La ricercatrice in Slavistica presso l’Università di Trieste: «Il riconoscimento è un onore, la difficoltà è stata ricreare l’armonia di questo testo»
di Elena Commessatti
L’appuntamento è fissato per lunedì 11 novembre alle 17 aVenezia nell’Isola di San Giorgio Maggiore (ingresso libero). L’occasione è la consegna del prestigioso premio per la Traduzione Poetica “Benno Geiger” conferito dalla Fondazione Giorgio Cini, l’istituzione che conserva dagli anni Settanta l’intero archivio dello storico dell’arte e poeta austriaco, donato per volontà testamentaria dalla figlia Elsa.
Quest’anno a vincerlo sono Daniele Ventre, in merito alla sua raffinata traduzione dell’Odissea di Omero (Ponte alle Grazie Editore, 2023), e Martina Napolitano, pordenonese, che si aggiudica il Premio “Giovane Traduttore” 2024 per il suo eccezionale lavoro su Trittico di Saša Sokolov (Miraggi Edizioni, 2024).
Martina Napolitano è ricercatrice in Slavistica presso la Sezione di Studi in Lingue Moderne per Interpreti e Traduttori dell’università di Trieste, dove insegna lingua russa e traduzione. Attualmente si sta occupando di un’antologia di poetesse.
Marco Caramitti sul Manifesto così la definisce: “promotrice a livello internazionale del verbo sokoloviano”. Infatti è la prima a tradurre Trittico in italiano.
Cosa significa il Premio Geiger?
«Un onore. Lo sento come la conclusione di una piccola impresa in cui mi sono cimentata ormai alcuni anni fa, e che rappresenta gli interessi di ricerca del mio percorso dottorale. Racconto un piccolo aneddoto. Nel 2016 in una libreria di Mosca mi sono imbattuta in un raffinato libro illustrato di Sokolov, “Tra cane e lupo”, il suo secondo romanzo. Mi sono messa a leggerlo immediatamente mentre ero in metro, e ho capito che non capivo nulla. La cosa mi ha incuriosito. Pensavo di conoscere bene il russo, e invece! Non è un caso se questo autore spesso è considerato il Joyce russo; è paragonato ad autori complessi dove la parola si smonta, si ricostruisce. Lui lavora sulla parola anche a livello musicale».
“La lingua è una musica dataci dall’alto”. Lo dice lo stesso Sokolov. Lei giustamente lo riporta in prefazione.
«Sin da bambino dimostra di avere “l’orecchio assoluto” Di sé dice inoltre che se fosse nato in Austria sarebbe diventato un compositore, essendo russo invece è scrittore, perché la letteratura è fondamentale nella sua terra. Trittico è un lavoro che arriva dopo vent’anni di silenzio, e non è un romanzo. Questo lavoro è diventato un po’ la summa della sua ricerca artistica: su come va scritto un testo».
Che tipo di difficoltà ha questo lavoro?
«Trittico porta tutto all’estremo. In questa prova poetica abbiamo voci non meglio identificate, calate in un luogo non identificato, in un tempo non certo».
Come ha lavorato nella traduzione?
«Non era inizialmente mia intenzione tradurlo. Stavo in realtà facendo delle ricerche legate alla contemporaneità del testo nel panorama complessivo della produzione di Sokolov, perché non si capiva come collocare questo lavoro. Poi mi sono appassionata e ho deciso di provare, un po’ per sfida, un po’ per gioco, a tradurlo. Ci ho messo cinque anni e tutto si concretizzato quando ho trovato un editore coraggioso come Miraggi, – non finirò mai di ringraziare –, che ha creduto in questa “pazzia”».
La difficoltà più ardua?
«Ricreare non tanto la semantica, ma l’armonia di questo testo, che in italiano ha altre tonalità. Ho cercato di ricreare la sua musica».
L’attribuzione del Premio Geiger dimostra che lei c’è ampiamente riuscita. E Sokolov?
«Ci sentiamo spesso via mail da un po’ di anni. No, non ci siamo mai incontrati. Vive in Canada e ha paura dell’aereo. Lo raggiungerò io prima o poi».
L’ora delle distanze è un progetto ambizioso e visionario che fonde musica, arte visiva e letteratura in un racconto unico. Nato dalla collaborazione tra Andy e Lory Muratti, il progetto esplora tematiche di evasione, decadenza e resistenza creativa, e diventa un manifesto che riscrive le regole dell’arte contemporanea, strizzando l’occhio all’immaginario underground. Attraverso un mix di linguaggi che spaziano dal dark al pop, i due artisti hanno creato un’opera che invita il pubblico a immergersi in un universo surreale, dove sogni e colori cercano di sfuggire a una realtà corrotta e monocromatica. In questa intervista, Andy e Lory ci raccontano il percorso dietro la creazione, e il potere trasformativo dell’arte e della musica nella loro visione del mondo.
Il vostro progetto è descritto come un’opera che combina musica, letteratura e arte visiva. Come avete sviluppato l’idea di unire questi tre linguaggi in un unico racconto? Andy: L’idea è nata proprio dalla condivisione dei tre linguaggi. Mi sono sempre occupato di musica e pittura, Lory di musica e scrittura. Unendo le forze abbiamo creato la sinergia dentro la quale ognuno ha potuto ottimizzare le proprie risorse. Lory: Credo si possa dire che il nostro linguaggio è per sua natura “multidisciplinare”. Quando ci confrontiamo non lo facciamo solo da musicisti o aprendo un dialogo tra scrittore e pittore. Ci siamo sempre sentiti partecipi di un immaginario condiviso. Per questo è stato del tutto naturale dare vita a un progetto che ha più volti e più anime, ognuna delle quali rappresenta una parte di noi.
Nel comunicato stampa si parla di un presente in cui sogni e colori resistono a una realtà corrotta e in bianco e nero. Quale significato assume questo contrasto nel vostro progetto? Andy: Sogni e colori nella dimensione delle “Distanze” narrata nel libro rappresenta una possibilità di risoluzione, la necessità di mettere a fuoco il disagio ingrigito al quale crediamo sia possibile dare nuova forma e colore. Lory: Il mondo delle “Distanze” rappresenta per il protagonista la fuga da una realtà divenuta insostenibile, ma anche la cura, il rimedio, la possibilità di mantenere vivo il sogno viaggiando in profondità per poi tornare al bianco e nero e provare a invertire la rotta. Infondere nuovo colore è la metafora che abbiamo voluto usare per rappresentare la speranza.
La storia di “L’ora delle distanze” si svolge in una “contro-realtà” popolata da personaggi post-punk, glamour e rock’n’roll. Come avete costruito questo universo surreale e qual è il suo rapporto con la nostra realtà? Andy: Ho sempre rappresentato all’interno dei miei quadri una serie di personaggi che mi hanno ispirato. Dagli amici della vita reale ai grandi miti dello spettacolo. Lory ha articolato la storia dando a loro uno specifico ruolo di svolgimento. Lory: Come dicevo, le “Distanze” sono la cura, il rifugio salvifico e come tali fanno da contraltare al piano di realtà. I personaggi che li popolano, come dice Andy, sono figure reali che, traslate in una dimensione parallela, diventano i perfetti custodi e animatori di quel rifugio psichedelico.
Il romanzo è definito un “viaggio psychofantasy, dark e pop”. Come avete bilanciato questi elementi nei testi e nelle illustrazioni per mantenere coerenza narrativa e visiva? Andy: Il romanzo parla di un viaggio lisergico che nasce grazie a una trasfusione di musica e colore nelle vene del protagonista. La realtà in bianco e nero, decadente e corrotta, è in contrappunto con la dimensione fluorescente dei dipinti. Le illustrazioni esistevano già, i testi hanno permesso la connessione del viaggio. Lory: Come avviene nel nostro “mescolare arti e mestieri” allo stesso modo le suggestioni si influenzano e bilanciano reciprocamente. I dipinti di Andy, diventati illustrazioni nel libro, sono lo scenario dentro il quale si svolge la storia e dove i personaggi da lui immaginati hanno preso vita nella mia narrazione. I toni dark, pop, psycho ed ogni altra sfumatura rintracciabile nel libro (e nei testi delle canzoni che abbiamo realizzato in parallelo) non sono altro che la naturale rappresentazione dell’essenza di quei personaggi e del modo in cui si muovono nelle Distanze o, nel caso del protagonista “Fluon”, tra Distanze e realtà.
