La strage di Peteano e le nebbie della storia. Quando la letteratura fa luce sulle bugie
Ha il sapore della ghost story questo nuovo romanzo dell’udinese Luca Quarin, giunto alla seconda prova narrativa con Di sangue e di ferro(Miraggi edizioni) dopo l’ottimo esordio con “Il battito oscuro del mondo”. Gli ingredienti ci sono tutti, i ricordi sepolti tra le pieghe della storia, una casa antica nel centro di Udine, una vecchia signora in punto di morte, i segreti di una famiglia ben nascosti nei vicoli scuri delle trame giudiziarie, tra i misteri delle pagine più nebulose della cronaca italiana del secolo scorso.
Andrea Ferro, il protagonista, si trova costretto a violare la banalità di un’esistenza piuttosto insignificante, per raggiungere la nonna morente nella città che un tempo era sua, con tutto il pesante bagaglio di ricordi generati dall’enigmatica scomparsa dei genitori quando era ancora un bambino.Chi era sua nonna, ma, soprattutto, chi era suo nonno? Fu davvero un incidente stradale a causare la morte di suo padre e sua madre? Che ruolo ha avuto la sua famiglia nella strage di Peteano, l’attentato dalla dirompente forza simbolica, divenuto, per causa dei numerosi depistaggi a sfondo eversivo, la raffigurazione più dolorosa delle inestricabili ombre politiche del dopoguerra?
Tra richiami del passato, spunti di cronaca giudiziaria e approfondimenti giornalistici, Ferro si trova a fare i conti con l’immagine sbiadita del tempo e persino con lo stesso autore, Luca Quarin, che attraverso un brillante espediente narrativo riesce ad entrare nella storia, confrontandosi con il protagonista sul significato più profondo della creazione letteraria e sulla forza distruttiva della realtà, che nessun romanzo riuscirà mai ad eguagliare. Anche se alla fine sarà lo stesso Quarin a scrivere ad Andrea Ferro che “le storie sono l’unico luogo dove ci è permesso vivere, l’unica esperienza che riesce ad interrompere il sonno da cui cerchiamo continuamente di svegliarci”.
Il romanzo si allontana dalle suggestioni che avevano ispirato il suo primo romanzo: si percepisce la tensione della ricerca e il desiderio di affrontare l’evento storico .
«Ho sentito il bisogno di sfidarmi su alcuni temi che non avevo avuto la forza di affrontare in precedenza, e cioè i luoghi in cui sono vissuto, la Storia che ho attraversato e le mie esperienze personali. L’ho fatto portando avanti due discorsi, un ragionamento sull’identità e un ragionamento sulla Storia, con un protagonista alter ego che mi ha permesso di collegare questi temi».
Quando è nata l’urgenza di immergersi in quegli anni?
«Faccio parte di una generazione che è nata con la politica nel sangue, con una grande sensibilità per le vicende collettive e grande interesse per tutto quello che accadeva nel nostro paese in quegli anni. Una generazione che è vissuta all’interno delle grandi narrazioni del Novecento, aderendo a una o all’altra, e che a un certo punto ha sentito il bisogno di capire che cosa era successo in quel periodo, rendendosi conto dell’inadeguatezza del racconto storico e dell’impossibilità di ricostruire i fatti».
Nel romanzo compare anche il suo autore, che si confronta con il protagonista su argomenti che accarezzano il fine ultimo della letteratura: come è nata l’idea di questo originale espediente narrativo?
«Un’idea nata qualche anno fa parlando di scrittura autobiografica al Festival Cartacarbone, dedicato all’autobiografia, manifestando le mie perplessità riguardo la “rigidità” dello scrivere di sé e il pericolo che questa rappresentazione possa diventare una gabbia della personalità. Mi è parso naturale affrontare il tema dell’identità narrativa, che è il tema centrale del romanzo, mettendomi in gioco come personaggio e come autore, per provare a smascherare le ambiguità che tutti vivono, io per primo, riguardo l’idea di sé stessi».
Ha incontrato da qualche parte il suo Andrea Ferro?
«Diciamo che è un incontro che temo di fare e che per questo l’ho simulato nelle pagine del romanzo, facendolo incontrare con un Luca Quarin che mi sono divertito a maltrattare e che mi somiglia in parte».
La narrativa è in grado di dipanare la nebbia della storia?
«Ho l’impressione che la nebbia della Storia sia proprio legata alla dimensione narrativa con cui si interpretano i fatti che la determinano, l’unico modo che abbiamo per sottrarre gli eventi della vita umana alla mancanza di senso in cui si svolgono. La Storia mi sembra un palcoscenico buio, dove gli attori commentano lo spettacolo appena concluso, che nessuno di noi è riuscito a vedere e che anche loro hanno visto solo per la propria parte, chiedendosi che cosa ne avrà pensato il pubblico».
Comincio col chiederti del titolo Cara catastrofe.
