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Una storia finita e un libro per dimenticare: “Il disastro di una persona” di Daniele Sica

Una storia finita e un libro per dimenticare: “Il disastro di una persona” di Daniele Sica

 

Daniele Sica, “Il disastro di una persona” è un libro di poesie: come mai la scelta di questo genere?
“In realtà io non sono un poeta e non amo nemmeno le poesie, infatti ne leggo pochissime. Però,
per quello che dovevo raccontare, ho pensato che fosse il metodo migliore: ho utilizzato una sorta
di “ottica pasoliniana”, cercando il mezzo più adatto, e l’ho trovato nella poesia. Ne ho raccolte
una sessantina, leggendole una dopo l’altra si incastrano tra loro e formano la storia. Ci sono
poesie più lunghe, anche da due o tre pagine, e più corte, pure da un paio di versi soltanto, e sono
la raccolta di dieci anni di lavoro”.

Quale episodio della vita ti ha spinto a scrivere questo libro?
“Tutto nasce da quando venni lasciato dalla mia ex, Sara, alla quale ho dedicato quest’opera. Ho
vissuto periodi terribili, di vera e propria depressione: stavo chiuso in casa con le serrande
abbassate, osservavo dalla finestra la vita che passava e non facevo niente per viverla. Così ho
deciso di raccontare i giorni successivi a questo episodio che mi ha segnato, ho descritto com’è
stato il dopo e come ho reagito. Ci ho pensato molto prima di pubblicare, ma poi ho deciso di
andare avanti: è stato un bel banco di prova per me, ho capito finalmente di aver superato quel
trauma”.

Il titolo è ambiguo: ce lo spieghi?
“Me lo dicono in tanti, in effetti è così: perché non è la persona a essere un disastro, ma l’esatto
contrario. E’ la tragedia, il trauma, o appunto il disastro che una persona ha dovuto vivere il vero
protagonista. E questo titolo è anche la mia poesia manifesto. L’idea mi è venuta una sera del 2010,
quando rientravo a casa con un gruppo di amici dopo una serata di eccessi. Passando di fronte al
Castello Sforzesco, vidi una scritta su uno dei monumenti di Milano e dissi a chi era in macchina
con me: “Guarda cos’è stato costretto a fare qualcuno”. E lui, sballato dall’alcol, mi rispose: “Sarà
una persona disperata che ha trovato nella scritta su un muro l’unico modo per raccontare il suo
disastro”. Lui era ubriaco, io completamente sobrio, eppure è stato proprio lui ad aprirmi un
mondo”.

Hai ancora rapporti con Sara?
“Ci siamo sentiti alla pubblicazione del libro, volevo regalarglielo, ma ha voluto comprarselo. Lei è di Pisa, ero molto legato anche alla sua città, però quando ci siamo lasciati mi sono sentito come Foscolo e la sua Zacinto: mai avrei potuto rivederla. Ora sto organizzando una presentazione del libro proprio all’ombra della Torre: mi auguro che anche Sara possa essere presente”.

 

 

Andrew Faber: “La poesia rende eterno un attimo di felicità”

Andrew Faber: “La poesia rende eterno un attimo di felicità”

Andrew Faber, eccoci arrivati, grazie a  “Fermo al semaforo in attesa di trovare un titolo, vidi passare la donna più bella della storia dell’umanità”,  alla… terza fatica con Miraggi. Ma davvero è una fatica, oggi, scrivere?

“A volte lo è di meno, quasi sempre lo è di più. I tempi dei social sono frenetici, convulsi. Molto difficili da soddisfare.  Ed è da lì che molti di noi (parlo dei poeti performativi) sono nati. Il pubblico nel corso degli anni si è abituato ad avere aggiornamenti praticamente costanti. Ogni mattina insieme al caffè vuole leggere una nuova poesia. E questo si traduce in una continua produzione da parte dell’artista. Bisogna trovare i giusti riferimenti. Personalmente non smetto mai di leggere, ascoltare musica. Vedere film. Guardarmi attorno. Contaminarmi – per così dire – di qualsivoglia forma d’arte”.

Partiamo dal semaforo. Esiste? Dove si trova?
“Il semaforo esiste eccome! Sorge a poche centinaia di metri da casa mia. Ed è grazie a lui che questi tre libri hanno avuto un titolo che oltre a me, è piaciuto tanto anche al mio pubblico. Ci vado spesso, quando ho bisogno di un consiglio. Di un po’ di ispirazione. Mi metto lì. Tiro giù il finestrino. Me ne accendo una. E dopo avviene la magia. E’ un semaforo magico. Spero solo che un giorno non mi chieda i diritti!”

E la donna più bella dell’umanità come dovrebbe essere?
“Felice. Questo sicuramente. Quando una donna è felice, splende di luce propria. Esattamente come le stelle a cui chiediamo di esaudire i nostri desideri. La bellezza a cui mi riferisco è tutta lì. Nel suo sorriso. Nei suoi pensieri. Nel suo coraggio. Ci vuol coraggio ad essere felici. La poesia serve a questo. A rendere eterno anche un solo attimo di felicità”.

Tre citazioni, in apertura: Sirianni, Dalla, Vasco Rossi. Perché?
“Sono stati loro nel corso di quest’ultimo anno a ispirare tante delle poesie contenute all’interno del libro. Sono tre cantautori incredibili. Visionari. Sognatori. Sono tre poeti. Federico Sirianni è anche un amico. Ho imparato tanto da lui. Sono felice di averlo conosciuto. Il suo ultimo lavoro in studio che si intitola “Il santo” ritengo sia uno degli album più belli in assoluto, per quanto concerne la musica italiana da diversi anni a questa parte. Con le canzoni di Lucio Dalla e Vasco Rossi ho passato la mia infanzia. E ancora oggi mi domando come possano aver scritto certe meraviglie. La sera dei miracoli, Le rondini, Sally, Una canzone per te. Solo per citarne alcune. Sono veri miracoli portati in musica”.