Nel libro emergono temi come il desiderio di evasione, la decadenza e la lotta contro il vuoto interiore. Quali esperienze personali o osservazioni del mondo vi hanno ispirato a esplorare queste tematiche? Andy: Più che evasione, penso che sia maggiormente presente il desiderio di immersione e riflessione su ciò che avviene dentro di noi, utile a trasformare ciò che avviene fuori da noi. Lory: Sono perfettamente d’accordo nel dire che il viaggio è dentro noi stessi. È da lì che abbiamo deciso di partire per provare a rileggere un presente che, in molti modi, non ci rappresenta e non rispecchia nemmeno gli ideali per i quali abbiamo sempre vissuto e lottato. Ricostruire immaginando piuttosto che fuggire è la strada che abbiamo deciso di condividere con chi desidera avvicinarsi a questo lavoro.
Il videoclip del singolo è stato girato a San Diego e mostra una realtà colpita dall’indigenza. Come si collega questa scelta visiva con i temi trattati nel libro? Andy: A mio parere gli Stati Uniti rappresentano la forma più grave di avvilimento dell’essere umano. La disuguaglianza determinata dal denaro e dalla continua menzogna sociale ”pseudo democrazia” o “sogni da inseguire”, diventa uno spaccato perfetto per la narrazione. Lory: È quella una realtà che ci sta a cuore raccontare e che basta osservare da vicino (anche incontrando e parlando con chi la vive) per rendersi conto che è più vicina e “possibile” di quello che siamo portati a immaginare. Molte di quelle persone vivono le nostre stesse lotte quotidiane e questo fa comprendere quanto il contesto, certe scelte, ma soprattutto la mancanza di supporto da ciò che ti circonda, possa influire sulla tua vita. È stato il punto di partenza per immaginare il bianco e nero in cui si apre il romanzo.
Il personaggio protagonista sembra trovarsi in una costante ricerca di identità e riconciliazione tra il sé interiore e il mondo esterno. Quanto di voi stessi avete riversato nel protagonista? Andy: Per quel che mi riguarda c’è un parallelo quotidiano tra il protagonista del romanzo e quello che vivo. A tratti sembra un’autobiografia psicotica. Lory: Ho chiaramente pensato molto a Andy scrivendo di Fluon, ma alla fine non vi è narrazione che non venga influenzata anche dallo stato d’animo e dalla storia personale di chi scrive. Penso che il tratto del protagonista che riguarda di più entrambi sia la sua tenacia, il desiderio di tenere vivo il sogno.
Il progetto include anche un’esperienza live che mescola concerto, teatro, installazione e DJ set. Come immaginate che questo approccio multimediale arricchisca la fruizione del pubblico? Andy: Stiamo per costruire uno spettacolo multidisciplinare perché ci rappresenta, perché siamo creativi in diverse discipline. Penso che sia un modo interessante e divertente di avvicinare il pubblico al romanzo. A mio parere spesso le presentazioni di libri, salvo rari casi, sono avvolte da un alone di noia che non vorrei mai nel nostro caso. Lory: Ho sempre amato far dialogare musica e narrativa e creare spettacoli a cavallo tra teatro e concerto. Con questo lavoro condiviso credo ci spingeremo anche oltre per avventurarci, assieme al pubblico, nel cuore della narrazione.Il libro è ricco di immagini potenti, tra cui il riferimento al “vento pieno di nuova speranza” e alle “strade smarrite nei colori”. Come avete utilizzato l’immaginazione per costruire questi paesaggi emotivi e visivi? Andy: Durante le esperienze meditative o le pratiche di alterazioni dello stato di coscienza si vive spesso la sensazione di essere avvolti da un vento forte o da strade che, a un certo punto, non hanno più una direzione precisa e si perdono nei colori. Oltre all’immaginazione c’è quindi un lato esperienziale che mi permette di riconoscermi all’interno della narrazione di Lory. Lory: Nel momento in cui si è compartecipi dello stesso immaginario, certe suggestioni affiorano in autonomia alla coscienza. Personalmente quando inizio a scrivere so qual è la strada da percorrere (la scansione cronologica degli eventi e il divenire narrativo), ma non ho la più pallida idea di quali immagini mi raggiungeranno, adatte a descrivere quel flusso di eventi che diventa inevitabilmente anche un flusso di coscienza.
Guardando al futuro, vedete “L’ora delle distanze” come un progetto isolato o come il punto di partenza per ulteriori collaborazioni artistiche tra voi? Andy: Vedo il progetto come il risultato dell’abbattimento dei tempi tecnici e dei problemi aggiunti. Un altro modo per quel che mi riguarda di concretizzare le idee. L’entusiasmo dell’editore, del discografico e la complicità con Lory mi fa sognare una continuazione. Lory: Ritrovarsi a condividere un percorso in modo così spontaneo, alimentando e arricchendo vicendevolmente il risultato finale è cosa preziosa e ha una forza difficile da spiegare a parole. Innescare questo tipo di sinergie, per mia esperienza, è cosa piuttosto rara e mi fa quindi auspicare che questo progetto sia il primo capitolo di un lungo viaggio condiviso.
Il 17 settembre è uscito in libreria, in radio e in digitale “L’ora delle distanze”, romanzo edito da Miraggi Edizioni, ma anche titolo del singolo pubblicato da Riff Records. Gli artefici di questo splendido lavoro che unisce letteratura, pittura e musica, sono Lory Muratti e Andy dei Bluvertigo. Un progetto sui generis molto affascinante, “un viaggio psychofantasy, dark e pop”. Lory Muratti ha scritto il libro ispirandosi ai quadri visionari di Andy, e insieme i due artisti hanno scritto e arrangiato il singolo omonimo. Un lavoro molto potente, di cui abbiamo parlato con i diretti interessati per avere ulteriori approfondimenti.
Ciao Lory, ciao Andy, iniziamo parlando di voi due: vi conoscete da tanto tempo? So che nel 2007 Andy partecipò con un assolo di sax al disco “Hotel Lamemoria” di Tibe, il nome che usava Lory a quel tempo.
ANDY: Ci conosciamo da molto prima, intorno agli anni 2000. Il soggetto del libro nasce in quegli anni e poi è stato sviluppato nel tempo. Ho iniziato a frequentare Lory grazie agli H Park: sviluppavamo contemporaneamente il discorso di casa-laboratorio, ovvero posti condivisi in cui ognuno, con la propria competenza e la propria passione, poteva unire le forze e creare una sinergia: artisti, musicisti, fonici, allestitori, videomaker, ecc. L’idea era quella di lavorare in collettivo, io con Reset House e successivamente con il laboratorio Flu-On, e Lory con gli H Park. Ci siamo subito trovati in linea come modo di vivere e di concepire la creatività, ed è bello ritrovarsi ora da vecchi ed essere ancora più entusiasti di questo, perché finalmente, unendo le forze, è venuto fuori un libro vero e proprio, stampato, cartaceo. È un bellissimo momento di condivisione.
La sinergia tra voi due si sente molto. Il protagonista del libro si divide a metà: di giorno è il Pusher del Colore, in un mondo in bianco e nero, mentre di notte diventa Fluon. Sembra un vostro alter-ego.
ANDY: Sì, con tutte le nostre psicosi. A tratti sembra un’autobiografia, io mi sento molto rappresentato all’interno del racconto, non è solo l’aver fatto i dipinti che hanno mosso il decorso narrativo.
