Contest per 10 tra i migliori talenti emergenti del fumetto italiano, scadenza 31 marzo 2021
Il disegno è la tua passione e hai bisogno di nuovi spazi per esprimere la tua creatività? Sei un autore, sceneggiatore e disegnatore di fumetti? Ecco il modo migliore per valorizzare le tue creazioni ed essere finalmente pubblicato da una casa editrice affermata.
Sono aperte le iscrizioni alla prima edizione del Contest nazionale ScoutINK, la selezione indetta da Miraggi Edizioni, per la collana MiraggINK, che premia 10 tra i migliori talenti emergenti del fumetto italiano. Le 10 storie vincitrici saranno pubblicate in un volume raccolta, distribuito a livello nazionale.
“Una sezione dedicata a tutti i disegnatori, autori e appassionati di fumetti.
Un’occasione unica per mettere in mostra le proprie abilità nell’arte del fumetto!”
Il 10 aprile 2021 saranno proclamate le 10 storie selezionate e il volume sarà ufficialmente presentato in occasione del Salone Internazionale del Libro di Torino 2021.
Possono partecipare al Contest gli autori/disegnatori maggiorenni (anche in team) la cui opera (storia a fumetti) sia originale. Per iscrivere l’opera al Contest, gli autori dovranno accettare integralmente le condizioni del presente regolamento. Ciascun autore può partecipare al Contest anche con più di un’opera, purché sia autore o co-autore, dell’opera presentata e sia titolare, in via originaria, di tutti i diritti di utilizzazione e sfruttamento, anche economico, dell’opera presentata per le finalità del presente Contest.
Per ogni acquisto che farete noi vi regaleremo 1 libro della nostra storia di questi fantastici 10 anni, un libro a sorpresa ma che sceglieremo in base a ciò che avete scelto di leggere. L’acquisto può essere 1 solo libro, o più libri per evitare i costi di spedizione del corriere!
Per acquisti superiori ai 26€ la spedizione è gratuita.
Per le occasioni Natalizie potete anche scegliere una LAMPADA ORIGINALE fatta sempre con i libri che diversamente sarebbero destinati al macero, se non le conoscevi eccole > Lampada Libro – Miraggi Luminosi
L’ora e il luogo nei quali tendenzialmente finisco i libri della Miraggi appartengono alle ore post-tramonto. Notte, silenzio, solitudine. Il libro che vedete in foto è un’anteprima che abbiamo avuto l’onore di leggere è che usciva un mesto dopo. Un tuffo nella mente umana, là dove sogno e realtà spesso si mischiano generando un caleidoscopio di immagini, suoni, flussi di coscienza. Un omaggio all’investigazione shakespiriana dell’animo umano.
Scritto con grande sapienza linguistica ci offre varie esperienze: divertimento, curiosità, inquietudine, paura. Tanto che una volta finito non sai se ciò di cui stavi ridendo ignaro non fosse che il preambolo ad un delirio di follia, o se tutto ciò di cui avevi tanto temuto non fosse in realtà un’artificiosa ed innocua nuvola di oblio. Non vedo l’ora di farmelo raccontare dall’autore in carne ed ossa.
Poi mi succede che a due mesi di distanza dalla lettura di questo splendido romanzo ho ancora un sacco di immagini e sensazioni attaccate alla corteccia. Un labirinto fisico e mentale in cui vedo muoversi il giovane Pellicani. Quando un libro ti lascia per tanto tempo sensazioni così vivide è perché ha smosso il tuo inferno e questa è un’arte che di solito è appannaggio dei grandi classici. Vi invito ad infilarvi nelle oscure stanze creato da La Chiusa. Ne uscirete diversi!
Penso da sempre che quel momento più o meno lungo nel quale con garbo si passa dal sonno alla veglia, di prima mattina, dopo una nottata di riposo, quello in cui ti galleggiano in giro per la mente pensieri ed immagini che stanno lì a metà tra sogno e realtà, ecco, quello ho sempre pensato sia l’attimo in cui ciascuno di noi crea, riassembla, elabora il lato più intimo e vero di sé. Lì, proprio in quei brevi istanti, trascorsi in una sorta di terra di mezzo in cui le immagini fugaci dei sogni appena fatti e quelle delle giornate reali, siano esse ricordi o proiezioni di un futuro prossimo, si fondono in una mistura che ha qualcosa di magico, di quella magia di cui è fatto il nostro strato più sottile, quello composto di anima e mente, quello scevro del plumbeo raziocinio che ci tiene pericolosamente legati ai paradigmi della vita contemporanea, proprio lì noi costruiamo ciò che siamo, proprio lì è installata la nostra capacità di creare. Non so fino a che punto un essere umano possa, anche con l’esercizio, rimanere in quella dimensione a lungo proprio perché essa non appartiene alla sfera di ciò che dipende dalla volontà ma a quella degli eventi che semplicemente accadono. Una cosa, però, mi pare innegabile: per dote di nascita o per allenamento Klopstein aveva imparato a rimanerci in quello stato. Aveva imparato a viverci nel continuo. Non so se per semplice merito o demerito dell’alcool, oppure, più probabilmente per una sua peculiare capacità di contattare quella dimensione che per comodità siamo abituati a definire onirica. Io temo, in realtà, la si definisca onirica più per paura di entrare in contatto con se stessi, più per poter evitare di ammettere che in quello spazio ciascuno di noi è ciò che è, con tutte le proprie debolezze, i propri limiti, col proprio passato non necessariamente risolto, coi propri desideri, forse non sempre così riconoscibili, più per prenderne le distanze da tutto ciò che per altro. I Perdenti, a mio parere, si gioca tutto in quella dimensione. E infatti, non a caso, i personaggi del romanzo usano molto la vista, l’udito, l’olfatto ma molto meno il tatto. Louis Berenstein mette in scena figure eccezionali, con caratteri così potentemente descritti da diventare tridimensionali. Essi però si annusano, si guardano, si scrutano, si sfiorano ma non si toccano a meno di non essere fantasmi. Allora si, essi abbracciano, stringono e trasmetto calore. Nelle descrizioni che il narratore disegna c’è spesso fumo, ci sono aloni di luce rosa, verde, azzurro, ci sono voci, musica, corridoi bui ed elefanti dipinti su tela stando ad una finestra di Orchard Street ma la dimensione del tatto scompare quasi del tutto, tranne laddove, mentre un piccolo gruppo di formiche trasporta una enorme briciola di pane in un qualche anfratto e ricompare….senza la bara, le dita di Louis sfiorano e fanno rotolare e poi ruzzolare nella tromba delle scale….la morte.