Mi dai la definizione attuale di poeta?
“Mi perdonerai la franchezza. Ma essere un poeta oggi vuol dire avere due palle così. Vuol dire procedere contromano al mondo, correndo il rischio di ammazzarsi ad ogni angolo di vita”.

Perché il tuo è un pubblico soprattutto femminile?
“Credo che il motivo principale resti sempre la ricerca dell’amore. Non che gli uomini non ne abbiano bisogno, non dico questo. Ma una donna ne reclama con più forza l’esistenza. Ha più bisogno di credere che esista. Per questo motivo cerca conferme, molto spesso ricambiate, all’interno della poesia”.

Cristiana Tognazzi: “La poesia è aiutare gli altri”

Cristiana Tognazzi: “La poesia è aiutare gli altri”

Cristiana Tognazzi è in libreria con “Costellazioni“, la nuova raccolta destinata a emulare il grande successo di “Blu”. A noi racconta il suo amore per la poesia.

Cristiana, come sei arrivata a scrivere poesie e alla decisione di pubblicarle?
“Se devo essere sincera non lo so nemmeno io. Sono partita da una forma diversa, utilizzavo il mio blog per raccontare ciò che si prova in determinati momenti della vita. Con il passare del tempo qualcosa è cambiato e ammetto che i social network, in particolare Instagram, hanno condizionato il mio stile: a volte riuscivo a racchiudere il tutto in poche righe anziché in pagine. E questo aspetto mi ha affascinato: riuscire a esprimere un concetto con poche parole è fantastico. Ho iniziato a pubblicare i miei scritti molto presto, ma solo da qualche anno ho deciso di dedicarmici seriamente. Prima lo facevo esclusivamente per me, adesso lo faccio per me e per tutte le persone che mi seguono: condividere qualcosa ti rende meno solo, ti fa capire che al mondo ci sono tantissime persone che provano le tue stesse emozioni e che non sono in grado di esprimerle. Sapere di essere d’aiuto a qualcuno è essenziale. La scrittura, la poesia, il racconto, le parole in generale hanno uno scopo ben preciso”.

A leggerli sono componimenti dal forte tratto autobiografico. È così o ha ragione Pessoa quando scrive che il poeta è un fingitore?
“Sicuramente ci sono casi e casi, ma io sono del parere che quando le cose si vivono sulla propria pelle è diverso. Penso che ci sia molto più amore, molto più sentimento quando qualcosa è reale. Io purtroppo, o per fortuna, scrivo solo cose che sento, cose che mi appartengono, cose che a volte possono anche avere un pizzico di fantasia, ma il reale c’è e deve esserci. Probabilmente non riuscirei a scrivere qualcosa di completamente inventato o di finto, non è una caratteristica che mi appartiene”.

Cosa pensi dello stato attuale della poesia in Italia?
“Credo che sia sottovalutata. Per esempio, la poesia contemporanea dovrebbe essere introdotta nelle scuole: i ragazzi, anche e soprattutto grazie ai social network, iniziano a conoscerla, ma l’esperienza scolastica potrebbe essere molto utile. A chi la non considera vera e propria poesia vorrei dire che la poesia può avere tante forme diverse, tante sfumature e che per coglierle basta avvicinarsi senza pregiudizi”.

Credi che i reading possano servire a promuovere i versi?
“Penso che in realtà siano una cosa meravigliosa! A me tremano le gambe quando so di dover sostenere un orale all’università quindi probabilmente non riuscirei a leggere qualcosa davanti a tantissime persone, ma ammiro molto chi è in grado di fare questo tipo di intrattenimento. Sono convinta che sia un ottimo mezzo di promozione, bisogna comunque saperlo fare perché non tutti sono portati”.

Sei molto attiva sui social, dove le tue pagine sono seguitissime: quanto è importante saperli utilizzare con efficacia?
“Al giorno d’oggi è fondamentale. Io li utilizzo da anni e questa cosa mi ha permesso di essere aperta ai cambiamenti. Mi piacerebbe molto continuare in questo ambito, vorrei specializzarmi in Social Media Marketing, anche se con il passare del tempo mi rendo sempre più conto di quanto sia difficile riuscire a seguire tutti i cambiamenti che ci sono. Tanti pensano che sia una cosa semplice, ma dietro a ogni singola foto, ogni singolo post, ogni singolo dettaglio c’è uno studio, una strategia, c’è costanza. Insomma, per quanto bello e affascinante, si tratta di lavoro vero e proprio”.

Sei attratta anche da altre forme di narrazione?
“Ammetto che mi dispiace lasciare la poesia, ma devo dire che non vedo l’ora di dedicarmi a qualcos’altro. Mi piacciono i cambiamenti, mi piace essere messa alla prova e sicuramente il 2019 per me sarà un anno nuovo sotto molti punti di vista. Mi laureo e già questo è un bel traguardo, e poi uscirà il mio primo romanzo con Rizzoli. Quindi non vedo l’ora di iniziare questo nuovo cammino. Incrocio le dita e spero il 2019 possa portarmi tante soddisfazioni e tanta felicità”.

Difendersi dal pensiero dominante con l’ironia: Sartori ci racconta “Autismi”

Difendersi dal pensiero dominante con l’ironia: Sartori ci racconta “Autismi”

Giacomo Sartori si divide tra Parigi e l’Italia, Trento nello specifico. Di mestiere fa l’agronomo e, soprattutto, scrive. È membro di Nazione Indiana, blog letterario collettivo, il luogo in cui è nato “Autismi”: “Sono sedici racconti che erano usciti su Nazione Indiana con questo titolo. Allora erano stati molto seguiti e molto commentati, ma erano altri tempi per i blog. Li ho rivisti, li ho corretti, ne ho cambiato l’ordine ed è nato un libro da non confondere con quello del 2011: erano pochissime copie. Questo è realmente un’altra cosa”.

Perché “Autismi”?
“Per un gioco tra la mia autobiografia e la componente autistica che c’è in ognuno di noi: le difficoltà a relazionarsi con le persone e un linguaggio ripetuto, fino a divenire ossessivo. Parlo di intimità, soprattutto: i rapporti con le donne, con il lavoro, con chi incontri durante un viaggio”.

