Francesco Forlani, sembra manifestare una certa renitenza ad essere qualcosa, o almeno qualcosa di fissato. Forlani è infatti un dissipatore, un dispositivo di dispendio che esiste in quanto si rilascia e sperpera nel mondo. Forlani si produce nel mancare a se stesso, è quella cosa che è dove prima sarebbe stato, e dove dopo era stato, perché non è mai quello che è appena stato e che sta or ora per essere. È una migrazione continua, un esiliarsi incessante, una sparizione perpetua, che, come certi animali selvatici, è identificabile solo dalle tracce del passaggio, borre, escrementi, carcasse delle vittime, impronte, ricordi annebbiati. Con termine moderno, è il performativo, o il processuale, colui che si definisce in itinere. Ne consegue che la sua dimensione esistenziale è il viaggio, quella narrativa il romanzo picaro, quella espressiva e stilistica, di volta in volta, il video extravagante, la performance teatrale, la scrittura evasiva e noncurante, o addirittura, quella sorta di linguaggio extradoganale e metastorico che si è inventato a proprio uso, e che si potrebbe chiamare il forlanese. Infine per Forlani vale molto l’amicizia, che è quella forma di rapporto sociale libero e liquido, come si dice oggi – il solo non istituzionalizzabile – che gli permette di amare senza essere qualcosa.
Questo scriveva il poeta Livio Borriello di te in occasione dell’uscita di Parigi, senza passare dal via (Contromano-Laterza). Ti riconosci in questo identikit?
Molto e ricordo che in occasione dell’uscita del manifesto del comunista dandy (ed Miraggi) anche il critico letterario Francesco Durante, riprendeva questo tema della mobilità e mi definiva «tra i personaggi più interessanti del nuovo underground letterario italiano». Sono di quelli, non tantissimi, che non vivono di letteratura ma per la letteratura. Underground per me significa aristocrazia che distingui con un solo colpo d’occhio dal sottobosco culturale che vive e vegeta nel paesaggio italico contemporaneo. Da cinque anni sono tornato a Parigi.
Se penso al tuo passato, rimango colpito da quei tre anni che hai trascorso a Napoli come allievo della Scuola Militare Nunziatella. Conoscendoti mi chiedo come mai quella scelta e come ne sei uscito.
Un mio amico editore e gallerista Andrea Semerano, della Camera Verde di Roma, con cui ho condiviso molti bei progetti, diceva che l’umanità si divideva tra chi era stato in collegio e chi no. Penso che sia vero perché l’essenziale di una vita per uomini e donne, si forma in quella età dell’adolescenza. È alla Nunziatella che ho scoperto il valore dell’amicizia, della parola data, il senso che trovi alla sofferenza solo quando è condivisa e soprattutto la forza della mia vocazione letteraria che faceva i conti con una carriera militare tutta in discesa che sarebbe stato utile e conveniente perseguire. E invece no, dovevo fare della mia vita quello che sapevo avrei amato che fosse e mi iscrissi a filosofia. Ricordo che all’epoca mi riconoscevo nei Mods, e il mio amico di Frosinone Stefano Stirpe mi aveva fatto conoscere tutto il mondo delle fanzine e il meglio dell’underground compreso Rockerilla. Alla Nunziatella esistevano delle vere e proprie micro comunità legate all’Underground e questo non deve meravigliare più di tanto se si pensa che da quella scuola era uscito quindici anni prima il fondatore dei Bisca, Giancarlo Coretti e ancor prima Eugenio Barba dell’Odin Teatret fondato ad Oslo.
Sei originario di Caserta, frequenti spesso l’Italia e la tua Terra ma hai deciso di vivere a Parigi. Qual è il motivo di questa scelta?
Le mie radici me le porto a spasso da sempre facendo attenzione ogni tanto a fargli risentire l’odore della terra dell’origine. Per farti un esempio, il progetto della rivista Sud che porto avanti dal 2003 con Giuseppe Catenacci, presidente onorario degli ex-allievi, ha sempre avuto base a Napoli, al Rosso Maniero della Nunziatella e attraverso la rivista sono riuscito a mantenere attiva la “cellula” creativa e soprattutto affettiva di tante persone con cui avevo mosso i primi passi. Parigi è la città in cui sono nato tipo tre secoli fa e con cui mi sono ricongiunto per necessità di destino. Ad Aprile esce un mio nuovo romanzo che ho scritto in francese per l’editore Leo Scheer, e questa cosa s’iscrive nell’estetica della dissipazione di cui parlava Livio Borriello voce tra le più significative, insieme a Viola Amarelli, della terra irpina.
Da frequentatore di circoli (che brutto termine) letterari indipendenti, come vedi la situazione della nostra letteratura ‘indie’, uso un termine desueto ma esemplificativo. Diversamente della nostra musica in pieno conflitto e disfatta – salvo rarissimi casi – contro l’appiattimento verso il basso, esistono realtà combattenti?
La vedo in piena forma nelle forme che conosco e in qualche caso frequento. Innanzitutto a livello editoriale ci sono molte realtà relativamente giovani che hanno occupato lo spazio della qualità letteraria disertato dall’editoria storica e tradizionale. Potrei citarti innanzitutto la casa editrice torinese Miraggi di cui seguo alcuni progetti ma anche le romane l’Orma, NN, Exorma, i napoletani della Wojtek, la cagliaritana Arkadia, gli abruzzesi della Neo, Transeuropa a Massa, la romana Fefé, Liberalia a Bari, La città del sole, di Reggio Calabria, la casa editrice Zona di Caserta, e altre decine di belle realtà che potremmo definire indy. Per quanto riguarda la Rete il discorso non cambia. Le reti carsiche dei blog collettivi continuano il loro lavoro ininterrottamente contro ogni profezia che ne decretava la fine con l’avvento di Facebook. Lo stato di salute di realtà come Minima Moralia, Le parole e le cose, Nazione Indiana di cui faccio parte da una quindicina d’anni mi sembra invece contraddire tali previsioni e premiare il carattere esploratore e visionario dell’Underground.
Siamo ospiti di pagine che si occupano prevalentemente di dischi, anche se la sezione letteratura è ben rappresentata. Chi ti segue, al pari di chi segue un musicista, colleziona i tuoi libri. Amerei tu ne parlassi, descrivessi la tua bibliografia così come si fa con una discografia, dalle ispirazioni iniziali ai contenuti dei vari volumi.
Sai che facciamo? Li metto in fila e li associo a una traccia tipo Mix.
2020 Par-delà la forêt (romanzo)Léo Scheer,
Tear Drop MASSIVE ATTACK
2019 Penultimi (poesie e prose illustrate)Miraggi,
Le vent nous portera NOIR DÉSIR
2017 Peli (pamphlet) Fefè,
Das Model KRAFTWERK
2015 Manifesto del comunista dandy Miraggi,
Internazionale FRANCO FORTINI – IVAN DELLA MEA
2013 Parigi, senza passare dal via, Laterza,
Redemption Song JOE STRUMMER & THE MESCALEROS
2012 Il Peso del Ciao (poesie) Arcolaio,
As time goes by BRYAN FERRY
2012 Turning Doors (romanzo) Quinta di Copertina,
(I can’t get no) Satisfaction DEVO
2011 Le chat noir (graphic novel) con Raffaella Nappo, Camera Verde,
Vienna ULTRAVOX
2010 Blu di prussia (poesia erotica) con Dinahrose, Camera Verde,
All of Me BILLIE HOLIDAY
2009 Autoreverse (romanzo), Ancora del Mediterraneo,
Love Will Tear Us Apart JOY DIVISION
2008 Manifeste du communiste dandy, La camera verde,
Je suis snob BORIS VIAN
2002 Métromorphoses (racconti),Nicolas Philippe,
Psycho Killer TALKING HEADS
1990Posti a sedere per la Primavera (romanzo), Pleiadi,
Abbassando AVION TRAVEL.