Prima di motivare la scelta, vorrei dire che Cara catastrofe è un titolo preso in prestito da un brano di Vasco Brondi, un musicista che amo molto. Abbiamo scelto questo titolo perché la raccolta narra, in versi, di una catastrofe emotiva, che – come di frequente accade – diventa cara, si abbraccia. Spesso, quando si vive il dolore, ci si culla in esso, ci diventa familiare. Ma non è solo questo: cara, perché è solo – io credo – attraversando la sofferenza che la si può superare. Negare il dolore non ci salverà da esso. Lo si deve guardare in faccia, farci i conti. A tal proposito, mi vengono in mente dei versi di Friedrich Hölderlin: «Dove c’è pericolo cresce anche ciò che salva».
Mi è molto piaciuto il riferimento a una geografia emozionale : “m’innamori come il gelo sul lungolago di Mantova, le luci dei lampioni di Milano, le onde sul porto di Genova e la strada oscura dei vicoli di Napoli”.
Come molte persone che fanno – o tentano – l’arte, sono “ossessionata” dalla bellezza. La cerco nelle parole, certo. E nei luoghi, che matericamente la rappresentano. E, mai rinuncio a cercarla nelle persone, che delle parole sono gli autori e dei luoghi gli abitanti. L’immagine utilizzata in questo componimento, tenta di racchiudere il percorso di questa mia ricerca. Metterla in apertura della raccolta, mi sembrava potesse rappresentare una sorta di dichiarazione d’intenti.
In una tua poesia parli dell’inciampare di fronte a chi si ama come se si fosse qualcuno che entra in scena senza avere provato la parte. Questo essere goffi e senza difese mi ha ricordato una poesia di Saffo in cui lei guarda la donna che ama del tutto sopraffatta, la lingua le si spezza, gli occhi non vedono, non sente ed è scossa da tremore.
Tutta la silloge è permeata da questo senso di inadeguatezza dell’io “narrante”.
Tanto nell’inconsapevolezza di ciò che verrà (incarnata nella prima sezione), quando si è scossi dal tremore delle emozioni. Quanto nel momento della presa di coscienza, che con forza cerco di rappresentare nel corpo centrale della raccolta, dove la voce diventa urlata, viscerale. Al centro c’è il tema amoroso, che diventa tuttavia un espediente per raccontare moti interiori, universi emotivi, di fronte a qualcosa che crediamo di non saper governare, che può essere l’amore, ma anche la violenza, o l’esperienza dell’abbandono. Tutte e tre in qualche modo sono esperienze “traumatiche”, capaci di segnare una frattura interiore, che – questo è il mio tentativo – attraverso il linguaggio poetico si tenta di sublimare.
In questa tua raccolta di poesie il legame diventa sottrazione, tormento, punizione, soffocamento. Vorrei un tuo pensiero sul complesso tema della violenza verso le donne.
Con il mio lavoro di giornalista mi sono occupata a più riprese di violenza sulle donne. Quella vissuta dalla “vicina di casa”, che troppo spesso ignoriamo. Ma anche affrontando fenomeni sconosciuti nella nostra cultura, quella occidentale, penso ad esempio alla pratica dei matrimoni forzati. Nella seconda sezione della raccolta, più che altrove, assumo dunque il ruolo di testimone. Raccogliendo alcune testimonianze (in alcuni casi dirette, altre per interposta persona), ho tentato di traslare in versi un certo universo di sofferenza declinata al femminile, per cercare di fare luce su dinamiche di violenza che esistono e che spesso sono macchiate dall’omertà, dal pudore e senso di vergogna della donna stessa, e – spiace dirlo – dai luoghi comuni. Si pensa alla donna che vive dinamiche di violenza domestica come a una donna fragile. La narrazione della violenza sulle donne dovrebbe cambiare: si dovrebbe parlare, invece, della forza di queste donne (e qui cito un’intervista che ho fatto a Lella Palladino, ex presidente della rete D.i.Re – donne in rete contro la violenza) di aver vissuto un tale dolore e della loro capacità di uscirne, di riprendere in mano la propria vita. La terza sezione della mia silloge, infatti, si concentra sull’esperienza dell’abbandono, che è anche un abbandono da qualcosa, per approdare finalmente a se stessi.
Vorrei una tua riflessione sulla parola vittima.
Credo ci siano due terreni di esplorazione teorica (e anche pratica) intorno alla terminologia che ruota interno alla parola “vittima”. Ci si può considerare vittima, e lo si può essere. In una dinamica di amore disfunzionale o violento, spesso la proporzione poggia su una parte che incolpa e nell’altra che si sente immotivatamente responsabile. Nel corpo centrale della raccolta, ho tentato di fare un lungo lavoro sul concetto di colpa. L’occasione per lavorare su questo concetto l’ho avuta ascoltando la storia di Celestine, una ragazza africana, vittima di matrimonio forzato. Ero in Benin per girare un video-reportage, Celestine è una delle tante donne vittime di questa pratica. Quando mi ha raccontato la parte più intima della sua storia, ovvero di aver concepito i suoi tre bambini con la forza, spesso combattendo per opporsi, stringeva tra le mani il crocifisso che aveva al collo; e senza remore mi ha confessato di sentirsi in colpa. Sentiva la colpa di essere vittima del suo carnefice. Ho capito che quando si raggiunge lo zenit della sofferenza si sente la necessità di trovare un colpevole e quanto sia facile trovarlo in se stessi. Ed è qui la disfunzione, la dismorfia dell’amore malato o imposto.