Coerentemente con questa caratteristica del romanzo, nella prefazione di Hedda Hopper si legge che Aaron Klopstein fu un assoluto cultore della tradizione orale. Non scriveva, narrava e basta. Componeva nella propria mente anche un romanzo intero per poi, semplicemente raccontarlo. A braccio, perché la scrittura non è che l’ultimo gesto per uno scrittore e non il più importante. Quasi a voler affermare che ciò che si tocca non è infine l’essenza. Essa sta altrove.I Perdenti è disseminato di numerosissime metafore delle questioni che attengono ai dilemmi, agli irrisolti della vita umana: inferno, paradiso, amore, amicizia, solitudine, passato presente, molte di esse incarnate da personaggi letterari, più o meno celati, di indubbia fama. Ancora Hedda Hopper ci svela che Klopstein era un patito di ascensori e dei loro meccanismi di funzionamento, dei loro ingranaggi ed era affascinato dalla loro capacità di portare gli utilizzatori in alto. Una attrazione per metà verso le cose razionali e per metà verso ciò che sta in alto o verso la visione che dall’alto è possibile avere delle cose.”Louis restò per un attimo in strada, quasi che tornare nel proprio appartamento lo spaventasse ancora di più che rimanere al Paradiso”.Una provocazione: e se Thodd Phillips con il suo Joker fosse stato influenzato da Aaron Klopstein? Buona lettura.
A settembre 2020 è partito il gruppo di lettura “ConTestoDiverso” nuovo progetto targato Periferia Letteraria.
Lo scopo è di approfondire e arricchirsi in un’analisi di lettura non subita ma elaborata dal singolo e sviluppata nella pluralità. Non si tratta di affrontare il testo con pretese tecniche e critiche, ma di maturare il nostro approccio spontaneo alla lettura.
Il primo autore ospite è Piergianni Curti con libro “Quando i padricamminavano nel vuoto” edizione Miraggi, Collana Scafiblù. Padri e figli: uno dei rapporti più complessi in natura. I figli che scrivono dei padri sono molti, sono un tassello importante per ripercorrere scelte esistenziali che si ripetono in tutte le generazioni. Due figure intorno a cui si muove il racconto: in un rapporto delicato un padre formidabile ma duro ed ingombrante e un figlio pieno di buone intenzioni. Tra aspettative e incomprensioni del padre, si assiste alla formazione della personalità dei figli in un rapporto familiare sicuramente interessante e decisivo per la crescita e poi, più tardi, direzioni di vita che prendono corpo in modi diversi attraverso gusti e scelte a volte non condivise. I protagonisti vengono a patti con i loro padri, reali e spirituali, accentandoli anche nelle loro debolezze. L’argomento del padre è sterminato e riguarda tutti noi come figli, come padri o come madri, perché figura in rapido mutamento.
Tea Castiglione
Il contributo di ciascuno allarga, modifica e arricchisce le considerazioni scaturite da questa esperienza di lettura.
Ecco le domande dei nostri lettori:
· Sandrina: “Quando i padri camminavano nel vuoto” – Il vuoto sottintende momenti diassenza dal mondo che ruota intorno? Questo vuoto si ritrova nei figli e neigiovani di quella generazione, quando non si trovavano certezze o risposte amomenti di vita?
· Giovanna: Com’è da intendersi il vuoto del titolo? E i Padri di adesso camminano nelvuoto? Se si è lo stesso vuoto o è un vuoto diverso?
Curti: Quando ero bambino leggevo i fumetti ed ero colpito dal fatto che, nei fumetti, i personaggi potessero camminare nel vuoto fino a che non ne prendessero coscienza. Così avevo almeno due (ma anche più di due) ossessioni: quella di capire come si potessero riconoscere i vivi dai morti (evidente metafora del riconoscere una vita autentica da una vita inautentica), e quella di riconoscere chi cercava di prendere coscienza dei problemi e chi cercava di comportarsi al contrario.
Dunque, camminare nel vuoto significa vivere senza voler prendere coscienza dei problemi per non essere costretto a cadere, cioè a rendersi conto della propria vita fatua, falsa. Che era quello che faceva, secondo me, la maggior parte della popolazione di quella cittadina.
Una precisazione: il libro nasce dalla convinzione che nel dopoguerra, che io ho vissuto, si facesse finta di aver risolto i problemi dell’Italia. Giustamente, la gente cercava di vivere nuovamente, ma contemporaneamente di non porsi molti problemi (almeno in quella cittadina, ma, come si sa, il piccolo è quasi sempre modello in miniatura di quella che succede in grande: quanti problemi irrisolti a partire da quel tempo ci portiamo dietro, addirittura amplifcati? Nella sua presentazione del libro al Circolo dei lettori lo storico Gianni Oliva, concordando con la mia tesi, ci ha gratificati con una splendida Lectio magistralis sul tema). Ne è prova il fatto che il Padre, pur tra tante contraddizioni, cercava di svegliare le coscienze con la sua frenetica attività culturale. Che non ha avuto successo: il successo, temporaneo, era legato all’adrenalina che scatenava con le sue provocazioni, non al fatto che riuscisse a promuovere una seria presa di coscienza nei concittadini.
· Mirella: Innanzi tutto desidero esprimere il mio apprezzamento all’autore per la graziacon cui ha descritto questo padre. A tratti mi è parso di intuire un’inversione diruoli, il bambino sembrava assumersi il ruolo di genitore. È un’intuizionecorretta la mia? Nelle caratteristiche del padre io non vedo la debolezza mal’unica forza che abbiamo come individui: il coraggio di essere noi stessi e ilcoraggio di vivere. Che tipo di padre, in senso ampio ovviamente:genitore/educatore è stato una volta cresciuto il bambino? È riuscito a guidarecon lo stesso talento, libero da ogni forma di costrizione e pregiudizio?