Leggendoti si comprende che il confine tra prosa e poesia per te è assai indistinto. Mi riferisco particolarmente a Penultimi, il tuo toccante ultimo volume da poco uscito per Miraggi, edizioni di cui parleremo più ampiamente in seguito.
Credo di avere lo spirito del jazzista, ed è come se ingaggiassi sempre una sfida con il pensiero, la storia, attraverso la frase. Ho bisogno di un ritmo sulla pagina, e a seconda dei tempi, che si tratti di poesia o di prosa, di teatro o di canzoni, ho sempre disegnato le frasi secondo una metrica, un tempo. Da questo punto di vista devo dire che molto ha contribuito un lavoro quasi trentennale con musicisti. Penso a Rosario Natale, violinista, Massimiliano Sacchi, dei Ringe Ringe Raya, a certe incursioni con Canio Loguercio, Sacha Ricci, con il clarinettista Louis Sclavis, Marco Rovelli, Rosario Tedesco, con il sassofonista Gianni D’Argenzio, con Lamberto Curtoni violoncellista e alla recente esperienza al Nexst di Torino insieme alla Lite Orchestra di Verona. Ma è soprattutto con Massimiliano e Franck Lassalle, fisarmonicista, che lavoro dagli anni novanta. E quando scrivo li sento vicino anche se il lavoro non è destinato a un progetto musicale. Questo ritmo, devo ammetterlo, lo sento davvero compiuto nella lingua che mi sono inventato per il teatro, e penso allo Zazà et tuti li ati sturiellet, o al recente Miss Takeche abbiamo portato in scena con Sergio Trapani all’Istituto di Cultura di Parigi più di un anno fa.
“C’era che nel passaggio, sulla tratta i vetri lasciavano vedere la preghiera dei penultimi, la trasparenza”. Voglio iniziare con questa frase che racchiude in poche parole l’essenza stessa del tuo ultimo viaggio, sia fisico che letterario: Penultimi. Parlacene.
Il termine viaggio è quello più appropriato perché proprio di viaggio si è trattato, in senso iniziatico oltre che di trasporti presi alle cinque del mattino per andare nelle periferie in cui insegno. Un’iniziazione fatta di silenzi e cose, in un ordine quasi soprannaturale, metafisico come ha osservato un amico poeta Eugenio Tescione a una recente presentazione dei Penultimi. Una metafisica laica, se è possibile, in cui ogni giorno si disegna una cartografia di volti che sono facce, fatica ma anche ostinazione alla vita. Qualcosa che allo stesso tempo è rituale, in un tempo che si fa scandire per giungere in tempo, e nuovo, ogni volta perché si è in una forma di disponibilità al mondo, alle cose e ogni volta succede che le cose ti parlino. Io lo chiamo attraversare il mondo da antennisti.
Non ultimi ma penultimi, perché?
Mi sono ispirato a un passaggio dell’Abécédaire di Gilles Deleuze. Una lunga galoppata video-filosofica in cui ogni lettera introduce un concetto. Deleuze alla lettera B come il bere, racconta del rapporto che gli alcolizzati hanno con l’ultimo bicchiere, quello della staffa, quello dell’ultimo giro, che in realtà è sempre penultimo. Penultimo perché ci si ferma a quello, più o meno coscientemente, per permettere la successione con il primo del giorno dopo. Se si cedesse all’ultimo si andrebbe incontro alla morte. I miei penultimi rappresentano un’umanità che è prima della fine. Gli ultimi sono quelli che prendono la metro alle sei e mezza, alle sette, e si accalcano, si spintonano, si mandano affanculo, protestano, hanno facce annerchiate, incazzate. I penultimi, no. Nonostante l’ora, le cinque e mezzo, hanno un sentimento quasi collettivo di stare al mondo e ne condividono la fatica, l’ingiustizia dello sforzo che soprattutto a una certa età lo senti.
Nell’irruenza delle parole usate da Biagio Cepollaro nella nota critica al libro, leggiamo: “Forlani salta l’attrazione del male e ne parla bene. La letteratura quindi viene costretta a fare il suo mestiere: dire la bellezza proprio nel momento in cui dice una scomoda verità. Anche se questa verità fa propriamente male”.L’eco di queste parole si riverbera lungo tutte le pagine del tuo testo. Giunge anche tra le righe dedicate alla violenza causata dal terrorismo, quando siamo diventati altro, scrivi. Cosa siamo diventati, Francesco, e cosa ti ha insegnato questa tua esperienza ai margini della notte?
E del giorno, aggiungerei. Che per me è come seguire un corso di umiltà, non che ne avessi veramente bisogno, di riconciliazione con lo stato delle cose, delle responsabilità, un senso del dovere che si accompagna al senso di quello che si fa, che si tratti di un’aula scolastica o di un ufficio, di un cantiere o di un negozio.
Un volume il tuo che mi ha profondamente commosso. Dalla prima pagina all’ultima è un continuo sollecitare le corde più intime, le più fragili forse. Forse le meno visitate per il terrore di smuovere quella parte di finta solidità che ci ripara dal mondo. Il tuo intento era voluto o la commozione fa parte della visione di quel mondo nascosto ma assai popolato che molti si rifiutano di guardare?
Ultimamente ho sentito usare il termine penultimo da una certa destra quasi come rimprovero alla sinistra talmente concentrata sugli “ultimi”, per esempio i migranti, da dimenticare i penultimi, ovvero una grossa fetta della popolazione autoctona che vive alle soglie della povertà. I miei penultimi, ne sono certo, non andrebbero mai a una manifestazione sovranista e si guarderebbero bene dal farsi difendere da Salvini o dalla Le Pen. Si tratta di esistenze che cercano ognuna nel proprio piccolo di rendere possibile la vita sociale e far funzionare strutture e cose che contribuiscono o almeno vorrebbero alla determinazione di uno spazio collettivo. Sanno che è un privilegio farne parte, lavorare, anche a costo della fatica che ci vuole. Credo che questi scritti commuovano perché le cose che vedi commuovono, come l’umanità profonda di quelle ferite sul campo.
“Fino a quando ci saranno i penultimi questo vorrà dire che c’è ancora margine per l’umanità, che non siamo giunti alla fine del viaggio, al termine della notte”.
1 – Donne di Mafia Liliana è un’inchiesta giornalistica, molto rispettosa, che non hai voluto romanzare o colorare in alcun modo le vicende trattate. Hai delineato due tipi di donne nelle organizzazioni mafiose: quelle cresciute in famiglie criminali e quelle che ci sono capitate per aver scelto l’uomo sbagliato. Dalla tua indagine, più vittime o più carnefici?
Di avanzare quote, numeri, proprio non me la sento. La scena che mi sono trovata davanti quando mi sono messa a studiare il tema era – ed è – colma di ombre, contrapposizioni. Delle donne che hanno sollevato la testa e pronunciato le parole della denuncia si sa chi sono, il prezzo che hanno pagato per la loro scelta, il sostegno che è stato dato loro per tornare a vivere e a far vivere liberamente i propri figli. Non sono moltissime ma esistono, e il contributo che hanno dato per fare luce sui rapporti fra Stato e criminalità, boss e manovalanza spicciola, è sempre stato riconosciuto, citato. Preziose si sono rivelate anche le ambiguità, le incertezze, le paure fra cui si erano dibattute prima di riuscire a spezzare la regola del silenzio che vige in quel “mondo a parte”, esclusivo, maschile, violento, in cui si erano trovate e che è Cosa Nostra: un percorso, il loro, a noi utilissimo per capire o almeno intuire la gamma dei comportamenti e delle motivazioni interiori che muovono le “altre”, quante all’interno di quel circuito continuano a stare.
Ecco le first ladies. Non parlano. Defilate dietro le quinte, lasciano a lui ogni onore e responsabilità. Nessuno può dire di conoscerle. Nessuno è autorizzato a parlare con loro. Sanno che una delle qualità per cui sono state scelte come spose o compagne, sta nella loro capacità di tacere, non esibirsi, condurre una vita ritirata, non frequentare persone di altro ambiente. È lui, la sua immagine, quello che mai dimenticano.