Hai una tua personale definizione di felicità?
La felicità è poter scegliere. Un’esistenza infelice è quella nella quale si è soggiogati; quando l’altro da sé diventa condizione di sé. Si può essere felici solo quando questa condizione di assoggettamento all’estraneo scompare. E lo dico in senso lato. Ho raccontato di pratiche di sfruttamento e schiavitù, qui è evidente incappare in questa sproporzione esistenziale. Ma capita anche in quella che viene definita una regolare vita comune. È frequente rinchiudersi nelle non scelte, credendo di non avere alternative e, ahimè, spesso non avendone.
Le tue poesie offrono uno scavo a tratti lacerante, fisico. Quando hai iniziato a scrivere poesie?
La lacerazione delle mie poesie rappresentano quella voce che spesso si preferisce chetare o è più saggio, per proteggersi, tacere. Volevo che fosse così, volevo che la voce fosse viscerale. È quello che cerco anche nella poesia che leggo e ho letto, penso a voci come quelle della Marina Cvetaeva, Nina Cassian, Alejandra Pizarnik. Ho iniziato a scrivere poesie in età adulta, intorno ai 25 anni. Sentivo la poesia il mio modo di espressione migliore, essendo principalmente, o quasi esclusivamente, lettrice di poesia. Perché mi consente di dire senza “spiegare”, lasciando il lettore libero di posizionarsi negli anfratti emotivi che reputa più confortevoli.
Volevo chiederti come stai vivendo in questo periodo di pandemia.
Vivo questa pandemia, dal punto di vista pratico, in maniera frenetica. Facendo la giornalista e vivendo in Lombardia, la regione più colpita dalla diffusione del Covid-19, ogni giorno testimonio l’emergenza sanitaria. Dal punto di vista emotivo in modo un po’ confuso. Forse per la prima volta da 15 anni a questa parte, da quando ho iniziato a fare la giornalista, non riesco ad avere uno sguardo di prospettiva, ho una capacità di interpretazione e critica della realtà sociale che definirei monca. Come tutti, probabilmente, navigo a vista. Rispetto le indicazioni e attendo che passi.
In conclusione ti domando, anche se come tutti noi al momento stai navigando a vista, a cosa stai lavorando e quali sono i tuoi progetti futuri.
Sto già lavorando alla mia nuova raccolta poetica, sono ancora in fase embrionale, ma la mia idea è quella di parlare di universi emotivi dando a questi una qualificazione soggettiva, inserendo nei versi “personaggi” che qualifichino il moto interiore che voglio esprimere. Ma è troppo presto per parlare della strutturazione del testo. Intanto scrivo e soprattutto leggo, perché come scriveva Borges: “io sono orgoglio delle pagine che ho letto”.
L’odio perde la consistenza oleosa di un pensiero e diventa azione.
Distruggere, annientare perchè
“nostre le strade
nostri i confini
nostri i cieli
sopra gli aquiloni.”
La cronaca diventa poesia e sfuma il nostro senso di impotenza di fronte ad una dilagante paura della diversità.
L’altro, il nemico anche se ha le sembianze di una bambina.
Giovanissima innocente su un letto di ospedale mentre i gemiti si alzano in cielo come preghiere.
“Uno di noi”, pubblicato da Miraggi Editore, fa percepire il pregiudizio, lo esaspera, lo scompone in frasi fatte.
Descrive il nostro tempo feroce dove nessuno si salva.
Daniele Zito ci invita ad ascoltare i colpevoli, gli indifferenti, le vittime.
“Giustizia sociale, Identità, Orgoglio nazionale” tornano come un ritornello stonato, mostrando il volto turpe di una società che non conosce più la compassione.
Il ritmo sincopato crea dei vuoti necessari, bisogna fermarsi, riflettere, accostarsi al testo senza perdere nemmeno una parola.
Il coro costruisce l’attesa, invoca la speranza di un cambiamento.
Il pentimento riuscirà a scavare le radici profonde di tanto insensato patriottismo?
Il rimorso sarà cammino verso la redenzione?
Si spengono le luci, resta un corpo che finalmente può osservare le stelle e un padre che di fronte alla morte si ostina a cercare le ragioni di tanto rancore.
Nami vive in un piccolo paese fatto di case che si affacciano su un’unica via chiamata Via dei pescatori. Boros è il nome del paese affacciato su un lago attorno a cui gira tutta la vita, reale e leggendaria. Un allevamento di storioni e una piccola fabbrica in cui si lavora il pesce. In lontananza le ombre scure di pozzi petroliferi che sembrano fare da contrasto all’unico chioschetto del paese in cui si vendono aringhe e semi di girasole. Nella piazza la statua dello Statista.