LORY: L’idea era proprio di raccontare di questo alter-ego di Andy, che lui aveva immaginato dando un nome al personaggio, ma anche al suo laboratorio in quel periodo, Flu-On appunto. Poi è chiaro che in ogni narrazione l’autore finisce col mettere degli aspetti del sé. Fra l’inizio del libro, il mondo in bianco e nero, e l’immersione nel colore nel mondo delle Distanze, quindi tra il Pusher del Colore e il Fluon notturno nella sua massima manifestazione, c’è un po’ di legame con quello che noi siamo. Io mi riconosco molto nell’incipit del libro, dove emerge un po’ di più la mia sensibilità rispetto alle cose che mi circondano e il modo che ho di guardarle. Ma nella parte in cui viene descritta la trasfusione del colore che porta all’immersione nel mondo delle Distanze, dove compare Fluon nella sua versione più intima, mi sono calato nei panni di Andy-personaggio, dell’Andy in una sorta di Cartoonia, cioè quel luogo-non luogo in cui io ho immaginato di calarmi i suoi dipinti per far muovere i personaggi che lui disegna come se fossi nei suoi panni. In questo processo c’è stata una forma di simpatica schizofrenia: io sono uscito un po’ da me per entrare in lui e contestualmente i suoi personaggi sono diventati simbolicamente delle marionette da far muovere per me in maniera molto stimolante.
Il libro inizia con una frase potentissima, che è anche il primo verso del brano “L’ora delle Distanze”, ovvero “un mondo annoiato dai sogni è un mondo da far saltare per aria”. Mi trovo d’accordo con questa affermazione, mi reputo anche io una sognatrice. Andando avanti, i versi dicono “noi invece, stupidi idioti, ci siamo rimessi di nuovo al lavoro […]”: gli “stupidi idioti” sarebbero i sognatori?
LORY: Ovviamente è provocatorio, non c’è un giudizio, è un darsi dello stupido da solo, perché ci si ostina a portare avanti una missione matta, della quale non si può fare a meno. Anche se il mondo attorno è completamente corrotto verso altre direzioni, lo stupido idiota si mette di nuovo al lavoro, anche se non lo pagano, va avanti imperterrito.
ANDY: In realtà il sogno e la visione sovrastano il lamento, molto spesso siamo contornati da una sorta di malcontento, ma nella consapevolezza di questo profondo grigiore o desolatezza, noi ci sentiamo colorati, non ci risuona il lamento.
LORY: Siamo consapevoli che le cose non vanno bene, ma senza soccombere a questa evidenza, la descriviamo per andare avanti. Anche il videoclip ha questo tipo di intenzione: non vuole essere pesante nell’accezione del dover fare i depressi perché qualcosa non va per il verso giusto, è prendere coscienza di questo, per poter andare comunque avanti. Non è un’accusa fine a se stessa.
ANDY: È il primo step del 45 giri, indica l’inizio del libro, per questo il video è prevalentemente in bianco e nero. L’altro lato del 45 giri con l’altra canzone “La caduta” sarà invece l’immersione in questa Cartoonia che io ho sempre cercato di visualizzare nel mio modo di dipingere. Non faccio parte di quegli artisti di arte contemporanea con un concetto profondo, non faccio arte concettuale, faccio pop art. Ho sempre definito la mia pittura come una realtà parallela a Cartoonia, e con la narrazione del libro Lory è riuscito a trasformare il percorso pittorico, anche con dipinti che avevo dimenticato di aver fatto, e ha dato loro un senso, ha creato il fil rouge di una vicenda che si muove all’interno dei quadri.
Alessandro De Vito pubblica il libro fiume della poetessa e drammaturga Radka Denemarková scritto fra Praga, Pechino, Graz e l’isola di Amrum.
È tutta una questione di recupero di memorie. Poi però bisogna intendersi sul significato di ricordo e di memoria, e anche sull’uso del singolare o del plurale. Quello che adesso fa Alessandro De Vito, 53 anni, fondatore nel 2010 di Miraggi Edizioni, figlio di Antonio, pugliese, giornalista, e di Dana, maestra, ceca di Ostrava, allora ancora Cecoslovacchia, è figlio della volontà di riannodare la memoria perduta.
La dice così. E “La memoria perduta” potrebbe essere il titolo di un libro, il suo libro, se mai lo scriverà. Per ora pubblica quelli degli altri. E oggi ha sul tavolo l’ultima fatica-follia-avventura data alle stampe, definita «la nostra più grande impresa editoriale». Esce a metà di questa settimana: “Ore di piombo” di Radka Denemarková, poetessa, drammaturga, traduttrice, una delle intellettuali più ascoltate della Repubblica Ceca. Un libro fiume, anzi mare, anzi oceano: 928 pagine scritte in cinque anni tra Praga, Pechino, Graz e l’isola di Amrum. Tre anni ha impiegato per tradurlo Laura Angeloni, che ne parla come di un classico contemporaneo che passerà alla storia e confida di aver vissuto, mentre era dentro l’opera, quasi in un’altra dimensione.
E un’altra dimensione è quella della Cina raccontata dal libro: cultura, politica, tradizioni, contrasti. «L’autrice tenta di raccontare con tutta la forza espressiva della letteratura il nuovo secolo cinese – spiega De Vito – Descrivendo quella società, ci fa riflettere su come siamo noi. La protagonista è una scrittrice affascinata dalla Cina che incontra diversi personaggi dai nomi simbolici. Quando scopre che l’essenza di quel paese è nel pensiero di Confucio, compreso l’autoritarismo che unisce e omogenizza tutto, capisce molto di più i cliché, i vizi e le contraddizioni della vecchia Europa. Essendo una donna dell’Est, cioè una persona che ha recuperato la libertà da poco, ritrova in molti nostri atteggiamenti gli stessi modi autoritari e non umani di cui spesso accusiamo gli altri».
Un romanzo non tanto sulla Cina, ma con la Cina, che racconta di noi. Bisogna affrontarlo come quando ti attrezzi per un viaggio lontano, incline alle scoperte. «È una lettura impegnativa che apre a prospettive diverse. Non ti lascia accomodato nella tua comfort zone. Altrimenti che viaggio sarebbe? Tanto vale rimanere a casa». A questo libro, il ventiduesimo della collana di letteratura ceca, e in genere al lavoro di editore, che è uno in grado di ascoltare e far viaggiare per il mondo le storie degli altri, Alessandro De Vito è arrivato recuperando le tessere della memoria familiare. «È una storia articolata – spiega – Mio padre era figlio di un falegname emigrato a Torino, che in Puglia nel 1924 ha fondato una sezione del Partito Comunista. Mentre i miei nonni cechi erano borghesi e, prima, hanno subito l’invasione nazista e poi hanno vissuto sotto la dittatura comunista, quindi erano feroci anticomunisti. I miei si sono conosciuti in Bulgaria, sul Mar Nero. Si sono visti un paio di volte e nel 1969 si sono sposati. Per tutta l’infanzia e l’adolescenza, un mese d’estate l’ho trascorso dai nonni a Ostrava. Ho smesso di andarci a vent’anni e ho perso completamente la lingua ceca».
Altri vent’anni sono passati prima che la recuperasse. «E accaduto verso il 2009, quando ho iniziato a interessarmi di letteratura». Prima ha fatto altro. Si è iscritto a Legge, ma presto finisce fuori corso. Dopo quattro anni molla gli studi e va a lavorare in un circolo Arci di Grugliasco, in cucina. Poi torna all’università, a Lettere però. E nel 2000 si laurea in Storia del cinema con una tesi sulle Nouvelle Vague cecoslovacca degli anni Sessanta. «È stato un primo recupero dell’identità ceca. Comunque, vado a lavorare in una cooperativa sociale. Solo dopo una decina d’anni, quando con gli amici Fabio Mendolicchio e Davide Reina già cercavamo di lavorare nel mondo editoriale e poi abbiamo deciso di fondare la nostra casa editrice, soltanto allora ho rimesso insieme le mie radici».
È così che nel 2016, alle collane di narrativa italiana e narrativa straniera, si affianca quella di narrativa ceca. Nel lavoro di editore. che consiste nel leggere, scegliere, curare storie e coltivare idee in forma di libri, De Vito ricompone il mosaico delle sue storie personali e delle sue geografie. Il modo in cui guida la casa editrice può essere riassunto da ciò che Radka Denemarková dice del suo romanzo: «Ho voluto metterci l’essenza di tutto ciò che sono riuscita a capire di questo mondo. Ma forse, soprattutto, ciò che non avevo capito». È così che si va avanti, a far libri e a vivere: si continua a ricercare.
Arriva su una vespa blu. E si presenta con un libro in anteprima, copertina crema e titolo rosso: “Ore di Piombo” di Radka Denemarkovà, a breve in libreria.