Le matriarche. Entrare nella famiglia mafiosa ha significato per loro rilievo sociale, soldi, sicurezza. Sanno tutto quello che il compagno fa e gli viene chiesto di fare. Ne condividono le traversie. Non giudicano e non ne parlano con nessuno. L’arresto o il confino in cui può incappare lo sposo o un figlio anima i loro giorni, le costringe a viaggiare, contattare avvocati e amici fedeli, diffondere messaggi, maneggiare fax e telefoni, gestire affari per miliardi. Può anche succedere che lo sposo o il figlio diventi un “pentito”. E allora non possono perdonarlo, non vogliono più neppure vederlo, magari indossano il nero che si addice al lutto delle vedove: quel “tradimento” è un’infamia, la loro vergogna.
2 – Parli di donne come Ninetta Bagarella, moglie di Totò Riina, molto attive nel sistema: ha maneggiato soldi, gestito traffici, trasmesso la cultura mafiosa ai propri figli. Come si concilia il senso di maternità e l’alto rischio di mortalità al quale sono esposti i figli cresciuti nel ventre dell’illecito? Si può essere madri affettuose e fredde assassine?
Sì, l’amore materno e l’ombra della morte in agguato si conciliano benissimo nell’animo e nella vita di queste ladies. Ad Agata Barresi uccisero sei figli. Ogni volta lei scendeva in strada e sul cadavere del figlio di turno steso a terra urlava a perdifiato il suo dolore, senza mai dire una parola agli uomini dello Stato, senza dire neanche il suo nome. Ninetta Bagarella, la moglie di Totò Riina, meglio di ogni altra sa che il mondo in cui è vissuta – come una star a fianco di un marito che dettava leggi, seminava esecuzioni capitali e accumulava prodigiose ricchezze – è un mondo in cui domina l’etica della violenza e della morte. Certo che ama i suoi figli. E proprio perché li ama, e sa che corrono rischi – perché i nemici, i rivali, gli avamposti di una nuova banda sono sempre in agguato, pronti a colpire i beni i più preziosi dell’avversario, i figli appunto – si è sempre tenuta ben stretta la rete della comunità mafiosa che a lei e alla famiglia garantisce una protezione continua. Ma niente è semplice in un territorio simile: l’amore materno può rivelarsi un’arma a doppio taglio. Per amore dei figli, per non mettere a repentaglio la loro vita, molte donne – come abbiamo detto – restano fedeli al gioco della mafia. Però può succedere che un figlio venga ucciso e allora – sempre per amore – la disperazione fa uscire la madre dal gioco e la induce a gridare con voce tonante le sue accuse, cioè a “tradire”. Anche la vigilanza del clan non sempre si rivela sufficiente. Ci sono i figli che, nonostante ogni misura protettiva, vengono uccisi. I figli che, riconosciuti dallo Stato responsabili di gravi reati, finiscono in carcere. I figli che, un giorno, per le ragioni più diverse si discostano dalle persone fra cui sono cresciuti, dall’aria che hanno respirato, e girano le spalle all’ ”Onorata Società” .
3 – Il tuo libro è uscito venticinque anni fa. Rispetto a tutti i movimenti come mee tooche danno voce a soprusi dei quali le donne sono costantemente vittime, il ruolo femminile nell’organizzazione criminale è mutato da allora? E tu, ne hai riportato traccia in questa nuova edizione?
La visione arcaica della donna siciliana – colei che esegue gli ordini del marito, ubbidiente e cieca, prototipo della donna di mafia – ha continuato a circolare fino agli anni Ottanta-Novanta negli atti processuali, nelle aule giudiziarie. Già da tempo persone e associazioni femminili autorevoli rintuzzavano questa “verità”. Ma furono l’arrivo sulla scena di donne di mafia con titoli di studio ed esperienze culturali o manageriali alle spalle, e l’occhio critico di una nuova generazione di inquirenti – fra cui anzitutto Falcone e Borsellino – a far cadere i vecchi parametri di giudizio, che oggi non vengono neanche ventilati. Le compagne o aspiranti compagne degli uomini di mafia non stanno più nella penombra. Parlano in pubblico. Esibiscono la loro bellezza e i loro talenti. Non fanno mistero delle competenze che hanno quanto all’uso dei mezzi di comunicazione più avanzati. Sono viaggiatrici instancabili. Si muovono come cinghie di trasmissione fra poli di denaro e di potere sparsi nel pianeta. Il loro potere e la loro complicità con gli uomini del sistema mafioso appaiono lontani anni luce da quelli di un tempo. In realtà – proprio come un tempo, anche se in maniera diversa – continuano ad essere funzionali al successo dei disegni, dei propositi, degli obbiettivi indicati dai capi delle cosche. Un nodo fondamentale della struttura mafiosa continua a esistere, neppure intaccato dai venti dell’apparenza. L’affiliazione – con il giuramento e il solenne rituale che sanciscono l’appartenenza di una persona per tutta la sua vita a Cosa Nostra – resta preclusa alle donne. La donna resta un soggetto inaffidabile, una creatura debole, con molti talenti ma capace di provare emozioni che possono mettere a rischio l’intero territorio su cui la mafia esercita la sua signoria. Il gradino che separa l’uomo dalla donna nell’esercizio del potere all’interno dell’Onorata Società esiste ancora, solido e ben difeso. Una preclusione che riguarda, da sempre, anche il soggetto gay. L’organizzazione è – e resta – rigorosamente monosessuale, maschilista.
Siamo sempre connessi Matthias, ma sempre meno presenti nella vita di tutti i giorni. È questa la molla da cui prende vita Nel nome del Dio web?
La molla è stata questa. Ma un accadimento della mia vita è stato decisivo per farmi concepire questo lavoro. Una volta mi si è rotto l’iPhone mentre scendevo le scale. Ero in ritardo, dovevo avvisare delle persone, in un attimo mi sono ritrovato solo. Sprofondo nella crisi, sia nell’immediato, sia nei giorni successivi durante i quali ho usato un vecchio Nokia senza connessione. Quel vecchio telefono assolveva alla sua funzione primaria: telefonare e mandare messaggi. Ma, nonostante ciò, mi teneva fuori dal mondo. Mi sono sentito in una specie di isolamento. Questa cosa mi ha fatto rendere conto di quante volte io guardassi prima il telefono. Di quanto io ne fossi in qualche modo dipendente. Con quel Nokia, ero connesso con la realtà in maniera diversa. Ho recuperato una parte di me precedente a questa connessione totale e globale. Mi ricordo, da ragazzino, della tecnologia come qualcosa che mi attirava. Non c’era la connessione, c’erano i messaggi, le telefonate. La tecnologia che ad un certo punto potevi spegnere. Così ho riconquistato alcuni spazi.
Mi è capitato in quei giorni di vedere un filmato fatto da un mio amico quando avevamo quindici anni. Io e i miei amici eravamo in un parchetto e ci comportavamo come ci si comportava in un periodo storico che non ti pone nella costante minaccia di poter essere ripresi. Rivedendo il filmato mi sono accorto che un mio amico guardava nel vuoto. In quella ripresa datata ho notato che se ne stava seduto tranquillo a non muovere un dito. Quel suo non fare nulla mi è sembrato qualcosa di semplice e di straordinario insieme: un ragazzo di quindici anni che guarda in un punto imprecisato, pensa a qualcosa per conto suo, senza essere impegnato a comunicare a distanza con nessuno. Senza sentire l’esigenza di utilizzare quel tempo morto per chattare/postare/cercare/vedere. Era con noi amici, pure se in quel momento non stava parlando. I telefoni quando eravamo piccoli servivano per incontraci: noi volevamo stare insieme. Guardarci in faccia, ridere insieme, annoiarci e pensare ai fatti nostri. Ma senza la solitudine che si avverte oggi.
Come ti è venuta l’idea del prelato (Don iPhone) che tramite il web predica la fede (a modo suo), elargendo consigli con il telefono?