Una difficoltà a interfacciarsi che è diventata il segno dei nostri tempi.
“Oggi l’autismo ha raggiunto livelli patologici con i social: non sappiamo più parlare, sorridere, relazionarci. Non sappiamo più fare niente che esca dallo schermo. Ci mettiamo una maschera perfino nei corteggiamenti quando la vita reale, invece, è un’altra cosa. Ognuno di noi ha una componente autistica e fa di tutto per nasconderla. Ci sono zone in cui siamo completamente soli e a me piace esplorare queste zone d’ombra utilizzando lo humor”.

Un esempio?
“In “Le mie passeggiate” racconto di uno che fa sempre lo stesso percorso, alla stessa ora, con gli stessi pensieri e che, alla fine, è contentissimo quando la realtà introduce invece piccole variazioni. Ci sono tanti livelli nascosti e tutto è molto ironico. Noi ci appoggiamo sempre al “già conosciuto” ma, in fondo, abbiamo il bisogno di essere stupiti, abbiamo dentro di noi il desiderio di una novità”.

Viviamo tempi duri da questo punto di vista.
“Quello che manca oggi è l’ironia, tutti si prendono tremendamente sul serio. Il contesto italiano è sempre stato molto conformista, ma è allucinante quanto capita oggi. Ogni pensiero trasgressivo o controcorrente è bandito. Peggio: non viene capito”.

 

 

Perché tutto dovrebbe essere migliore: l’intervista con Alessandra Perna

Perché tutto dovrebbe essere migliore: l’intervista con Alessandra Perna

Tutto dovrebbe essere migliore” è il titolo con cui Alessandra Perna debutta con Miraggi Edizioni nella collana Golem. Trentatré racconti che farebbero pensare alla musica: Alessandra scriveva i testi, suonava il basso e cantava con i Luminal, “un gruppo art-punk, se fossimo stati negli Usa”, osserva lei. Trentatré come un 33 giri, per chi ormai ha una certa età. Ma è niente di tutto questo: “È assolutamente casuale, avrebbero dovuto essere 30 poi sono diventati 33. Ma è invece vero come io sia personalmente appassionata di numeri, mi piace ragionarci sopra. Mi è capitato l’altro giorno col numero 2, io sono nata il 2 febbraio. Metti insieme il caso, la fortuna, alla fine vedi che certe cose corrispondono, che si arriva a una vaga idea della realtà”.

Perché ha scelto i racconti?
“Perché è sempre stata la forma che ho utilizzato. Mi piacciono la sintesi, la brevità: scrivevo e scrivo canzoni. Il racconto mi fa esprimere bene quanto voglio dire. Pensavo a una storia, la immaginavo dall’inizio alla fine. E tutto si compie. Questa con Miraggi è la mia seconda raccolta, la prima è uscita con un altro editore e si chiamava “Non farti fregare di nuovo”. Ho impiegato anni per completarla perché volevo imparare a scrivere, e a scrivere bene. Per questo ho letto tutto il possibile. “Tutto dovrebbe essere migliore” è invece nato e scritto nel giro di un anno perché avevo deciso di chiudere con i racconti. Sto provando con il romanzo e penso di essere sulla buona strada”.

E perché questo titolo?
“C’è un filo conduttore, con un doppio motivo. Il primo: ho passato l’ultimo anno e mezzo alle prese con una brutta malattia psichiatrica. Io di solito sono molto forte, ho sempre fatto quello che volevo. Questa malattia mi ha spezzato le gambe, per la prima volta nella mia vita ho avuto paura. Passavo il tempo a domandarmi: “Che cosa sono diventata?” E sempre mi ripetevo: “Tutto dovrebbe essere migliore”, per tornare a rimettermi in carreggiata. Il secondo motivo è invece legato all’interazione con le persone, soprattutto con gli sconosciuti: quelli che incontri sui mezzi pubblici, che incroci in un locale o per strada. Ti capita di parlargli, ti dicono delle cose, anche senza un perché. Ecco per curarmi, oltre ai farmaci, mi sono fatta ispirare da queste persone”.

Nei racconti ritornano spesso la quotidianità e la fragilità.
“Sono l’una legata all’altra. In questo paese è difficile essere “diversi”. Anche dire semplicemente che suoni oppure scrivi. Manca una sensibilità nei confronti di quelli che vengono concepiti come comportamenti non comuni, manca a cominciare dai tuoi coetanei. Non rientri nelle caratteristiche che vengono codificate dalla società, negli stereotipi. Per quello che facevo ero considerata la pecora nera della famiglia: “Sì, scrivi, ma poi trovati in lavoro serio…”. Mi sentivo attaccata anche in maniera violenta. Era come trovarsi in film di Monicelli: dietro l’apparenza, dietro la patina piccolo borghese c’era altro. Mi sono difesa con l’arte”.

E il libro ne è stata una conseguenza.
“Rispondo con una frase che mi piace molto: “Ci sono persone che vincono, ci sono persone che perdono e ci sono persone che resistono, dei combattenti”. Io mi sento una combattente. Dopo quello che ho passato pensavo di non essere più capace a fare niente. Pubblicare un libro ti dà invece fiducia, capisci di saper ancora combinare qualcosa. Un anno fa ero chiusa in casa con pensieri catastrofici, oggi è tutto diverso. In positivo. Non che vada tutto va bene, ma ci stiamo lavorando…”.

Quale racconto sente più vicino?
“Quello ispirato a una persona che amo molto e che sintetizza il mio ultimo anno. Parla di una coppia che vive in un appartamento, lui esce tutte le notti e lei non sa perché, fino a quando l’uomo non le dice: “La prosa non è un urlo ma disciplina”. E spiega che tutte le notti si siede su una panchina, fissando una finestra a caso. Quando uno accende la luce, lui si sente pronto a scrivere: “Impari cosa sia la pazienza”, le dice. Ed esce. La donna accende la luce, va sul balcone e vede che lui è lì fuori, che la sta osservando”.

