Patrizio Zurru in libreria con una raccolta di 65 scritti, dal titolo “Endecascivoli”, sospesi tra ricordi di famiglia e fatti quotidiani, talvolta surreali. «In endecasillabi, più o meno»
Ventinove anni esatti dalla precedente opera, per assaporare la maturità dello scrittore Patrizio Zurru. Nel 1992, con “13 racconti”, pubblicato dalla 3B+Z, il natio di Iglesias si districava con emozioni in parola scritta, che ebbero un ottimo riscontro. Prima d’approdare al “libro”, organizzava concerti jazz fino a che: «Sono passati oltre 30 anni (da quell’approdo, n.d.c.) e non ho ancora trovato come uscirne». Ci preme ricordare e lo facciamo senza alcuna piaggeria, che non stiamo parlando soltanto con lo scrittore, bensì con un talent scout tra i maggiori che l’Italia può annoverare: «Ho lavorato come libraio (riconoscimento miglior libraio d’Italia nel 2012, n.d.c.), editore, scrittore, ufficio stampa, curatore di collana, consulente editoriale e agente letterario».
Stakanovismo?
«È la passione, che chiami stakanovismo, per le cose che si fanno, l’idea di raggiungere un obiettivo o di crearne di nuovi. Poi il valore lo stabiliscono gli altri». La poliedricità non è dunque casuale, così come casuali non sono i 65 racconti dell’antologia “Endecascivoli”, edito da Miraggi Edizioni, in libreria da ieri, 23 marzo, tant’è che Patrizio Zurru, che ad oggi cura anche la collana “SideKar” di Arkadia Editore di Cagliari, insieme alle gemelle palermitane Ivana e Mariela Peritore «una collana di isole gemelle» come ama ricordare, pubblica per le edizioni torinesi perché «doveroso ricordare che siamo amici dall’anno della loro fondazione. Ho seguito tutto il loro percorso, così, quando mi hanno chiesto di pubblicare le mie storie con loro mi è sembrata la cosa più naturale, oltre che più bella». Sincero nelle emozioni come i contenuti della nuova opera, gli chiediamo se c’è un filo conduttore tra il dato reale e quello della potenziale fiction: «Sicuramente la liaison è la ricerca della memoria, soprattutto passata, ma anche presente e futura. Si va dalla parte che più mi appartiene, le storie di miniera di mio padre, a quelle che coinvolgono una famiglia numerosa per cuginanza, sparsa per l’Europa, a semplici fatti quotidiani; non mancano i racconti surreali, a intervallare il vero con un po’ di verosimile. Il tutto in endecasillabi, più o meno».
Cosa l’ha ispirata?
«Niente! Scrivo mentre cucino, impiego il tempo di cottura, quando il piatto è pronto il racconto si chiude. Quanto alla pubblicazione, già ti ho detto come avvenuta».
I racconti sono narrati in prima persona: parla di se stesso o presta la sua penna ad altri personaggi?
«In quasi tutti, cerco di riportare storie che ho sentito dai miei, arricchendoli con dettagli inventati».
Cosa pensa dei premi letterari, noti e meno noti? Ambisce a parteciparvi? E se si: per vincere, concorrere o per diffondere il suo libro?
«I premi servono, ancora, a dare un brivido a chi partecipa, come scrittore o lavorante nell’editoria. Per me non so, non credo di averne diritto».
L’endecascivolo cos’è?
«Un piccolo racconto che dopo aver salito gli scalini si butta in discesa liberamente».
Non è un caso allora che proprio col suo libro Miraggi battezza la nuova veste grafica nella collana Garamond: sorpreso, emozionato o cos’altro?
«Sorpreso all’inizio, emozionato sicuramente e incuriosito, felice di partecipare e, a mio modo, collaborare a questo nuovo progetto».
Per chi e perché lo ha scritto, Zurru lo ha detto minimamente in parte e sorridendo di gusto, così si è congedato dalla simpaticissima chiacchierata: «Lo dico nell’ultimo racconto, il 65°. Non vi resta che comprare il libro».
Autofiction contro Autofiction. “Di sangue e di ferro” di Luca Quarin, vince il Contropremio Carver 2021 per la narrativa
È stato un caso che conoscessi, lunedì 8 febbraio alle 11, nella Libreria Einaudi di Udine, lo scrittore udinese Luca Quarin? Forse lo sarebbe stato se fosse successo dopo un mese ma, non a due giorni dalla sua premiazione per la narrativa al Contropremio Carver 2021, con il libro “di sangue e di ferro”. Luca mi ha raccontato che la parte più emozionante del premio è stato arrivare tra i primi cinque finalisti con un suo grande amico, Massimo Cracco autore di “Senza”.
Ogni opera letteraria, prima di essere realizzata, è già presente in un’altra dimensione in attesa di essere risvegliata dall’immaginifico di uno scrittore. Il romanzo “di sangue e di ferro”, come direbbero i cinesi, iniziò a respirare nel 2014 a Treviso, a un corso di scrittura tenuto da un’amica di Luca, Bruna Graziani (promotrice dell’unico festival letterario italiano dedicato alla scrittura autobiografica, Cartacarbone). Bruna sollecitò i partecipanti a scrivere un testo su di una loro esperienza. Un evento drammatico raccontato da uno dei presenti, lo fece riflettere sul rapporto che esiste tra gli eventi della nostra vita, il modo con cui li raccontiamo agli altri, il modo in cui li trasformiamo nella nostra mente, e come in alcuni di essi rimaniamo intrappolati.
Se avessi licenza letteraria definirei il genere di questo romanzo “ipnotico”, ben lontano da una struttura ed una forma etichettabili. Leggendo, ti senti immerso in una di quelle atmosfere che solo alcuni filoni del realismo magico e della letteratura fantastica latino-americana sono in grado di creare. Culture in cui, tutt’ora, sogno e realtà possono tranquillamente convivere senza l’ansia del confine.
Il lettore, a cui consiglio di leggerlo tutto d’un fiato, deve essere pronto ad accogliere questa non-dimensione, dove spazio, tempo e personaggi sembrano annullarsi nella fitta rete di elementi e narrazioni che si sovrappongono. Si crea così, un’attesa da libro giallo in cui non puoi smettere di leggere per scoprire il colpevole.
La dimensione atemporale, provocata da questo continuo entrare ed uscire ad intermittenza dalle varie storie che si intrecciano, fa emergere in modo secco e totalmente reale la violenza del fatto storico attorno a cui gira tutta la narrazione, la strage di Peteano. L’attentato avvenuto il 31 maggio del 1972, uccise tre carabinieri. Evento documentato con stralci di atti provenienti da archivi storici, e vissuto attraverso l’oscuro destino familiare del protagonista Ferro, il cui nebuloso passato è costruito su di una serie di verità non dette.
Ho provato per ben due volte a intervistare Luca Quarin. La seconda gli ho dato appuntamento al Contarena di Udine, luogo in cui il protagonista Ferro si sarebbe dovuto incontrare con un personaggio misterioso, per cercare di non perdere il cammino ma, anche la seconda volta, i ruoli si sono capovolti come in una realtà metonimica, ed è stato lo scrittore ad intervistare il giornalista. Così in una forma inedita d’intervista, in stile autofiction, ho deciso che fosse il suo Libro a fargli le domande:
Libro: …come se il non vedere fosse all’origine delle relazioni tra gli esseri umani, soprattutto tra i maschi e le femmine.
“È una cosa di cui non so dire se credo, forse anche ci credo ma, certamente è una considerazione che deriva dalla mia esperienza. Mi sembra che il fraintendimento, il vedere nell’altro ma, anche altrove, qualcosa di diverso da quello che è, crei quella lontananza che in qualche misura diventa il motore dell’avvicinamento. È quel fraintendimento che si verifica sempre tra gli esseri umani, quello straniamento che mi dà l’impressione essere il propulsore che ci spinge l’uno verso l’altro. La relazione è la storia del nostro fraintendersi.”
Libro: …come se quello che accadeva lì dentro fosse soltanto la ripetizione di quello che si verificava ogni giorno in quel posto, persone che non sapevano più chi erano che parlavano con persone che sapevano ancora chi erano, o credevano di saperlo, e il loro dialogo era sempre lo stesso, sapere e non sapere, ricordare e non ricordare, integrare in sé o abbandonarsi alla disintegrazione.