Ho associato in modo naturale le nuove tecnologie alla religione, il sacro mi è sembrato il veicolo più immediato per esprimere questa nuova realtà. La preghiera con idoli coevi è diventata simbolica di un mondo nel quale non poteva che esercitarsi una parodia della nostra contemporaneità. L’approccio satirico, diciamo, mi è venuto spontaneo.
È così pervasiva questa dimensione tecnologica, che al pari di qualsiasi fede religiosa accettata tout court, entra nelle nostre vite senza lasciarci il tempo di porci troppe domande. Negli ultimi anni siamo arrivati al paradosso che, pur condannando questa nuova religione profana, noi la accettiamo supinamente. Anche la “vecchia guardia”, le generazioni cresciute senza questa costante connessione, molto spesso non riescono a ricordare come si stava quando si viveva senza lo strumento che ha stravolto le nostre vite, regalandoci tanto. Ma allo stesso tempo togliendoci anche tanto: lo smartphone.
Da dove nasce, dove è giunto fino ad ora e dove vuole arrivare Matthias Martelli?
La nascita si rintraccia in un’idea popolare e giullaresca di esibizione artistica, che per me si traduceva in monologo satirico portato nelle piazze. Quello che mi ha fatto recitare qualsiasi cosa prima di approdare a teatro. Il mio obiettivo era quello di generare domande e riflessioni attraverso la risata, senza offrire necessariamente soluzioni. Grazie al lavoro che faccio ho la fortuna di avere un contatto diretto con diverse generazioni, dai ventenni, ai sessantenni. Mi sono reso conto che i ragazzi di venti anni, i nativi digitali, abbiano una difficoltà sempre maggiore di affrontare i rapporti vis a vis. Li maneggiano senza empatia, senza coraggio. I rapporti finiscono con un messaggio, le persone si cancellano dalle chat, i contatti si eliminano. Con il mio, Nel nome del Dio Web, molti spettatori dopo essere stati a teatro mi scrivono, dandomi anche un feedback sulle cose che hanno cambiato grazie ai paradossi portati in scena nello spettacolo che, al netto delle risate, offre loro un po’ uno specchio nel quale guardarsi.
La risata libera energie, ti rende disponibile a recepire dei messaggi che vanno al di là del momento di divertimento e mirano a creare degli squarci per vedere altre cose. D’altronde l’arte serve anche a questo, no? A fermarci.
LA MUSICA È SOLIDA, SOLIDISSIMA. MA FORSE, SENZA IL VINILE ABBIAMO PERSO QUALCOSA. IL LIBRO DI VITO VITA RIPERCORRE LA STORIA DEL VINILE E DELL’INDUSTRIA DISCOGRAFICA IN ITALIA
Il sottotitolo recita “Storia dell’industria del vinile in Italia”. Ma è davvero esistita da noi una industria del vinile?
Certo: gli stabilimenti della Ariston a San Giuliano Milanese (che fabbricavano anche i flexy pubblicitari e le “cartoline che cantano”) o quelli della Durium a Erba erano fabbriche a tutti gli effetti, e le aziende erano strutturate con staff dirigenziali, amministratori, strategie di programmazione e così via. Un mondo che occupava migliaia di persone e che ormai è scomparso.
La musica solida è la musica riprodotta in modo industriale. Prima la musica si ascoltava, si ricordava, si studiava, si eseguiva a modo proprio… E oggi?
Oggi paradossalmente si ascolta molta più musica, pensa al sottofondo nei negozi oppure al supermercato, ma tutto scorre via sulle nostre orecchie senza lasciare tracce.
Il tuo libro inizia con la storia della tecnologia con cui si registra e riproduce la musica. Perché?
Era utile inquadrare la nascita della Phonotype nel 1903 e quella delle prime case discografiche milanesi sin un contesto di diffusione nel nostro Paese delle invenzioni d’oltreoceano, grazie ad alcuni pionieri: in questo capitolo tra l’altro c’è una mia scoperta, fatta consultando gli archivi dei quotidiani d’epoca, sul ruolo avuto dall’ex garibaldino Enrico Copello. Dal punto di vista storico, credo che sia una delle cose più interessanti del volume. Il discorso sulla memoria è però alla base di tutto il libro, non di un singolo capitolo: in ogni ambito, l’Italia pare essere un Paese senza memoria.
Nel 1955 “le vendite dei 78 giri e dei primi 45 giri ammontavano a sette milioni di copie”. E oggi?
Siamo messi male. La situazione però non è paragonabile. La musica si ascolta dappertutto e viene meno quindi il desiderio di acquistarla. Sopravvive il live.
Negli anni 60 ci fu il boom dei 45 giri. Da cosa dipese secondo te?
Dal boom economico: all’inizio degli anni 60 la crescita di un ceto medio che comprava la Seicento, andava in vacanza al mare e acquistava i 45 giri. Poi, a metà decennio, con l’arrivo del beat i giovani per la prima volta vennero individuati come consumatori.
Nei 70 mutò il paradigma: dal 45 al 33. Cosa cambiò?
Nel 1949, di ritorno dagli Stati Uniti, Edgardo Trinelli della Fonit-Cetra previde l’affermazione del 33 giri, che consentiva di sviluppare un discorso artistico più completo, e in effetti l’avvento sul mercato degli Lp rese possibili progetti più complessi, i cosiddetti “concept album”. Il primo in Italia fu nel 1963 DIARIO DI UNA SEDICENNE di Donatella Moretti. L’affermazione definitiva negli anni 70 avvenne con il diffondersi prima del prog e poi dei cantautori, ma sostanzialmente non è che la promozione discografica sia cambiata più di tanto. È cambiata la funzione della radio: Per voi giovani poteva ogni tanto trasmettere un album completo (lo fece con TERRA IN BOCCA dei Giganti), ma in televisione casi del genere erano meno frequenti.
Negli anni 80 l’avvento del Cd rappresentò davvero la fine dell’industria del vinile in Italia?
Sicuramente: nel corso degli anni 80 chiudono aziende storiche come la Ri-Fi, la Durium, la Ariston, e altre vengono acquisite da grandi gruppi stranieri come la RCA Italiana. Il fenomeno continuerà negli anni 90 con la Ricordi e la Fonit-Cetra, per esempio.
Simone Ghelli, il panorama letterario italiano e i racconti… Parliamone.
Parliamone, ma evitando di cadere nei soliti luoghi comuni. Ad esempio che il racconto sia una sorta di palestra per arrivare al romanzo. Come se, per allenarsi a una maratona, un atleta si mettesse a correre i cento metri. Le riviste e i blog di racconti sono una vetrina per chi aspira a pubblicare il suo grande romanzo? Sicuramente possono dare visibilità, ci sarà qualche addetto ai lavori che legge in cerca di talenti, ma aver scritto un buon racconto non significa automaticamente saper scrivere un buon romanzo. La pubblicazione su una rivista dovrebbe essere un punto di arrivo, altro che trampolino.
Detto questo, in Italia si scrivono tanti racconti e di spazi in cui pubblicarli ne nascono e muoiono in continuazione. Il mercato sembra però prediligere il romanzo, motivo per cui il racconto continua ad essere territorio fecondo per la sperimentazione.
Dieci storie di uomini che non si arrendono alla realtà: un figlio costretto dalla madre a suonare il pianoforte; un uomo la cui moglie è scomparsa da ogni fotografia; un postino che non ha più la forza di consegnare le lettere. Dieci uomini fragili e al tempo stesso ostinati. Una scelta tutta al maschile. Perché?
Bella domanda. Credo che dipenda dal fatto che questi racconti escono dal mio inconscio. Sono una specie di proiezione, dieci possibili declinazioni del mio mondo interiore. Detto questo, la realtà è che il femminile è presente in molte di queste pagine. In due racconti il femminile è addirittura descritto nel suo ritrarsi, come forza vitale rincorsa dai protagonisti.
La vita moltiplicata è più voglia di desiderare o paura che certi desideri si avverino?
Credo entrambe le cose. È una possibilità, la vita in potenza. Il fatto è che, nonostante tutto, non riesco a smettere di credere nella scrittura, nella capacità che mi offre di aprire delle ferite dentro cui guardare – ferite che sono anche aperture.
