Ferro è il narratore e protagonista di una storia che si svolge principalmente in Friuli, ma anche a Gorizia, a Trieste e a Trento. Il romanzo è una lettura impegnativa perché presuppone la conoscenza della violenza e degli omicidi dei rivoluzionari neri negli anni ’60 e ’70, ma è stato scritto in un modo interessante che attira il lettore, pur nel disorientamento iniziale.

Quarin ha optato per due storie parallele che si intrecciano: una immaginaria, l’altra reale. Il giovane Andrea Ferro, che vive a Torino, viene chiamato dall’ospedale di Udine e gli dice che i giorni di sua nonna sono contati e che lei vorrebbe rivederlo. Tornare a casa è molto doloroso per lui, poiché evoca il ricordo dei suoi genitori che, quando era bambino, morirono in un inspiegabile incidente d’auto vicino a Trento, e perché suo nonno faceva parte della cellula neofascista di Udine. Il padre e la madre militavano nella sinistra extraparlamentare (frequentavano la Facoltà di Sociologia di Trento al tempo in cui Renato Curcio stava allestendo lì le Brigate Rosse) e, secondo i carabinieri e i servizi di intelligence, erano coinvolti anche negli omicidi terroristici di sinistra. Il nonno, come già detto, era fedele al fascismo ma non solo, era anche un sovversivo, che probabilmente non era direttamente coinvolto nell’assassinio a Peteano, ma sapeva molto di lui e dei suoi autori

La difficile storia della famiglia si intreccia con quella di un’epoca buia per i nostri luoghi e per tutta l’Italia. Un gruppo di goriziani inizialmente venne sospettato di essere responsabile della strage di Peteano, sulla base di false testimonianze e di prove inventate preparate da alti funzionari dei carabinieri con il consenso e la cooperazione di servizi di intelligence infedeli allo stato. La verità, tuttavia, era molto diversa. La bomba che ha ucciso gli sfortunati carabinieri fu fabbricata e fatta esplodere da terroristi neofascisti che furono successivamente condannati, così come gli ufficiali dei carabinieri e dei servizi segreti che fecero ricadere la responsabilità sul gruppo di goriziani e che inibirono e ostacolarono il lavoro dei giudici.

Ma chi volevano proteggere i carabinieri che depistarono le indagini su Peteano? I giudici veneziani Felice Casson (futuro senatore) e Carlo Mastelloni (fino al suo pensionamento capo della procura della corte di Trieste) erano convinti che l’organizzazione militare segreta Gladio fosse coinvolta nell’attentato, ma lunghe indagini non lo confermarono, sebbene i sospetti siano rimasti. Il ruolo enigmatico dell’organizzazione militare segreta è stato anche affrontato da una speciale inchiesta parlamentare, che ha sottolineato che Gladio è stata particolarmente “attiva” sul confine italo-jugoslavo, che gli sloveni veneziani testarono in prima persona.

Nel romanzo che riporta anche documenti ufficiali e contributi giornalistici (tra cui quello di Claudia Cernigoi), Quarin scrive ampiamente sul deposito di armi ed esplosivi di Gladio scoperto a Opicina, su una collina rocciosa vicino al sentiero Tiziana Weiss. I carabinieri hanno rivelato l’esistenza di questo magazzino (ufficialmente chiamato Nasco) nel febbraio 1972, effettivamente scoperto nell’estate del 1971, ma hanno tenuto la questione in silenzio in modo che la storia del raid di Gladio non fosse divulgata al pubblico.

L’ordigno presumibilmente venne dal deposito di Opicina, con il quale i fascisti (“sfuggirono” a Gladio, ma come facevano a saperlo?) effettuarono non solo l’attentato di peteano ma anche un il fallito attentato (1969) alla scuola slovena di San Ivan a Trieste e forse anche per il massacro di Piazza Fontana a Milano lo stesso anno. Uno dei più grandi depositi di armi ed esplosivi di Gladio scoperto da persone del posto (uno di loro era il figlio di un maresciallo di Opicina) che i carabinieri locali cercarono di coprire, su ordine dei loro superiori e sotto la pressione dello “stato profondo”. Ma non per sempre.