«È la mia biblioteca su due ruote, ci faccio dei veri e propri tour riempiendo le sacche da viaggio di libri», spiega mentre si toglie il casco Fabio Mendolicchio, uno dei tre editori di Miraggi, insieme con Alessandro De Vito e Davide Reina. Entriamo da Barbagusto, nel cuore di San Salvario.
Siamo un po’ in anticipo sull’orario di pranzo perciò possiamo scegliere il tavolo e ci accomodiamo a quello vicino alla porta finestra: alle nostre spalle una parete di bottiglie di vino, a destra un cortiletto con una luce ancora calda per l’autunno.
Mendolicchio si presenta subito come editore che «vede i fenomeni da un’altra prospettiva». «Leggo i libri solo quando sono in produzione, mai prima — dice — diciamo che sono il lettore 1, da me poi inizia il viaggio nelle librerie». E a proposito di viaggi, scopriamo subito che Mendolicchio non solo fa i tour dei libri in vespa con la Ubik, ma ama anche cucinare in libreria. Perché è si editore, ma anche musicista e chef. «Ho studiato all’alberghiero e sono arrivato all’editoria per uno scherzo del destino. Ho fatto un corso di grafica creativa perché volevo applicare le nuove competenze alla mia passione per la cucina e poi con la grafica sono arrivato all’editoria grazie a un amico, mi è sembrato un percorso naturale dato che leggevo e tutt’oggi leggo moltissimo, ma non ho mai abbandonato la passione per la cucina, anzi mi piace contaminare i due mondi, per esempio i miei tour in libreria con le cene sono un format amatissimo dagli autori e dai lettori, oltre che dalle librerie».
Arriva l’oste, e scegliamo un tris di antipasti della casa, tondelli al pesto, agnolotti di Bra e Barbera (mezza porzione), acqua e un calice di Ruché. Poi torniamo a chiacchierare di libri ed editoria.
Tour in vespa e cene in libreria, ma una casa editrice torinese come Miraggi che storia ha, perché si diventa editori? «Siamo nati con il sogno di fare narrativa di viaggio, il nostro pubblico erano i viaggiatori, ma negli anni abbiamo cambiato pelle. Credo che se vuoi fare l’editore e vuoi diventare grande devi avere a disposizione grandi capitali, altrimenti devi accontentarti di quello che fai, nel enso che sei un artigiano e il tuo prodotto è l’oggetto libro, noi siamo artigiani dell’editoria».
Invito a pranzoArrivano i primi e il profumo del pesto e del ragù ci distraggono. Ma riprendiamo subito, un po’ provocatori: ma allora fare l’editore è un miraggio? Fabio Mendolicchio sorseggia il vino, sorride «un po’ sì forse, i miraggi esistono, il nostro miraggio è di fare libri belli con grande rispetto del lettore, ci piace fare libri che gli altri non fanno».
Ma è un sognatore disilluso Mendolicchio: «Ahimè è cambiata la vita del libro, è diventata brevissima, prima le novità duravano mesi, ora ogni 25 giorni c’è una nuova uscita. Il libro è un po’ come il latte, scade velocemente, solo che il latte si trasforma, diventa formaggio o altro, i libri no: tornano in casa editrice». E quindi? «Quindi mi ricordo il nostro primo Salone del libro nel 2010, eravamo solo io, De Vito e Reina, in tre facevamo il lavoro di 15 persone, con grinta ed entusiasmo. Oggi siamo diventati una cooperativa e tra i nostri piccoli successi — ce ne sono tanti — per esempio abbiamo lanciato Guido Catalano, un autore da 40 mila copie».
Il primo è finito e davanti ai piatti vuoti Mendolicchio continua serio.
«Negli ultimi 14 anni il mondo è cambiato tre volte e siamo cambiati anche noi come editori, abbiamo virato dall’orizzonte iniziale dei viaggi e abbiamo aperto la linea editoriale Baskerville, la nostra strada maestra di letteratura, italiana e dal mondo, divisa in quattro collane. La prima è Tamizdat. Col termine samizdat si indicavano, nel blocco comunista e in Urss, le opere straniere fatte circolare clandestinamente. Tamizdat erano i samizdat delle traduzioni: al suo interno Miraggi pubblica traduzioni di autori che difficilmente arriverebbero al lettore italiano, per contenuto scomodo, idee, tempismo, nonostante il valore letterario e culturale. Poi c’è Scafiblù, come venivano chiamate le imbarcazioni dei contrabbandieri di sigarette a Napoli, e tornando all’idea di clandestinità di Tamizdat, questa collana è dedicata agli autori italiani che seguono vie non ordinarie». Arriva il caffè. E prima di bere: «E poi c’è NováVlna, la collana di letteratura ceca, in ceco significa “Nouvelle Vague” e Janus|Giano, collana dedicata alle traduzioni con testo a fronte».
Il caffè lo beviamo entrambi amaro, in un sorso. Quindi per sopravvivere avete scelto le micro-nicchie di autori e di lettori?
«Ci siamo dati un’identità, chiedendoci quali libri potevamo proporre in un mercato così nervoso e frenetico che gli altri non pubblicavano».
E va bene?
«Abbiamo un bel riscontro, quello che ci fa andare avanti».
Ritorniamo all’attacco, quindi i miraggi esistono o no? Ride finalmente dopo un pranzo un po’ amaro come il caffè.
«I miraggi esistono eccome! Altrimenti non saremmo qui a combattere come editori, a leggere e pubblicare libri, l’anno prossimo sono 15 anni».
Lasciamo Barabagusto che ha ospitato le confessioni dell’editore in una sala accogliente e amica. E ci scappa l’ultima domanda sulla felicità.
«Certo che sono felice dice l’editore chef — indossando il casco — cucino e leggo tutti i giorni. Non ha prezzo alzarsi al mattino, portar tuo figlio a scuola e decidere quando inizi a lavorare e quando vuoi staccare. Il mio miraggio è fare l’editore e poterlo fare come mestiere a tempo pieno sempre di più». Sale in vespa, saluta e parte lento. Ci allontaniamo con l’idea che fare l’editore è un po’ come creare una libreria a bordo di una vespa, si va piano e non c’è molto spazio, perciò bisogna avere coraggio e fare delle scelte».
Lory Muratti, musicista e scrittore, e Andy dei Bluvertigo, musicista e pittore, firmano una singolare collaborazione che si concretizza nella pubblicazione di un nuovo romanzo di Muratti ispirato alle opere visive di Andy accompagnato da due brani realizzati in coppia: “L’ora delle distanze” è il titolo di uno dei due brani e del romanzo (l’altra canzone è “La caduta”). Abbiamo incontrato Muratti e Andy per una conversazione in cui raccontano il loro progetto congiunto: qui di seguito il video.
Francesca Veltri (1978) è una scrittrice italiana e calabrese fondamentale per comprendere la complessità delle emozioni e delle idee che muovono uomini e donne in situazioni estreme. Professoressa associata presso l’Università della Calabria e Dottore in Scienze Politiche. Gli interessa osservare quell’umanità che si rivela in queste situazioni. Fammi vedere la umanitá, scrive la Veltri. Ci mostra crudamente come quella “carne” spirituale si confronta, si tormenta e si contorce continuamente di fronte a varie decisioni, principalmente politiche ed etiche. Il suo libro Malapace (2022) è stata candidato al Premio Strega, grande riconoscimento della letteratura italiana. È un libro crudo e commovente con un realismo che ci trattiene
Non amando scrivere del presente perché – indica – non riesce a occuparsi della propria cerania, nel 1944 si ritrova coinvolto nella fine della Seconda Guerra Mondiale. Approfondisce i dilemmi umani di Françoise, detenuta in un campo di prigionia istituito dagli Alleati. Questo prigioniero, che era stato membro del Partito socialista, che si appellava al pacificismo, divenne un sostenitore del governo filonazista di Vichy. Come uomini e donne che perseguono un’idea “nobile” possono finire per sostenere regimi totalitari. In quello stesso campo di prigionia arriva un amico Antoine, sostenitore del fascismo, torturatore. E in quell’incontro costruisce tra loro un profondo dilemma, dolore e mortificazione
Questo libro fa parte di una lunga carriera letteraria. Nel 2015 ha vinto la Giara d’Argento RAI con il romanzo Edipo a Berlino (2016/2019). Due anni dopo scrive con Paolo Ceri Il Movimento nella Rete. Storia e struttura del Movimento 5 stelle. Nel 2023, oltre ad essere candidato al Premio Strega, vince il Premio Muricello. Quest’anno si è qualificato secondo per il Premio Nabokov ed è stato finalista per il Premio Carver.