Curti: Questa è la domanda che negli incontri mi è stata posta con maggiore frequenza. Potrei rispondere che questa domanda si dovrebbe (potrebbe) porre a chiunque, e che chiunque dovrebbe tentare di rispondere a questa domanda. L’educazione è la cosa più complessa della vita umana, inizia alla nascita e termina alla morte, e non è possibile sperimentare personalmente che la propria educazione. Per questo è importante questa domanda: segnala che ciascuno di noi ha bisogno di confrontarla con quella degli altri. Ma torniamo alla domanda specifica: la mia è stata una educazione difficile, ma contemporaneamente esaltante. Intanto mi mi ha insegnato la libertà (condizione difficile). Difficile perché mi ha obbligato alla responsabilità: a non camminare nel vuoto. Difficile. Mi ha posto un mucchio di domande, fin da piccolo, insegnandomi che “le vere domande hanno risposte infinite” (come si legge nel romanzo). Mi ha insegnato a non giudicare frettolosamente, ma a capire: capire significa “obbligarsi a trovare la soluzione, obbligarsi a capire”. Difficile perché era difficile mio padre, che soffriva e lottava, senza rete. Difficile, ma produttiva, perché mi ha messo nella condizione di figlio e di padre. Il che mi ha, credo, fatto diventare un padre amoroso, e mi ha spinto a scegliere nella vita il ruolo di educatore: uno che aiuta a trovare la propria strada. Mi pare, con un certo successo.
Ancora: il romanzo racconta anche la generazione dei figli, che probabilmente camminavano anch’essi nel vuoto, convinti però di essere su terreno solido. Avevo, almeno dal tempo del liceo, chiaramente la certezza che la mia generazione si stesse staccando dai padri, e questo molto prima del Sessantotto, e che la nuova generazione fosse lanciata alla conquista del potere. Magari, in piccola parte, con coscienza. In gran parte, no. Lo stesso Sessantotto è stato un movimento ambiguo (anche con molte istanze giuste), dove, come si sa, prevalevano narcisismo e ricerca del potere, anche se non solo.
· Donatella: Mi è sembrato di avvertire una differenza non saprei… di tonalità, di atmosferae forse anche di stile nella IIª e soprattutto nella IIIª parte; il figlio adulto e ilpadre meno fuori dalle righe. Penso non sia casuale, ma…
Curti: Sì, il padre sconfitto e sofferente cercava, come un guerriero ferito, di riprendere le forze e di salvare il salvabile, scaricando la propria bizzarria nella scrittura del romanzo in latino (comunque autentica bizzarria) e di lottare, nel nuovo mondo, ormai mutato, con le armi che aveva a disposizione. E, con debolezze: il tentativo di prendere scorciatoie e di accettare compromessi, per stanchezza, sfiducia, disperazione, ma tentativo abbandonato perché in realtà in conflitto insanabile con la propria etica. E il finale è in tono minore, per sottolineare anche il grigiore del mondo attorno a lui, che ancora una volta ripeteva gli schemi che aveva conosciuto in precedenza: ma stavolta erano le nuove leve, i giovani post Sessantotto, quelli che avevano fatto la rivoluzione contro quegli schemi, che ripetevano gli stessi errori.
E il figlio? Beh, direi che ha introiettato l’impossibilità di accettare compromessi, di giudicare senza capire, di seguire schemi consolidati e ingiusti. Vive “in modo sperimentale”, si potrebbe dire, come fisico della vita: sospende i giudizi, mette alla prova le proprie credenze, accetta l’idea che le domande hanno risposte infinite, e cerca soluzioni umane, che non facciano male agli altri. Prendendo coscienza dei limiti e accettandoli. E questo non gli rende la vita facile, ma perlomeno, nei limiti umani, ragionevolmente giusta: si spera, almeno, che così sia. Senza pretendere di imporre agli altri la propria visione del mondo, restando possibilista, accettando di metterla in discussione, attento alla sofferenza altrui: come si dovrebbe essere.
· Gina: L’abbandono del cane, perché questa mancanza di coraggio nel tenerlo?
Curti: Una storia terribile, che ha segnato me per tutta la vita, ma che ha segnato anche mio padre. Che poi per tutta la vita ha avuto cani presi al canile, a cui ha dato il nome di quel cane.
Il racconto segnala la sua difficile crescita (padre e figlio crescevano, nell’educazione si cresce in due), la sua mancanza di coraggio, che ammetteva, ma, come per il leone del Mago di Oz, ha poi mostrato di avere coraggio per tutta la vita, quando davvero era difficile averlo, nei momenti in cui si sarebbe giocato il futuro, e nei quali avrebbe pagato caramente la scelta coraggiosa. Per cui, nessuno sconto, ma onore al fatto che mio padre ammetteva sempre i propri errori e non pensava di meritare sconti.
Avrebbe potuto tenerlo? Sì, ma: io credevo di essere colpevole, perché avevo terrore del cane, e non facevo niente (non potevo) per vincere il terrore. Un terrore tale che nessuno riusciva a rassicurarmi. Lui non sapeva come fare. Aveva chiesto a qualcuno che gli aveva detto di farlo ammazzare. In quel mondo non si era teneri con nessuno, tantomeno con gli animali. Lui credeva di rendermi responsabile accollando a me la scelta. Ma era una vigliaccheria. Voleva liberarsi del problema, assillato com’era da tutti i guai che lo assediavano. Certo, lui non sapeva come domare il cane. E anche lui si sentiva colpevole di non sapere come fare: devo dire, nelle cose pratiche era un totale imbranato. Comunque non si è mai perdonato. E io non l’ho mai perdonato. E perfino da grande mi ha chiesto scusa. Chissà se questa è una giustificazione sufficiente? Da quella storia ho imparato molto, comunque: che non si scarica mai sugli altri una tua responsabilità. E che si impara anche dalle cose ingiuste, se si vive in un clima in cui si cerca la verità.
Grazie a tutti per le domande, intelligenti e molto centrate.
Nell’incontro in presenza avremo il piacere di conoscerci, di chiacchierare, di parlare, male o bene, del libro, e di noi, che è quello che conta.
Nota: a proposito di educazione.
Il libro può essere visto, come detto, come incentrato sul problema dell’educazione. E come ho detto, il problema vissuto mi ha spinto ad occuparmi di educazione. Ho insegnato nella scuola per molti anni, in particolare al liceo, poi sono passato all’università. Sono specializzato in didattica della matematica e ho scritto dieci libri di matematica per vari ordini di scuola e uno per l’università, e tre libri di fisica per il liceo scientifico. Per sette anni ho avuto una borsa di studio del CNR, nella facoltà di matematica, in didattica della matematica, e per dieci anni sono stato responsabile della formazione scientifica nei laboratori di pedagogia fondati da Francesco de Bartolomeis e diretti da Piero Simondo. Inoltre sono stato comandato al Piano nazionale per l’informatica e all’Irrsae Piemonte, istituto di ricerca pedagogica.