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VIDEM – Zanimiva knjiga furlanskega pisatelja Luce Quarina

Črni obroč od bombe na slovenski šole, Nabrežine in atentata pri Petovljah

VIDEM – Atentat v Petovljah na Goriškem, kjer je eksplozija bomba 31. maja 1972 ubila tri karabinjerje, je navdihnil furlanskega pisatelja Luco Quarina za njegov drugi roman Di sangue e di ferro (Iz krvi in železa), ki je izšel pri turinski založbi Miraggi edizioni (280 str., 19 evrov). Naslov je besedna igra, saj je Andrea Ferro pripovedovalec in protagonist zgodbe, ki se v glavnem odvija v Furlaniji, a tudi v Gorici, Trstu in Trentu. Roman je zahtevno branje, ker predpostavlja poznavanje nasilja in atentatov črnih prevratnikov v šestdesetih in sedemdesetih letih prejšnjega stoletja, a napisan na zanimiv način, ki ob začetni zbeganosti pritegne bralca.

Quarin se je odločil za dve vzporedni zgodbi, ki se prepletata: eno izmišljeno, drugo resnično. Mladega Andrea Ferra, ki prebiva v Turinu, pokličejo iz videmske bolnišnice in mu sporočijo, da so babici šteti dnevi in bi ga zato rada videla. Vrnitev domov je zanj zelo boleča, saj mu prikliče spomin na starša, ki sta, ko je bil otrok, umrla v nepojasnjeni prometni nesreči pri Trentu, njegov pokojni dedek pa je bil voditelj videmske neofašistične celice. Mama in oče sta bila prepričana levičarja (študirala sta na Fakulteti za sociologijo v Trentu ravno v času, ko je tam Renato Curcio ustanavljal rdeče brigade) in po mnenju karabinjerjev in obveščevalnih služb tudi vpletena v levo obarvane teroristične atentate, stari oče, pa kot rečeno, prepričan fašist. Ne le to, temveč tudi prevratnik, ki najbrž ni bil direktno vpleten v atentat v Petovljah, a je o njem in njegovih izvajalcih veliko vedel.

Trpka družinska zgodba se prepleta z zgodovino tistih za naše kraje in za vso Italijo temnih časov. Za atentat v Petovljah je bila sprva osumljena skupina Goričanov na osnovi lažnih pričevanj in montiranih dokazov, ki so jih pripravili ob privoljenju in sodelovanju državi nezvestih obveščevalnih služb visoki karabinjerski častniki. Resnica pa je bila povsem drugačna. Bombo, ki je ubila nesrečne karabinjerje, so izdelali in nastavili neofašistični teroristi, ki so bili pravnomočno obsojeni, kot tudi karabinjerski častniki in podčastniki, ki so krivdo za atentat hoteli naprtiti nedolžnim Goričanom, potem pa z vsemi sredstvi zavirali in ovirali delo sodnikov.

Koga so hoteli zaščititi karabinjerji, ki so ovirali preiskavo o Petovljah? Beneška sodnika Felice Casson (bodoči senator) in Carlo Mastelloni (do upokojitve je bil vodja tožilstva na tržaškem sodišču) sta bila prepričana, da je bila v atentat tako ali drugače vpletena tajna vojaška organizacija Gladio, dolgotrajne preiskave tega sicer niso potrdile, sum pa ostaja. O zagonetni vlogi tajne vojaške organizacije se je ukvarjala tudi posebna parlamentarna preiskava, ki je izpostavila, da je bil Gladio posebno »aktiven« na italijansko-jugoslovanski meji, kar so na lastni koži preizkusili Beneški Slovenci.

Quarin v knjigi na osnovi uradnih dokumentov in novinarskih prispevkov (med drugim tudi Claudie Cernigoi) veliko piše o skladišču orožja in razstreliva organizacije Gladio, ki so ga odkrili v Nabrežini na skalnatem obronku v bližini razgledišča Tiziana Weiss. Domači karabinjerji so februarja leta 1972 dejansko inscenirali odkritje tega skladišča (uradno se je imenoval Nasco), ki so ga v resnici odkrili poleti leta 1971, a so stvar zamolčali, da ne bi zgodba o rovarjenju Gladia pronicnila v javnost.