In questo scenario defilato cresce Nami, insieme ai nonni. Del padre non si sa nulla e della madre, il ragazzino, conserva l’indelebile ricordo di un’ombra rivestita da un costume da bagno e una voce che, in riva al lago, lo consola dal suo dolore allo stomaco. È un ricordo vago ma che prende, nell’animo del ragazzo, il posto del vuoto lasciato, mentre si addormenta sul ventre della nonna che gli racconta le storie dello Spirito del Lago e dell’Orda d’Oro i cui guerrieri aspettano di essere risvegliati da un altro guerriero. E mentre il lago si prende anche i nonni Nami comprende la durezza della vita, le ferite e le cicatrici di troppi strappi. Cresce lui mentre il lago si svuota sempre più. E in questo speculare procedere, lui parte alla ricerca di sua madre, tra incontri, dolori, fatiche e la “colpa” dell’essere chiamato figlio di puttana. Fono a un epilogo tanto bello quanto doloroso.
Il lago, di Bianca Bellova, tradotto in quindici lingue e vincitore di due importanti premi come il Premio Unione Europea per la Letteratura e il Premio Magnesia Litera, nella bellissima traduzione di Laura Angeloni, ci si presenta quasi come un libro a più livelli in cui, a quello della ricerca della verità da parte di Nami, si affianca quello simbolico ma anche quello di denuncia verso un sistema che sfrutta e uccide il lago il cui spirito sembra essere ridotto a fango e inquinamento e denuncia verso un potere politico assoluto e violento.
Ma è anche un libro in cui, alla conclusione, si inserisce l’accettazione delle vite altrui, la sospensione del giudizio, da parte di Nami, non tanto su chi fossero i suoi genitori ma sul perché abbiano fatto ciò che hanno fatto. Nami, nei momenti davvero importanti per il suo percorso, non è solo. E questo, credo, è uno dei motivi su cui mi sembra insistere la Bellova: la vecchia Dama che gli dirà che sua madre è viva e l’anziano genitore del ragazzo accusato, diciotto anni prima, di avere violentato sua madre, sono lì a dirci che un punto di domanda (da cui parte necessariamente una ricerca) può, girandosi a gambe all’aria, diventare un gancio.
Attorno a tutto questo un lago, il lago (con un articolo determinativo non casuale) che è un immaginario collettivo attorno a cui c’è la vita ma anche la morte, soprattutto quando inferta per placare uno spirito che sembra quasi una enorme nemesi, e dentro il quale ci sono fantasmi ma anche oggetti e corpi pronti ad essere restituiti. Tutto sorretto da una scrittura dentro la quale l’autrice sparisce per lasciare posto e attenzione alla storia, alle voci e ai sussurri dei protagonisti.
Il calcio è una cosa umana. Intervista ad Angelo Orlando Meloni
Intendiamoci subito: Santi, poeti e commissari tecnici, opera di Angelo Orlando Meloni pubblicata da Miraggi Edizioni, non è una raccolta di racconti a tema calcistico. Non solo, almeno. Perché a fatica troveremmo l’epica sportiva a cui siamo fin troppo abituati, il campione solo contro tutti, la forza del gruppo che riesce nell’impossibile, la redenzione attraverso il sacrificio sportivo.
Potremmo descrivere, con un certo grado di correttezza, Santi, poeti e commissari tecnici come l’affresco di una Sicilia ricca di storia e di storie. Un messaggio d’amore che non risparmia critiche alla presenza ingombrante di piccoli e grandi boss di provincia, tangenti, brutture industriali e architettoniche. Una prosa che rovescia gli stereotipi, che ci costringe a guardare a fondo nelle cose. Nel racconto L’aeroplano, per esempio, l’immagine dei ragazzini che giocano a calcio su strada, considerata ormai un emblema di purezza giovanile, diventa teatro di violenza e soperchierie. In questo teatro, il calcio viene vissuto come valvola di sfogo e denominatore comune.
Lo stile dell’autore diverte e provoca fitte al cuore, ci accompagna attraverso un piccolo mondo di giocatori bolliti, bluff conclamati, campioncini in erba senza possibilità, ci fa ridere per le loro disavventure per poi lasciarci a contemplare qualcosa di amaro, in eterno equilibrio tra incanto e disincanto.
La sensazione precisa era quella di un bluff, però il pensiero magicamente non riguardava nessuno. Lindo Martinez avrebbe segnato a valanga, Tito Recchia avrebbe vinto il Seminatore d’Oro, Siracusa avrebbe inglobato Catania, Palermo, Napoli, Roma, Torino e Milano,sarebbe partita in orbita e dall’alto del cielo stellato i tifosi avrebbero finalmente potuto pisciare sulla testa della gente, senza ritegno per nessuno,eccezion fatta per il papa, Maradona e forse Sofia Loren. “Precisi siamo”, sussurrò Fausto a Lino e a Gimmi, e quelle furono le uniche parole che pronunciò quel pomeriggio di luglio che c’era un caldo bestiale e tutti avevano lo stesso voglia di saltare e di cantare e nessuno di lavorare
Ho intervistato Angelo Orlando Meloni per parlare di sport e di vita, che sperro è quasi la stessa cosa. Lo ringrazio per la disponibilità:
Puoi raccontarci com’è nata questa opera, in che arco di tempo hai scritto i racconti?