Questo il frutto della mia educazione? Forse non tanto, o non solo. Il frutto è stata la mia concezione dell’educazione, che ho cercato di praticare sul serio: se non capisci (matematica, fisica) il problema riguarda me e te. E insieme troviamo la strada per capire, in primo luogo, a cosa serve a te, nella tua vita, la matematica. E quale matematica. E se questa fosse per ora poca, l’importante è che tu rimanga aperto alla matematica e che sia pronto quando ti servirà. Tocca al docente, all’adulto, dimostrare che la matematica serve per leggere il mondo, e per te. La risposta, alla domanda implicita che chi non ama, o non crede di amare la matematica, pone, è sempre la stessa: a me, ai miei problemi di adolescente, che serve la matematica? Mi sono posto sempre, di fronte a questa domanda, come un padre che non vuole che il figlio si perda: troviamo insieme la risposta. Proviamo ad avere entrambi pazienza, non perdiamo il contatto. Io cerco di capire te, tu cerca di farti capire. Io aspetto, e non ti perdo. Io non ti giudico, rispetto le tue difficoltà. Tullio De Mauro aveva sperimentato che cinque anni dopo che si è concluso lo studio di una materia si retrocede di cinque anni rispetto alla conoscenza. Io confermo che chi termina il liceo, dopo forse meno di cinque anni, se non ha scelto una facoltà scientifica, non sa più quasi nulla di matematica. Perché ha perso tanto tempo inutilmente? Serve davvero immagazzinare con terrore ricettari da cucina matematica e formule che si squaglieranno in un tempo brevissimo, lasciando una immagine distorta, oppressiva, triste della matematica? Quando ero docente al Piano per l’introduzione dell’informatica (anni ’87-89), alla seconda settimana di corso facevo svolgere un tema ai miei allievi, tutti illustri docenti dei trienni di scuola superiore: che immagine della matematica veicolo ai miei studenti? I risultati erano deludenti e banali per la maggior parte dei casi: una visione impoverita e orrorifica della matematica.
Ho sempre lottato per questo. Se mi guardo attorno, ho perso (ma non con i miei allievi).
Immaginate di essere il vostro piede quando sta all’interno di un calzino, tutto il piede dalla punta dell’alluce, passando per il tallone, salendo lungo la caviglia e la gamba fino ad arrivare a quella porzione di gamba stretta da un più o meno fastidioso elastico che circuisce il ginocchio: le dita poggiano di tanto in tanto su quella cucitura a ricordarti che anche lei c’è. La fattezza delle maglie, laddove il tallone dovrebbe stare a proprio agio, è tale da scivolare ora a destra e ora sinistra e farti avvertire quel mucchietto di stoffa di troppo ad ogni passo, o quasi. E quell’elastico? Troppo stretto per essere confortevole e non lasciare segni. Troppo largo perché il calzino non tenda ogni tanto a ricordarti che la forza di gravità è imbattuta ed imbattibile. Paula Horakovà consegna ad Ada Sabovà, la capacità di guardare il mondo stando appena sotto quel sottile riparo che è la stoffa di un calzino con le sue imperfezioni, stando dentro il proprio essere, ma appena sotto quella superficie di pelle d’uovo che le consente di sentire il cosmo che palpita al ritmo delle leggi regolatrici della fisica quantistica, di muoversi nello spazio e nel tempo cogliendo il continuum in cui siamo immersi. Ricercatrice, antropologa, donna con l’energia nei capelli e la sensibilità necessaria per scorgere i segnali che possono condurre ciascun essere umano all’interno del flusso proprio a lui destinato. Il figlio di Valerie scompare misteriosamente. Ada non può fare a meno di cercarlo, non tanto e non solo per mezzo di azioni finalizzate al suo ritrovamento ma piuttosto stando ancorata a ciò che alla sua vita accade mentre più o meno consapevolmente cerca Kaspar. Ada si fa guidare dagli eventi senza esserne mai vittima. La fisica di newton, quella in cui ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria non è il corretto paradigma a mezzo del quale interpretare ciò che agli uomini accade. E Ada lo sa. Sa che il solo atto di stare ad osservare produce una determinata realtà. Quindi reagire non occorre. Basta pensare e condurre il proprio pensiero lungo la via di ciò che si desidera. Ed in questo i sogni sono maestri. “Faccio un sogno. Volo attraverso un tunnel nello spazio interstellare. E’ facile, basta volerlo ed è necessario muoversi con cautela come sott’acqua, per non farsi travolgere dalle forze di azione e reazione”. La ricerca di Kaspar conduce Ada al ritrovamento della propria libertà e al compimento delle ragioni per cui lei stessa sta al mondo. “Le nostre occupazioni nel mondo esteriore servono a farci elaborare le parti corrispondenti della nostra interiorità”. Quello della Horakovà è il romanzo della coscienza collettiva, è la storia dei segnali deboli che attraversano le nostre giornate, è la dimostrazione che la sincronicità esiste e che posare sempre gli occhi sull’orologio alla stessa ora è un fatto che non dovrebbe essere trascurato come non dovrebbe essere trascurata la memoria legata a certi odori e lo stato d’animo che ne deriva. “Come è possibile che a persone diverse vengano le stesse idee?…. Spesso si inventano cose uguali nello stesso momento, solo in posti diversi……qualcuno direbbe che l’inconscio è maturo per un nuovo pogresso”.
Hai una libreria del cuore che suggerisci a chi ci legge?
Qual’è stato il particolare e il tuo stato d’animo quando hai scoperto questo libro? Perchè hai deciso di farlo conoscere in Italia?
Ho vissuto la sorpresa di quando si scopre un autore sconosciuto per motivi misteriosi perché la sua opera è invece di grande valore. Klopstein appartiene alla grande tradizione ebreo-americana, anzi ne è uno dei precursori, perché viene prima di Bellow e Roth. Ma in lui echeggia anche Kafka. E non è una sorpresa che i suoi dialoghi surreali affascinassero Chanlder.
Spesso si sente dire che la lettura svolga un ruolo curativo, secondo te la scrittura ha anche lo stesso ruolo? Stesso vale anche per la traduzione?
Credo che la letteratura – parlo di questo tipo di lettura, almeno – debbano essere prima di tutto intrattenimento. Klopstein lo è, anche se poi in tutta la sua narrativa c’è un percorso esistenziale, domande sull’arte e sulla vita
Se questo libro che hai tradotto fosse un medicinale che medicinale sarebbe? E pensando ai bugiardini che accompagnano appunto i medicinali, quali potrebbero essere gli effetti collaterali?