Ed è quello che le è capitato?
“Scrivere è un’azione solitaria ma quando qualcuno ti dà fiducia le cose migliorano. È il senso di una citazione di Stephen King. Mi sentivo sola, questa persona ha sempre creduto in me anche quando stavo male: è diventata la mia fonte di ispirazione personale”.

 

Massimo Anania tra autostop e un po’ di sé

Massimo Anania tra autostop e un po’ di sé

Massimo Anania, com’è nato “Autostop per la notte”?
“Volevo scrivere un racconto, doveva essere una narrazione per una antologia. Poi, però, la storia ha preso campo da sola: ben presto si è trasformata da racconto a romanzo e così è arrivato “Autostop per la notte”. Non è stato difficile, anzi, per la prima stesura sono bastate poco più di due settimane e ho terminato dopo appena quindici giorni. Mentre scrivevo pensavo “quello che viene, viene”. Ed è venuto questo libro”.

Da dove arriva l’idea dell’autostop?
“Da una parte per il mito dell’autostop, la mia generazione è cresciuta con questo modello, il fatto di essere caricati in macchina da uno sconosciuto è sempre stato un mix di curiosità e trasgressione; dall’altra, per la mia esperienza personale. Prima di prendere la patente, tra i 18 e i 19 anni, l’autostop è stato il mio mezzo di trasporto”.

Quindi c’è un velo di autobiografia?
“Il protagonista di “Autostop per la notte”, Maurizio, è un ragazzino piuttosto ingenuo che è curioso di scoprire nuove cose. Mentre procedevo con la narrazione, Maurizio si è avvicinato sempre più a me ragazzino: anche io ero così inesperto e voglioso di scoprire il mondo. C’è poi l’episodio della festa, con tantissime persone che partecipano: non me ne sono reso conto subito, ma tanti particolari e soprattutto la descrizione dei presenti era incredibilmente simile a ciò che avevo vissuto io. Insomma, qualche fatto è frutto di immaginazione, ma altri traggono spunto dalla mia esperienza”.

Il romanzo è ambientato a Torino: che rapporto ha con la città?
“Molto stretto, anche perché fino a 25 anni ho sempre vissuto all’ombra della Mole. Da qualche tempo, invece, mi sono dovuto trasferire: ora abito in Veneto, a Belluno. E devo ammettere che Torino mi manca tanto, non me lo sarei aspettato. Mi sento più legato a Torino ora che sono lontano rispetto a quando ci vivevo”.

Perché tutto dovrebbe essere migliore: l’intervista con Alessandra Perna

“Tutto dovrebbe essere migliore”: il racconto-intervista di Alessandra Perna su italiansbookitbetter.wordpress.com

Il percorso per la felicità è costellato di paure, angosce e un bel po’ di buio.

Che poi cosa sarebbe sta felicità?

Credo abbia a che fare con l’essere liberamente se stessi. Non è cedere a chi ti vuole nascosto, non è inseguire un ideale imposto che non senti tuo, non è cancellare timori e debolezze, non è aver paura del dolore. È imparare a stare soli, è far cadere le nostre barriere solo quando siamo pronti, è essere diversi senza sentirsi sbagliati, è correre per sentire il proprio corpo vivo, è leggere le storie negli occhi degli altri, è cercare qualcuno in un posto sconosciuto per fargli sentire che ci sei. È essere vivi magari incasinati ma liberi di scegliere la propria strada verso la libertà. È l’incontro più difficile da realizzare: quello con sé stessi.

I trentatré racconti di “Tutto dovrebbe essere migliore” di Alessandra Perna (Miraggi edizioni) sono tutto questo e molto di più. Sono le tracce di una colonna sonora che accompagna chi sta per spiccare il volo.

Mi sono fatta raccontare da Alessandra quali sono i libri e la musica che hanno ispirato il suo libro.

La cosa che più mi ha colpito della musica di Salmo, oltre ai beat grassi e ad un flow stupendo, è l’assenza del concetto di perdono: le cose peggiori e migliori si pensano e si fanno senza nessuna retorica. Forse è per questo che ti apre la testa come se ci fosse appena esplosa una bomba dentro.

“Ogni maledetto giorno” di Mostro è un disco dalle emozioni forti, vissute senza mezza termini. Ero viva solo mentre scrivevo, ma fra un racconto e un altro non rimaneva nulla, e questo mi spaventava a morte. Mi ricordo che lo ascoltavo mentre camminavo, e avevo la sensazione che qualcuno cercasse di spingermi in avanti.

Ho ricordi vaghi della stesura di questo libro, mi ricordo che per lunghi giorni era difficile anche alzarmi dal letto. Mi ricordo che ascoltavo hip hop mentre stava esplodendo, e mi ricordo che ad un certo punto mi apparse davanti agli occhi Happy Days di Ghali. Non so perché ma l’ascolto di quel disco è legato a quelle poche cose belle che avevo in quei giorni: l’odore della coperta del letto dove mi nascondevo, l’odore del caffè che mi preparavano, la luce che entrava dalla porta d’ingresso, una sigaretta fumata sotto il sole del giardino.

La Trilogia di K. è un libro glaciale. I due personaggi principali t’insegnano ad uccidere tutto ciò che è superfluo nella vita: piangere, soffrire, spaventarsi, stancarsi. La storia ti spezza il cuore: tu non puoi far altro che accettare che sia così e basta. La prosa è perfetta, non c’è mai una parola in più o in meno. Mi sono rivista in quei due gemelli che cercano in tutti i modi di non soffrire, stringendo i denti e ignorando il sapore del sangue fra le gengive.

Il mago di Earthsea di Ursula Le Guin è un personaggio dolcissimo, furioso e pieno di ambizione, ma anche gentile e intelligente. Nella saga di Terra Mare impara a capire cosa sia il male, e impara che ci vuole grande pazienza per saper gestire la propria forza. È un personaggio che mi ha letteralmente abbracciato in un momento in cui volevo solo che qualcuno mi stringesse a sé.