Iz nabrežinskega skladišča naj bi prišlo razstrelivo, s katerim so fašisti (»izmaknili« naj bi ga Gladiu, a kako so vedeli zanj?) izvedli ne samo atentat v Petovljah, a tudi eksploziv vrste T4 za spodleteli atentat (1969) na slovensko šolo pri Sv. Ivanu v Trstu in morda tudi za pokol v milanski Kmečki banki istega leta. Eno največjih skladišč orožja in razstreliva Gladia sta odkrila domača fanta (eden od njiju je bil sin nabrežinskega marešala), domači karabinjerji pa so na ukaz nadrejenih in na pritisk »globoke države« vse prikrili. A ne za vedno.

https://www.primorski.eu/kultura/crni-lok-od-nabrezine-do-petovelj-BX541524

DI SANGUE E DI FERRO – intervista a Luca Quarin di Iuri Lombardi su YAWP

DI SANGUE E DI FERRO – intervista a Luca Quarin di Iuri Lombardi su YAWP

Luca Quarin, Di sangue e di ferro, l’interrogatore della storia

Sono i fatti a nascondere la verità storica e forse, senza tanti preamboli, possiamo affermare che la verità sta ai margini dove il messaggero addetto al racconto e all’epica racconta ciò che non è narrabile. Lo scrittore dice infatti la verità mentendo, attraverso l’uso della menzogna.

A parlarci di questo, in piena libertà, è Luca Quarin, autore friulano, da sempre narratore di verità scomode che molto chiaro ha il ruolo dello scrittore: il privilegiato della narrazione.

L’occasione dell’intervista che segue, che vuole essere una conversazione senza pretese tra di noi, è motivo di poter discutere del suo ultimo romanzo Di sangue e di ferro (Miraggi Edizioni, 2020) https://www.miraggiedizioni.it/prodotto/di-ferro-e-di-sangue/, una storia particolare sul destino della nostra Italia, un viaggio tra i misteri, su ciò che non si può dire o semplicemente riferire.

Luca che da sempre si occupa come narratore di questo, già conosciuto come scrittore di racconti e al pubblico con il suo precedente romanzo Il battito oscuro del mondo ( Autori Riuniti, 2017), e attraverso le pagine della sua ultima fatica letteraria si incorona lui stesso mediante la tecnica della finta-fiction.

Il narratore di fatto facendo narrazione, sviluppando una certa epica nei fatti che racconta, diventa un cronista estraneo alla storia e adottando un comportamento distaccato in lei si immedesima, si inabissa come in un oceano.

Che cosa è la letteratura? Cosa la storia? L’interrogativo forse non trova risposta. E allora forse possiamo solo soffermarci a fare supposizioni, a teorizzare sull’impossibile come Quarin ci suggerisce.

Intervista a cura di Iuri Lombardi

YAWP: “Di Sangue e di Ferro è un romanzo sulla storia nera d’Italia, in particolare vista dal Friuli, apparentemente una terra di confine, ricca di storia, linguisticamente interessante ma che pare nascondere qualcosa. Ci potresti raccontare come nasce questa idea e soprattutto quale è stato il ruolo del Friuli nella storia d’Italia?”

LUCA QUARIN : “Per quanto riguarda il Friuli direi che è proprio il termine confine ad averne scandito la sua storia e anche la mia storia, il suo essere al margine delle vicende storiche e il mio essere al margine di quello che accadeva nel mondo. Essere al margine è sempre una condizione privilegiata, vuoi perché nessuno si interessa a te e sei libero di percorrere le strade che ti interessano, vuoi perché puoi osservare le cose da lontano, vuoi perché gli eventi attraversano i margini ma non si fermano mai sui margini, finiscono sempre per svolgersi altrove, vuoi perché hai l’impressione di dover colmare la distanza che ti separa dal cuore della Storia e di conseguenza ti muovi continuamente, oscillando al di qua e al di la del confine, come il protagonista del mio romanzo rispetto alle vicende del suo passato o come il Quarin che scrive rispetto al Quarin che viene scritto”.