“È come se l’Alzheimer fosse metafora della condizione umana. Ci sembra che la condizione normale sia quella della memoria e del dominio del passato, mentre l’Alzheimer quella in cui anche il passato perde i suoi contorni, e smargina in una storia che si dilata che non è più quella che abbiamo vissuto, ma è una storia di fantasmi. Io adesso non so esattamente come sia la percezione di un malato di Alzheimer ma, l’idea che mi sono fatto è che abbia un tratto metaforico che accentua l’esperienza che abbiamo tutti quanti. Quando ti capita di avere degli elementi precisi del passato o perché ti capita in mano una fotografia, o perché leggi una lettera o perché qualcuno ti racconta qualcosa ti rendi conto che quel passato è avvenuto in modo diverso da come tu lo ricordi. È come se tutti vivessimo in una sorta di Alzheimer, sicuramente meno accentuato perché la nostra linea narrativa è più precisa rispetto a quello del malato, però forse non è poi così diversa…forse.”
Libro: “Tu lo sai com’è la letteratura. Un insieme di vincoli narrativi che danno una forma alla mancanza di forma delle cose, il più delle volte una forma diversa da quelle che si aspettava, un conto è fissare le regole e un altro è prevedere i loro esiti”
“I meccanismi narrativi sovraintendono la creazione della realtà. Mi vengono in mente le grandi tragedie del 900’. Il Fascismo, il Nazismo, il Comunismo esperienze che si sono fondate su un insieme di idee e ideologie che poi hanno prodotto qualcosa di probabilmente diverso rispetto a quello che era l’auspicio di chi le scriveva . Quando porti nella realtà le dinamiche della narrazione il risultato che ottieni non è quello della narrazione ma è un risultato diverso. La realtà rompe e frantuma quella struttura narrativa che hai tu portato dentro e che credevi potesse aiutarti a mettere degli argini alla forza della realtà. Probabilmente la realtà travolge sempre quegli argini e determina degli esiti che sono diversi da quelli che tu narrativamente ti aspettavi.”
Libro: “…la storia spesso non sa cosa farsene della verità”.
“Questo assolutamente sì, la storia è una storia. La storia quella con la S maiuscola è una storia. Ho dei dubbi rispetto la monoliticità della storia con la S maiuscola.”
Libro: La strage è un mezzo che il potere utilizza per creare uno stato di allarme nella popolazione, e che gli permette poi di intervenire per assicurarla. È un evento traumatico che interessa solo chi detiene il potere, perché solo chi detiene il potere può gestire gli eventi che ne conseguono. Quindi la strage è un mezzo di prevaricazione del potere sulla popolazione.
“Questo lo dice Vincenzo Vincigurerra in un’intervista che è gli è stata fatta in carcere ad Opera da due giornalisti. Di cui ti consiglio di mettere qui il link di riferimento.”
Libro: “Dunque nella letteratura autofinzionale ”l’io” è “per te”. L’io è il super-prodotto, il prodotto perfetto, si potrebbe dire, l’essenza del prodotto o, ancora meglio, il prodotto di cui si nutre il lettore per nutrire l’autore”.
“Il discorso è legato al cambiamento dell’economia di mercato e alla centralità del soggetto nella storia contemporanea. Se la storia del 900’ è stata la storia di alcune idee forti, dopo l’89’ che ha sancito la fine delle grandi avventure ideologiche è rimasto il soggetto l’elemento centrale, e di conseguenza il soggetto diventa sia il bersaglio del mercato ma anche il prodotto perfetto del mercato. Tutto il filone della narrativa autofinzionale cavalca questo concetto. Non c’è più il romanzo ma c’è lo scrittore, un po’ come nella logica del reality, dove il prodotto non è più lo spettacolo non è più la storia ma è ma un soggetto che si esprime come soggetto. La letteratura autofinzionale cade spesso in questo giochino della morbosità, della curiosità del sapere se è lui o non è lui e se racconta di sé. L’autobiografia del passato aveva la pretesa di essere oggettiva e quindi raccontare le vicende che erano accadute a chi scriveva la sua autobiografia, il quale cercava di essere il più possibile fedele ai fatti. L’autofinzione non ha più quel vincolo di fedeltà, quindi gioca sulla grande ambiguità tra il narrato ed il reale, ed è proprio quell’ambiguità che solletica il lettore a domandarsi continuamente ma sta parlando di sé o sta inventando. L’autofinzione è un giochino che mette nelle mani dello scrittore un meccanismo molto sottile per prendere in giro il lettore. È autofinzionale anche Donald Trump che fa Donald Trump, non è più Donald Trump ma è lui che interpreta Donald Trump, esattamente come l’autore interpreta il personaggio di sé stesso.”
Libro: “Ieri ti dicevo di Ahoron Appelfeld e dell’impossibilità di raccontare la storia senza tradirla. Sia quella con la S maiuscola che quella con la s minuscola”
“Ahoron Appelfeld non racconta mai la sua esperienza, è stato protagonista in prima persona della persecuzione ebraica, però nella sua letteratura non racconta mai quello che gli è accaduto, e io ne ho parlato proprio per questo, perché è il contrario dell’autofinzione.”
”Mi piace guardare le cose che crescono – aveva detto la vecchia, accarezzando una pianta selvatica che spuntava dall’asfalto – le cose che crescono, e sbocciano, e svaniscono, e muoiono, e si trasformano in altre cose”. Poi gli aveva chiesto che fiore avrebbe voluto essere, se avesse potuto scegliere, e lui le aveva risposto una margherita… “Perché una margherita?” … “Perché sono tutte uguali? – aveva detto lui…” Sai, Andrea – aveva aggiunto – secondo me questa è la causa di molti mali nel mondo. Quando le persone che sono diverse permettono alle altre persone di considerale uguali”.
Note biografiche Luca Quarin è nato e vive a Udine. Si è occupato di ambiente, di design e di architettura. Il suo primo romanzo, “Il battito oscuro del mondo”, edito da Autori Riuniti, ha vinto il Premio Letteratura dell’Istituto Italiano di Cultura e il Golden Book Awards 2018, come migliore romanzo del 2018. Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati da riviste quali Parametro, Carie e Crack e da editori quali Biblioteca del Cenide e Lazy Book. Questo è il suo secondo romanzo.
Raccontare le prospettive che normalmente non vediamo
Quando ho contattato Bianca Bellová per chiederle di rilasciarmi un’intervista ero, come mi capita spesso dinanzi ad autori che ho molto apprezzato, in forte soggezione. Ho scelto con cura la forma e le parole, ho cesellato ogni vocabolo e poi ho inviato tutto. Bianca ha accettato di rispondere alle mie domande il giorno stesso, con un’energia e una gentilezza non comuni. Non sempre gli scrittori acconsentono a simili proposte, specie se queste giungono dalla redazione di una piccola rivista online nata da pochi mesi che non può vantare alcun blasonato nome o traguardo. Bianca Bellová è, fortunatamente per lei, fuori da questi meccanismi limitanti e non poteva non essere così: a rivelarlo è, del resto, ciò che scrive.