Quando finiamo questa intervista ci rendiamo conto che il fratello di Francesca vive a Quito e che avevamo intervistato anche la Segretaria della Cultura di quella città, Valeria Coronel. La vita è misteriosa. Francesca e Valeria parlano, senza conoscersi, degli stessi argomenti e drammi
“Malapace”, proposto al Premio Strega nel 2023, è un romanzo in cui i conflitti della Storia si intrecciano inestricabilmente ai conflitti interiori dei personaggi, con effetti laceranti, inflitti dalla lama delle loro convinzioni presenti e passate. Dopo la profonda ricerca che ti ha portato a dare vita a queste due opere, qual è, nella tua personale visione, la sostanza e il limite del pensiero ideologico? E quanto può incidere nell’esistenza di un essere umano
Provo a rispondere pensando al testo La prima radice di Simone Weil, dove l’autrice scrive che l’essere umano ha bisogno di appartenenza. Di appartenere a un paese, a una nazione, un partito, una chiesa, un universo di idee e di credenze. Se l’uomo resta solo, privo di un ambiente sociale e culturale che ne permetta lo sviluppo interiore, finirà per atrofizzarsi e cadere nel più sfrenato individualismo o nel ripiegamento in un sé privo di senso. Tuttavia, questa necessità di radici porta con sé il rischio opposto e complementare di veder annegare la propria coscienza individuale nell’identità collettiva; di aderire a un ‘noi’ opposto fisiologicamente a un ‘loro’. Di accettare in nome dell’appartenenza cose che la propria morale avrebbe altrimenti rifiutato. Ciò che spesso si sintetizza attraverso la celebre frase, messa in bocca a più autori: ‘right or wrong, my country (ma anche: my party, my church, ecc). Ho scelto di raccontare questo dilemma nei miei romanzi, perché la disperata ricerca di un equilibrio tra i due estremi, per quanto precario e incerto, è qualcosa che sento profondamente.
I tuoi personaggi – come il tuo stile di scrittura – sono vividi al punto da avere il sapore della realtà, nonostante vivano una guerra nata e conclusa in un secolo diverso dal nostro. Pensi che le dinamiche umane che si osservano in situazioni di violenza, conflitto, tortura siano rimaste identiche? Per ricrearle trai ispirazione dalla cronaca del presente e dall’osservazione empirica, o ti affidi principalmente alla ricerca storiografica
Ho scritto Malapace nel 2019, e – come dissi in occasione di una recente presentazione – se non l’avessi scritto allora, oggi forse non sarei riuscita a farlo. Perché il presente ha riportato all’improvviso alla ribalta i temi che lo attraversano, li ha resi una volta ancora scottanti, incandescenti. E, per come sono fatta, quando sono troppo immersa nel presente, mi è impossibile avere il distacco necessario a scriverne, a far parlarne i protagonisti come se fossero entità diverse da me. Però, allo stesso tempo, mi rendo conto che rileggere oggi quelle pagine mi aiuta a comprendere meglio ciò che sta accadendo attualmente nel mondo. Perché i conflitti, la violenza, le torture possono cambiare contesto, ma l’umanità resta la stessa, dall’epoca in cui Omero ha cantato nell’Iliade la guerra di Troia. Una volta ancora cito Simone Weil e il suo L’Iliade o il poema della forza, in cui l’autrice si richiama ai versi omerici per capire le atrocità del conflitto mondiale che sta vivendo: individui e collettività incarnano una spinta distruttiva che è un elemento integrante della natura umana. Come affrontarla, come tentare di contrapporsi ad essa, è qualcosa che ci riguarda oggi e che riguarderà anche, credo, tutte le generazioni che seguiranno.
Il tuo “Malapace” è occasione di spunti molteplici, quasi un pungolo per la coscienza del lettore, che si ritrova di fronte interrogativi eterni che toccano temi come la giustizia, l’umanità, il peso reale delle idee. Ѐ questa, per te, la funzione che la Letteratura dovrebbe avere nella situazione politica e sociale che l’Europa sta attraversando? C’è forse anche l’intento di prevenire il ripresentarsi della Storia
Elsa Morante ha scritto all’inizio degli anni Settanta La storia. Uno scandalo che dura da 10.000 anni. Mi ricollego a queste parole. Dura ancora oggi e durerà finché gli esseri umani saranno al mondo. In sincerità, non so dire se e quale possa essere un’attuale funzione politica e sociale della letteratura; personalmente, credo solo che sia importante sollevare dubbi, suscitare domande, indebolire sicurezze: poi tocca a ciascuno di noi fare i conti con se stesso per scegliere quale risposte gli si addicano di più. Rischiando di sbagliare, anche. La certezza di essere nel giusto è, per me, forse il pericolo più grande in cui l’essere umano può incorrere, eppure è così difficile farne a meno, per chiunque di noi. Anche e soprattutto per chi non se ne rende conto, come – almeno all’inizio – entrambi i protagonisti dei miei due romanzi.
Nella tua formazione ti sei trovata a contatto anche con la letteratura argentina o latinoamericana? Pensi che ci sia un rapporto forte o un dialogo tra letteratura italiana e latinoamericana?
Da adolescente ho letto con piacere opere di autori latinoamericani molto noti in Italia, come le poesie di Jorge Luis Borges, o i libri di Gabriel Garcia Marquez, Jorge Amado e Isabel Allende. Qualche tempo fa mi è capitato di parlare di Umberto Eco con delle studentesse dell’Università di Rosario, in scambio culturale presso l’ateneo dove insegno, che avevano amato Il nome della rosa(lo conoscevano meglio di alcune loro coetanee italiane). Ho detto loro che, se pensavo alla letteratura argentina, mi venivano in mente delle poesie, più che dei romanzi. In particolare è stata una bellissima scoperta venire in contatto con i Frammenti fantastici di Miguel Angel Bustos. Sul rapporto tra la letteratura italiana e quella latino-americana, immagino che la grande diffusione in Italia delle opere di Marquez, di Amado e della Allende abbia lasciato un segno sulla nostra letteratura attuale, ma non sono abbastanza competente per delinearlo più precisamente.
Credi esista propriamente una letteratura della Calabria, o del Sud italiano? Esistono caratteristiche che possano spingere a parlare di una letteratura legata a un territorio?
Sicuramente esiste una letteratura che in Calabria trova radici, ispirazione e contenuti, e che negli anni ha dato vita a opere preziose. Io, pur avendo vissuto in Calabria tutta la mia infanzia e adolescenza e gran parte della mia vita adulta, non ho ambientato in questo territorio i miei romanzi, per una questione simile a quella temporale cui accennavo prima: esattamente come avrei difficoltà a parlare di argomenti nel periodo in cui essi mi coinvolgono in prima persona, sento la difficoltà di parlare di cose che mi sono troppo vicine – come se non riuscissi a metterle a fuoco in modo adeguato – e ammiro chi invece ci riesce.
Ci sono tantissimi calabresi nel mondo. In Argentina si trovano il numero maggiore di calabresi emigrati. Si può pensare ad una letteratura che parli con questi emigrati e con i loro figli?
Questa domanda mi ha ricordato un libro che ho avuto la fortuna di leggere e di presentare qualche mese fa in una libreria di Cosenza: Addio al mare dell’esilio, di Lucia Donadio. L’autrice, figlia di un calabrese immigrato in Colombia, ripercorre in pagine struggenti il legame tra le due patrie della sua famiglia, narrando il rapporto complesso e anche doloroso tra la terra di origine e quella di arrivo, tra speranza e nostalgia, che si ripercuote anche sulle generazioni successive. Si tratta di un tema che sento molto vicino, perché mio fratello ormai da anni vive a Quito, in Ecuador, dove lui e sua moglie insegnano all’Università e dove è nata e cresciuta mia nipote che ora ha otto anni.