YAWP: “Un altro interessante aspetto che emerge dal tuo romanzo è che i fatti nascondono la verità. Intendo non la verità spicciola, ma la grande verità, il segreto della storia, la dinamica che si cela dietro a certi eventi, e questo porta a formulare un nuovo romanzo, o meglio un inedito, per certi versi, genere, quello della finta fiction. Qual è quindi l’esigenza di uno scrittore: ricostruire i fatti – sapendo di mentire- o dire la verità?”

L.Q: “Manganelli sosteneva che non ci fosse altra possibilità di dire la verità se non attraverso l’uso della menzogna. Auden invece faceva un discorso diverso e diceva che ci sono due momenti in cui l’autore dialoga con il proprio libro. Mentre lo sta scrivendo, lo scrittore interroga il suo progetto come la madre interroga il bambino che cresce nella sua pancia. Si domanda e gli domanda come sarà, che cosa gli piacerebbe diventare, che cosa faranno insieme. Il libro e il bambino sono pura possibilità, pura ipotesi. Né uno né l’altro posseggono una risposta. Quando ha finito di scrivere il romanzo, l’autore può continuare questo dialogo soltanto con sé stesso. Il libro ormai è nelle mani del lettore, non risponde più a lui, come il bambino è nelle mani del mondo e non risponde più alla madre (le madri ci mettono un po’ a comprenderlo e spesso anche gli scrittori ci mettono un po’ a comprenderlo). Lo scrittore, se è onesto, deve chiedersi che cosa ha fatto bene e che cosa ha fatto male, che cosa potrebbe migliorare in futuro, che cosa ha imparato scrivendo quel libro, come si colloca quel lavoro all’interno della sua opera e che rapporto ha con quello che lo precede e con quello che lo segue. Deve prendere le distanze. Deve allontanarsi. Si tratta, con tutta evidenza, dell’esatto contrario di quanto avviene nel mio romanzo. Qui la scrittura e la riflessione sulla scrittura si intersecano e si sostituiscono (come il vero Quarin e il finto Quarin, come la verità e la finzione in generale), oppure si escludono, dipende dal punto di vista, comunque sempre coesistono, in una forma che è tipicamente modernista ma anche postmoderna. Il romanzo scompare parlando di sé stesso e lascia spazio al vero protagonista della scrittura, che è sempre il silenzio”.

YAWP: “A questo punto ti chiedo: ma la storia esiste oppure è solo un’invenzione degli storici?”

L.Q: “Ho l’impressione che la Storia sia una necessità umana di dare ordine e soprattutto significato alle macerie che i fatti lasciano sempre alle loro spalle. Dunque la Storia senza dubbio esiste come necessità ed esiste come pratica, anche quotidiana. Si tratta di una pratica laboriosa, molto artigianale, per cucire insieme i fatti all’interno di un sistema semantico che comunemente chiamiamo struttura narrativa, che è l’unico modo che conosciamo per continuare ad attraversare le ombre che formano la realtà. Un filo di Arianna che apparentemente ci impedisce di perderci nel nulla ma che probabilmente ci trattiene all’interno del labirinto da cui cerchiamo continuamente di evadere”.

YAWP: “La mia sensazione, leggendo il tuo romanzo, è che la storia può esistere solo attraverso un discorso di avanzamento dell’epica; voglio dire dal momento che faccio epica probabilmente faccio la storia. Ma se così fosse quale è il senso del divenire?”

L.Q: “Ho dei dubbi sull’idea di progresso illimitato nata con l’illuminismo e diventata il dogma del capitalismo neoliberista. Non vorrei che anche il divenire finisse per sottostare all’effetto Flynn, secondo cui i figli devono essere sempre più intelligenti dei genitori, altrimenti sono destinati a soccombere. Nelle ultime pagine del romanzo ho ripreso il ragionamento che Borges fa sull’idea della storia di Cervantes, attraverso il personaggio di Pierre Menard, usando le medesime parole del grande autore spagnolo, il padre assoluto del romanzo. Stando a Cervantes la storia è uno strumento per interpretare la realtà, stando a Borges la storia è uno strumento per riprodurre la realtà”.