L’autrice ceca di origini bulgare, nata a Praga nel 1970, è una delle personalità letterarie più autentiche e apprezzate nel suo paese ma non solo. Il suo esordio letterario, avvenuto nel 2009, è solo la prima tappa di un crescendo sempre più meritato che l’ha vista nel 2016, con il suo romanzo “Il lago” tradotto in quindici lingue, vincitrice di due importanti riconoscimenti: il Premio Unione Europea per la Letteratura e il Premio Nazionale Magnesia Litera. È proprio con “Il lago”,edito da Miraggi nel 2018 all’interno della preziosa collana NováVlna diretta da Alessandro De Vito, che il pubblico di casa nostra ha potuto finalmente conoscere questa voce inconfondibile e potente, in grado di raccontare e scandagliare i sentimenti umani, – dai più cupi e dolorosi sino ai più teneri – con un coraggio e una profondità illuminanti. Tradotta in italiano da Laura Angeloni, l’opera di Bianca Bellová sa sempre rivelare ogni nascondiglio umano con una chiarezza e una chiaroveggenza che in tanta letteratura contemporanea è molto difficile rintracciare. Nel 2020 è stato sempre l’editore Miraggi a pubblicare l’edizione italiana del suo nuovo romanzo intitolato”Mona” e di nuovo l’attenzione di molti lettori italiani si è rivolta alla sua opera. Le prospettive umane che Bianca Bellová sa indagare e far emergere sono gli angoli più nascosti del quotidiano, quelli che più difficilmente vogliamo affrontare. Non solo la ricerca delle verità esteriori sembrano stare alla base dei suoi romanzi. A esse si affianca un’altra esplorazione parallela: quella del proprio inconscio, dei simboli che ogni individuo si costruisce per sopravvivere, quegli stessi simboli che un bel giorno vanno conosciuti davvero, affrontati, esperiti, accettati e se necessario abbattuti.
Nami, il personaggio protagonista de “Il lago”, ha una personalità molto complessa. Com’è stato entrare in empatia con uno come lui? «Nami è un ragazzo sfortunato che cresce senza gli appigli che tutti diamo per scontati – genitori, casa, comodità – e ha una mappa molto approssimativa grazie alla quale navigare nella vita. Devo dire che non auguro a nessuno di essere nei panni dei miei personaggi. Di solito hanno sfide incredibilmente difficili da superare. E sì, mi dispiace per loro, ma si deve andare molto in profondità nella disperazione o persino nel trauma per iniziare a crescere. E poi ci sono sempre altri umani sulla strada per aiutarti a portare la tua croce».
“Il lago” è un romanzo di violenza e compassione, un romanzo di dolore ma anche di resistenza. Non ci sono giudizi, c’è solo l’umanità. Credi che la letteratura possa aiutarci ad osservare meglio il mondo e a capire gli altri più a fondo? «Ebbene sì, lo hai detto. È il lavoro delle persone che scrivono, fanno musica, dipingono, ballano o fanno qualsiasi altra cosa per mostrare agli altri il mondo da prospettive che normalmente non vediamo».
È da poco uscito anche in Italia e sempre per Miraggi il tuo nuovo romanzo “Mona” . Quali sono i temi più ricorrenti della tua scrittura e perché? «Quando guardo indietro, ci sono davvero temi che si ripetono: di solito si tratta di un individuo con una situazione familiare difficile, quasi sempre danneggiata. Ecco, il protagonista spesso deve far fronte a situazioni che mettono in discussione la sua integrità o conformità morale. Deve affilare bene gli attrezzi, insomma. Inoltre, mi rendo conto che per qualche motivo non ancora ben chiaro a me stessa, c’è un tema assai ricorrente che è quello dell’acqua. È forse quasi un personaggio. Questo vale per i miei testi più lunghi; quando si tratta di racconti, i temi variano molto, dai thriller noir, all’ironia situazionale a gravi e importanti drammi storici. Non saprei dirti perché accade tutto ciò, io penso sempre che sono i temi a scegliere me , e non il contrario. Mi sento più come se fossi l’intermediario, una sorta di strumento o semplicemente una macchina da scrivere in grado di catturare idee e immagini che non sono interamente mie, sono solo là fuori, in attesa di essere colte, plasmate e narrate».
Hai debuttato nel 2009 e da allora hai avuto una buona risposta dal pubblico. La tua scrittura è maturata in questi anni? Cosa è cambiato nel tuo modo di fare letteratura e cosa invece è rimasto intatto? «Credo che ci sia stato un certo sviluppo nella mia scrittura. Dopotutto, ognuno di noi dovrebbe essere in grado migliorare le proprie abilità se le mette in atto costantemente, che tu sia un falegname o un pastaio è lo stesso. Probabilmente con il passare del tempo arrivo più rapidamente ai miei obiettivi, e per obiettivi intendo le storie da raccontare. Certo, mi capita ancora iniziare a scrivere un testo che non porta da nessuna parte ma ora lo riconosco molto più velocemente e non provo più a rianimare una pagina se non respira. Rispetto a prima , la mia prosa attuale è molto più semplice o più pura di una volta, provo maggiormente a concentrarmi sulla storia e a dare al lettore più spazio per usare la propria immaginazione. Sono anche più cauta, cerco di evitare di causare troppi “traumi” al lettore, a meno che non sia davvero richiesto dalla storia. Sono sempre stata abbastanza realista, ad esempio nella rappresentazione del sesso o delle scene violente, non tralasciavo nulla, ero davvero precisa ma ora uso sempre meno scelte di questo tipo. Spero che quando sarò anziana la mia scrittura si ridurrà al minimo. Ecco, mi vedo già, con i miei capelli bianchi a pronunciare solo brevissime sentenze o piccole frasi. Possibilmente un haiku».
Pensi che si possa essere scrittori senza provare emozioni forti? «Questa domanda è interessante, ma non so forse uno psicologo potrebbe rispondere meglio. Conosco un gran numero di autori di successo, alcuni estremamente introversi, altri estremamente estroversi, ma come e se provano emozioni forti possono saperlo solo loro. Certo, credo che serva una dose elevata di empatia e capacità di osservazione estrema per scrivere testi che siano coinvolgenti per gli altri. L’estrema sensibilità e l’estrema creatività spesso vanno di pari passo: questa sensibilità è insieme una benedizione e una maledizione per chi la possiede. La percezione del mondo per la persona sensibile è molto più densa e colorata, ricca di sfaccettature e visioni, ma la sua vita quotidiana può essere davvero dura; è più reattiva agli stimoli e questo può riversarsi anche non positivamente sul suo sistema immunitario. Questo tipo di persona si stanca facilmente, ha reazioni molto più emotive rispetto al normale e spesso non è in grado di gestire il rumore o la folla per periodi di tempo lunghi. È come se dovesse in qualche modo pagare questo dono che possiede la sensibilità appunto, ma dall’altra parte ha il privilegio di averla e usarla per gli altri, per stimolare e nutrire la loro immaginazione».
La scrittrice italiana Elsa Morante ha detto: “Una delle possibili definizioni giuste di scrittore per me, sarebbe anche la seguente: una persona a cui importa tutto ciò che accade, tranne la letteratura”. Sei d’accordo? Qual è la tua definizione di scrittore? «Sono assolutamente d’accordo. Non mi interessa la letteratura, mi interessano solo i buoni libri e le storie buone. Ed è molto importante essere intuitivo e “prensile” su tutto ciò che accade: chi scrive dovrebbe essere sempre pronto a trarre ispirazione da qualsiasi angolo, anche il più improbabile della conoscenza umana, che si tratti di uno stralcio di poesia cinese del IV secolo o di notizie di microcriminalità su un giornale di provincia. Per me lo scrittore è qualcuno che scrive per vivere ma qui ci inerpichiamo in un percorso pericoloso e complesso. Puoi essere super bravo – come Ian McEwan, diciamo, o Stephen King – ma puoi anche essere condizionato da bisogni materiali e quindi decidere di abbandonare la tua autenticità di autore solo per scrivere ciò che sai che lettori apprezzeranno (e compreranno). Questo è un vicolo cieco troppo pericoloso per l’esplorazione e la creatività e non vorrei mai percorrerlo. Non voglio dipendere finanziariamente dalla mia scrittura, voglio solo ottenere piacere e soddisfazione dal processo di scrittura».
Bianca Bellová è una scrittrice ceca di origini bulgare. Nata a Praga nel 1970, ha scritto una serie di libri: Sentimentální Román (Sentimental Novel, 2009), Mrtvý muž (Dead Man, 2011), Celý den se nic nestane (Non accade niente tutto il giorno, 2013) e Jezero (The Lake, 2016). Con Jezero ha vinto il maggior Premio Letterario della Repubblica Ceca, il Magnesia Litera e inoltre nel 2016 si è aggiudicata il Premio dell’Unione Europe per la letteratura. Jezero è stato tradotto in numerose lingue tra cui l’italiano con il titolo Il lago per le edizioni Miraggi (traduzione di Laura Agnoloni). Il 3 giugno 2020, sempre per Miraggi Edizioni è uscito Mona, il suo ultimo romanzo.