Sarebbe un placebo. Zero effetti collaterali. Semplice acqua che diventa magica per chi ci vuole credere.
C’è una domanda che avresti voluto ricevere e che nessuno ti ha mai fatto sul tuo mestiere? Provi a rispondere a questa domanda?
Vorresti campare con la scrittura? Risposta. Sì.
Sulla base dei libri precedenti che hai tradotto, cosa rappresenta questa traduzione? In fin dei conti tradurre significa anche riscrivere, reinterpretare, pensi che ogni scrittura sia trovare un pezzo di te? Oppure lasciare un pezzo di te?
Questo è uno dei libri più intimi e personali che ho tradotto. Sento questo autore molto vicino, ogni tanto mi sembra quasi di personificarmi in lui. I libri che scrivo come autore sono molto diversi da quelli di Klopstein, ma anni fa, quando ho iniziato a scrivere, sognavo di realizzare un libro sciolto, diretto e agile come “I perdenti”. Credo di averci messo dentro questo di me, quel pezzo del mio passato che oggi rivive attraverso Klopstein.
Ecco la postfazione del traduttore che accompagna il romanzo uscito ieri 16 novembre!
Ci sono pochissime informazioni riguardo ad Aaron Klopstein, scrittore ebreo-americano nato a Tysmenitz in Galizia, oggi in Ucraina, nello stesso paese dove nacque Henry Roth. I due scrittori, di fatto, avevano solo un anno di età di differenza e si incontrarono qualche volta a New York e in seguito a Yaddo, come risulta dalle carte di Henry Roth custodite dall’American Jewish Historical Society. Probabilmente, chissà, chiacchierarono di scrittura e di celebrità, e del perché, per motivi diversi, il mondo delle lettere pareva ignorarli. Henry Roth ebbe un lungo blocco creativo, dopo Chiamalo sonno, che lo portò a mollare la scrittura per decenni e a tornare con il fluviale Mercy of a Rude Stream solo in tarda età, quando alcuni critici importanti già avevano riscoperto quel suo primo romanzo e lo avevano eletto a genio dimenticato. Il percorso di Klopstein fu diverso, ma altrettanto sofferto. Pubblicò sempre in poche copie, gettò via un sacco di idee, non raggiunse mai la fama, eppure per i suoi amici, per le persone che lo conoscevano intimamente (Raymond Chandler, Hedda Hopper, John Houston, e in qualche modo anche Ernest Hemingway), era lo scrittore di maggior talento della sua generazione. Il suo nome comparve solo qua e là saltuariamente, divenne leggendaria la sua abitudine di scrivere i libri “ a memoria ” prima di stenderli su carta. Lavorava a mente, come un aedo, sviluppando le proprie storie attraverso una tradizione orale che lui stesso creava; giorno dopo giorno, nei circoli artistici che frequentava, si presentava narrando nuovi episodi della storia a cui stava lavorando. Tutti gli copiavano idee mentre lui solo saltuariamente si prendeva la briga di battere a macchina quello che aveva elaborato. Furono soprattutto i suoi amici più stretti a insistere e a convincerlo, anche perché Klopstein, con la sua vita estrema, versava sempre in enormi difficoltà economiche. Si racconta che già a quindici anni, sulle terrazze del Lower East side, la gente si raccoglieva attorno a lui per sentirlo raccontare. Le sue erano storie che partivano dal quartiere ebraico di New York ma poi diventavano altro, diventavano sogni, allucinazioni, favole universali. E presto, dal Lower East Side, si mosse verso gli ambienti culturali più vivi della città per conoscere gli scrittori – i colleghi – che a volte, per lui, si rivelarono una grossa delusione. Hedda Hopper racconta di come Hemingway si impossessò di uno di quei raccontini “ orali ” di un giovanissimo Klopstein per farne una delle sue short story più celebri. Da qui nacque uno scontro, un’antipatia, una gelosia che forse costò la carriera a Klopstein. Per quanto riguarda l’altro grande scrittore americano dell’epoca, F. Scott Fitzgerald, si sa che i due si frequentarono e che c’era simpatia, e poco altro. Si sa che si consigliarono dei libri reciprocamente, e che chiacchierarono un paio di volte di letteratura americana. Questo ce lo racconta la scrittrice del Nebraska Sarah Ferguson, che con Klopstein ebbe una relazione piuttosto tormentata (fu, a tutti gli effetti, la sua femme fatale). Klopstein comunque scrisse e pubblicò, anche se in poche copie. Tre romanzi (The Chinese Magician, I perdenti e Bay) arrivarono quasi a ottenere una tiratura più alta, ma c’era sempre qualcosa che si metteva in mezzo. Spesso il carattere di Klopstein, dipendente dall’alcol, umorale, non amante dei compromessi, volubile. In ogni caso furono, dei suoi sette romanzi messi su carta (altri ce ne sarebbero stati se fosse stato possibile fermare nel tempo le storie da lui raccontate oralmente) quelli più fortunati (anche se di piccola fortuna si tratta). Anni dopo, quando il nome di Klopstein fu riscoperto per caso grazie a Barry Day e al suo lavoro su Chandler, furono questi romanzi che emersero per primi. Da allora (stiamo parlando solo di una manciata di anni fa) si è creato un piccolo culto attorno all’opera dello “ scrittore maledetto ”. Intanto, è emerso il suo ruolo nel sottobosco della cultura newyorchese prima e di quella losangelina in seguito. Si è parlato molto dei suoi demoni privati. Soprattutto, le sue pubblicazioni originali, come la copia de I perdenti, con appunti a mano di Raymond Chandler, sono diventati pezzi da collezione, da cultori, battuti all’asta per migliaia di dollari. È emerso il suo ruolo a Hollywood, il sogno di fare l’attore, l’amicizia fraterna con John Houston. La morte tragica – suicida al Greenwich Village – già prefigurata prima per scherzo da Raymond Chandler, quasi come se Chandler fosse il Conte di Saint Germain. Il suo nome ora colpisce gli occhi dei suoi ancora pochi cultori, che lo ritrovano in corrispondenze private, che lo vedono emergere ogni tanto in appunti di autori molto più fortunati. Forse, lentamente, questa fortuna si sta riversando anche su di lui, il più misconosciuto autore ebreo-americano. In questo senso, il recente ritrovamento del profilo di Klopstein a opera di Hedda Hopper (manoscritto che ringrazio Diego Bressan per avermi aiutato a decifrare) è una preziosa fonte di informazioni. Chi era Klopstein? Che cosa si nasconde dietro il suo percorso assolutamente anomalo? Forse, come pare sperare Louis Berenstein dei Perdenti, una redenzione c’è e anche per Klopstein ora è il momento di essere recuperato e salvato dal tempo.”