Angelo, spiegaci un po’ il titolo Santi, poeti e commissari tecnici.
Il titolo della mia raccolta è anche il titolo del primo racconto, che poi è l’ultimo che ho scritto, e l’ultimo figlio è quello a cui vogliamo più bene. Ma è un racconto che non parla davvero di calcio, credetemi. Parla di donne, d’odio e d’amore, di quanto noi uomini siamo schifosi, anche se tutto ciò viene fuori a poco a poco, tra un gol, una risata amara e un calcio d’angolo. Ditemi un po’, questo paese popolato da santi guaritori, poeti pubblicati a pagamento e commissari tecnici da bar, da masnadieri che sanno solo fischiare i calciatori di colore, non ha stufato pure voi?
Abbiamo spesso il mito tutto italiano del “campionato più bello del mondo” : perché secondo te ci si identifica in vite così lontane dalle nostre?
Bella domanda, ma io sono un ex tifoso, ho raggiunto la pace dei sensi. La verità, secondo me, è che questa è una religione con tutti i relativi apparati, leggende, storielle e supereroi, tra cui anche il mito del campionato più bello del mondo. Gli italiani non sono cattolici, quella è un’abitudine; e dopotutto non conosco quasi nessuno che abbia letto la Bibbia. Ma se quasi nessuno di noi ha mai letto la Bibbia, come possiamo definirci cristiani? L’unica vera religione italiana è il calcio. Non è solo identificazione, è idolatria vera e propria. È una fede. Il tifoso non tradisce la squadra, ma tradisce la moglie o la fidanzata. Io invece ho tradito un sacco di squadre e nel corso di questi anni, per esempio, ho tifato per tutte quelle allenate da Znedek Zeman l’eretico e non ho sensi di colpa.
Raccontaci il goal mancato e il sogno infranto che ti hanno fatto soffrire di più.
Avrei dovuto fare studi scientifici e perseguire i miei veri interessi e la mia vera natura. Invece ho ripiegato sulla cultura umanistica, sulla noia intesa come moralità, sul sacrificio per motivi risibili, sulla brutta letteratura fatta di “bello scrivere”… poi per fortuna a un certo punto mi sono imbattuto nel mio amore di gioventù, la fantascienza, l’horror, il fantastico in generale, da Tommaso Landolfi a Terry Pratchett passando per tanti altri autori non del tutto canonici, e la vita è diventata meno tetra.
Tre aggettivi tre con cui descriveresti la tua opera.
1) Michele, Sandra e il nome impronunciabile della figlia deciso tramite la Rete. Marco Lazzarotto ma tu cosa pensi dei social oggi? Insomma, a cosa stai pensando?
Sto pensando che i tre personaggi che hai nominato incarnano il mio rapporto con i social. Da un lato c’è la diffidenza di Michele, che nonostante sia iscritto a diversi social non li usa perché dubita della loro utilità – o quantomeno, all’inizio del romanzo. Poi c’è Sandra, invece, che è ossessionata dal numero dei mipiace e crede che prima o poi possano cambiarle la vita, ma per il momento si limita a invidiare il successo (cioè i tanti mipiace) altrui. Infine, il fatto che il nome della loro figlia sia stato deciso da un sondaggio online rappresenta l’importanza che oggi ha la rete, di come il virtuale confermi il reale – insomma, quante volte mi è capitato a un concerto di voler condividere una foto, altrimenti avevo l’impressione di non esserci stato davvero?
2) Un giorno, mentre sta attraversando le strisce pedonali, Michele rischia di essere travolto da un’auto di passaggio. Non succede nulla, ma lui ha una reazione violenta e, trovato un sampietrino per terra, lo scaglia contro la vettura. È un po’ la rabbia inaspettata dei buoni?
Spesso mi è capitato di leggere romanzi che culminavano in un gesto violento ed estremo del protagonista, più o meno inaspettato. A cosa stai pensando invece è proprio così che comincia, rovesciando il meccanismo. La reazione di Michele è la rabbia inaspettata di chi crede di essere buono, ma che da quel momento in avanti passerà le giornate a domandarsi chi sia veramente. È stato un episodio, o dentro Michele si nasconde qualcos’altro, o qualcun altro? Messa così, il romanzo potrebbe sembrare un horror, ma niente di più lontano: si tratta di una commedia.
3) MorganaScrive, la blogger nemica, è un po’ la voce della coscienza, anche se noir, e animata più dalla sete di scoop che da quella di verità. Il tema dell’alter ego nei tuoi libri è la tua personalissima chiave per indicarci le sfaccettature delle umane personalità?
È un tema che ho già affrontato nel Ministero della Bellezza, ma lì i social non c’erano; in A cosa stai pensando sì, e infatti Michele non ha un solo alter ego ma, creando diversi profili falsi per cavarsi d’impaccio da situazioni complicate, fa sì che la sua personalità si moltiplichi, si rifranga, permettendogli di sperimentare nuovi lati di se stesso.
4) Tre aggettivi tre per descrivere il tuo romanzo?
Vorrei che il mio romanzo fosse divertente e inquietante. Di sicuro è social.
1) Re Eremita figura leggendaria che ha origine nella Magna Grecia, diventa qui il punto di partenza di una favole nera. Da dove nasce questa idea?
Il Re Eremita in realtà non esiste, né lui né la leggenda. Tutto prende vita da un racconto di mia madre su un lontano parente che si ritirò fra i monti a fare “‘u remita” dispensando opere di bene tanto che ci sono pellegrinaggi verso i suoi luoghi in cerca di miracoli. Il collegamento fra questa figura positiva realmente esistita e le figure legate alla ‘ndrangheta che utilizzano comunque i contrafforti della Sila come rifugio è stato automatico anche se paradossale.
2) Il tuo romanzo è sicuramente una voce corale al femminile, un femminile che protegge, nasconde e accomuna. Sono unite, nella tua anima, esclusivamente per la necessità di tutelarsi o anche per la forza che l’unione femminile può fornire?
Bella domanda. La verità è che quella unione è quella da me auspicata, perché in Calabria, la Calabria che io conosco, c’è questo strano dualismo tra complicità femminile e assoluto egoismo. Si paga il prezzo di un retaggio antico, in cui le donne solidarizzavano solo per certe faccende, per il resto era l’uomo di casa a dettare le regole. Certe forme di omertà ne sono l’esempio. Poi è anche vero che le lotte più importanti, quelle che possono cambiare la sostanza della vita, si verificano all’interno di nuclei familiari allargati, dove le donne si sostengono e si ribellano, ma c’è ancora molta strada da fare.
3) Una sola figura maschile appare nei passaggi significativi del romanzo: Giuseppe Esposito, che altri non è se non l’anima nera di Sant’Eustachio Belvedere. Paradossale e reale protagonista della narrazione. Io sono Calabrese come te. Quanto c’è della nostra Calabria nella descrizione dei luoghi?
C’è molto. Sant’Eustachio non esiste – almeno che io sappia – ma per la descrizione io mi sono ispirata al mio paese di nascita che somiglia a tanti, tantissimi paesi della costa ionica. L’abusivismo edilizio, i servizi non funzionanti, le amministrazioni colluse. Tre mesi dopo aver finito la prima stesura del romanzo c’è stata l’operazione Stige…
Giuseppe Esposito rappresenta la somma di tante nefandezze che la criminalità organizzata calabrese continua a perpetrare, nascoste da un perbenismo di facciata necessario alla sopravvivenza. Questa estate mi è capitato di passeggiare per le strade del mio paese e sentire gente che di lamentava del fatto che il “lavoro” avesse risentito di tutti gli arresti eccellenti che ci sono stati. Le cose stanno ancora così.
4) Tre aggettivi tre per descrivere il tuo romanzo.
È sempre difficile trovare aggettivi per un romanzo, figuriamoci tre! Dovendolo fare direi doloroso, paradossale, liberatorio.