Quando a Barolo il vino si beveva dai pintoni, non nei calici alla moda
Marco Giacosa è uno scrittore che parte dalle cose piccole per raccontare la grandezza della vita. Lo aveva già fatto anni fa con «L’occhio della mucca» o con la rubrica «Cose che ho visto oggi», prima su Facebook e poi sull’edizione torinese della «Stampa». Piccole storie quotidiane capaci di diventare «narrativa» solo nel momento in cui il narratore sapeva riconoscerle come storie da raccontare. Con «Langhe inquiete» (Miraggi Edizioni), Giacosa compie la stessa operazione su se stesso. Ha recuperato una serie di post usciti sui blog e sui social, li ha cuciti insieme, ne ha fatto un libro che nel sottotitolo definisce «appunti per un romanzo». Una sorta di autobiografia che, attraverso le memorie personali e familiari, diventa anche uno specchio delle Langhe «di prima». Prima del turismo, della moda, delle colline cool e patinate.
Giacosa, attraverso i ricordi della sua famiglia, lei ci riporta alle campagne piemontesi del primo Novecento, quando i bambini andavano a lavorare dopo due-tre anni di elementari, quando la religione era più dei bigotti che dei credenti. Una vita scandita da tradizioni che lasciano tracce ancora oggi. Che cosa è rimasto in lei in tutto questo?
«Molto. A quelle tradizioni sono stato legato in modo quasi malato per molto tempo. Sono cresciuto con il codice del “si fa così” e del “non si fa”, l’ho suburra per anni senza neppure chiedermi se mi piacesse o no. Ci ho sofferto parecchio finché c’ero dentro. Poi me ne sono staccato, e a quel punto ne ho riconosciuto il fascino. Adesso che non ci vivo più sono davvero libero di sentirmi figlio delle Langhe».
Le sue pagine raccontano un rapporto stretto, ma a volte conflittuale con la famiglia. Specie con suo padre, a cui ha dedicato il libro e di cui parla spesso su Facebook. Rimpianti?
«È una cosa che succede a molti: cresci nella convinzione di essere molto diverso da tuo padre, e poi con il passare del tempo ti accorgi di assomigliargli sempre di più: te lo fanno notare, i gesti, gli atteggiamenti, il modo di camminare sono uguali ai suoi. Mio padre aveva la mania di tenere diari, scriveva, raccoglieva fotografie. È come se facesse Facebook prima di Facebook: nei suoi album non ci sono solo le foto, ci sono ritagli di giornale, commenti, poesie che aveva scritto per qualche ricorrenza, appunti dei discorsi che teneva ai matrimoni».
Lei ha scritto che l’anno passato nell’Alessandrino a fare il carabiniere di leva è stato il «migliore della sua vita». Perché?
«Perché per la prima volta ero e mi sentivo legittimato a stare lontano da casa. Mio nonno aveva fatto la guerra negli Alpini, mio padre era veterinario ma era stato ufficiale di complemento. In famiglia c’era l’idea del cittadino che deve rispondere quando lo Stato chiama».
Lei però ha studiato a Torino. Non bastava l’Università per sancire il «distacco»?
«Nel weekend rientravo ad Alessandria, mia mamma mi preparava il cibo e mi stirava i vestiti. C’era sempre l’idea, anche metaforica, del “tornare a casa”».
Lei si descrive come un bambino solitario. Era così?
«Io ho avuto la fortuna di crescere con mio nonno, in una piccola borgata come Pela, a sette chilometri da Alba. Quando da piccolo giochi in un cortile di campagna la tua socialità è data dalle persone che passano in quel cortile. E di bambini, in genere, ne passano pochissimi. Così il mondo lo scoprivo da solo: il muschio, l’uva, gli animali. A volte i contadini pagavano mio padre veterinario in natura, con un cambio-merce: ricordo che un giorno arrivò con un asino. La mia infanzia ha avuto un senso di avventura».
Non le mancava qualcuno con cui giocare?
«No. In fondo io non ho perso qualcosa, non l’ho mai avuta».
Nel libro, però, racconta di una vacanza con altri bambini in cui si sentiva isolato perché lei «non era di Alba, ma di un paese vicino». Bastavano i 7 chilometri tra Pela e la città per sentirsi diverso?
«Era come essere la provincia della provincia. Ad Alba c’erano i figli dei professionisti: a casa parlavamo in italiano, mentre noi usavamo il dialetto. La differenza era evidente, specie più avanti, al liceo: io avevo amici che lavoravano da idraulici o da muratori, molti studiavano negli istituti professionali. Erano i tempi in cui andare a bere il vino non faceva ancora figo: c’erano i pintoni, non i calici».
Le sue Langhe «inquiete» oggi sono diventate un’altra cosa. Viste da Torino, dove vive da anni, che effetto le fanno?
«Da ragazzo andavo a Barolo con i miei amici, in motorino. Ci fermavamo in piazza a parlare, compravamo la focaccia, qualche birra di nascosto al bar. Ci sono passato qualche tempo fa: ogni dieci metri un negozio che vende vino, cantine, qualcosa di turistico».
Meglio allora?
«No, no. Mi fa piacere che ci siano dei piccoli imprenditori, che non siano solo Ferrero e Miroglio ad aver trasformato le terre della Malora di Fenoglio. Però lasciatemi un po’ di orgoglio: io ho visto l’anima di questi luoghi, chi ci passa un weekend e se ne va non la vedrà mai».
A settembre 2020 è partito il gruppo di lettura “ConTestoDiverso” nuovo progetto targato Periferia Letteraria.
Lo scopo è di approfondire e arricchirsi in un’analisi di lettura non subita ma elaborata dal singolo e sviluppata nella pluralità. Non si tratta di affrontare il testo con pretese tecniche e critiche, ma di maturare il nostro approccio spontaneo alla lettura.
Il primo autore ospite è Piergianni Curti con libro “Quando i padricamminavano nel vuoto” edizione Miraggi, Collana Scafiblù. Padri e figli: uno dei rapporti più complessi in natura. I figli che scrivono dei padri sono molti, sono un tassello importante per ripercorrere scelte esistenziali che si ripetono in tutte le generazioni. Due figure intorno a cui si muove il racconto: in un rapporto delicato un padre formidabile ma duro ed ingombrante e un figlio pieno di buone intenzioni. Tra aspettative e incomprensioni del padre, si assiste alla formazione della personalità dei figli in un rapporto familiare sicuramente interessante e decisivo per la crescita e poi, più tardi, direzioni di vita che prendono corpo in modi diversi attraverso gusti e scelte a volte non condivise. I protagonisti vengono a patti con i loro padri, reali e spirituali, accentandoli anche nelle loro debolezze. L’argomento del padre è sterminato e riguarda tutti noi come figli, come padri o come madri, perché figura in rapido mutamento.
Tea Castiglione
Il contributo di ciascuno allarga, modifica e arricchisce le considerazioni scaturite da questa esperienza di lettura.
Ecco le domande dei nostri lettori:
· Sandrina: “Quando i padri camminavano nel vuoto” – Il vuoto sottintende momenti diassenza dal mondo che ruota intorno? Questo vuoto si ritrova nei figli e neigiovani di quella generazione, quando non si trovavano certezze o risposte amomenti di vita?
· Giovanna: Com’è da intendersi il vuoto del titolo? E i Padri di adesso camminano nelvuoto? Se si è lo stesso vuoto o è un vuoto diverso?
Curti: Quando ero bambino leggevo i fumetti ed ero colpito dal fatto che, nei fumetti, i personaggi potessero camminare nel vuoto fino a che non ne prendessero coscienza. Così avevo almeno due (ma anche più di due) ossessioni: quella di capire come si potessero riconoscere i vivi dai morti (evidente metafora del riconoscere una vita autentica da una vita inautentica), e quella di riconoscere chi cercava di prendere coscienza dei problemi e chi cercava di comportarsi al contrario.
Dunque, camminare nel vuoto significa vivere senza voler prendere coscienza dei problemi per non essere costretto a cadere, cioè a rendersi conto della propria vita fatua, falsa. Che era quello che faceva, secondo me, la maggior parte della popolazione di quella cittadina.