Bianca Bellová è un’affermata scrittrice della Repubblica Ceca il cui romanzo “Mona” è pubblicato in Italia da Miraggi Edizioni 2020 nella bella traduzione di Laura Angeloni. Una nuova collana italiana di letteratura ceca, ispirata alla “Nouvelle Vague” cinematografica degli anni della Primavera di Praga, che annovera opere, tra gli altri, di Jan Némec, Ladislav Fuks, Bohumil Harabal, Tereza Boucková. Di Bianca Bellová “Mona” è il secondo libro in edizione italiana, dopo “Il lago” del 2016, tradotto in più di venti Paesi. E che si tratti di un raffinato romanzo il lettore si accorge subito dalle prime pagine che scorrono fluide a presentare la figura minuta di Mona che chiede al bue Mun se sapesse “dei trasportatori di morti”. “Mun girò piano il muso e i suoi grandi occhi ottusi le dissero che no, dei trasportatori di morti non sapeva niente”. Immagini lievi, anche quando il racconto si mescola allo strazio e alle mutilazioni dei soldati scampati alla morte.
Perché è un ospedale, sullo sfondo della crudeltà della guerra, ad essere al centro della narrazione dell’autrice. “Il ragazzo amputato urla, Mona sa già che sarà un turno impegnativo. C’è carenza di oppiacei, bisogna centellinarli. Il medico di turno dorme e non vuole che lo si svegli a meno che non si tratti di una questione di vita o di morte”.
Un lavoro duro per tutti quando si è in prima linea. E Mona non si risparmia, si dà da fare a lenire come può le urla di dolore di Adam. Ma non è il solo. Ognuno invoca qualcosa, nel mentre lei corre da una stanza all’altra, in cerca di medicinali che scarseggiano, di morfina che non si trova, di altri malati da tranquillizzare per le ripetute allucinazioni.
Una vita affannosa anche quando ritorna a casa per svegliare il figlio Ata e mandarlo a scuola. Lui non sa “quante ferite piene di pus medicate, quanti sederi lavati, quante camicie ospedaliere sporche di vomito ha dovuto cambiare”. Ed ora in quell’inferno c’è quel giovane che soffre, che chiede di essere aiutato. Mona “gli prende la mano nei palmi, la mano è bollente e trema irrequieta”. Partitura di uno spartito che alterna lontani ricordi di famiglia, – lei con i calzettoni bianchi, la madre che indossa un vestito a fiori, il padre con i baffi sottili che la tiene per mano – al tranquillo e monotono rapporto con il marito Kamil e il distratto figlio Ata. Un intrecciarsi di sequenze che si avvicendano nella tessitura narrativa sempre con la medesima grazia di chi sa conferire arte letteraria alle parole.
La vita moltiplicata è una raccolta di dieci racconti pubblicata da Miraggi Edizioni nella collana Golem dell’autore Simone Ghelli.
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Il titolo della raccolta, La vita moltiplicata, ha un significato che rimanda alla formazione cinematografica dell’autore. Difatti ricorda i celebri fotogrammi del cavallo in movimento ripreso dal fotografo Muybridge. Simone Ghelli pare voglia dirci questo: la vita è fatta di istantanee in movimento. Così anche ogni personaggio della raccolta è un cinematografo mobile di immagini e suoni.
Il titolo è dunque un’esortazione, come a dire che se questa realtà ci assottiglia, rende le frange della profondità sempre più piatte fino a ridurci a esseri superficiali, allora resta la possibilità di moltiplicarci sullo spazio. È solo in questo modo che ci è ancora permesso di muoverci: come fotogrammi in cerca della nostra profondità.
Il racconto L’ineluttabile
Con ogni probabilità il racconto che meglio rende l’idea sottesa all’intera raccolta è L’ineluttabile. Qui l’autore gioca in maniera equilibrata con elementi onirici e altri invece – sembrerebbe – autobiografici. La narrazione si svolge in un vecchio locale di Siena. Il protagonista è un ex-studente universitario, tornato per partecipare a un concorso per un posto come ricercatore. Mentre è lì solo, seduto a un tavolo, fa la conoscenza di un uomo quasi irreale, dai modi e dalle fattezze d’altri tempi e comunque familiari. Ne viene fuori un dialogo che scava e che indaga, per poi riemergere e lasciare il lettore alla mercé di un pugno di domande alle quali cercare di dare risposta, una volta che si termina la raccolta.
Quando, citando Deleuze, afferma che “bisogna che il cinema filmi non il mondo, ma la credenza in questo mondo”; oppure quando evoca la formula di Sant’Agostino secondo la quale esiste una simultaneità di presenti – un presente del presente, un presente del passato e un presente del futuro – pare che l’autore voglia raccontarci di una realtà, quella odierna, giocata tutta qui, su unico piano superficiale ma tricolore, proprio come la copertina dell’opera.
La nostalgia dei personaggi
C’è un elemento che abbiamo rinvenuto in tutti i personaggi di questa raccolta: la nostalgia per un tempo che non esiste più e che fa sì che ogni voce presente in quest’opera sia fuori sincrono, appartenga a un mondo che non è di questo tempo, è di un tempo passato o, per meglio dire, di un tempo che non è mai esistito perché abita nella sublimazione del sentimento nostalgico. A tal proposito, è emblematico il racconto L’ultima vetrina, già pubblicato sulla rivista Cadillac nel 2016 con un titolo diverso (E non venne più nessuno), nel quale l’autore racconta le vicende di un librario che preferisce la vita inventata dei libri a quella reale, un uomo che si sente “come l’ultimo pesce vivo in un acquario”. Anche in Compito di realtà il protagonista fatica a trovare la sua dimensione; una vita, quella del professor Iuri Bettalli, supplente presso un istituto comprensivo della provincia, che appare “fuori asse” negli ideali che cozzano con la realtà, soprattutto se questa poi si confronta con il punto di vista degli adolescenti.
Un accenno allo stile
Lo stile di Simone Ghelli è essenziale, privo di sbavature. Nessuna frase è lasciata al caso, ma è costruita per tendere al punto, al nocciolo di ciascuna narrazione breve. Gli elementi compositivi e il perno emotivo, al centro di ogni racconto, si integrano in maniera tale che le immagini narrative catturate dall’autore siano di grande equilibrio stilistico.