YAWP: “D’altronde gli storici nascondono la verità e forse gli unici a svelarla, potenziali messaggeri, sono gli scrittori e il popolo che è costretto a subire certi eventi ma che essendo folla non riesce a spiegarli. Gli storici hanno nascosto per lungo tempo la questione della P2 in Italia, i depistaggi di certe trame occulte, per non dire atlantiche, a cominciare da quella fantomatica (e mi scuso se sembro poco patriottico in questo) unità della nazione dove la questione del brigantaggio non viene citata per ragioni politiche (una guerra civile di tanti morti e che la letteratura ne ha parlato attraverso Alianello, Nigro ecc..). Ora i fatti vengono nascosti, secondo te, per ragioni politiche o perché il fatto di per sé nasconde segreti?”

L.Q: “I fatti mi sembrano sempre inspiegabili. Sono come la carcassa di un animale abbandonato sul bordo della strada. Non si sa chi o che cosa lo abbia ucciso né per quale ragione. E così ognuno è libero di cibarsene come preferisce. Ecco, in questo naturale cibarsi dei fatti ci stanno le manipolazioni della politica, quelle della storia, quelle dei media, quelle delle persone comuni. Ognuno ha bisogno di una storia che sia coerente con la sua cultura e ognuno costruisce la propria storia a partire da un brandello della carcassa, strappandolo dal corpo degli eventi e innestandolo nel corpo del racconto. Dunque, con il trascorrere del tempo, la carcassa si dissolve sempre di più fino a scomparire, lasciando dietro di sé soltanto un alone iridescente che è quello della memoria”.

YAWP: “In Italia chi fa letteratura e non prodotti editoriali rimane al margine, costretto quindi a rivolgersi a un gruppo, a una élite e il tuo romanzo è alta letteratura. Ma questo decadimento culturale- quasi da basso impero, da storia quasi da non raccontare– come cantavano alcuni versi di De André, a cosa è dovuto?

L.Q: “Mi sembra una questione che ha molto a che fare con l’evaporazione delle élite, che è un punto cieco del nuovo millennio ma direi che è anche un punto cieco della cultura illuminista. Questo scollamento tra élite e popolo ha trasformato probabilmente le élite in una oligarchia molto ristretta e il popolo in una massa silenziosa e omogenea. Il romanzo mi sembra sia rimasto stritolato in questa disinter-mediazione, passando da strumento per comprendere la realtà a strumento per sostituire la realtà. Uno vale uno. Lo scrittore non può più mettersi in mezzo tra il lettore e la realtà, deve soltanto riprodurla attraverso una storia. Di conseguenza è terminata l’epoca del modernismo e delle avanguardie e si è restaurato il romanzo ottocentesco, quel viaggio dell’eroe di Vogler che è diventata l’ossatura delle “storie” tanto amate dalla grande editoria”.

YAWP: “Gli editori sono al servizio delle lobby e loro stessi – parlo della grande editoria- sono il potere, ma non credi che a questi detentori del potere manchi un coraggio culturale?”

L.Q: “Il coraggio manca sempre, purtroppo. Manca nella società, manca nel mercato, manca nelle relazioni umane. Il coraggio ha a che fare con il nuovo, con ciò che ancora non esiste, con ciò che si trova nell’oscurità e potrebbe uscire dal buio avventandosi su di noi. Tieni conto che il tempo di big data, il nostro tempo, è il tempo della reiterazione, dove i dati del passato servono per costruire le forme del futuro, un futuro analogo al passato ma con un’altra pelle. Anche l’editoria partecipa a questo grande spettacolo consolatorio, facendo un enorme sforzo per realizzare abiti nuovi sopra corpi che invece sono vecchi, incapaci di tramontare. Detto questo, direi che si tratta anche di valutare quale sistema narrativo debba utilizzare il romanzo contemporaneo per assemblare le informazioni in un flusso logico che rappresenti l’esperienza e allo stesso tempo la superi, costruendo un ponte tra quello che è stato e quello che sarà. Ne sapeva qualcosa Proust che ha sempre posto l’accento sui tempi verbali, utilizzando il passato prossimo per confinare il tempo perduto in un spazio lontano ma al tempo stesso accessibile, un’idea brillante per includere sia il trascorrere del tempo che il suo essere perpetuo”.

YAWP: “Tu vieni da una terra particolare, una volta, sino a pochi decenni fa era considerata il meridione del nord; una regione storica che dalla Carnia scende al mare, divisa da un fiume, il Tagliamento, e che ha partorito grandi geni come Pasolini, Sgorlon, in Friuli nasce la Gladio; ci parli di questo evento storico?”