Una precisazione: il libro nasce dalla convinzione che nel dopoguerra, che io ho vissuto, si facesse finta di aver risolto i problemi dell’Italia. Giustamente, la gente cercava di vivere nuovamente, ma contemporaneamente di non porsi molti problemi (almeno in quella cittadina, ma, come si sa, il piccolo è quasi sempre modello in miniatura di quella che succede in grande: quanti problemi irrisolti a partire da quel tempo ci portiamo dietro, addirittura amplifcati? Nella sua presentazione del libro al Circolo dei lettori lo storico Gianni Oliva, concordando con la mia tesi, ci ha gratificati con una splendida Lectio magistralis sul tema). Ne è prova il fatto che il Padre, pur tra tante contraddizioni, cercava di svegliare le coscienze con la sua frenetica attività culturale. Che non ha avuto successo: il successo, temporaneo, era legato all’adrenalina che scatenava con le sue provocazioni, non al fatto che riuscisse a promuovere una seria presa di coscienza nei concittadini.
· Mirella: Innanzi tutto desidero esprimere il mio apprezzamento all’autore per la graziacon cui ha descritto questo padre. A tratti mi è parso di intuire un’inversione diruoli, il bambino sembrava assumersi il ruolo di genitore. È un’intuizionecorretta la mia? Nelle caratteristiche del padre io non vedo la debolezza mal’unica forza che abbiamo come individui: il coraggio di essere noi stessi e ilcoraggio di vivere. Che tipo di padre, in senso ampio ovviamente:genitore/educatore è stato una volta cresciuto il bambino? È riuscito a guidarecon lo stesso talento, libero da ogni forma di costrizione e pregiudizio?
Curti: Questa è la domanda che negli incontri mi è stata posta con maggiore frequenza. Potrei rispondere che questa domanda si dovrebbe (potrebbe) porre a chiunque, e che chiunque dovrebbe tentare di rispondere a questa domanda. L’educazione è la cosa più complessa della vita umana, inizia alla nascita e termina alla morte, e non è possibile sperimentare personalmente che la propria educazione. Per questo è importante questa domanda: segnala che ciascuno di noi ha bisogno di confrontarla con quella degli altri. Ma torniamo alla domanda specifica: la mia è stata una educazione difficile, ma contemporaneamente esaltante. Intanto mi mi ha insegnato la libertà (condizione difficile). Difficile perché mi ha obbligato alla responsabilità: a non camminare nel vuoto. Difficile. Mi ha posto un mucchio di domande, fin da piccolo, insegnandomi che “le vere domande hanno risposte infinite” (come si legge nel romanzo). Mi ha insegnato a non giudicare frettolosamente, ma a capire: capire significa “obbligarsi a trovare la soluzione, obbligarsi a capire”. Difficile perché era difficile mio padre, che soffriva e lottava, senza rete. Difficile, ma produttiva, perché mi ha messo nella condizione di figlio e di padre. Il che mi ha, credo, fatto diventare un padre amoroso, e mi ha spinto a scegliere nella vita il ruolo di educatore: uno che aiuta a trovare la propria strada. Mi pare, con un certo successo.
Ancora: il romanzo racconta anche la generazione dei figli, che probabilmente camminavano anch’essi nel vuoto, convinti però di essere su terreno solido. Avevo, almeno dal tempo del liceo, chiaramente la certezza che la mia generazione si stesse staccando dai padri, e questo molto prima del Sessantotto, e che la nuova generazione fosse lanciata alla conquista del potere. Magari, in piccola parte, con coscienza. In gran parte, no. Lo stesso Sessantotto è stato un movimento ambiguo (anche con molte istanze giuste), dove, come si sa, prevalevano narcisismo e ricerca del potere, anche se non solo.
· Donatella: Mi è sembrato di avvertire una differenza non saprei… di tonalità, di atmosferae forse anche di stile nella IIª e soprattutto nella IIIª parte; il figlio adulto e ilpadre meno fuori dalle righe. Penso non sia casuale, ma…
Curti: Sì, il padre sconfitto e sofferente cercava, come un guerriero ferito, di riprendere le forze e di salvare il salvabile, scaricando la propria bizzarria nella scrittura del romanzo in latino (comunque autentica bizzarria) e di lottare, nel nuovo mondo, ormai mutato, con le armi che aveva a disposizione. E, con debolezze: il tentativo di prendere scorciatoie e di accettare compromessi, per stanchezza, sfiducia, disperazione, ma tentativo abbandonato perché in realtà in conflitto insanabile con la propria etica. E il finale è in tono minore, per sottolineare anche il grigiore del mondo attorno a lui, che ancora una volta ripeteva gli schemi che aveva conosciuto in precedenza: ma stavolta erano le nuove leve, i giovani post Sessantotto, quelli che avevano fatto la rivoluzione contro quegli schemi, che ripetevano gli stessi errori.
E il figlio? Beh, direi che ha introiettato l’impossibilità di accettare compromessi, di giudicare senza capire, di seguire schemi consolidati e ingiusti. Vive “in modo sperimentale”, si potrebbe dire, come fisico della vita: sospende i giudizi, mette alla prova le proprie credenze, accetta l’idea che le domande hanno risposte infinite, e cerca soluzioni umane, che non facciano male agli altri. Prendendo coscienza dei limiti e accettandoli. E questo non gli rende la vita facile, ma perlomeno, nei limiti umani, ragionevolmente giusta: si spera, almeno, che così sia. Senza pretendere di imporre agli altri la propria visione del mondo, restando possibilista, accettando di metterla in discussione, attento alla sofferenza altrui: come si dovrebbe essere.
· Gina: L’abbandono del cane, perché questa mancanza di coraggio nel tenerlo?
Curti: Una storia terribile, che ha segnato me per tutta la vita, ma che ha segnato anche mio padre. Che poi per tutta la vita ha avuto cani presi al canile, a cui ha dato il nome di quel cane.
Il racconto segnala la sua difficile crescita (padre e figlio crescevano, nell’educazione si cresce in due), la sua mancanza di coraggio, che ammetteva, ma, come per il leone del Mago di Oz, ha poi mostrato di avere coraggio per tutta la vita, quando davvero era difficile averlo, nei momenti in cui si sarebbe giocato il futuro, e nei quali avrebbe pagato caramente la scelta coraggiosa. Per cui, nessuno sconto, ma onore al fatto che mio padre ammetteva sempre i propri errori e non pensava di meritare sconti.
Avrebbe potuto tenerlo? Sì, ma: io credevo di essere colpevole, perché avevo terrore del cane, e non facevo niente (non potevo) per vincere il terrore. Un terrore tale che nessuno riusciva a rassicurarmi. Lui non sapeva come fare. Aveva chiesto a qualcuno che gli aveva detto di farlo ammazzare. In quel mondo non si era teneri con nessuno, tantomeno con gli animali. Lui credeva di rendermi responsabile accollando a me la scelta. Ma era una vigliaccheria. Voleva liberarsi del problema, assillato com’era da tutti i guai che lo assediavano. Certo, lui non sapeva come domare il cane. E anche lui si sentiva colpevole di non sapere come fare: devo dire, nelle cose pratiche era un totale imbranato. Comunque non si è mai perdonato. E io non l’ho mai perdonato. E perfino da grande mi ha chiesto scusa. Chissà se questa è una giustificazione sufficiente? Da quella storia ho imparato molto, comunque: che non si scarica mai sugli altri una tua responsabilità. E che si impara anche dalle cose ingiuste, se si vive in un clima in cui si cerca la verità.
Grazie a tutti per le domande, intelligenti e molto centrate.
Nell’incontro in presenza avremo il piacere di conoscerci, di chiacchierare, di parlare, male o bene, del libro, e di noi, che è quello che conta.
Nota: a proposito di educazione.