La raccolta è nata in due momenti diversi. Uno dei racconti addirittura è il primo che ho scritto, un secolo fa, e tra l’altro era stato già pubblicato, ma la stesura era così ingenua che ci ho sofferto per anni. Così quando ho scritto gli altri testi che compongono il libro mi è sembrato fosse giunto il momento di rimettere a nuovo un paio di altre storie, più vecchie, ma sempre a tema calcistico. Non vorrei apparire presuntuoso, ma il libro mi sembra molto compatto e… no, non è nato in base a quelli che i poeti laureati all’università dell’autopubblicazione o della bolla social chiamano “urgenza espressiva a lungo repressa”. Il libro è nato perché è nato, cioè per un coacervo di cose che si mescolano fino a che questo stesso groviglio di amore per la lettura, nonché di sogni mostruosamente proibiti, vanità, ambizioni, passioni e idee mi ha portato ancora una volta a scrivere.
Lo sport vive di un’epica tutta sua, che è quella con cui viene raccontato da cronisti, giornalisti, esperti. Nella tua opera questa epica viene meno: la demistifichi e la svuoti di significato, ci porti in un mondo grottesco che è molto lontano da quello che vediamo su Sky Sport o alla Domenica Sportiva. Potresti riassumere ai nostri lettori che tipo di calcio hai provato a raccontare?
Bella domanda, mi sa che hai centrato il punto. Senza nulla togliere alla professionalità dei giornalisti, dei telecronisti, tutta gente con una preparazione enorme, che sanno quello di cui stanno parlando, c’è però un tono di fondo, epicheggiante, che accomuna e livella quasi tutti i giornalisti e critici e rende ahimè a volte indigeribile il mondo del calcio, almeno per me. Non avete anche voi nostalgia della Gialappa’s band e di Mai dire goal? Il mondo del calcio si prende troppo sul serio, i tifosi già al mattino davanti al caffè si prendono troppo sul serio, gli ultrà poi sono di una serietà talmente seria che fa paura, sono in guerra con l’universo, anche se nessuno è in guerra con loro. È un mondo monolitico che secondo me ha bisogno di un po’ di autoironia. Ed è anche per questo che ho raccontato un calcio grottesco, se vogliamo, di sicuro lontano dall’epos e dalle agiografie a cui siamo abituati.
Non è semplice definire il tono di questa raccolta. Il comico e il tragico, l’incanto e il disincanto, sembrano uniti in uno strano gioco di specchi. Spesso, tra le maschere che conosciamo nella tua raccolta, mi è venuto in mente il concetto di carnevale come lo definiva Bachtin, una sorta di rovesciamento divertito e violento dell’ordine sociale. Lo sport viene spesso raccontato così, con la persona più umile e sfortunata che può diventare un grande campione. Nei tuoi racconti succede sempre o quasi sempre il contrario. Anche il calcio è un gioco di potere?
Il calcio è una cosa umana e quindi è anche un gioco di potere. Avere entrature funziona sempre a tutti i livelli in tutto il mondo in qualsiasi ambito del sapere o dell’agire umano. Non sto dicendo che è giusto, sto dicendo che negarlo equivale a negare la realtà. Circa il tono di questa raccolta, ho sempre in mente un romanzo, Comma 22 di Joseph Heller, libro bellissimo pervaso di umorismo demenziale, che si trasforma pian piano da rappresentazione comico-grottesca della guerra in vera e propria tragedia. Incanto e disincanto, comico e tragico, come dici tu, possono andare di pari passo, forse perché la nostra stessa esistenza in questo pianeta va avanti in questo modo.
Molti ci dicono che lo sport è una metafora della vita. Secondo te è così?
Ovviamente è una formula che è stata ripetuta talmente tante volte da aver perso qualunque significato. Da un altro lato, però, a furia di ripetere che il calcio è una metafora della vita abbiano creato una specie di incantesimo e quindi… sì, il calcio è la metafora della vita, qualunque cosa ciò significhi. Per esempio, se applicata all’Italia questa formula magica ci rende egregiamente l’idea d’una nazione popolata da sessanta milioni di persone, in cui però vince sempre e soltanto e solamente il padrone; e agli altri restano le briciole.
I tuoi sono racconti di finzione. Se dovessi raccontare una storia vera di sport, quale vorresti raccontare? E perché?
Mi piacerebbe prima o poi scrivere di pallacanestro, sport sublime, ma rimanendo in ambito calcistico è fin troppo facile rispondere alla tua domanda con un nome: Zdeněk Zeman. Un genio, un personaggio unico, una spanna al di sopra di tutti gli altri, lui sì mito vivente del calcio.
Le poesie di Francesco Forlani, per Miraggi edizioni, parlano di un universo di abitanti silenziosi, tra strade deserte e lo sferragliare dei tram
La strada non è per persone sole, il cammino è sempre e comunque di tutti”.
Penultimi di Francesco Forlani, pubblicato da Miraggi in edizione bilingue, francese e italiano, è lo sguardo attento di un universo sommerso, abitante silenzioso e senza diritti.