1)“Musica solida”, cioè la musica incisa su supporto fisico, che sia ceralacca, vinile o cd, contrapposta a quella attuale, liquida o, come uno dei discografici intervistati nel volume la definisce efficacemente, gassosa. Quanto presente c’ è nella musica del passato?
Direi che nella musica del passato c’è tanto del presente: basta andare in un’edicola e vedere quante collane di ristampe di dischi in vinile ci sono, alcune con molto successo di vendite. C’è quindi da un lato la riscoperta (e per i giovani la scoperta) del repertorio dei grandi gruppi e solisti del passato, e dall’altro il rilancio di un supporto, il disco in vinile, che negli anni ’90 si pensava definitivamente morto e sepolto e che per molti motivi, non tutti strettamente musicali, sembra che stia tornando in auge, in primis nei paesi anglosassoni. E pare che non ci si stia fermando qui, visto che sta iniziando anche la riscoperta delle audiocassette. A questo punto, mi aspetto la rivincita dei nastri Stereo 8.
2) E’ un lavoro antologico il tuo. Quanto tempo ti ha richiesto?
Contando la ricerca delle fonti, sia cartacee che orali (interviste a vari personaggi che, in ruoli diversi, hanno vissuto il periodo d’oro della discografia italiana), dieci anni esatti. Invece il lavoro di scrittura vera e propria è durato poco meno di un anno.
3) Raccontaci l’aneddoto più divertente e quello più malinconico collegato alle storie che hai raccontato in Musica Solida
Purtroppo di aneddoti malinconici ce ne sono, perché alcuni dei personaggi intervistati, già avanti in età, dopo poco tempo sono scomparsi: mi vengono in mente nomi come Alberto Testa, Giorgio Calabrese, Franco Cassano e Alfredo Rossi. Proprio quest’ultimo mi ha raccontato il motivo per cui, alla fine degli anni ’80, mise in vendita l’Ariston, ed è legato a un suo problema di salute che non aveva mai raccontato prima. Sempre ad Alfredo Rossi è legato un aneddoto divertente: quando alla fine degli anni ’50 lanciarono, in collaborazione con le Cartiere Fedrigoni, le Fonocartoline, con lo slogan “la cartolina che canta”, dopo qualche tempo furono costretti a interrompere la pubblicazione perché avevano smarrito la formula di questa carta particolare e, inoltre, non avevano pensato di brevettarla.
4) Se dovessi descrivere Musica solida con tre aggettivi?
Tre aggettivi sono veramente pochi…mi vengono in mente: appassionante, rigoroso, leggero (come la musica).
Il nuovo romanzo di Daniele Zito, Uno di noi (Miraggi Edizioni), scritto con lo stile della tragedia greca incrociato al tema della “disumanizzazione”, è un’analisi precisa e cristallina dei tempi che imperversano. Nato a Siracusa, classe 1980, Daniele Zito ha studiato a Catania, dove attualmente vive e lavora. Ha esordito nel 2013 con La Solitudine di un riporto (Hacca edizioni), cui sono seguiti Robledo (Fazi Editore), pubblicato anche in Francia e Catania non guarda il mare (Laterza).
Chi sarebbe l'”Uno di noi” esplicitato nel titolo?
«Forse quella parte di noi che non riesce ad accettare alcune regole basilari della democrazia. Forse il fascista che ci portiamo dentro, nostro malgrado.»
Com è nata quest’opera?
«Non pensavo fosse pubblicabile, sia per la forma che per i contenuti. Uno di noi, infatti, è un romanzo singolare: al suo interno convivono assieme poesia e pièce teatrale, due generi che non hanno molta fortuna editoriale. Ho finito di scriverlo tra il 2016 e il 2017. Da allora, sono trascorsi quasi tre anni e dora eccolo qui, finalmente in libreria, grazie all’aiuto del mio agente, Patrizio Zurru.»
Lo stile si rifà all’ouverture del precedente Robledo, con inserimento della tragedia greca.
«Mi interessava utilizzare un elemento presente il Eschilo, Euripide e Sofocle: nelle loro opere nessuno è innocente. Tutti sono colpevoli, anche quelli che cataloghiamo come personaggi “positivi”. E la distribuzione generale e generica della consapevolezza, per paradosso, rende tutti innocenti. Se tutti sono colpevoli, nessuno lo è sino in fondo. Un aspetto che secondo me può essere applicato alla realtà italiana di questi anni.»
Quattro uomini per burloneria incendiano un campo rom provocando il coma di una bimba. L’unico che ha una famiglia torna a casa turbato. Qual è il senso?
«Non è la storia di un pentimento, ma – come dici tu – di un turbamento. Il protagonista non si pente per la sua azione scellerata. Molto più prosaicamente ha paura di essere scoperto. Quando scopre che ciò non accade, comincia finalmente a capire la reale portata delle proprie azioni. Non prova mai una vera “solidarietà” con la vittima, bensì pena – questo sì – perché è un padre anche lui. Anche lui ha una figlia, ma nulla di più. È turbato, mai pentito.»
A cosa ti sei ispirato?
«A diversi fatti di cronaca. È triste da dire, ma nel nostro Paese c’è tantissima gente che compie gesti disumani, oltre che xenofobi, forte della consapevolezza di farla franca, ed è palese che lo Stato non si affanna troppo per risalire la catena delle responsabilità. Nel mio libro, quattro uomini, tutti di età compresa tra 40 e 50 anni, bruciano una baraccopoli in maniera quasi spensierata, dopo una partita di calcetto. Perché ciò possa accadere deve esistere un contesto che li legittimi, ecco che racconto proprio quel contesto, ossia l’insieme di dispositivi retorici e meccanismi collettivi di rimozione che rende possibile quel particolare tipo di disumanità.»
Nella narrazione emergono diversi punti di vista.
«Sì, è l’unico modo per descrivere realmente il contesto: utilizzare diversi punti focali. Racconto l’infermiere che soccorre la bimba, le dichiarazioni di un ministro, etc. Come in Robledo, il mio precedente romanzo, per buona parte del libro la storia emerge dalla contrapposizione di questi punti di vista.»
«Ci vogliono le ruspe»: dicono alcuni personaggi del tuo romanzo. Lo dice anche Salvini. Che pensi di lui?
«Salvini è un politico mediocre. La recessione e un diffuso malcontento verso le forme di democrazia rappresentativa hanno aperto uno spazio politico enorme. Lui ha il merito di averlo riempito con parole d’ordine prese di peso dal repertorio dell’estrema destra. Un azzardo politico che ha funzionato per un po’, ma che ora mostra tutti i suoi limiti. Sono convinto che la sua parabola sia ormai discendente. Il problema non è Salvini in quanto tale, ma il sentimento che ha cavalcato, che purtroppo si è innestato nelle nostre comunità. Se prima era impensabile che dei naufraghi potessero morire senza essere aiutati, adesso non lo è più. Salvini ha sdoganato un modo assai antico di essere disumani, spacciandolo per qualcosa di nuovo. Molti lo considerano un fascista, io penso che rappresenti invece una deriva post-fascista tipica di alcune forme di populismo reazionario. Come altri in Europa, ha rielaborato alcuni dei contenuti del fascismo storico a suo uso e consumo, approfittando di un consenso politico che è stato enorme.»
Ciò si rivela anche in altre forme?
«Il post-fascismo, purtroppo, è un’ideologia pervasiva. Ha preso piede, inutile illudersi del contrario. C’è chi, timoroso delle conseguenze dei propri atti, si limita a pubblicare commenti vergognosi su Facebook quando compare la notizia dell’ennesimo naufragio, e chi scende in strada per far da sé. Personalmente ritengo entrambe le categorie estremamente pericolose. Per tutto il libro non faccio che pormi un’unica domanda: Cosa c’è nelle loro teste che legittima tanta disumanità?»
1) Uno di noi è il resoconto di una fine, strutturato come se fosse una tragedia greca. Quattro amici di vecchia data, al termine di una partita di calcetto, decidono di dare fuoco a una baraccopoli. Sono uomini mediocri, padri di famiglia, essere umani rabbiosi.