Il libro può essere visto, come detto, come incentrato sul problema dell’educazione. E come ho detto, il problema vissuto mi ha spinto ad occuparmi di educazione. Ho insegnato nella scuola per molti anni, in particolare al liceo, poi sono passato all’università. Sono specializzato in didattica della matematica e ho scritto dieci libri di matematica per vari ordini di scuola e uno per l’università, e tre libri di fisica per il liceo scientifico. Per sette anni ho avuto una borsa di studio del CNR, nella facoltà di matematica, in didattica della matematica, e per dieci anni sono stato responsabile della formazione scientifica nei laboratori di pedagogia fondati da Francesco de Bartolomeis e diretti da Piero Simondo. Inoltre sono stato comandato al Piano nazionale per l’informatica e all’Irrsae Piemonte, istituto di ricerca pedagogica.
Questo il frutto della mia educazione? Forse non tanto, o non solo. Il frutto è stata la mia concezione dell’educazione, che ho cercato di praticare sul serio: se non capisci (matematica, fisica) il problema riguarda me e te. E insieme troviamo la strada per capire, in primo luogo, a cosa serve a te, nella tua vita, la matematica. E quale matematica. E se questa fosse per ora poca, l’importante è che tu rimanga aperto alla matematica e che sia pronto quando ti servirà. Tocca al docente, all’adulto, dimostrare che la matematica serve per leggere il mondo, e per te. La risposta, alla domanda implicita che chi non ama, o non crede di amare la matematica, pone, è sempre la stessa: a me, ai miei problemi di adolescente, che serve la matematica? Mi sono posto sempre, di fronte a questa domanda, come un padre che non vuole che il figlio si perda: troviamo insieme la risposta. Proviamo ad avere entrambi pazienza, non perdiamo il contatto. Io cerco di capire te, tu cerca di farti capire. Io aspetto, e non ti perdo. Io non ti giudico, rispetto le tue difficoltà. Tullio De Mauro aveva sperimentato che cinque anni dopo che si è concluso lo studio di una materia si retrocede di cinque anni rispetto alla conoscenza. Io confermo che chi termina il liceo, dopo forse meno di cinque anni, se non ha scelto una facoltà scientifica, non sa più quasi nulla di matematica. Perché ha perso tanto tempo inutilmente? Serve davvero immagazzinare con terrore ricettari da cucina matematica e formule che si squaglieranno in un tempo brevissimo, lasciando una immagine distorta, oppressiva, triste della matematica? Quando ero docente al Piano per l’introduzione dell’informatica (anni ’87-89), alla seconda settimana di corso facevo svolgere un tema ai miei allievi, tutti illustri docenti dei trienni di scuola superiore: che immagine della matematica veicolo ai miei studenti? I risultati erano deludenti e banali per la maggior parte dei casi: una visione impoverita e orrorifica della matematica.
Ho sempre lottato per questo. Se mi guardo attorno, ho perso (ma non con i miei allievi).
Qual’è stato il particolare e il tuo stato d’animo quando hai scoperto questo libro? Perchè hai deciso di farlo conoscere in Italia?
Ho vissuto la sorpresa di quando si scopre un autore sconosciuto per motivi misteriosi perché la sua opera è invece di grande valore. Klopstein appartiene alla grande tradizione ebreo-americana, anzi ne è uno dei precursori, perché viene prima di Bellow e Roth. Ma in lui echeggia anche Kafka. E non è una sorpresa che i suoi dialoghi surreali affascinassero Chanlder.
Spesso si sente dire che la lettura svolga un ruolo curativo, secondo te la scrittura ha anche lo stesso ruolo? Stesso vale anche per la traduzione?
Credo che la letteratura – parlo di questo tipo di lettura, almeno – debbano essere prima di tutto intrattenimento. Klopstein lo è, anche se poi in tutta la sua narrativa c’è un percorso esistenziale, domande sull’arte e sulla vita
Se questo libro che hai tradotto fosse un medicinale che medicinale sarebbe? E pensando ai bugiardini che accompagnano appunto i medicinali, quali potrebbero essere gli effetti collaterali?
Sarebbe un placebo. Zero effetti collaterali. Semplice acqua che diventa magica per chi ci vuole credere.
C’è una domanda che avresti voluto ricevere e che nessuno ti ha mai fatto sul tuo mestiere? Provi a rispondere a questa domanda?
Vorresti campare con la scrittura? Risposta. Sì.
Sulla base dei libri precedenti che hai tradotto, cosa rappresenta questa traduzione? In fin dei conti tradurre significa anche riscrivere, reinterpretare, pensi che ogni scrittura sia trovare un pezzo di te? Oppure lasciare un pezzo di te?
Questo è uno dei libri più intimi e personali che ho tradotto. Sento questo autore molto vicino, ogni tanto mi sembra quasi di personificarmi in lui. I libri che scrivo come autore sono molto diversi da quelli di Klopstein, ma anni fa, quando ho iniziato a scrivere, sognavo di realizzare un libro sciolto, diretto e agile come “I perdenti”. Credo di averci messo dentro questo di me, quel pezzo del mio passato che oggi rivive attraverso Klopstein.
Ecco la postfazione del traduttore che accompagna il romanzo uscito ieri 16 novembre!
Ci sono pochissime informazioni riguardo ad Aaron Klopstein, scrittore ebreo-americano nato a Tysmenitz in Galizia, oggi in Ucraina, nello stesso paese dove nacque Henry Roth. I due scrittori, di fatto, avevano solo un anno di età di differenza e si incontrarono qualche volta a New York e in seguito a Yaddo, come risulta dalle carte di Henry Roth custodite dall’American Jewish Historical Society. Probabilmente, chissà, chiacchierarono di scrittura e di celebrità, e del perché, per motivi diversi, il mondo delle lettere pareva ignorarli. Henry Roth ebbe un lungo blocco creativo, dopo Chiamalo sonno, che lo portò a mollare la scrittura per decenni e a tornare con il fluviale Mercy of a Rude Stream solo in tarda età, quando alcuni critici importanti già avevano riscoperto quel suo primo romanzo e lo avevano eletto a genio dimenticato. Il percorso di Klopstein fu diverso, ma altrettanto sofferto. Pubblicò sempre in poche copie, gettò via un sacco di idee, non raggiunse mai la fama, eppure per i suoi amici, per le persone che lo conoscevano intimamente (Raymond Chandler, Hedda Hopper, John Houston, e in qualche modo anche Ernest Hemingway), era lo scrittore di maggior talento della sua generazione. Il suo nome comparve solo qua e là saltuariamente, divenne leggendaria la sua abitudine di scrivere i libri “ a memoria ” prima di stenderli su carta. Lavorava a mente, come un aedo, sviluppando le proprie storie attraverso una tradizione orale che lui stesso creava; giorno dopo giorno, nei circoli artistici che frequentava, si presentava narrando nuovi episodi della storia a cui stava lavorando. Tutti gli copiavano idee mentre lui solo saltuariamente si prendeva la briga di battere a macchina quello che aveva elaborato. Furono soprattutto i suoi amici più stretti a insistere e a convincerlo, anche perché Klopstein, con la sua vita estrema, versava sempre in enormi difficoltà economiche. Si racconta che già a quindici anni, sulle terrazze del Lower East side, la gente si raccoglieva attorno a lui per sentirlo raccontare. Le sue erano storie che partivano dal quartiere ebraico di New York ma poi diventavano altro, diventavano sogni, allucinazioni, favole universali. E presto, dal Lower East Side, si mosse verso gli ambienti culturali più vivi della città per conoscere gli scrittori – i colleghi – che a volte, per lui, si rivelarono una grossa delusione. Hedda Hopper racconta di come Hemingway si impossessò di uno di quei raccontini “ orali ” di un giovanissimo Klopstein per farne una delle sue short story più celebri. Da qui nacque uno scontro, un’antipatia, una gelosia che forse costò la carriera a Klopstein. Per quanto riguarda l’altro grande scrittore americano dell’epoca, F. Scott Fitzgerald, si sa che i due si frequentarono e che c’era simpatia, e poco altro. Si sa che si consigliarono dei libri reciprocamente, e che chiacchierarono un paio di volte di letteratura americana. Questo ce lo racconta la scrittrice del Nebraska Sarah Ferguson, che con Klopstein ebbe una relazione piuttosto tormentata (fu, a tutti gli effetti, la sua femme fatale). Klopstein comunque scrisse e pubblicò, anche se in poche copie. Tre romanzi (The Chinese Magician, I perdenti e Bay) arrivarono quasi a ottenere una tiratura più alta, ma c’era sempre qualcosa che si metteva in mezzo. Spesso il carattere di Klopstein, dipendente dall’alcol, umorale, non amante dei compromessi, volubile. In ogni caso furono, dei suoi sette romanzi messi su carta (altri ce ne sarebbero stati se fosse stato possibile fermare nel tempo le storie da lui raccontate oralmente) quelli più fortunati (anche se di piccola fortuna si tratta). Anni dopo, quando il nome di Klopstein fu riscoperto per caso grazie a Barry Day e al suo lavoro su Chandler, furono questi romanzi che emersero per primi. Da allora (stiamo parlando solo di una manciata di anni fa) si è creato un piccolo culto attorno all’opera dello “ scrittore maledetto ”. Intanto, è emerso il suo ruolo nel sottobosco della cultura newyorchese prima e di quella losangelina in seguito. Si è parlato molto dei suoi demoni privati. Soprattutto, le sue pubblicazioni originali, come la copia de I perdenti, con appunti a mano di Raymond Chandler, sono diventati pezzi da collezione, da cultori, battuti all’asta per migliaia di dollari. È emerso il suo ruolo a Hollywood, il sogno di fare l’attore, l’amicizia fraterna con John Houston. La morte tragica – suicida al Greenwich Village – già prefigurata prima per scherzo da Raymond Chandler, quasi come se Chandler fosse il Conte di Saint Germain. Il suo nome ora colpisce gli occhi dei suoi ancora pochi cultori, che lo ritrovano in corrispondenze private, che lo vedono emergere ogni tanto in appunti di autori molto più fortunati. Forse, lentamente, questa fortuna si sta riversando anche su di lui, il più misconosciuto autore ebreo-americano. In questo senso, il recente ritrovamento del profilo di Klopstein a opera di Hedda Hopper (manoscritto che ringrazio Diego Bressan per avermi aiutato a decifrare) è una preziosa fonte di informazioni. Chi era Klopstein? Che cosa si nasconde dietro il suo percorso assolutamente anomalo? Forse, come pare sperare Louis Berenstein dei Perdenti, una redenzione c’è e anche per Klopstein ora è il momento di essere recuperato e salvato dal tempo.”