La danza della realtà di Jodorowsky è uno di quei libri che hanno la capacità di cambiare i meccanismi del cuore. Ci sono troppe cose che interpretiamo in maniera sbagliata, affidandoci all’intelletto senza tener conto dell’istinto e dell’intuito. Ci insegnano a vivere in un certo modo, ma non è detto che quel modo sia adatto a noi: ecco perché dobbiamo imparare a spezzare quei meccanismi imparando a vivere secondo le nostre regole. Anche il suo film, “Poesia senza fine” racconta questo: non siamo colpevoli di vivere come vogliamo.

 

L’eros che sconvolge un’esistenza: De Tavonatti e i suoi “Racconti molesti”

L’eros che sconvolge un’esistenza: De Tavonatti e i suoi “Racconti molesti”

Enrico De Tavonatti di professione fa l’imprenditore, e lo fa bene. Ha creato una municipalizzata che si occupa di smaltimento dei rifiuti nella provincia di Bergamo e che rappresenta un’anomalia in Italia: produce sempre utili. De Tavonatti stesso è un’anomalia, perché scrive. Racconti molesti è il libro con cui esordisce per Miraggi, nella collana Golem.

Perché questo titolo?
“Perché parlo di situazioni che si insinuano nella vita in maniera inaspettata. Sono come il gesto che fai per scacciare una mosca noiosa, entrano nella monotonia di mezza età in cui tutto sembrerebbe ormai appianato e già stabilito. In questi racconti accade invece qualcosa di erotico, erotico inteso come forza generatrice, che sconvolge le esistenze e che obbliga a prendere una decisione, magari in una direzione non auspicabile. Le risposte dei miei personaggi non sempre producono buoni esiti”.

Parliamo di Nebbia, che apre una serie di sette storie.
“Era un racconto lungo, che ho riadattato. Parla di un uomo sui 35 anni, atteso dalla moglie a Parigi per festeggiare l’anniversario di matrimonio. Lui rimanda sempre fino a quando decide di partire, ma a Linate c’è – per l’appunto – la nebbia e i voli sono annullati. Una nuova scusa per non andare da lei, però una persona gli suggerisce di prendere il treno, viaggiare di notte e arrivare la mattina dopo. L’uomo si lascia convincere, senonché proprio sul treno incontra una donna che gli confonderà le certezze e che gli farà capire che un’esistenza è tutt’altro che finita a 35 anni. La vita dura finché c’è la vita stessa”.

Qual è il racconto cui è più affezionato?
“Fermo posta. Parla di una donna di mezza età, separata dal marito. Di ritorno da una cena trova una rivista erotica sotto i portici di piazza Duomo a Milano: la raccoglie, la sfoglia e si lascia attrarre dagli annunci per incontri. Scrive a un’altra donna e… È il primo racconto che ho scritto e che avevo lasciato in un cassetto, salvo tirarlo fuori un giorno per sfida. Con gli amici discutevamo di un libro di Busi, che ha prodotto ottime cose alternandole ad altre di basso profilo. “Per scrivere così non è necessario scomodare i grandi” e ho recuperato Fermo posta per dimostrargli che era vero”.

Prima dei racconti c’era stato un romanzo.
“Maria Assunte Frassine, per fortuna o per forza. È la storia di una prostituta bresciana, che lavorava al Carmine, un quartiere oggi alla moda ma che 40 anni fa era il centro del sesso mercenario. La vicenda parte da una chiesa dove lei è entrata per pregare perché ha vinto alla lotteria. Una fortuna che la emancipa ma che lei si era già costruita nel tempo, perché aveva accantonato dei soldi: una rendita andata di pari passo con il crescente disinteresse per se stessa e per la professione, visto che arriva a pesare 110 chili. Chiude con quella vita, fa un viaggio a Montecatini dove incontra un nobile napoletano, impotente, e comincia un’altra esistenza”.

L’eros fa sempre da filo conduttore.
“L’eros azzera e resetta la condizione degli esseri umani. Le persone cambiano di fronte a una grande disgrazia oppure davanti a un amore travolgente. Ho voluto parlare di questo secondo aspetto”.

 

“Frigorifero Mon Amour”: il dialogo Serra-Fais su pangea.news

“Frigorifero Mon Amour”: il dialogo Serra-Fais su pangea.news

Philip Roth, nell’ultima parte della sua vita, sarà stato sicuramente mortificato per non aver ricevuto il Nobel. Certo, però, non era in buona compagnia: quasi ogni cretino, anche con una sola plaquette di poesia pubblicata, è convinto di essere un vincitore ingiustamente mancato. Sono veramente pochi a non avere l’ego tanto grande da ambire a un qualche riconoscimento sovradimensionato rispetto alle loro reali qualità artistiche. Per fortuna, ogni tanto, capita di trovare uno scrittore che, con estrema modestia, non si sente in competizione con i grandi e non ambisce a scalzarli dal loro trono. Come Andrea Serra che, con il suo Frigorifero Mon Amour, Miraggi 2018, non è sceso in campo con l’intento di rivoluzionare la storia della letteratura. Molto più serenamente, lo scrittore torinese di origini sarde si limita a regalarci qualche momento di leggerezza e riso. E lo fa raccontandoci la  toria tragicomica di una famiglia comune, la cui vita si trascina tra un’avventura grottesca e l’altra. Travolti dalla sua inguaribile tendenza a tramutare ogni situazione in un’occasione di divertimento, siamo andati a intervistarlo con l’animo sollevato, sicuri che non ci avrebbe ammorbati con la solita tiritera, della serie “sono il migliore, ma ancora nessuno l’ha capito”.

Insomma, ragazzo mio, hai letto i classici: Dostoevskij, Kafka, Camus, Sartre. Hai studiato a Torino, con pensatori del calibro di Gianni Vattimo e Maurizio Ferraris. Ti sei laureato in Filosofia a pieni voti… Com’è che poi hai deciso di non prenderti per niente sul serio e diventare l’autore di Frigorifero Mon Amour?