Leggendolo mi è sembrato di riscontrare i loro volti nel quotidiano. Mi vuoi dare una tua visione su di loro? Chi sono?
Sono persone ordinarie divorate da alcuni dispositivi retorici estremamente persuasivi. Roba del tipo “prima gli italiani”, “padroni a casa nostra”, “fermiamo l’invasione”, “stop buonismo”, ho omesso i punti esclamativi per rispetto dell’intelligenza dei lettori.
Grazie a questi slogan, molti di loro si sentono arruolati in un’enorme guerra immaginaria contro chiunque sia diverso, chiunque, cioè, non rientri in quel “noi” immaginario che spacciano per identità.
Da fuori sembrano persone ordinarie, conducono vite ordinarie – giocano a calcetto, tornano a casa dalla compagna, si riscaldano la cena, rimboccano le coperte ai loro figli – in realtà agiscono, pensano, combattono come dei soldati.
Sono in trincea. Hanno l’ordine di sparare su qualunque cosa si muova.
E in guerra, secondo la loro logica, tutto è permesso, compreso infliggere ogni tipo di dolore al nemico.
Siamo tutti vittime di un uso politico spregiudicato della crudeltà. La crudeltà viene esibita in ogni modo possibile nel tentativo di creare consenso. Le vicende della Diciotti, della Sea Watch, dello sgombero di Primavalle, delle barricate di Casal Bruciato hanno legittimato e propagandato un’idea disumana di convivenza, sono state dei veri e propri spartiacque. L’Italia che stiamo vivendo è una delle italie peggiori di sempre.
Uno di noi è il tentativo di raccontare tutto questo in prima persona e dal punto di vista di chi fa le barricate contro gli ultimi.
2. “Lì proprio in quel punto X c’era una bambina”. Forse, di tutto il testo, questo è il punto che mi ha richiesto un momento di pausa per l’estrema veridicità dell’immagine della scena, probabilmente anche alla luce del periodo storico che stiamo vivendo. Qual è stato il passo più duro da scrivere?
Raccontare il dolore del padre della vittima.
Sono padre anch’io, ho due figli, mi sono immedesimato col suo dolore, col suo smarrimento, col buco nero che una vicenda di questo tipo spalanca nel cuore di un genitore. Non è stato facile. Non è stato per niente facile. Nel libro è l’unico punto in cui ho dovuto prendere delle pause per respirare, calmarmi, provare ad andare avanti.
3. Come descriveresti Uno di noi con tre parole, tre?
Buongiorno Daniela! Grazie di essere con noi di LiveCinema&Libri; le congratulazioni sono d’obbligo, per il bellissimo risultato di essere arrivata in finale con il tuo romanzo Matelda cammina lieve sull’acqua, al premio Un libro per il cinema, edizione 2019. Vorremmo conoscere tutto di te, della tua vita da scrittrice, o almeno il possibile, adesso: perciò, che cosa ti ha spinto a diventare scrittrice? Qual è stata la scintilla che ti ha messo davanti un foglio di carta, o una tastiera del PC per cominciare a scrivere?
Buongiorno Loredana! Sì, sono molto felice di questo risultato raggiunto, non mi sembra ancora vero, sono veramente molto emozionata. Grazie per questa bellissima domanda: che cosa mi ha spinto a diventare scrittrice? Credo che scrivere sia una necessità che nasce con noi, e che va comunque di pari passo con la lettura. Io sono sempre stata una lettrice molto esigente; le mie letture sono cresciute con me: da cose più semplici, fino ad arrivare poi a tutti i testi dei mostri sacri che mi hanno fatto venire voglia di provare a mettere sulla carta emozioni che loro riuscivano a scatenare. Ho sempre letto quello che mi capitava; per questo parlo di crescita parallela a me.
Hai fatto bene a nominare la carta, perché scrivere per me presuppone questo passaggio importantissimo: è sulla carta che nascono i personaggi, è lì che devo sentire l’odore dell’inchiostro, il pigiare sulla penna a seconda delle emozioni che mi arrivano. Soprattutto le prime volte che scrivi qualcosa, non è facile mostrarlo; è per questo che ci ho messo un bel po’ di tempo a farlo, pur scrivendo da bambina. E se guardo le prime cose che scrivevo, mi sembrano molto semplici, ma all’epoca rappresentavano quella che ero, perché, poi, per crescere ho dovuto studiare moltissimo. È vero che è importante che ci sia la passione, una certa dote, ma tutto questo, senza la tecnica, non sta in piedi. Esistono anche casi eccezionali, pochissimi, che senza aver studiato niente riescono comunque a scrivere dei capolavori… ma per quanto mi riguarda, c’è bisogno che qualcuno ti metta sui binari giusti. Questa passione di scrivere mi spinge poi verso la tastiera, e quando sono lì sono certa di avere in testa tutto lo storyboard di quello che voglio dire, le parole vengono fuori da sole, e i personaggi si creano, mi prendono per mano e, in realtà, mi portano dove vogliono loro.
È molto bello quello che dici perché c’è molto spazio: leggere e scrivere, per te, sono soprattutto crescere. Da quello che ho compreso la lettura è stata importante per te, poiché siete cresciute insieme, ma anche lo scrivere. Leggere e scrivere sembrano due attività opposte, in apparenza, ma sono strettamente legate. Che apporto ha dato la lettura alla tua crescita, e quale la scrittura?
Di sicuro, a scoprire nuovi mondi, a ritrovare il passato o leggere scrittori che ipotizzano il futuro. Io adoro i classici, e anche la letteratura contemporanea; mi piacciono quegli autori che rompono gli schemi e quelli che raccontano fedelmente il loro tempo. Per migliorarmi, crescere interiormente, non ho fatto solo corsi di scrittura, pur avendo frequentato diverse scuole. A posteriori, posso dirti che il personaggio di riferimento è sicuramente il mio mentore, Paolo Restuccia, regista, autore e mio maestro; è la figura con mi sono trovata meglio e con cui continuo a confrontarmi. Non ho solo utilizzato queste, ma anche molta scuola di recitazione, con il metodo Stanislawski, che ti aiuta a cercare i personaggi e le emozioni dentro di te. Dentro di noi, c’è tutto, il personaggio iper romantico e, perché no, anche il serial killer: c’è un arcobaleno di emozioni immenso, e se guardi bene, puoi riuscire veramente a trovare tutto quello che ti serve. Ho fatto, poi, anche due anni di doppiaggio e quella è stata un’altra esperienza che ha mi ha fatto approfondire ancora di più questa ricerca. Dover incollare, attraverso le parole, le tue emozioni ad un già recitato, mi ha dato un ulteriore scatto, come frequentare dei Master con Mamadou Dioume, un personaggio molto vicino a Peter Brook, che fa master bellissimi dove ritrovare il contatto con te, guardandoti dentro, quasi come se fosse una forma di meditazione. La meditazione è qualcosa cui mi dedico da quasi trent’anni. In tutto questo, ovvero il desiderio di migliorarmi nello scrivere, la voglia di comprendere gli scritti mi è sempre rimasta, tant’è che una delle cose cui tengo di più è fare da relatore per altri scrittori. Il fatto di essere una scrittrice mi aiuta molto ad entrare nella psicologia del romanzo che poi devo presentare… per riassumere, sì, lettura e scrittura sono sicuramente strettamente collegate. Non conosco nessuno scrittore, del resto, che non abbia un buon bagaglio di lettura. Il resto, non vorrei che sembrasse come una cosa presuntuosa, è vocazione, un desiderio che nasce da dentro. E se anche all’inizio puoi dire di no a questo desiderio, arriva un momento in cui non ci riesci più: questo significa che quella è la tua strada. Se poi ti porta ad avere dei buoni risultati, molto bene per te, ma di sicuro ti porta verso te stesso, e questo, per me, è già molto, molto importante.