“Basta davvero poca cosa, ma preziosa, al penultimo Per sentirsi seppur minima parte, un pezzo di questo mondo Così i tre boccioli di rosa, sulla piattaforma, in pieno inverno”.
Il verso è una brezza leggera, ritmata, incessante. Fa intravedere analogie per poi tornare al quotidiano scandito dallo sferragliare dei tram, da “ascensori non verticali ma obliqui”, da strade deserte. Le forme degli oggetti assumono contorni vaghi nel tentativo di esplorare il disagio sociale. Le panchine offrono riparo sostituendo gesti amorevoli che non arriveranno.
Francesco Forlani passa dalla poesia alla prosa mantenendo rigore narrativo. Non deraglia cercando l’aneddoto. La sua scrittura è affollata da volti e voci che dispendono i loro respiri in una nenia dolorosa. Figure che “a schiena dritta” provano a correre continuando ad immaginare un futuro. Esistenze rappresentate da coperte invecchiate, da sacchetti di plastica semi vuoti. Conoscono “la poetica della distanza”, ne sperimentano l’aspra dissonanza che arriva da case illuminate dove la luna ha lo sguardo benevolo.
Le immagini, in bianco e nero, si aprono lasciando spazio ad altre storie immaginate. I tratti decisi mostrano la notte dell’umanità, quella notte che non conoscerà l’alba se non sentiremo “rinascere dentro un soffio di vita nova, il gorgoglìo, la misura della forza”. Ritrovare le parole per urlare insieme: “vita, ehi vita mia, grazie”.
“Fino a quando ci saranno i penultimi questo vorrà dire che c’è ancora margine per l’umanità, che non siamo giunti alla fine del viaggio”.
Esordio letterario tardivo ma folgorante di un quarantanovenne che fino a quel momento svolse i lavori più disparati e meno lirici, da manutentore ferroviario a capostazione, assicuratore, commesso viaggiatore, operaio in acciaieria, imballatore di carta da macero e macchinista teatrale. “La perlina sul fondo” di Bohumil Hrabal esce per la prima volta in italiano, con una postfazione di Alessandro Catalano. Tradotto da Laura Angeloni per la collana dedicata alla letteratura ceca, è il regalo di compleanno della casa editrice torinese Miraggi ai suoi lettori, per festeggiare il decennio della sua nascita.
Considerato uno degli autori più importanti del Novecento, lo scrittore ceco raccoglie in questa sua prima antologia di racconti, datata 1963, i ritratti di uomini comuni, che nascondono in fondo all’animo, come tra le valve di un’ostrica, una perla, una scintilla di essenza umana. Personaggi marginali, sbruffoni e sinceri, scovati nei bassifondi e ai margini, in luoghi affollati e vitali, tra officine e birrerie, la fabbrica, le strade, le bettole malfamate. Ognuno coinvolto in situazioni che appaiono spontanee e nelle quali il dialogo, un lessico variopinto, tra slang e dialetto, prosa moderna e a tratti surreale, è investito dal potere straordinario che solo la realtà sa conferirgli.
Una tragica pagina di storia italiana che parte dalla provincia friulana. Il 31 maggio 1972 a Peteano, un tranquillo paesino in provincia di Gorizia, esplode una bomba che ucciderà tre carabinieri. La «Storia» di quel periodo buio – il periodo del terrorismo e il conseguente stragismo – fa da cornice al nuovo romanzo di Luca Quarin, Di sangue e di ferro recentemente uscito per la casa editrice torinese Miraggi, collana Scafiblù. Quarin fa partire la sua indagine dalla bomba collocata nella Fiat 500 lungo le rive dell’Isonzo. Gli inquirenti all’inizio sospettano alcuni militanti di Lotta Continua. Due di loro, un ragazzo e una ragazza, che frequentano la facoltà di sociologia a Trento, finiscono con l’automobile nel lago di Levico, cercando di sfuggire all’arresto. Il loro figlio, di appena tre anni, rimane orfano. Alcuni mesi dopo vengono arrestati sei balordi goriziani che non c’entrano nulla con l’attentato. Poi vengono scarcerati. Per dieci anni le indagini brancolano nel buio, depistate dagli inquirenti che le conducono. Che ruolo hanno avuto i genitori del piccolo? E i nonni che si sono presi cura di lui? Sono stati vittime o sono i colpevoli? Il libro poggia sulle vicende storiche, sui retroscena dell’attentato e sulle trame della destra eversiva degli anni Settanta, raccontando la storia di Ferro, vittima di un ingranaggio politico che faticherà a conoscere e a capire.