Quanti di voi conservano a casa dei vinili? E i 78 giri li ricordate? Di CD ne acquistate ancora? La storia dell’Industria discografica italiana ha radici indietro nel tempo e molto è cambiato da quando Ricordi era una edizione musicale di spartiti (sembra incredibile ma senza i supporti fisici, l’unico modo per ascoltare musica era… suonarla!). Ne parliamo a #Bookmania oggi insieme a Vito Vita, esperto musicale, giornalista e musicista, che ha raccolto nel suo libro “Musica Solida” (Miraggi Edizioni) oltre 100 anni di storia, tracciando le tappe chiave di un industria che da “solida” è diventata ora “liquida” (o gassosa 😉 ).
Luca Quarin vive a Udine, dove è nato (1965) e dove si occupa di ambiente, design e architettura.Di sangue e di ferro (Miraggi edizioni, 2020)è il suo secondo romanzo. Il primo, Il battito oscuro del mondo, Autori Riuniti, 2017, vincitore del Premio Letteratura dell’Istituto Italia di Cultura di Napoli e del Golden Book Awards) era ambientato negli Usa, il secondo affonda le radici in patria, in Friuli, terra d’origine dell’autore. Scelta ben ponderata, che mescola realtà e finzione, come egli stesso ci spiegherà.
[Marco Quarin] Cominciamo dal titolo del tuo nuovo romanzo: Di sangue e di ferro. Se permetti lo sfrutterei subito per spiegare l’arcano dello scrittore Quarin intervistato da un altro Quarin: di sangue la lontana parentela, di ferro l’amicizia. Soddisfatta la curiosità del lettore, in breve cosa ci racconta la trama di Di sangue e di ferro? [Luca Quarin] Il protagonista del romanzo, Andrea Ferro, è un quasi cinquantenne che vive ancora come un ventenne: ciondola in un limbo indefinito facendo l’assistente in università, canta canzoni country in un locale di periferia, aiuta un amico a mandare avanti una casa editrice, insegue una vecchia adolescente come lui, Silvia, che lo abbandona in continuazione e fugge in altri luoghi del mondo, con altri uomini. Ma un giorno il suo disequilibrio si infrange. L’amico gli sottopone uno “strano romanzo”, che con il passare dei giorni si intrufola nella sua vita. L’agonia della nonna lo costringe a ritornare nella sua città d’origine. Comincia così la discesa di Andrea in un tempo che si è sempre sforzato di dimenticare. Le vicende della destra eversiva negli anni settanta. L’attentato di Peteano, nel 1972, e il depistaggio che per dodici anni ha impedito di conoscerne i colpevoli.
Da dove è venuta la storia? Quando e come è nata? L’idea di questo romanzo è nata sei o sette anni fa da una serie di discorsi fatti con Bruna Graziani, la fondatrice del festival Cartacarbone, l’unico festival in Italia dedicato alla scrittura autobiografica, e dalla presentazione del libro di Walter Siti Resistere non serve a niente. Mi era rimasto il desiderio di dire la mia su autobiografia e autofinzione, provando che la prima è impossibile e la seconda immorale.
La strage di Petano del 1972, l’eversione nera nel Friuli terra di confine. Perché hanno attirato il tuo interesse? Perché è il prototipo di come i fatti diventano storia, a prescindere dalla verità. Le domande suscitate dall’esplosione del 31 maggio 1972 nella popolazione friulana e italiana in generale (che cosa è accaduto? che cosa sta accadendo? chi è stato?) hanno trovato nei mesi successivi una risposta che non aveva niente a che vedere con l’attentato – un attentato contro lo Stato compiuto da una cellula di neofascisti che non accettava la svolta neo-governativa di Almirante -: l’arresto di sei ragazzi goriziani e il conseguente processo. La verità è emersa dodici anni dopo, quando Vincenzo Vinciguerra ha confessato al giudice Casson i retroscena della vicenda, senza però riuscire a incidere sulla memoria storica tanto che ancora oggi si parla di Peteano come un momento della strategia della tensione, quando è stato l’esatto contrario.
Da un lato c’è la Storia (le date, gli eventi, i fatti ri-costruiti dagli storici) dall’altro le storie dei singoli che pochi, perlopiù romanzieri, raccontano. Cos’è per te la Storia? Borges sosteneva che fosse uno strumento per riprodurre la realtà, sottintendendo, forse, che realtà e verità difficilmente coincidono. Mi pare che la Storia sia una necessità umana di dare ordine e soprattutto significato alle macerie che i fatti lasciano sempre alle loro spalle. Dunque la Storia esiste senza dubbio come necessità ed esiste anche come pratica. Si tratta di una pratica laboriosa, molto artigianale, per cucire insieme i fatti all’interno di un sistema semantico che comunemente chiamiamo “struttura narrativa”, l’unico modo che conosciamo per continuare ad attraversare le ombre che formano la realtà. Un filo di Arianna che apparentemente ci impedisce di perderci nel nulla ma che probabilmente ci trattiene all’interno del labirinto da cui cerchiamo di uscire.
Come collocheresti questa tua nuova opera rispetto alla precedente (Il battito oscuro del mondo, Autori Riuniti, 2017)? Dopo Il battito oscuro del mondo ho sentito il bisogno di sfidarmi su due temi che non ero stato in grado di affrontare, la mia esperienza personale e i luoghi in cui questa si è svolta. Volevo scrivere una storia friulana che avesse a che fare con me. Ne è venuto fuori un romanzo più intimo del precedente, come era ovvio, che guarda il mondo da un altro punto di vista, quello del racconto che ognuno di noi fa a sé stesso del proprio vissuto.