Si può dire che tu sei entrata davvero nel libro, e non solo come creatura di carta, con la lettura, la scrittura, la presentazione, ma sei entrata in tantissime sfumature di quello che vuol dire leggere e scrivere, raccontare, narrare, attraverso anche altre strade che sembrano lontanissime, come il doppiaggio, o il teatro. Sono entrambe esperienze bellissime, davvero. Partiamo da qui, da questo ambito sfumato, dove due arti diverse, ma simili, come due sorelle, come la narrazione attraverso i libri, e quella attraverso i film, si incontrano; come vedi il rapporto tra cinema e libri, l’arte di narrare con le immagini e quella che usa carta, inchiostro, macchina da scrivere, PC?
Sì, mi piace l’idea di assimilarle a due sorelle che si tengono per mano, narrare con i libri e con i cinema. Come vedo questo rapporto? Non credo sia molto facile fare una trasposizione di un libro, per quanto ci siano esempi eccellenti… tanto per fare un esempio italiano e uno straniero, io ho amato moltissimo la trasposizione de La macchia umana di Philip Roth, peraltro uno scrittore che mi suscita sempre tantissime emozioni, e dove si affrontava un argomento veramente importante. Ovviamente la trasposizione è stata facilitata da due mostri sacri come Nicole Kidman e Anthony Hopkins, e quello è stato un caso. In seguito mi ha veramente colpito, per la cinematografia italiana, Non ti muovere di Margaret Mazzantini. A parte qualche piccolo cambiamento, senza entrare nel particolare, credo che sia stata davvero eccezionale. È anche vero che i due hanno un rapporto parentale molto stretto, poiché Sergio Castellito è il marito di Margaret Mazzantini e ha saputo rappresentare esattamente quello che lei voleva trasmettere. C’è anche da considerare il ruolo di Penelope Cruz che, non so se è vero o una leggenda, si presentò al provino già calata nei panni di Italia, un personaggio particolare, fragile, che scatena una vera tempesta nella vita dell’uomo. È un lavoro estremamente difficile tirare fuori un film da un libro, ma per farlo esistono anche figure estremamente competenti, che riescono a far emergere spunti e idee interessanti nella stesura della sceneggiatura. Esistono anche dei casi in cui la trasposizione cinematografica non è andata a buon fine, e qui preferirei non fare nomi…
E come due sorelle, ogni tanto possono avere dei contrasti, possono litigare o possono magari dire la stessa cosa in modo diverso, senza rendersene conto. Hai parlato di due grandi esempi di trasposizioni cinematografiche che ti sono rimaste dentro, e si tratta di due grandi titoli, due grandi autori, da cui si sono ottenuti film giganteschi. Esiste, invece un libro che tu avresti voluto vedere sullo schermo e che per qualche motivo non ci è ancora arrivato? Uno o più di uno, s’intende…
Intanto, vorrei partire dal fatto che per me tutti i libri sono film: mentre leggo me li vedo proiettati nello schermo della mia mente. Io amo quei libri dove non definiscono del tutto un personaggio, perché mi piace immaginarlo. Ed è qualcosa che cerco anch’io di fare, quando scrivo. Se penso ad un titolo, me ne viene in mente uno di letteratura indipendente che amo molto: Eudeamon, di Erika Moak, un’autrice americana, pubblicata da Zero91. Questo libro parla di un futuro distopico, in cui i criminali non venivano rinchiusi nelle classiche prigioni, ma ricoperti di una tuta di latex che li rendeva tutti uguali e non potevano comunicare con il resto della società. Questa cosa all’inizio era molto forte, molto crudele: se ci pensi è veramente crudele non poter aver contatti con nessuno ed essere praticamente invisibili. Ma in questi personaggi, questa pena destava un contatto veramente fortissimo con sé stessi. Nel libro si parla di una giornalista che voleva capire come mai, tutte queste persone, allo scadere della loro pena, facevano in modo di rinnovarla, commettendo di nuovo qualche reato. Perciò si rende colpevole di un piccolo misfatto, si fa imprigionare in questa tuta di latex e in questo modo scopre che questo isolamento forzato la porta al contatto vero e proprio con sé stessa, fino a trovare una grandissima pace interiore. Un altro libro che vedrei benissimo come film è Ogni coincidenza ha un’anima, di Fabio Stassi, edito da Sellerio, che ho avuto l’onore di presentare. È un libro che ho voluto moltissimo perché volevo parlare con lui del suo personaggio principale, un biblioterapeuta che di lavoro ascolta le persone consigliando libri che possano aiutarli nel percorso per risolvere le loro problematiche. Parte da un personaggio particolare, la sorella di un uomo malato di Alzheimer, che dice che il fratello ha solo pochissimi e ricordi. In questa occasione lui comincia a chiedersi: nel caso ci venisse a mancare la memoria, qual è il ricordo che vorremmo fortemente conservare, quella cosa che ci è vitale? E andando a fondo nella storia, scoprendo tramite dei passaggi molto interessanti la vita e i rapporti di questo uomo, il biblioterapeuta imparerà a conoscere sé stesso, perché è questo il vero discorso alla base del libro. A volte mi domando se leggendo si vogliano cercare risposte che non si riescono a trovare da soli… è vero che questo accade con la scrittura perché scrivere è un elaborare a voce alta.
Meraviglioso! Dobbiamo davvero leggerlo e… poi chissà, trasformarlo in un film, vedremo! Ora, siamo arrivati all’ultima domanda. Matelda cammina lieve sull’acqua: la facciamo camminare lievemente verso un film? Che cosa renderebbe particolarmente idonea Matelda e la sua camminata lieve ad essere trasposta in un film, secondo te?
Questa forse è la domanda più difficile, perché mi riguarda da vicino. La storia di Matelda ci parla di conflitti generazionali: il bisogno di difendere i propri spazi e le proprie idee e di mettere in discussione i pregiudizi, che sono spesso legati al sesso e all’età. Ci ricorda di come gli anziani di oggi sono stati i ragazzi di ieri e sono cresciuti attraverso le stesse complicazioni e i conflitti delle generazioni attuali. Si sottolinea come tutti abbiamo il diritto quasi di sbagliare, se poi, attraverso l’elaborazione dei nostri errori, arriviamo a crescere interiormente. E torna quell’argomento che mi è così caro. Matelda cammina lieve sull’acqua percorre tutto il secolo, quindi prende visione di tutto quello che accade: si passa dalle difficoltà della Seconda Guerra Mondiale, al boom della ripresa economica italiana. Con Matelda si scopre la televisione, si va al concerto dei Beatles come evento internazionale, si assiste alla conquista della Luna… si osserva proprio il cambiamento del ruolo della donna e si abbattono tutti quei tabù legati alla non conoscenza, ma sempre passando attraverso quella famosa ricerca di sé che mi è così cara. Diciamo che è un libro che ci coinvolge in un percorso che riconcilia le generazioni, ricordandoci di come spesso si sia presuntuosi della propria giovane età, della propria saggezza, e magari ci si dimentica della propria ribellione. Il libro è ambientato interamente a Roma e ci racconta, appunto di tutti i cambiamenti sociali, politici, economici dell’intero territorio. Matelda è un personaggio che amo molto perché è un personaggio imperfetto; si arma delle proprie debolezze per raggiungere la consapevolezza. Ha tre figli, un marito… non tutto è come desideriamo ma, come dicevo prima, se ci si guarda dentro si può scoprire una grande forza. È la forza del nostro pensiero, del desiderio di quello che vogliamo diventare che rende tutto possibile. È una storia commovente, per certi versi, ma è anche la storia di grandi personalità e della storia della vita. Il titolo, tra le altre cose, ha un riferimento alla Matelda della Divina Commedia, che accompagnerà Dante da Beatrice attraverso il fiume Lete. La Matelda del libro è una nuotatrice, non solo nelle acque del Tevere, ma anche in quelle della vita, che percorrerà controcorrente. Soffrirà, gioirà, e soffrirà di nuovo, ma scoprirà presto di aver ricevuto in dono una vita piena d’amore.
Grazie di questo racconto gioioso di te e del tuo personaggio: in bocca al lupo per la finale del premio, e arrivederci a presto!
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