Questo libro che parla dell’amore per un frigorifero è qualcosa di serissimo. Ed è la diretta conseguenza dei miei studi filosofici e della mia imbarazzante dipendenza dai classici. Solo dopo aver conseguito la Laurea Magistrale in Filosofia Morale ho capito che, se volevo scrivere qualcosa di serio, dovevo evitare in tutti i modi la serietà.  l mio intimo amico Franz Kafka, quando leggeva agli amici le pagine di Il Processo, rideva fino alle lacrime.

Hai scritto un libro che diverte ed è segnato da una profondissima leggerezza di fondo. A tuo avviso, nel mondo letterario, c’è bisogno di qualcuno che faccia ridere, di autori che non perseguano il tragico come partito preso?

Sì, penso che la leggerezza sia necessaria, soprattutto in questa nostra società liquida e liquefatta che viaggia a ritmi vertiginosi. La leggerezza, d’altronde, non è superficialità, come già affermava Calvino, ma qualcosa di essenziale e profondo. Basta solo non dimenticarla nello scomparto dell’umido. Insomma, non bisogna lasciarla ammuffire nel frigorifero, ma cibarsene quotidianamente. I medici consigliano di consumarne almeno cinque porzioni al giorno.

Quando ti ho presentato a Cagliari, hai confidato al pubblico di aver scritto qualcosa già prima, un libro che, se non ricordo male, avevi anche inviato al Premio Calvino. Quando ti è stata recapitata la scheda finale di valutazione, il tuo testo è stato bocciato senza possibilità d’appello e tu sei stato invitato a levarti dalle palle. Ci potresti raccontare dell’accaduto? Sono sicuro che saprai presentare un momento così difficile per uno scrittore come qualcosa di divertente e, magari, tirare un po’ su di morale i tanti scrittori che sono abituati a ricevere solo rifiuti. Ah, già che ci sei, potresti pure dirci cosa ne pensi dei premi letterari in generale.

Certo! Pensa che io avevo lavorato a quel manoscritto per diversi anni. Si trattava di una serie di racconti esoterici collegati tra loro. Il risultato era tra il terrificante e l’imbarazzante. Per fortuna, la giuria me lo fece notare. Io ci rimasi malissimo ovviamente, perché chi scrive pensa sempre di essere vicino al Nobel per la Letteratura. Ma le critiche e le stroncature, alla fine, sono il momento più prezioso, se si vuole davvero migliorare nell’arte della scrittura. Se non avessi ascoltato i consigli e i pareri negativi che mi sono stati rivolti, adesso non sarei qui a rispondere alle tue domande. Perciò, mi sento di suggerire a chi inizia a scrivere di fare tesoro di tutte le critiche e i suggerimenti, perché proprio lì si possono cogliere i segnali da seguire per trovare la direzione giusta. I premi letterari, inoltre, sono una bella occasione per mettersi alla prova e per confrontarsi con altre persone che hanno la tua stessa passione.

La cifra distintiva della tua narrazione sembra essere quella dell’esasperazione del quotidiano in chiave dolcemente grottesca. Com’è che hai deciso di adottare una simile soluzione nella tua scrittura?

Questa esasperazione grottesca non è studiata o programmata, fa parte di me da sempre. È una tragica tendenza della mia troppo fervida immaginazione. Mia moglie è giustamente disperata perché, conoscendomi bene, sa che, quando le racconto un fatto, questo non corrisponde mai al vero. Sono sostanzialmente un individuo disturbato che trascrive su carta i suoi deliri quotidiani.

Andrea, è la vita a essere divertente e la tua scrittura, di conseguenza, la imita; oppure la vita è così dolorosa che la letteratura deve riscattarla buttando in vacca ciò che è solo pena e afflizione? Perdonami la domanda che fa palesemente il verso a Marzullo.

Grazie per questa domanda marzulliana, che tuttavia non ho compreso completamente. Ma per non sfigurare voglio rispondere citando la Critica della Ragion Pura di Immanuel Kant, che, tra l’altro, fa molto figo. Direi che sono le nostre categorie mentali a dare forma al mondo. La realtà è divertente, tragica o noiosa sulla base degli “occhiali” che portiamo. L’ironia è un abito mentale, un abito che andrebbe insegnato a scuola a mio parere, perché permette di guardare le cose da prospettive diverse e consente di trovare soluzioni inaspettate. Con questa risposta credo di esserne uscito alla grandissima e, nello stesso tempo, di aver spremuto completamente il mio unico neurone. Ti chiederei pertanto di abbassare notevolmente il livello delle prossime domande.

Tu hai, diciamo pure, un buon successo presso il pubblico dei social, un successo che molti scrittori che perseguono la serietà a ogni costo si sognano. Da cosa pensi che dipenda una simile attenzione che tu riesci evidentemente ad attirare e altri no?

Ho iniziato a postare alcuni dei miei racconti da un paio d’anni, quindi relativamente tardi. Il mio approccio ai social è poco virtuale: io tratto tutte le persone che interagiscono con me come persone reali, per cui, se mi scrivono e commentano i miei post, rispondo sempre e, magari, nasce una conversazione, uno scambio, un’amicizia che va al di là della rete. E non importa se devo replicare a trecento messaggi in una sera. Sono tutte persone che hanno impiegato il loro tempo per dirmi qualcosa e il minimo che io possa fare è dare risposta a ognuno. Credo che il segreto stia qui. D’altronde, quello di cui abbiamo bisogno tutti è di essere riconosciuti, mentre i social, al contrario, spingono verso la massificazione e l’anonimato.

Non ho mai capito perché, ma mi pare che molti autori italiani si sentano provinciali a raccontare di ciò che li circonda. Tu, invece, sembri molto legato al quotidiano, alla vita di tutti i giorni. Infatti, come si evince da Frigorifero Mon Amour, prendi ispirazione dalla tua famiglia, dai colleghi di lavoro, ovvero dalle persone che ti ruotano intorno ogni giorno, per quanto ti conceda di trasfigurarli in chiave ironica. Non pensi che ci sia qualcosa di profondamente triste in tutti questi scrittori che hanno timore di raccontare con semplicità e onestà ciò che sono, la loro quotidianità, e tentano pietosamente di ambientare i loro romanzi in America o in altri posti che forse hanno visto di sfuggita per una settimana, durante le vacanze?