Un solco senza seme è una silloge di sillogi pubblicata per la collana Scafiblù di Miraggi edizioni nel 2024 e raccoglie scritture con gli a-capo, come ama definirle l’autore, pubblicate tra il 1988 e il 2023 e inedite (come la sezione Mangimonio). La scrittura di Luca Ragagnin privilegia spesso il significantesuono più del significato, immergendo l’orecchio del lettoreascoltatore in un ambiente fortemente legato al reale, per esempio il reale televisivo, ma anche, e soprattutto, il mondo della musica, della storia della musica, senza tralasciare esperimenti che colgono punti di colore nelle atmosfere oracolari, del cinema e di quello spettacolo interiore che può diventare spazio teatrale, oscenità del corpo e lirica che ricorda le vibrazioni fuori dall’Io di Andrea Zanzotto o l’abbandonarsi al desiderio del dirsi inconscio di Giuliano Mesa. Una scrittura di allitterazioni, paronomasie e metafore dietro cui si cela la dialettica del mondo con il pensierosentire di chi scrivecanta, sinestetici impressionismi e scrittura in pura perdita che sottrae il senso al prodotto commerciale del potere dell’Io. L’antologia di Ragagnin, o meglio la disontologia, «è per buona parte un’antologia, la sua genesi sono gli anni e i decenni trascorsi per arrivare qui» e gli strati di cui si compone danno l’idea di un’immersione di cui si gode riemergendo, a conclusione del discorsocantato «quando tutto è finito», après coup, avrebbe detto Lacan. In questo senso il viaggio sotterraneo, o in volo, dipende, è sempre un percorso concluso dal quale l’autore riparte verso nuovi incontri, dove la visceralità e la precisione chirurgica delle parole e dei timbri sono un tutt’uno con l’idea di una scrittura che vorrebbe diventare un «suono, una musica, una risonanza, un bordone, un mantra, qualcosa che inizia già iniziato e che non finisce dopo la sua fine.»
Ma se da un lato è musica, la scrittura di Ragagnin è pure «una contestazione e anche molte altre cose ovviamente, private e pubbliche», sempre risonanti del desiderio di chi scrivecompone, di chi leggeascolta, e anche della Legge\legge, interiore e sociale, dell’individuopopolo che abbia la fortuna, o la disgrazia, di avvicinarsi a una letteratura che indichi o guarisca le ferite di un pensaresentire critico sempre più raro…
Gianluca Garrapa
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Genesi e desiderio del tuo libro.
Ho smesso di consegnare a un mio libro desideri specifici. Erano troppo questo e troppo quell’altro, erano abnormi, sproporzionati, non ne ero all’altezza e non lo sapevo. Adesso lo so. Questo volume è per buona parte un’antologia, la sua genesi sono gli anni e i decenni trascorsi per arrivare qui.
Quando scrivi, godi?
No, non credo. Più che altro vado in apnea. Godo quando riemergo, quando tutto è finito.
Un estratto dal libro che è risultato più difficile o particolarmente importante: perché? Lo puoi trascrivere qui?
Non c’è. Sono materiali stratificati, si sono formati lentamente nel tempo a volte immobile della vita. Oppure, se c’è, cambia ogni volta, a seconda del pensiero che gli dedico. Ma quando una scrittura diventa libro non me ne occupo più. Non rileggo i miei libri, non ci torno sopra, voglio solo andare da un’altra parte.
Se non fosse scrittura, cosa potrebbe essere il tuo libro?
Qualcosa di molto vicino, in effetti. Vorrei che fosse suono, una musica, una risonanza, un bordone, un mantra, qualcosa che inizia già iniziato e che non finisce dopo la sua fine.
Che rapporto hai con la censura?
Sano, cioè pessimo. Indignato e rabbioso. Se pensiamo a certa letteratura europea del Novecento, a certi Paesi, ai destini di certi autori, c’è da rabbrividire ancora oggi. Però attenzione al ridicolo delle nostre latitudini perché la censura si fa strada così, con una prima ridicola picconata.
Per te scrivere è un mestiere o un modo di contestare lo status quo?
Scrivere può essere una contestazione e anche molte altre cose ovviamente, private e pubbliche. In qualche caso diventa un mestiere. Può essere una missione, una vocazione, una malattia, la lista è lunghissima. Ma molto dipende dalla storia sociale di uno stato, dal periodo storico. E da cosa fa quello stato per la salute culturale della popolazione.
Miraggi Edizioni ha di recente pubblicato all’interno della collana NováVlna Ostrov (“L’isola”, 2022) di Bianca Bellová. L’autrice ceca arriva così al suo quarto romanzoin Italia, grazie al prezioso lavoro di traduzione di Laura Angeloni. In occasione dell’uscita, Andergraund Rivista ha deciso di pubblicare un’intervista con l’autrice, che ringraziamo per la sua disponibilità.
“Il mattino dopo all’orizzonte è comparsa l’Isola. Era inondata dal sole. Abbiamo attraccato prima del crepuscolo. Sopra il porto volteggiava starnazzando uno stormo di gabbiani.” (p. 20)
Bellová si è ormai costruita una fama internazionale raggiunta da pochi altri autori provenienti dal contesto ceco, dovuta soprattutto a Jezero (“Il lago”, 2016). Le sue opere sono caratterizzate da una cifra stilistica inconfondibile, uno stile schietto e una predilezione per la paratassi, che implicano una comunicazione diretta con il pubblico e un ritmo incalzante. Con L’isola avviene un’evoluzione nella prosa dell’autrice che, mantenendo lo stile sinora descritto, costruisce un intreccio diverso. A differenza de Il lago, ad esempio, la dimensione dell’isola ha una caratterizzazione più complessa, la costruzione di un contesto più articolato e preciso. Un altro elemento di novità è rappresentato dal vasto e stratificato impiego di riferimenti ad altri testi, dalle Sacre Scritture alle opere dei poeta mistico Rūmī, un ricorrere di rimandi che dona uno spessore diverso alla struttura del romanzo. Con ciò non si intende annunciare l’incalzare di una fase di scrittura “matura”, di cui in realtà l’autrice ha dato già prova nei suoi primi romanzi.
Un elemento costante corrisponde a una delle caratteristiche principali delle opere di Bellová: il suo profondo interesse per la dimensione umana, per la stratificazione psicologica dei suoi personaggi e il realismo con cui rappresenta le sue figure. Potrebbe sembrare un azzardo o un gesto ossimorico parlare di “realismo” in riferimento a un romanzo innestato su di un’isola situata a metà tra due generi che si rifanno piuttosto al fantastico, la distopia e la fiaba. Tuttavia, è proprio in questo dichiarato distacco dal reale che Bellová riesce a costruire una riflessione sulla contemporaneità, dando ancora una volta prova dell’incredibile efficacia del filtro letterario. Se ne Il lago era la mancanza di coordinate a ristabilire il contatto del lettore con lo spazio e il tempo, ne L’isola è la dimensione del fantastico a permettere una nuova interpretazione del reale. In assenza di qualunque soggettivizzazione della realtà, l’isola non è solo una metafora geografica o un’eredità utopica alla More, ma una chiave di volta per affacciarsi al convulso mondo ipermoderno immergendosi in una vicenda ambientata in un’era fuori dal tempo conosciuto.
Ci siamo dunque rivolti all’autrice, a cui abbiamo posto alcune domande circa la realizzazione e i temi racchiusi nel romanzo.
AR: Quando ho letto il titolo del suo romanzo, mi aspettavo una distopia, associando il titolo L’isola a Utopia di Thomas More. Come ne Il lago, abbiamo un elemento geografico attorno al quale si svolge la vicenda. Tuttavia, a differenza de Il lago, però, lei non ha creato una distopia, ma una storia che ha una predilezione per l’esotico e il mondo fiabesco. Come è nata l’idea di questo romanzo?