Grand Hotel di Jaroslav Rudiš è un romanzo particolare pubblicato in Italia da Miraggi Edizioni, nella collana NováVlna diretta da Alessandro De Vito.
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Grand Hotel di Jaroslav Rudiš portato in Italia da Miraggi edizioni con la traduzione di Yvonne Raymann è un’opera di narrativa che incuriosisce il lettore catturandolo fin dalle prime pagine.
Ma iniziamo dal principio.
Siamo in Repubblica Ceca, Fleischman è un giovane uomo sui trent’anni, con qualche difficoltà e un passato tragico alle spalle, lavora come tuttofare al Grand Hotel di Ještěd, ha una passione smodata per la meteorologia che utilizza soprattutto come termine di paragone con la vita stessa. Vita che procede monotona fino a quando non conoscerà due persone che in modi differenti influiranno su molte delle sue decisioni.
Come già detto in precedenza, Grand Hotel di Jaroslav Rudiš è un romanzo unico nel suo genere, raccontato in prima persona dallo stesso protagonista, con molteplici similitudini tra la meteorologia e la vita stessa, un’opera che favorisce l’introspezione di chi legge, anche grazie a uno stile onirico quasi ipnotico, capace di suscitare una forte empatia.
I personaggi sono molti e tutti ben delineati, anche se si legge di loro tramite l’occhio del protagonista.
Il mio preferito é come sempre un secondario: Ilja, la ragazza che irromperà nella vita Fleischman in modo del tutto inaspettato. Proprio questa irruzione aiuterà lo nella sua crescita personale.
Jaroslav Rudiš ci guida per mano in questa storia e ad ogni pagina ci sospinge ad un’autocritica spronandoci però a gioire delle piccole cose della vita senza mai perdere la speranza verso il futuro.
Chiede il lettore di fare i conti con le proprie paure e trovare uno slancio, un appiglio per fronteggiare l’ignoto, il tutto senza mai perdere il ritmo della narrazione né facendo scemare la tensione narrativa.
Le varie metafore con base meteorologica non appesantiscono né la narrazione né lo stile narrativo anzi hanno la capacità di rendere ancora più efficace l’impatto emotivo della storia sul lettore. In conclusione, mi sento di affermare che Grand Hotel di Jaroslav Rudiš è un romanzo brillante e potente al contempo che può essere un’ottima guida in questi tempi d’incertezza.
Grand Hotel di Jaroslav Rudiš, Miraggi Edizioni pp.224, Brossura 18 €, versione digitale disponibile.
Ringrazio la casa editrice per la copia cartacea del romanzo.
Casa editrice scoperta Grazie alla libreria Gogol & Company di Via Savona 101 Milano
Jan Antonín Bata è sdraiato in un letto d’ospedale. Fa caldo, gli fa male il petto. Ha avuto un infarto. Un altro. Il bianco delle lenzuola di lino inamidato si confonde e si trasmuta nel bianco della neve d’infanzia: sente in lontananza il suono del violino, del suo primo violino. Usa la custodia nera a mo’ di slitta per scivolare dalla discesa e arriva per primo mentre gli altri bambini giocano lanciandosi la neve. Lìda accende il ventilatore per trovare un po’ di sollievo dall’afa tropicale brasiliana. Il motore del ventilatore è rumoroso, cupo e monotono come il motore dell’aereo Lockheed Electra L-10 con cui Jan Antonín Bara ha girato il mondo. È mattino e Lìda e Maja aprono le finestre dalle quali s’inerpica e s’introduce l’inebriante profumo della dama da noite. La prima volta che aveva avuto un infarto c’era solo Marina, nessun dottore – “non ci sono dottori nella giungla” – e la donna, per calmarlo, gli aveva sussurrato di inspirarne il profumo. Anche ora inala profondamente la fragranza floreale e così facendo vola via dalla stanza d’ospedale di San Paolo, attraversa l’oceano e inspira a pieni polmoni, quasi bevendolo, l’odore umido della terra e della neve primaverile. È giusto tornare perché è giunto il momento di ripulire per bene la sua memoria e il suo onore infangati da maldicenze, incomprensioni e finanche da un processo- farsa. Sì, perché lui, Jan Antonìn Bata, fratello unilaterale di Tomàš Bata (originario fondatore di quello che diverrà l’impero calzaturiero Bata S.p.A.) per anni non è stato riconosciuto in patria, in Europa e negli Usa per quello che era né per i suoi meriti. Tutt’altro: “Sono già stato un po’ tutto sulla bocca e sul volgare muso della gente: nazista, ebreo, ebreo tedesco, ebreo ceco, ebreo comune, slavo schifoso, agente del terzo Reich, disertore, traditore della patria, sabotatore della nazione, gigante, agnello sacrificale dei comunisti, re dei calzolai, continuatore, Capo e ora pare che sia stato anche un punto nevralgico della storia ceca contemporanea.” Ora che è morto d’infarto, l’uomo vuole ricomporre i tasselli del puzzle, capire perché non gli hanno dato ascolto e rivedere il tutto “attraverso la lente di ingrandimento del tempo”…
Con Bata nella giungla è la ricostruzione romanzata della vita imprenditoriale e famigliare dei Bata che assume i toni della storia corale di grande respiro. Il romanzo si sviluppa e si organizza in maniera singolare: immaginatevi la classica rappresentazione di un albero genealogico, con le radici, il tronco e le fronde a simboleggiare la stirpe, la discendenza, la progenie; ad ogni modo, l’autrice non tratteggia l’albero in maniera lineare, bensì a scatti, soffermandosi su un personaggio per poi passare ad un altro, senza tenere conto della linea biologica. Difatti, a dare il titolo ad ogni capitolo del libro è il nome di uno dei membri della famiglia, i quali si alternano e ritornano più volte a fornire la loro visione della storia. La narrazione procede dunque andando avanti e indietro nel tempo, nei legami familiari, nelle vicende biografiche e storiche, nei ricordi dei membri della famiglia Bata e nelle loro riflessioni personali. Il lettore è così sbalzato, come da una folata di vento, da un determinato momento storico e da un preciso punto geografico all’altro. In questo romanzo, i piani del presente e del passato si sovrappongono, così come quelli della vita terrena e ultraterrena – sono davvero notevoli e suggestivi i momenti in cui Markéta Pilátová scrive di Jan Antonín Bata mentre vaga erratico su questa Terra e riflette sulle cose della vita dal suo peculiare punto di vista. Si alternano poi gli scenari urbani della Vecchia Europa con le descrizioni del lussureggiante e selvaggio Sudamerica che la caparbietà e la determinazione dei fratelli unilaterali Bata sono riusciti in parte a domare. Questi “Ford cechi” dell’industria calzaturiera con il loro impero hanno rappresentato lo spirito imprenditoriale impregnato di fiducia nel futuro, nel progresso tecnologico e di fiducia nell’uomo e nella socialità. Particolarmente interessanti e profonde le riflessioni dei personaggi sulla lingua madre e sulle lingue acquisite (quasi tutti, in questo libro, sono poliglotti e parlano correttamente il ceco, il serbo, il tedesco, l’inglese, il portoghese e talvolta il francese). Il soffermarsi sulla lingua, sull’importanza della lingua come fulcro attorno al quale si plasma l’identità spirituale di ciascuno di noi così come passpartout per una vita sociale, lavorativa e intellettuale più ricca rivela l’attività di traduttrice della Pilátová, la quale, oltre a scrivere insegna il ceco in Brasile proprio ai discendenti degli emigrati cecoslovacchi delle città fondate dai Bata attorno alle loro fabbriche.