«Peteano è un momento molto particolare del processo storico – spiega lo scrittore – è il momento in cui i membri più radicali della destra eversiva si rendono conto di essere manovrati dallo Stato e si ribellano contro di esso. Lo racconta in modo molto lucido Vincenzo Vinciguerra, uno degli esecutori della strage, nell’intervista che ho riportato integralmente nel romanzo. Peteano è la fine del sogno dice Vinciguerra, è la presa di coscienza che il fascismo e poi la Repubblica sociale sono finiti per sempre e che anche i valori che li hanno alimentati non trovano più spazio nella società industriale italiana». Ma questo di Quarin è soprattutto un romanzo e Ferro diventa espediente letterario, protagonista anche in questo caso – e sempre suo malgrado – di una seconda storia che al lettore racconta invece la genesi stessa del romanzo. Quarin lo scrittore entra nel romanzo, apparentemente come comprimario, e comincia a tessere una relazione, un dialogo sempre più fitto col protagonista del romanzo. Realtà, finzione, Storia si mescolano, portando il lettore a riflettere anche su altri temi: «Mi interessava capire – racconta l’autore – se c’è un modo per sapere davvero che cosa è successo nel passato o se la verità ci è preclusa per sempre». Ma seguendo unicamente questo fil rouge potremo mancare il nodo centrale della seconda grande prova letteraria dello scrittore udinese, collaboratore del Festival Letterario trevigiano «Carta Carbone» e che, col suo primo romanzo, Il battito oscuro del mondo edito da Autori Riuniti, ha vinto il Premio Letteratura dell’Istituto Italiano di Cultura e il Golden Book Awards 2018, come migliore romanzo del 2018. Lo scrittore crea i personaggi e li colloca nel romanzo, li mette al mondo, dà loro la vita in una determinata storia. Ma i personaggi vivranno o resteranno confinati in quella storia romanzesca? Questa domanda letteraria è per Quarin il detonatore che consente di rileggere la Storia. E forse di interrogarsi in profondità sull’incerto, talvolta ipocrita, procedere umano, che costruisce verità comode, utili, pronte all’uso. Quarin però si schiera senza incertezza e infatti Ferro non solo vive ma, vivendo, testimonia il trionfo della verità. O forse siamo ancora dentro a… una storia?
Cara Catastrofe, guardarti è come entrare in scena, senza aver mai provato la parte.
Cara Catastrofe, la silloge poetica della giornalista Felicia Buonomo, Miraggi Edizioni 2020, si muove in una dimensione ricca di immagini e di assonanze. Sono soprattutto versi ispirati all’universo femminile, all’amore che sempre troppo spesso ne assume un altro volto, quello della violenza e degli abusi, dove la vita delle protagoniste procede per sottrazioni , dove l’amore viene portato via dall’amore.
Felicia sottolinea che molti spunti sono reali, “sottratti”se così vogliamo dire, alla vita, alle storie che ha vissuto come testimone trasferendo i fatti in versi.
Felicia ha tessuto con un grande afflato, armonizzando i vari fili delle storie incontrate e rendendo il lettore partecipe del dolore, della violenza e dei segni che un amore neutralizza l’amore.
E così si incartano le tristezze ordinate alfabeticamente…piegando le inquietudini.
Un amore che si insinua dentro per diventare figlia della paura.
Sono storie dolorose dove anche l’indifferenza ha la sua colpa, donne che vivono il supplizio all’interno delle pareti domestiche e dove le grida si soffocano nel dubbio della colpa, ci si domanda sempre se tutto questo male, la sua fonte mortale risieda dentro quei corpi martoriati dall’amore.
Ogni corpo ferito è il simbolo di un passato violento, di un presente agonizzante e di un futuro incerto.
Nel bene e nel male. Finché morte – mia, per mano tua – non ci separi.
I Versi di Felicia mi sono rimasti attaccati dentro, si sono insinuati sottopelle, hanno percorso ogni singolo tratto del mio corpo per arrivare nella parte più recondita della mia anima e sono implosi in un abbraccio catartico.
Valerio Di Benedetto nella sua postfazione a Cara catastrofe scrive:
“Lo amerete questo libro e a Felicia vorrete un bene smisurato, ne sono certo, perché lei è quell’eroe romantico che abbiamo sempre sognato di essere da bambini, una Lancillotto moderna che non ha paura di rompere gli equilibri, i silenzi, di gridare la verità.”
Ed è così…vi garantisco!
La poesia di Felicia è turbamento, è ossessione, è silenzio, è dolore, ma è soprattutto una voce, un grido sussurrato di speranza che purifica il tormento e il dolore.
Felicia Buonomo Dopo la laurea in Economia Internazionale, nel 2007 inizia la carriera giornalistica, occupandosi principalmente di diritti umani. Nel 2011 vince il “Premio Tv per il giornalismo investigativo Roberto Morrione – Premio Ilaria Alpi”, con l’inchiesta “Mani Pulite 2.0”. Alcuni dei suoi video-reportage esteri sono stati trasmessi da Rai 3 e RaiNews24. Successivamente pubblica il saggio “Pasolini profeta” (Mucchi Editore). Del 2020 è il libro “I bambini spaccapietre. L’infanzia negata in Benin” (Aut Aut Edizioni), diario di un reportage giornalistico sullo sfruttamento del lavoro minorile.
Cosa succede quando una forza inarrestabile incontra un oggetto inamovibile? Questa è la domanda che ci si fa, quando eventi drammatici travolgono la vita di ciascuno di noi. A questo paradosso prova a dare una risposta Fleischman, il protagonista di questo romanzo, rimasto orfano dei genitori quando era ragazzo. E dalle ceneri della sua giovane vita, prova a guardare in alto, per emergere, come se lui stesso fosse nei rami di un albero radicato nella sua città, che non riesce ad andare altrove, ma che è sempre teso verso l’alto.