BB: Ho iniziato a scrivere L’isola con quando è cominciata della pandemia. Dato che vi erano caratteristiche comuni all’epidemia di peste, mi sono ricordata di un mio precedente racconto, Láska všechno překoná (“L’amore supera tutto”), e l’ho riscritto un po’ (qui lo si può ascoltare in italiano, probabilmente si può trovare in forma scritta). E poi la mia mente è rimasta su quell’isola. Il periodo della pandemia ha rappresentato una pausa dalla quotidianità che conoscevamo, all’improvviso eravamo in pericolo, un virus misterioso e invisibile poteva uccidere noi e i nostri cari, e noi eravamo isolati. Improvvisamente abbiamo riscoperto il potere delle storie e quanto ne abbiamo bisogno per comprendere il caos che ci circonda e che si maschera da mondo. Questa credo sia la vera storia che è racchiusa ne L’isola: un tributo a quelle storie che le persone si raccontano da sempre. Non la definirei una favola, ma semplicemente di una storia ambientata in un periodo storico, all’incrocio tra il Medioevo, quando era possibile incontrare l’uccello caladria, che aveva poteri magici di guarigione, e l’epoca moderna, un’epoca di esplorazioni e scoperte scientifiche. Essendo il protagonista un mercante di nome Izar, deve viaggiare in tutto il mondo allora conosciuto e raccontare storie di esso.
AR: Questo suo ultimo romanzo mi colpisce per la sua diversità rispetto ai precedenti, oltre che per l’enorme quantità di informazioni e di struttura lessicale (dal vocabolario marinaresco alle citazioni più erudite che utilizza). Qual è stato il lavoro preparatorio dietro un romanzo come L’isola?
BB: Essendo L’isola un romanzo scritto durante una pandemia, ho avuto molto tempo per leggere. Ho consultato libri scientifici come la Storia della morte di Ariès, oltre a varie fonti come leggende medievali, bestiari dei viaggiatori e la mitologia greca. Beh, la marineria mi interessa da moltissimo tempo e per me rapppresenta un simbolo del trionfo del coraggio umano e del desiderio di esplorazione sulla paura, sul pericolo e sugli elementi. Dopotutto, ho sposato un marinaio.
AR: Ciò che apprezzo sempre dei suoi romanzi è la sua capacità di creare un universo letterario che non esiste, ma che parla così bene della realtà da sembrare reale. Ne Il lago, c’era un mondo anonimo che dava alla storia un’universalità. In L’isola, abbiamo un mondo di fantasia ben definito e fiabesco. Non esiste, ma a differenza del mondo di Nami, ha delle coordinate. Qual è la funzione di questo filtro, di questa distanza che lei mette tra lei come autore (e successivamente il lettore) e la realtà? Permette di comprendere meglio la realtà?
BB: L’isola è ovviamente fittizia, anche se la mia editor se ne è occupata a lungo, finché non mi ha detto gongolando che sapeva già quale fosse l’isola, che supponeva si trovasse nel Mare del Nord, sopra Danzica. Mi piace che ogni lettore possa progettare ciò che vi troverà. Ma soprattutto è un modo per concentrarmi sulla storia, sui suoi personaggi e sui suoi schemi. Le realtà concrete, a mio avviso, allontanano il lettore dalla vicenda.
AR: Nei suoi romanzi manca sempre un finale positivo. A volte mi chiedo se leggerò mai uno dei suoi romanzi con un finale roseo. A parte gli scherzi, ricordo che qualche tempo fa ha detto che “il lieto fine la annoia”. Perché la annoia?
BB: Non credo che sia del tutto vero. I miei eroi, però, non si avviano al tramonto mano nella mano, ma devono sempre superare grandi ostacoli, a volte traumi, non hanno mai una vita facile. Tuttavia, cerco sempre di dare loro qualche soddisfazione. In questo senso, L’isola è la storia di riparazione a un grande torto, a un crimine. Izar torna sull’isola per espiare il suo grande fallimento e nel farlo trova sollievo dal rimorso che lo ha perseguitato per tutta la vita, anche se dovrà pagare un prezzo molto alto. Voglio dare ai miei eroi la possibilità di trovare la pace, una conciliazione, una soddisfazione.
Il lieto fine lo considero un imbroglio nei confronti del lettore, come una madre che colpisce con un lecca-lecca il ginocchio di suo figlio per impedirgli di piangere: il bambino si calma, ma non impara nulla e sviluppa una dipendenza dallo zucchero.
AR: Questo è il suo quarto libro tradotto in italiano da Laura Angeloni, il cui lavoro di traduzione è eccezionale. Qual è il suo rapporto con l’Italia? E con il pubblico italiano? E a cosa sta lavorando ora? Se si può dire 🙂
BB: Sì, Laura è eccezionale e quanto il nostro rapporto. Laura è come la sorella che non ho mai avuto, pensiamo allo stesso modo, ci commuoviamo e ridiamo per le stesse cose. Inoltre, è una traduttrice davvero straordinaria, al servizio del testo. Legge e traduce con attenzione, facendo revisioni a ripetizione finché non è soddisfatta. Mi fa molte domande per capire al meglio il testo e renderlo in modo autentico in italiano.
L’Italia è la mia Atlantide perduta. Credo di essere stata italiana in una vita passata, il che spiegherebbe perché mi ci sento così a mio agio e perché i miei libri risuonano con i lettori italiani più che altrove, persino più che nella Repubblica Ceca. L’Italia è l’unico Paese in cui è veramente possibile vivere: la lingua, il temperamento, il cibo, il paesaggio, l’architettura, il senso estetico, tutto è unico. Mi piace tornarci spesso.
Di recente, ho trascorso quasi tutto il mese di ottobre in clausura nell’appartamento di Sanremo del mio caro editore Alessandro de Vitto, di Miraggi Edizioni. Ho passato quel periodo a scrivere il mio nuovo romanzo, Neviditelný muž (“L’uomo invisibile”), che uscirà quest’anno.
Qui è possibile trovare un’intervista con l’autrice relativa a Il lago, pubblicata da Est/ranei. Sempre su Est/ranei è possibile leggere la recensione a romanzo senti/mentale.
Questa settimana, per Le Tre Domande del Libraio, incontriamo Alessando De Vito di Miraggi Edizioni, per farci illustrare il progetto editoriale della Collana NováVlna, da lui curata, in occasione anche di uno dei ritorni più attesi di questi ultimi tempi, quello di Bohumil Hrabal che, dopo la raccolta inedita de ” La perlina sul fondo del 2020, è tornato in libreria , alla fine dello scorso anno, con un nuovo libro dal titolo “Compiti per casa (Riflessioni e interviste)”
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Alessandro, a partire da questa frase di Bohumil Hrabal « Ho inchiodato rotaie, fatto il capostazione, offerto polizze assicurative, ho lavorato come commesso viaggiatore, operaio di acciaieria, imballatore di carta da macero e macchinista teatrale. Quello che volevo era sporcarmi con l’ambiente, con la gente comune, e trovarmi a vivere, ogni tanto, l’esperienza sconvolgente di scorgere la perla sul fondo dell’essere umano. » ci racconti qualcosa in più, qualche aneddoto inedito sulla vita di un personaggio di questo calibro ?
Non è facile trovare aneddoti “inediti”, perché Hrabal ha utilizzato proprio le sue esperienze di vita come materiale per molta parte dei suoi testi. E l’ha fatto potremmo dire “scintificamente”, come si può comprendere dal breve brano che introduce “La perlina sul fondo”. Quello è un elenco formidabile di mestieri diversi, cercati da lui negli anni, come dice, per “sporcarsi”, lui laureato in legge e con pessimi voti a scuola in lingua ceca, con la vita comune e i suoi protagonisti. Non a caso l’altro suo luogo d’elezione, oltre fabbriche ferrovie magazzini e officine, era senza dubbio la birreria, perfetto e variopinto crogiolo in cui i discorsi delle persone si mescolano e accavallano senza sosta, con le mille storie ed esperienze che attraverso le parole riprendono vita. Da un lato era una ricerca di umanità, anche di commozione, una partecipazione intima al consorzio umano, alle malinconie e alla fragilità della vita, su cui non si può far altro che scherzare e bere, che traspare in tutta la sua produzione. I piccoli fatti dei piccoli uomini, che in definitiva però fanno la storia: una tradizione questa, diffusa nella letteratura ceca, dallo Švejk di Hašek ai personaggi di Čapek, alle molte eco della letteratura popolare in tutti i grandi autori.