L.Q: “Gladio è stata un’organizzazione segreta nata negli anni cinquanta, su sollecitazione della Cia e dei servizi segreti delle nazioni atlantiche, per contrastare una possibile invasione nell’Europa occidentale da parte dell’Unione Sovietica e dei Paesi aderenti al Patto di Varsavia. La sua esistenza è rimasta segreta fino al 1984 quando Vincenzo Vinciguerra, nell’ambito delle rivelazioni sulla strage di Peteano, ha svelato per la prima volta il ruolo di questa organizzazione e i suoi meccanismi di funzionamento. Senza entrare nei dettagli di una vicenda di enorme interesse che suggerisco a tutti quanti di approfondire, direi che la storia di Gladio e la storia del Friuli si sono talmente intrecciate nel dopoguerra, proprio per il discorso sul confine che facevamo prima, da dover essere sempre raccontate insieme. Nel mio romanzo i personaggi si muovono proprio su quel palcoscenico, ovviamente in una dimensione finzionale e non giornalistica, per raccontare un frammento di quella vicenda”.

YAWP: “Alla fine si potrebbe dire ancora cose, fare nomi che non faccio, nascondo la verità come puoi intuire. Tuttavia, che differenza fa tra la narrazione e la descrizione?”

L.Q: “Ho l’impressione che la “descrizione” abbia ancora a che fare con il Novecento e continui nel tentativo di guardare da fuori la realtà, cercando di raccontarla, mentre la “narrazione” mi pare più incardinata nel presente, anche in virtù del ritorno della scrittura attraverso i media, e dunque sia un po’ più indistinguibile dalla realtà, visto che contribuisce a generarla. Ecco, questa impossibilità di separare la realtà dall’immaginazione che l’ha generata mi pare una interessante forma di verità”.

YAWP: “Quali sono i tuoi progetti futuri?”

L.Q: “Mi mancano pochi capitoli per terminare una storia ambientata di nuovo negli Stati Uniti, come il mio romanzo d’esordio, che racconta di un guru della robotica che nel 2011 scompare improvvisamente insieme alla sua famiglia e di una capanna che nel 2013 viene risparmiata da un enorme incendio che devasta lo Stanislaus National Park. La storia si conclude nel Pando, detto anche “gigante tremante”, l’organismo vivente più grande e più antico del mondo, che si trova nella foresta nazionale di Fishlake, in Utah. Il protagonista è un giovanissimo giornalista italiano, Ferrante Savorgnano, che inseguendo un’adorabile attivista della Rainforest Alliance, cerca di fare luce su entrambi i misteri”.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

https://www.barbaricoyawp.com/post/intervista-luca-guarin-di-sangue-e-di-ferro-l-interrogatore-della-storia

IL CRINALE DEL TEMPO – recensione di Davide Morresi su Read and Play

IL CRINALE DEL TEMPO – recensione di Davide Morresi su Read and Play

Cos’è Il crinale del tempo?
È un romanzo, sì, ma breve.
È un’autobiografia, perché la storia narra – anche – di episodi reali vissuti in prima persona dall’autore.
È un racconto, perché nel libro c’è quel “Tutto a ferragosto” che ha il sapore di narrativa veloce, che solo apparentemente è distante dal resto della trama.
E poi è quello spazio temporale che l’autore percorre per tornare nel passato, alla sua infanzia, a quegli eventi traumatici, per affidarli alla penna di uno scrittore alter ego, protagonista di questo libro, e lasciarli così liberi di volare via. 

Nell’incipit troviamo il match tra Muhammad Ali e Foreman. Un incontro che, si scoprirà lungo la narrazione, ha un valore altamente simbolico. In un’intervista, Vittorio Graziosi spiega: “Ho voluto usare questa storia come incipit perché sia metafora del coraggio. L’idea di base è che nella vita ci vuole coraggio non solo per vincere un conflitto, ma anche per iniziare ad affrontarlo”. Ed ecco palesato il leitmotiv di questo libro tanto avaro di pagine (sono 115) quanto generoso di, appunto, coraggio.