“Dopo una lunga malattia, Roberto Bolaño morì il 14 luglio 2003.
Quello stesso giorno, più o meno a mezzanotte, diventò immortale”.
Così si esprime lo scrittore messicano Jorge Volpi il cui ricordo dell’amico Roberto Bolaño è contenuto nel bellissimo saggio, rivisto e aggiornato, “Bolaño selvaggio” pubblicato da Miraggi edizioni a cura di Edmundo Paz Soldán e Gustavo Paverón Patriau.
Forse, insieme a “Tra parentesi”, il saggio più completo dell’opera del grande scrittore cileno diventato dopo la morte autore di culto soprattutto tra i lettori più giovani.
Jorge Volpi non è il solo scrittore scelto per ricordare l’amico Roberto, nel libro non mancano, infatti, i ricordi emozionanti degli scrittori che hanno conosciuto da vicino Roberto Bolaño e che hanno avuto la fortuna e il privilegio di leggere i suoi scritti mentre l’autore era ancora in vita. Tra questi ricordiamo Rodrigo Fresán, Juan Villoro, Alan Pauls, Enrique Villa-Matas, Celina Manzoni, Jorge Herralde, e, soprattutto, colui che farà conoscere in tutto il mondo l’immensa è sterminata opera di Bolaño, e cioè Ignacio Echevarría.
Ma perché è così importante leggere Bolaño e conoscere la sua opera?
Forse perché l’autore cileno non è solo quello che ha scritto. Leggere Bolaño vuol dire entrare anche in tutto quello che ha letto e i suoi romanzi assumo anche le sembianze di veri e propri manuali della letteratura.
“Chi dirà ai Bolañisti che, anziché venerare il libro di B., bisogna studiarlo, sfogliarlo, tagliuzzarlo, abusarne e persino torturarlo, fin quando canti, fin quando non riveli – o no – il segreto di come faceva quel gran “figlio di puttana” a scrivere così bene…”
Sono d’accordo con questo giudizio: Bolaño va studiato a fondo e questo saggio, che approfondisce dal punto di vista umano e Letterario la sua vita, può sicuramente servire per conoscere nei dettagli l’opera omnia di questo grande scrittore.
“Bolaño selvaggio”, pertanto non è solo per chi già si è accostato a questo autore, ma, principalmente, per chi si vuole incuriosire a conoscere la sua letteratura.
Ecco, a tal proposito, cosa scrive l’amico Juan Antonio Ródenas:
“L’opera di Roberto Bolaño è una delle proposte più originali della letteratura latinoamericana dell’ultimo decennio. Al tempo stesso, è uno dei progetti più lucidi, intelligenti e audaci, come dimostra perfettamente il fatto che “I detective selvaggi” abbia ottenuto il premio Rómulo Gallegos. Bolaño è bravissimo a unire il divertimento col dramma, a inserire le avventure letterarie nelle squallide peripezie della vita…”
Aggiungerei di mio che l’opera di Bolaño è anche un’operazione molto coraggiosa proprio perché leggendo i suoi libri si ha come la sensazione che i suoi libri fossero una specie di “continuum narrativo” volti a creare un unico romanzo totale che racchiudesse tutto: romanzi, poesie e racconti.
Una specie di galassie letteraria che ha contribuito a creare il “mito” di Roberto Bolaño.
L’ultimo libro pubblicato in ordine di tempo è “Sepolcri di cowboy”, e la domanda che ci poniamo è la seguente: sarà l’ultimo nel senso che porrà la parola fine alla sua produzione letteraria o in futuro ci dobbiamo aspettare altri suoi inediti?
Ovviamente la domanda rimane senza risposta. Nessuno può affermare con certezza che “Sepolcri…” sia il punto di arrivo perché è riconosciuta la “sua dedizione assoluta alla letteratura e alla scrittura” e questo fa sì che non si esclude negli anni a venire che possa venire fuori ancora qualcosa di inedito.
Intanto consiglio di leggere e rileggere e rileggere ancora, tutto quello che è stato pubblicato fino ad ora. Quello che verrà in seguito si vedrà. In ogni caso i suoi libri resteranno e ci accompagneranno sempre nel nostro percorso di conoscenza della grande letteratura.
Chiudo riportando le parole che furono pronunciate durante il funerale laico che si tenne a Barcellona il 16 luglio 2003:
“Addio, allora, a Roberto, con tutti i suoi amici e tutti quelli che lo amavano, che sono tantissimi, con un groppo in gola. Ma i suoi libri ci accompagneranno e resteranno, trionfo della letteratura a cui lui, così intrepidamente, consacrò la sua vita”.
Edmundo Paz Soldán (Cochabamba, Bolivia, 1967) insegna letteratura ispano-americana alla Cornell Universi- ty. Autore di romanzi e saggi, le sue opere sono tradotte in otto lingue e ha vinto il Premio de Cuento Juan Rulfo (1997) e il Premio Nacional de Novela en Bolivia (2002). In Italiano si possono leggere i romanzi Río Fugitivo e La materia del desiderio, entrambi pubblicati da Fazi.
Gustavo Faverón Patriau (Lima 1966) insegna al Bowdoin College ed è autore di saggi storici e letterari e di un romanzo, nessuno dei quali ancora tradotto in italiano. Direttore della rivista «Somos», tiene la rubrica «El Comercio» e gestisce uno dei blog più seguiti in ambito ispano-americano, «Puente Aéreo».
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