“Quel che so, è che il centro del sistema solare è il Sole. Il centro di un uragano è il suo occhio. Il centro di un temporale è il cumulonembo. Quel che so, è che il centro dell’alta pressione si trova solitamente sopra le Azzorre. E il centro della bassa pressione più a nord, da qualche parte tra l’Islanda e la Scandinavia. La maggior parte delle volte.”
Fleischman comincia il suo percorso di cura, con una dottoressa che gli consiglia di scrivere tutto su un quaderno: desideri, sogni e bisogni. Il potere taumaturgico della scrittura.
“Dovete avere la forza di prendere in mano carta e penna e riversare sul foglio tutti i vostri problemi, come sto facendo io con voi, anche se non ho intenzione di suicidarmi. Voglio solo volare via. Dovete avere la forza di dare una leccata alla busta, di chiudere la lettera e di imbucarla, dovete avere la forza di riuscire a immaginare l’espressione di chi la leggerà dopo un paio di giorni. Dovete avere la forza di trasmettergli ciò che vi pesa, una parte del vostro infinito. Innanzitutto, però, dovreste avere qualcuno a cui spedirla una lettera così.”
Fleischman si sente costretto a stare nella sua terra, che è la sede anche del Grand Hotel di famiglia: “Pensai che anche attorno alla nostra città c’era una specie di cortina di ferro. La mia cortina di ferro, che non mi vuol lasciar andare via, ma che io supererò.”
La dottoressa lo incoraggia a trovare la sua strada e che ci vuole tempo se le ferite sono profonde, ci vuole tempo per guarire, ci vuole tempo per risolvere il proprio passato. Ci vuole tempo, cura e anche il coraggio di lasciar andare quei dolori famigliari che hanno segnato l’infanzia e l’adolescenza. E bisogna imparare a guardare il cielo e a trarre dal cielo gli insegnamenti necessari per crescere. Fleishman lo fa e ci lascia questo in dono: “Durante il viaggio di ritorno mi disse che ogni cosa ha bisogno del suo tempo, che ci saremmo riusciti, che un giorno tutti i muri di ghiaccio si sarebbero sciolti. Non so se nel mio caso si tratta di ghiaccio.
[.]
Ma la dottoressa disse che quello era solo un esempio. Una metafora. Che sapeva che ce l’avrei fatta. Che avrei trovato la mia strada. E che lei mi avrebbe aiutato. E se non fosse stata lei, l’avrebbe fatto qualcun altro. Io questa la chiamo certezza.”
Duc in altum, semper!
“Ce l’ho fatta. La vita vi offre solo due direzioni. Una porta in alto. E anche l’altra porta in alto. Ma con una deviazione verso il basso. Attraverso il vostro personale infinito. Il problema è che non sapete mai in quale direzione vi state dirigendo.”
Quante volte abbiamo cercato di fuggire, scivolando tra le pagine per giungere laddove non saremmo mai riusciti ad arrivare da soli? E quante altre abbiamo invece mendicato conforto, provando a cogliere gli scorci di una quotidianità troppo spesso data per scontato?
Il titolo di questa raccolta di racconti, pubblicata da Miraggi Edizioni a ottobre 2019, potrebbe apparire emblematico, ma smetterà di esserlo dopo poche pagine. La vita moltiplicata è la storia di Livio, di Ascanio, di Marcello, e di tutti quelli che davanti a una vetrina hanno smesso di guardare solo il proprio riflesso. Molteplici i protagonisti, molteplici le vicende, in equilibrio tra realtà e mondo onirico.
L’autore, Simone Ghelli, non è uno scrittore al suo esordio ma già autore di altre opere, come Non risponde mai nessuno, e racconti pubblicati su varie riviste letterarie, tra le quali Cadillac Magazine. Se siete curiosi di saperne di più, troverete recensioni e altro alla pagina: https://genomis.wordpress.com/.
Con la sua scrittura, Simone Ghelli avvicina il lettore a piccoli passi per poi catturarlo completamente, attraverso un lessico fluido ed essenziale.
Nel suo racconto, chiaramente autobiografico, Grossi si dipinge come un grumo di rabbia e disperazione conficcato nella carne di una città ormai marcia. Non è l’unico, ne vede tanti intorno a sé, pronti a rivalersi sui vecchi, sui bambini, sui brutti, sui grassi, sui poveri di tasca e di spirito. Grossi si vede così perché sta diventando così; anzi, è già così. È il prodotto precotto di una società che li ha ingozzati di sogni, che li ha tirati su come polli da batteria per poi farli sedere a una tavola apparecchiata con gli avanzi. Grossi vede la sua vita come il resto di qualcos’altro e ogni giorno si sente come se avesse i postumi senza essersi preso una sbronza”.
Per la playlist ringraziamo l’autore, che ha accettato con grande disponibilità di crearla e condividerla con Read and play. I brani sono quasi tutti strumentali: “Anche se non corrispondono esattamente ai racconti rispecchiano le atmosfere dilatate e oniriche”.
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