Da lettore, ho avuto l’impressione che la tua scrittura oscilli tra il diurno, in cui metti in gioco le tue idee, meglio ideali, e il notturno, in cui fai i conti con i demoni, con “i sosia che abitano nel profondo del nostro cuore”, per citare Magris. Se è così, è una scelta consapevole? La figura del sosia è molto presente nella mia scrittura, dai tre John Ogden de Il battito oscuro del mondo ai due Quarin di Di sangue e di ferro. Come l’identità si forma nel riverbero degli altri, così la scrittura si forma nel sonnambulismo della realtà, tra la luce del sogno e il buio di quello che accade, in un processo che è sempre incomprensibile benché si verifichi in continuazione.
Cos’è per te fare letteratura? “Nuotare sott’acqua trattenendo il fiato” (Francis S. Fitzgerarld) come suggerisce la copertina de Il battito oscuro del mondo? E cosa ne pensi dell’assioma calviniano “la letteratura vale per il suo potere di mistificazione, ha nella mistificazione la sua verità”? La letteratura è l’unico modo che conosco per cucire insieme tutto quello che bolle dentro di me e che nella realtà non riesce a trovare un posto comodo dove stare. Ricardo Piglia sosteneva che l’unica cosa reale che ci accade è la letteratura.
«A volte sembra che i libri siano un bene accessorio, come tutta la cultura, il teatro, il cinema, la musica, i concerti, ma in realtà non ne possiamo fare a meno» dice Alessandro De Vito (1971), italiano con radici ceche e allo stesso tempo traduttore e editore della casa editrice Miraggi, che nella collana NováVlna pubblica una serie di autori cechi, da Karel Čapek a Markéta Pilátová. Abbiamo parlato dell’interesse per la nostra letteratura in Italia e di come il mercato librario di quel paese sia stato colpito dalla crisi del Coronavirus.
Come è nato per lei l’amore per la cultura ceca?
La cultura ceca è un’eredità di famiglia, mia mamma è di Ostrava. I miei genitori si sono conosciuti in Bulgaria, al mare, nell’estate del 1967, e si sono visti 2 o 3 volte nel 1968 in Cecoslovacchia e in Italia. Mio padre era un giornalista, e ha avuto la fortuna di vedere e vivere la Primavera di Praga, e allo stesso tempo la sfortuna di ripartire per l’Italia il 20 agosto 1968, il giorno prima dell’invasione. Si sono sposati nel 1969, e da allora hanno sempre vissuto in Italia, dove sono nato. Ogni anno venivamo ad Ostrava dai nonni per le vacanze, e lì da piccolo ho imparato la lingua, in famiglia e dai ragazzi con cui giocavo, a Sleszká Ostrava.
Lei ha studiato Storia del cinema e ama il cinema ceco. In che modo si è occupato della nostra cinematografia?
Ho sempre vissuto con il mito del cinema cecoslovacco degli anni Sessanta, di quel gruppo di “brillanti giovani uomini e donne”, come li definì Škvorecky, che ebbero un’importanza molto grande in quegli anni e non solo per il cinema ma per l’intera società. Per questo per me è stato naturale, sfruttando un po’ la conoscenza della lingua, svolgere la tesi di laurea sulla Nová Vlna. E non è un caso che, anni dopo, il primo libro che ho tradotto sia statoVolevo uccidere J.-L. Godarddel regista Jan Němec, che ho avuto la fortuna di conoscere poco prima della morte.
Nella collana ceca che pubblica la nostra casa editrice ci sono altri punti di contatto con quella stagione del cinema ceco: Il bruciacadaveridi Ladislav Fuks, La perlina sul fondo di Bohumil Hrabal, e l’anno prossimo tradurremo proprio la storia personale del cinema ceco di Škvorecky, Tutti quei brillanti uomini e donne, che ho citato prima.
Quale è stata in Italia la risonanza della recente morte del regista Jiří Menzel?
Jiří Menzel, come Jan Němec e Miloš Forman, sono stati ricordati sulla stampa, e proprio grazie alla pubblicazione dei nostri libri siamo riusciti a far proiettare alcuni dei film della Nová Vlna al cinema, a Torino e a Trieste. Per ora tutto è interrotto a causa del Coronavirus, ma abbiamo intenzione di ripetere l’esperienza.
Nella collana NováVlna pubblicate letteratura ceca, da opere di Bohumil Hrabal e Ladislav Fuks fino ai libri di Bianca Bellová e Pavla Horáková. Come scegliete i libri?
Stiamo seguendo due direzioni, è una nostra idea di letteratura. Da un lato autori (più autrici) contemporanei, da un altro il recupero di grandi classici purtroppo dimenticati o mai tradotti in italiano.
Tutti rispondono ai requisiti di qualità e particolarità che li rendono interessanti anche per il lettore italiano, anche se sono molto differenti uno dall’altro. Si tratta di letteratura, e non narrativa di consumo. Bianca Bellová, ma anche Tereza Boučková, Jan Balabán o Ladislav Fuks sono voci uniche e irripetibili.
E nel caso di Pavla Horáková e del suo romanzo La teoria della stranezza mi è piaciuto molto l’uso che fa di un humour intelligente per descrivere il nostro tempo e disillusione della generazione degli odierni quarantenni. Il suo romanzo si può leggere come una serie su Netflix. Il lettore segue la protagonista nelle sue quotidiane e naturalmente “strane” vicissitudini, e in breve se ne innamora.
Altri temi a cui tengo molto sono la questione femminile nella nostra epoca e l’importanza della libertà, che ci viene ricordata sia dalle storie su guerra, olocausto e nazismo, sia da quelle che ci riportano alla vita sotto il totalitarismo comunista. Credo che sia sempre fondamentale mantenere viva la memoria.
Qual è l’eco delle traduzioni di letteratura ceca nel suo Paese?
Noi siamo una piccola casa editrice, e anche se il nostro progetto è ambizioso non è facile uscire dall’angolo. Direi che la collana è apprezzata, che sta crescendo, e che abbiamo riscontri positivi. Trovavo assurdo che molti dei nuovi talenti e tanti grandi autori classici cechi non fossero disponibili in italiano se non in modo non sistematico.
Credo che la casa editrice stia facendo un buon lavoro; allo stesso tempo è vero che ora per le nostre vendite non si può parlare di grandi cifre. Cerchiamo di fare il massimo del possibile.
Ha cominciato anche a tradurla, la letteratura ceca. Durante la traduzione dal ceco all’italiano, incontra qualche specifica difficoltà?
Se non ci fossero difficoltà non ne varrebbe la pena. Le difficoltà cambiano a seconda degli autori, alcuni hanno una lingua più facile, altri presentano espressioni quasi intraducibili, che mettono in difficoltà anche il lettore ceco, come accade per Hrabal.
Un caso particolare è stato il libro di Markéta Pilátová Con Bata nella giungla, in cui i personaggi spesso si esprimono nel dialetto dello Slovácko o della Haná. Ma è stato più divertente che difficoltoso. Mi ha aiutato il fatto che metà della mia famiglia ceca ha origini di quelle parti.
Io mi occupo anche della rilettura delle traduzioni degli altri traduttori, come la nostra bravissima Laura Angeloni. Abbiamo poi la possibilità di avere i consigli del disponibilissimo boemista prof. Alessandro Catalano, e credo che sia un fatto abbastanza unico, e ci dia tranquillità per quanto riguarda la qualità.
Come è stato colpito il mercato librario italiano, compresa la sua casa editrice, dalla pandemia?
Il mercato del libro è stato colpito duramente, calcoliamo di aver perso quest’anno circa metà del fatturato, e l’attuale seconda ondata di contagi probabilmente peggiorerà le cose.
Miraggi, la mia casa editrice, ha limitato i danni proprio perché molto piccola, non abbiamo molte spese fisse e siamo una struttura leggera e flessibile. Dovremo cercare idee nuove e innovative, per poter continuare il nostro lavoro. Credo però che tutto andrà a finire bene.
A volte sembra che i libri siano un bene accessorio, come tutta la cultura, il teatro, il cinema, la musica, i concerti, ma in realtà non ne possiamo fare a meno. Pubblicheremo meno, e meglio. Vogliamo e dobbiamo restare fiduciosi nel futuro. È nella natura dell’uomo. Certamente pubblicheremo meno, ma forse meglio e con ancora maggiore qualità. Dobbiamo restare fiduciosi nel futuro.
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