Sì, sono assolutamente d’accordo con te. Il meraviglioso e lo straordinario sono nel quotidiano che abbiamo davanti agli occhi. Non avrei altro da aggiungere. Scusa la brevità della risposta. Sono ancora un po’ stanchino, dopo la domanda precedente.

Tu hai scritto anche poesia, almeno in passato, giusto? Perché non ce ne reciti una, raccontandoci anche il retroscena?

Se proprio insisti… posso recitarti questa che si intitola A Pasqua. È la prima che ho scritto, avevo sette anni: “A Pasqua fuma la vasca,/ fuma da Pavia,/ in provincia di Lombardia”. Questa poesia, come vedi, anticipa l’ermetismo, il simbolismo e il provincialismo. Nasce dal fatto che, quando ero piccolo, mio padre, per farmi il bagno, mi immergeva in una vasca di acqua bollente che riempiva la stanza di vapore. Il riferimento a Pavia, invece, non è del tutto chiaro. Alcuni critici hanno pensato a un viaggio segreto compiuto all’età di un anno e mezzo, mentre altri pensano si tratti di un’influenza massonica lombarda.

Prova a immaginare di finire nei manuali di letteratura tra cinquant’anni. Secondo te, cosa scriverebbero i curatori in merito alla tua poetica?

Sicuramente parlerebbero di “poetica dell’elettrodomestico”, perché per primo ho dato voce al frigorifero, alla lavatrice e al forno. Quello che mancava nella storia della letteratura era proprio una corrente alternata e ammuffita.

C’è qualcosa di cui vorresti scrivere, ma per cui non pensi di avere le capacità?

In generale di tutto. Io sono estremamente critico verso ciò che faccio e, soprattutto, che scrivo. Dopo aver rivisto centinaia di volte quello che mi esce dalla tastiera del pc, mi sorge sempre l’istinto di darlo alle fiamme. In tutta sincerità, non credo di essere particolarmente dotato con la penna. Ci sono tantissimi scrittori veri, molto più bravi di me. Io mi limito a mettere nero su bianco una storia quando proprio ne sento la necessità e, con tutti i mezzi che ho a disposizione, cerco di limitare i danni.

Stai scrivendo un secondo romanzo, se non ho capito male. Di cosa parlerà? Dobbiamo aspettarci un nuovo Andrea Serra, o quello che oramai ci è caro?

Quello che ho iniziato a scrivere è la continuazione di Frigorifero Mon Amour. Però ci saranno tante novità, sia in termini di trama che di personaggi e, soprattutto, di numerazione delle pagine. Per la prima volta nella storia della letteratura, queste non saranno indicate con i numeri, ma con i puffi disegnati da Luna (mia figlia). Ad esempio, al posto del numero uno, a pagina uno ci sarà Puffo Ercole; a pagina due, Puffo delle Mezze Stagioni; a pagina tre, Puffo Caccola Verde… E via dicendo.

Matteo Fais

 

Due sorelle e Berlino sullo sfondo: Hardy ci racconta “La vita è stanca”

Due sorelle e Berlino sullo sfondo: Hardy ci racconta “La vita è stanca”

Un romanzo-diario: la storia di due sorelle, con Berlino sullo sfondo. Intorno a loro animali parlanti, un musicista, una senzatetto voce narrante. “La vita è stanca” racconta un desiderio comune a tutti, quello di trovare un senso alla propria esistenza. “È nato da un’esigenza filosofica – spiega Batsceba Hardy –. Volevo raccontare quello che avevo nella testa attraverso pensieri, dando vita a storie fantastiche. Mi sentivo come se stessi scrivendo le Affinità elettive di Goethe con uno spirito “Anime” giapponese, un misto di magia e – al tempo stesso – di filosofia”.

Parliamo di Annalia e Andrea, i protagonisti.
“Sono sorella e fratello, che poi diventa sorella dopo essersi sottoposto a un intervento chirurgico. So benissimo di che cosa parlo, perché ho approfondito l’argomento prima di scriverne. So quali siano i tempi e le sofferenze di un’operazione di questo tipo. Ma non mi interessano i valori sociologici, le identità di genere. Il personaggio per me resta un individuo unico, anche se in trasformazione. E’ molto più mia, più mentale come cosa. Il resto lo lascio dire agli altri”.

Può apparire come una storia senza uno sviluppo cronologico.
“E invece c’è. Si comincia con Andrea che parte da Milano e raggiunge Annalia a Berlino. Lo stacco finale è invece aperto, può succedere come non succedere. C’è pure una vecchia homeless, che è la voce narrante: è un personaggio vero, che soggiornava davanti a una banca e che ho conosciuto. L’ho chiamata Elfriede. La sua è una storia che già c’era e che è entrata dentro “La vita è stanca”.

Perché la vita è stanca?
“Perché si può morire per stanchezza come andare avanti. E’ un ossimoro, come io mi penso un ossimoro vivente. Una stanchezza non solo fisica ma quella per cui, alla fine, ti chiedi se sei ancora vivo. In questa società siamo ormai oltre l’alienazione. C’è chi tenta di sopravvivere drogandosi: di potere, di televisione, di cose da fare. E c’è chi resta ucciso da questa performance continua”.

per conoscere Batsceba Hardy

Social sì, ma senza prendersi troppo sul serio: Laura Bettanin ci racconta “Facebook blues”

Social sì, ma senza prendersi troppo sul serio: Laura Bettanin ci racconta “Facebook blues”

Nel Terzo Millennio il vero mondo sembra essere quello social. Ce ne accorgiamo tutti i giorni, tra like, notifiche e condivisioni: un flusso ininterrotto di informazioni (vere o false), di giudizi, di immagini in cui il singolo cerca disperatamente di emergere, di mettersi in mostra nella maniera più brillante per gridare la propria esistenza. Un mondo le cui contraddizioni sono raccontante da Laura Bettanin, che per Miraggi ha scritto Facebook blues: “Un’idea nata dalla frequentazione di Facebook, diventato un elemento così ingombrante nella vita della persone. E poi dal desiderio di raccontare una storia d’amore riallacciata dopo molti anni”.