Nella stessa intervista, che potete vedere qui, Graziosi dice anche: “Per portare i lettori nel mio crinale del tempo avevo bisogno del coraggio di raccontare questa storia, dopo aver avuto il coraggio di superarla. E dall’incipit affiora perfettamente questo coraggio attraverso la vittoria di Muhammad Alì. Tra l’altro si tratta di un evento avvenuto nel 1974, come quello che racconto”.
1974, anno in cui lo scrittore protagonista ritorna attraverso il crinale del tempo dopo aver visto il manifesto funebre dell’uomo che qualche pagina più avanti verrà chiamato “il mostro”. Il manifesto spinge Francesco, questo il nome dello scrittore protagonista del romanzo, a sedersi alla scrivania per fissare la propria storia, questa storia, ora accettata, metabolizzata, superata, con un gesto tanto potente quanto simbolico, quello della scrittura: usare le parole, il nero sul bianco, per edificare pagine che volino libere verso chiunque voglia leggerle, come a eliminare del tutto un morbo esterno. Come se fa una terapia contro un virus. A tale proposito, Graziosi aggiunge: “Se questo libro fosse una medicina, sarebbe un antinfiammatorio, preferibilmente naturale. Una medicina indispensabile”.

Una storia di violenza nella quale Francesco si trova coinvolto in un modo così naturale da sembrare quasi un gioco, fino a quando comprende, ancora bambino, di essere vittima di un abuso. 
La trama copre un arco di numerosi anni: Francesco bambino che vive con i nonni, Francesco che si trasferisce in Austria dove i genitori si trovano per lavoro; Francesco che torna in Italia con la famiglia. E la vita che cambia e ogni volta si adatta al nuovo, senza trovare punti fermi, fino ad arrivare all’abuso psicologico e fisico subito insieme al fratello, per poi ritrovarsi adulto, quando va a trovare lo zio, in un ultimo gesto di addio, nella tomba dove è sepolto.

Poi, trasferito in Austria, non avevo più terra da esplorare, nessuna scorreria su quei prati lisci come biliardi e il cielo tra l’azzurro e il grigio che soggiogava ogni cosa. Disciplina e ordine intorno a me e nella famiglia. Tutto sotto controllo con questa religione che invadeva ogni aspetto della vita. Una rete invisibile che invadeva l’estro e ogni pensiero maturato con l’esperienza personale.
Alla fine, per la mancanza di una vita veramente vissuta, anche uno zio così particolare non faceva suonare in noi nessun campanello d’allarme. Ci permetteva voli di fantasia e complicità, andava bene, pur di viverla la vita.
Così quando mio fratello se lo vedeva fuori dalla scuola con la sua giacca scura, in fondo era contento. Nel fracasso della massa di ragazzini pronti a muoversi per uscire, lo aspettava a braccia conserte vestito dei suoi abiti antichi e dello stesso identico tenue sorriso. 

Il percorso interiore di Francesco è intriso di delicatezza, come a comunicare che, con il coraggio, anche l’evento più distruttivo può essere quietato. C’è una positività diffusa che trasforma la violenza ricevuta in un fatto che, una volta rielaborato, lascia liberi al futuro.

È emblematico come il nome del protagonista venga svelato solamente a fine romanzo, quando il crinale del tempo ha fatto il suo dovere, la tempesta è cessata, l’uomo adulto ha ora una sua personalità forte e ha dimostrato il proprio valore, riprendendosi la vita con integrità e determinazione. Palesare il nome solo a trauma superato è una raffinatezza che Vittorio Graziosi usa per sottolineare come tutto il libro sia il viaggio del protagonista verso il recupero di una serenità rubata e di un’identità minata. 