Questo “sporcarsi” di Hrabal assume anche una notevole forza considerando l’epoca e la situazione politica della Cecoslovacchia sotto il regime comunista. Paradossalmente si potrebbe dire che proprio Hrabal va autenticamente a cercare la vita, le esperienze e le parole del popolo, mentre la letteratura e il cinema di regime magnificavano la vita proletaria in modo assolutamente stereotipato, attraverso cliché assolutamente lontani, statici nella loro fissità ideologica. E fin qui mi riferivo alla narrativa. Non sono pochi anche i suoi libri di commenti, conversazioni, interviste… Difficile trovare il fatto inedito, quindi, quanto inutile probabilmente cercare quanto ci sia di vero in tutto quello che ha scritto. Sempre che sia importante.
Alessandro ci inizi a raccontare qualcosa in più su questo libro arrivato in libreria in questo autunno e che raccoglie testi molto vari tra di loro, racconti, articoli, apologhi, riflessioni sulla letteratura e sulla scrittura, resoconti di viaggio, e dal titolo “Compiti per casa”, soffermandoti sullo stile di scrittura che lo caratterizza e le eventuali difficoltà incontrate dalla traduttrice Laura Angeloni?
Come accennavo, è un libro non direttamente narrativo, non si tratta di racconti, novelle o di un romanzo. Ci sono testi che possiamo considerare alla stregua della “cassetta degli attrezzi” dello scrittore, dove spiega, o piuttosto racconta, la sua poetica. Ho detto “non direttamente” perché in realtà Hrabal non fa altro che raccontare, anche nei punti più “saggistici”, infarcendo ogni brano di dettagli e riferimenti che creano digressioni, aneddoti, altri spunti narrativi. Hrabal racconta di questa sua incessante ricerca di autenticità, dei personaggi, delle storie e soprattutto del linguaggio. Se a prima vista infatti sembra di leggere discorsi comuni, non si può non riconoscere il grandissimo lavoro di cesello di un geniale letterato, a tratti anche sperimentale, con una modalità mai fine a se stessa. La lingua che risuona tra gli avventori accomodati ai tavolacci durante il rapido svuotamento dei boccali delle birrerie e quella dei discorsi degli operai tra i macchinari industriali, tra facezie, sentire comune e nell’incombenza di qualcosa di tragico, è autentica in quanto processata, come da tempo ha riconosciuto la critica, nonostante lui stesso si sia spesso definito un “semplice trascrittore” di ciò che ha incontrato nella vita.
Ovviamente questo appare chiaro al traduttore, nel caso dei nostri due volumi la bravissima Laura Angeloni, con la cura e l’occhio vigile del prof. Alessandro Catalano. Hrabal “reinventa” la lingua, “trascrivendola”. A tratti il suo scritto non è facilmente comprensibile neppure ai cechi, quindi possiamo immaginare la difficoltà (che come si diceva, attenzione, tende a non apparire al lettore). La curatela di un grande esperto è qui fondamentale proprio perché per tradurre Hrabal bisogna saper navigare in tutta la sua opera, non si può improvvisare. Altri testi sono relativamente più semplici, in particolare le conversazioni e interviste, e a tratti anche molto divertenti. Era un personaggio particolare, se si ha presente l’ambiente delle birrerie praghesi spesso si ha l’impressione di sentire anche quei gusti e odori, e sentire il chiacchiericcio di fondo. Non è casuale che molte interviste con lui si siano svolte in birreria, che alla storica birreria Alla tigre d’oro siano andati a bere con lui il presidente Clinton e il presidente ceco Havel (e che, si parvissima licet, lì gli abbia stretto la mano anche io, in un fumoso pomeriggio dei primi anni Novanta).
Compiti per casa è prima di tutto una raccolta di piccole gemme del grande scrittore ceco, ma diventa anche una porta di accesso privilegiata per entrare e approcciarsi al mondo di Hrabal. Sono passati quasi tredici anni dalla creazione di Miraggi e già diversi anni dal progetto di questa Collana innovativa, ci vuoi spiegare da quale urgenza nasce la Collana e poi come si incastra la scelta di questo lavoro accurato sulle opere di uno dei più originali scrittori cechi del Novecento all’interno di NováVlna e se ci vuoi raccontare anche le prossime novità e scoperte?
Qualcuno potrebbe dire che per approcciare l’opera di Hrabal sia meglio partire da uno dei suoi celebri romanzi, dai suoi capolavori. E sicuramente “Compiti per casa” è un libro che potrà far leccare le dita al lettore che già conosce e ama Hrabal, ma credo anche che, quando un autore è così un tutt’uno con la sua opera, cominciare a “parlarci” (questa è l’impressione) come se lo si incontrasse davanti a un boccale di Plzeň possa essere un ottimo primo approccio. Hrabal ci cattura, personalmente io devo stare attento, se distrattamente (e lo faccio spesso) apro a caso un suo libro e mi metto a leggere, rischio di ritrovarmi che sono passate due ore senza rendermene conto.
La collana, che ci è piaciuto chiamare come la Nouvelle Vague cecoslovacca, soprattutto cinematografica, degli anni Sessanta, nasce dopo che abbiamo cominciato a dedicarci alle traduzioni, nel 2016. Nel giro di poco, soprattutto per mio impulso, dato che sono per metà di origine ceca, le traduzioni dal ceco sarebbero state così tante rispetto alle altre che è parso una logica conseguenza fondare una collana a sé. Inoltre da molti anni mancava in Italia una collana dedicata alla sola letteratura ceca… Già dall’inizio abbiamo pubblicato un panorama di nuovi autori , in verità quasi tutte autrici – sarebbe un discorso interessante da affrontare anche questo – insieme al recupero di alcuni classici, o mai tradotti o in nuove traduzioni, dopo che erano passati decenni dalle prime. Confrontarsi con il genio di Hrabal è venuto naturale, e cercare di colmare le lacune di traduzione anche. Sia attraverso i testi del passato sia con quelli contemporanei inoltre mi sembra interessante contribuire a far conoscere meglio e creare un ponte tra la cultura italiana e quella ceca, che mi sembrano ancora considerate molto più distanti di quanto dovrebbero. Dico solo che spesso conosciamo meglio letterature lontane, più o meno esotiche, capaci di imporre variamente il loro modello, e ignoriamo chi siano i nostri vicini di casa europei. In questo senso mi sento nel pieno della funzione, se non della missione, di una piccola casa editrice di progetto, e devo sempre ringraziare del supporto le istituzioni culturali ceche, con cui spesso collaboriamo splendidamente. Vedo che man mano il nostro seguito aumenta, mi pare che anche libri “particolari” trovino il loro pubblico, non secondariamente grazie al sostegno e alla fatica quotidiana dei librai che se ne innamorano. Invito tutti a continuare a seguirci: nei prossimi anni continueremo a pubblicare autrici e autori straordinari come Bianca Bellová, Markéta Pilátová, Tereza Boučková e Jan Balabàn, e tra i classici abbiamo in lavorazione ben tre libri del grande Škvorecký, e una graphic novel sulla vita del celebre corridore Emil Zatopek, dopo quella tratta da RUR di Čapek, con l’origine del nome “robot”. Ma la novità più “pesante”, in senso buono, di quest’anno, sarà un libro che è davvero un’impresa al limite della follia, per il quale di nuovo devo ringraziare le capacità e la sconfinata passione di Laura Angeloni. Si trada di “Ore di piombo”, un romanzo di circa 1000 pagine scritto da una grandissima autrice ceca, Radka Denemarková, già insignita di molti premi, e figura di intellettuale impegnata su diversi fronti. Già tradotto in Germania (tra l’altro la Denemarková è la traduttrice ceca del Nobel Herta Müller), è previsto in uscita per settembre, ed sarà uno di quei libri che fanno epoca, il grande romanzo dei nostri tempi, del cosiddetto “secolo cinese”, che affronta in tutta la sua complessità con risultati straordinari. Uno di quei libri-mondo che anche dal punto di vista editoriale presuppongono una certa dose di incoscienza. Miraggi, presente!
Buona Lettura, a questo punto, de “La perlina sul fondo ” e ” Compiti per casa ” di Bohumil Hrabal e di tutti i meravigliosi libri della Collana NováVlna
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