La protagonista è Marta, moglie infelice di un uomo molto più anziano di lei.
“È una donna che avrebbe meritato di più dalla vita, questo è accaduto perché non ha avuto coraggio. Da ragazza incontra e sposa un uomo che mantiene lei e la sua famiglia d’origine, una famiglia sfasciata. In questa vita entra anche il vero amore, quello grande, con un soldato americano. Ma non se la sente di lasciare il marito. Si immola per queste persone, cui cerca di dare una dignità”.

Una donna che vive un’amicizia profondo con Renata.
“Marta è una donna molto curiosa. Fa la barista, incontra Renata, una libraia. Tutto nasce da un libro che ruba: il padre di Renata la scopre, ma la donna la difende. Diventano amiche e complici, dell’amore nascosto di Marta”.

Un amore che ritorna grazie all’incontro su Facebook.
“E si intuisce come Marta avrebbe l’occasione di riprendere in mano la propria e come, , al tempo stesso – e non si sappia bene il perché – non se la senta di andare fino in fondo, perché continua ad avere sentimenti di riconoscenza verso il marito”.

Che cosa è per lei Facebook?
“Ho voluto darne un’immagine positiva come negativa. Positiva perché ci possono essere opportunità di contatto vere, anche se solo per un 1%. Ho amiche conosciute su Facebook e poi c’è il rapporto con altri autori, da cui nascono idee e antologie. Tutta gente che poi, per fortuna, puoi conoscere direttamente, ai saloni o ai festival. Penso a Filippo Tuena, per il quale ho scritto un racconto nella raccolta Dylan Skyline (Nutrimenti), e a Laura Liberale, per la quale ho scritto un racconto sul Père-Lachaise. E poi a Luigi Grazioli di Nuova Prosa”.

Questo il positivo. E il negativo?
“Su Facebook ci sono le bufale, le litigate, gli insulti. Ho imparato a fare una certa tara. I ragazzi di oggi, i cosiddetti millennials, hanno capito che usare Facebook così è ridicolo. Invece i più anziani si prendono tremendamente sul serio quando scrivono qualcosa. C’è la gara ad arrivare primi per postare, linkare, bannare: patetico. Poi si denunciano l’uno contro l’altro con un infantilismo impressionante. Finisce per essere un mondo banale”.

Come affrontarlo?
“Frequentandolo poco oppure senza prenderlo troppo sul serio, come le chiacchiere come tra amici al bar. Meglio sempre avere delle persone fisiche con cui rapportarsi. Serve un dosaggio giusto e questo libro può essere un aiuto per quelli della mia generazione”.

“Di notte sgomitano le crisi”: l’intervista a Tomas Bassini su convenzionali.wordpress.com

“Di notte sgomitano le crisi”: l’intervista a Tomas Bassini su convenzionali.wordpress.com

di Gabriele Ottaviani

Quando eravamo portieri di notte: Convenzionali intervista con felicità il suo autore, Tomas Bassini.

Da dove nasce questo romanzo?
Si può dire che è venuto fuori da una crisi, un mio personalissimo buco nero a cui devo dire grazie. Naturalmente una volta pubblicato il libro non appartiene più (o nel del tutto) a chi l’ha scritto, o meglio, il lettore può farsi la sua idea e dare al libro l’interpretazione che preferisce e in questo lo scrittore non ha voce in capitolo, e meno parla meglio è. Ma se mi domanda da dove nasce questo romanzo non posso fare a meno di risponderle che nasce da un fatto prettamente privato che ha un indirizzo e un codice fiscale, forse oggi anche una partita IVA.

Che cosa rappresenta la notte per lei e nell’immaginario collettivo della nostra società?
Nell’immaginario collettivo non saprei ma per quanto mi riguarda è in un certo senso l’ambiente ideale per il buco nero di cui le ho accennato. È di notte che certe crisi riescono a sgomitare e a far la voce grossa, è proprio lì che anche il più piccolo intoppo si trova in una posizione privilegiata che gli permette di guadagnare spazio e tempo, di stratificarsi senza che quasi te ne accorgi, almeno all’inizio, che dopo un po’  sì che te ne accorgi  e non è più possibile tornare indietro, e non c’è quindi da stupirsi se puoi non si riesce a dormire.

Che valenza ricopre l’abbandono?
In questo romanzo ha un ruolo fondamentale. Un po’ come se fosse l’attore principale che non esce mai di scena, e anche quando per sbaglio non c’è, anche solo per un minuto, si finisce comunque per parlare di lui. È il filo conduttore che influenza ogni cosa, in maniera sia negativa che positiva. Non è però da intendersi semplicemente come l’atto di qualcuno che abbandona qualcun altro, e nemmeno come la condizione di chi l’ha subito, ma qualcosa di molto più ampio e duraturo, molto meno occasionale.  L’abbandono in sé può essere un concetto estremamente banale, l’abbiamo provato tutti, e tutti sentendocelo raccontare ci siamo annoiati; quello che mi sembrava più interessante era vedere invece com’è che un individuo può reagire a questo, e soprattutto come questo particolare tipo di resistenza può mantenersi e svilupparsi. Quello che per il protagonista conta non è lo spazio vuoto che un brutto giorno s’è trovato davanti (quello al massimo lo indispettisce) ma ciò che può essere utilizzato per riempirlo. La differenza non la fanno le grandi giornate, dice più o meno Lui, ma tutto ciò che sta fra una grande giornata e quella dopo.

Perché scrive?
Diciamo che non ho trovato niente di meglio da fare. Ma va benissimo così.