In Read and Play trovi anche le recensioni con soundtrack di questi libri autobiografici:
– Febbre di Jonathan Bazzi
– Bianco di Breat Easton Ellis
– Svegliami a mezzanotte di Fuani Marino


Particolarità

Tra le altre, ho notato queste tre caratteristiche narrative che ritengo degne di essere sottolineate:

  1. il protagonista scrive in prima persona: è uno scrittore che narra la propria storia, spinto dalla necessità profonda di liberare i ricordi. Si presenta forte il tema della scrittura salvifica, terapeutica, affidata a un alter ego, tecnica narrativa non nuova, ma che qui si presenta con rara e piacevole naturalezza;
  2. accanto al plot principale, c’è una seconda storia: quella che lo scrittore scrive in terza persona, narrando le vicende di Ahmed e Anna, che si associa a quella autobiografica e la intervalla. Lo scrittore ha bisogno di riprendere fiato nei momenti in cui la prima storia tocca punti sensibili del proprio animo;
  3. la scrittura è ricercata, il lessico e la sintassi sono studiati con accuratezza, nulla è casuale. La prosa lirica e delicata trasmette una sensazione positiva nonostante il tema affrontato sia molto forte e per nulla tranquillizzante, a rimarcare come attraverso il coraggio si possono superare anche le situazioni più difficili. 

La soundtrack

Ascolta la colonna sonora: Il crinale del tempo – Vittorio Graziosi

Come il crinale del tempo percorre tutta la narrazione, così anche i riferimenti musicali sono funzionali al viaggio nella memoria. Si va dalle sigle delle trasmissioni televisive degli anni Sessanta a Scende la pioggia di Gianni Morandi che accompagna il ritorno in Italia dall’Austria, passando per Tipitipiti di Orietta Berti e per un motivo suonato da un artista di strada su un “vecchio pianoforte verticale tutto rigato”.
Tutti i brani si riferiscono a citazioni e riferimenti musicali contenuti nel testo.

  1. Canzonissima sigla 
  2. Rischiatutto sigla
  3. Reine de musette – Yvette Horner
  4. Scende la pioggia – Gianni Morandi
  5. Quella carezza della sera – I Bandiera Gialla
  6. Tipitipiti – Orietta Berti
  7. Astro del ciel – Coro
  8. Danza lucumi (piano) – Bebo Valdés

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

L’AMORE PUZZA D’ODIO – recensione di Valeria Zangaro su Rivista Blam!

L’AMORE PUZZA D’ODIO – recensione di Valeria Zangaro su Rivista Blam!

L’amore puzza d’odio: il tempo di una storia d’amore scandito da stagioni e poesie

In quest’opera Massimiliano Boschini ci racconta, con un linguaggio tagliente e disincantato, una storia d’amore vista con gli occhi di un uomo. Lo fa in una maniera originale, avvalendosi di 52 componimenti poetici suddivisi, a loro volta, nelle quattro stagioni dell’anno, che sono poi anche le stagioni dell’amore.

L’amore puzza d’odio: la trama del libro di Massimiliano Boschini

Una sera lui, con una Ceres in mano, conosce lei:

Ti vidi tirartela solo un pochino
tra amiche con lacca e senz’acca

Sono sguardi ammiccanti, quelli che si scambiano, tipici degli inizi, di quando l’uomo e la donna mettono in scena la classica danza del corteggiamento, di lei che sta sulle sue e aspetta che lui faccia il primo passo. E poi quel momento arriva:

mia Cenerentola,
ti tolsi una scarpa
chiedendoti un numero

È chiaro ormai che i due si piacciono. È arrivata l’ora di scambiarsi il numero di telefono per fissare poi il primo appuntamento cui precede il rito preparatorio di lui:

lavato e stirato
mutande Uomo e Arbre Magique

e pronto per
un incontro galante, meglio se osè
arriva il primo bacio, il primo
parabrezza appannato
sipario del nostro amore

Sopraggiungono le farfalle nello stomaco e le scritte sulla spiaggia. Nasce una relazione, i due si sposano, la loro vita è scandita dalle domeniche passate all’Ikea e dai pomeriggi sul divano. Eppure poco alla volta s’insinua nella coppia l’incomprensione e la stanchezza della routine. Persino dirsi “ti amo” è una frase stanca, che ha la stessa passione di una madre che ti chiede “Tutto bene a scuola oggi?”. L’amore si frantuma, la coppia si separa, subentrano dapprima la rabbia, poi la nostalgia, e infine l’odio, fino alla morte di qualsiasi sentimento.

Lungo tutta l’opera di Boschini, Vincenzo Denti – pittore e artista, nonché docente presso il Liceo Artistico G. Romano di Mantova – ci delizia con le sue divertenti illustrazioni, o suggestioni, come le definisce lui…

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