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SANTI, POETI E COMMISSARI TECNICI. “Caro 4-3-3 Nuntereggaepiù” di Daniela Sessa su Vivere

SANTI, POETI E COMMISSARI TECNICI. “Caro 4-3-3 Nuntereggaepiù” di Daniela Sessa su Vivere

Angelo Orlando Meloni: «Caro 4-3-3 Nuntereggaepiù…»

di Daniela Sessa

Sono ambientati quasi tutti nella sua Siracusa i sei racconti di “Santi, poeti e commissari tecnici” (Miraggi Edizioni), la nuova fatica letteraria del libraio e scrittore aretuseo, metafora del mondo provinciale legato al pallone come racconto di una città-mondo

I racconti di Meloni sono sei luoghi di rappresentazione di un’antropologia ai limiti della plausibilità e che vive tra compassione e compromesso, tra disincanto e rapacità: «In Italia la vera religione è il calcio. I miei personaggi sono perdenti con un cuore grande»

Angelo Orlando Meloni

Angelo Orlando Meloni

Santi, poeti e commissari tecnici (Miraggi edizioni) è il titolo del nuovo libro di Angelo Orlando Meloni, scrittore e libraio di Siracusa, anzi libraio e scrittore perché tiene a sottolineare «Non mi sento un letterato, sono un libraio che ogni tanto scrive qualcosa». Ogni tanto scrive libri empatici dove l’oggetto rappresentato – in questo caso la bulimica fede degli italiani per il calcio – è la metafora di uno stato d’animo che zooma lo spazio geografico su una città, la sua Siracusa, e nello stesso tempo dà espressione a tutti i tic della nostra mente. Il titolo è indicativo della scrittura di Meloni che usa la cifra della distopia e del surreale e li condensa nel registro umoristico. I racconti sono sei luoghi di rappresentazione di un’antropologia ai limiti della plausibilità e che vive tra compassione e compromesso, tra disincanto e rapacità.

Santi, poeti e cammissari tecnici di Angelo Orlando Meloni

Santi, poeti e commissari tecnici può dirsi una raccolta di sei racconti sulla metafora del calcio di provincia come racconto di una città-mondo?
«Sì, i miei sono racconti con una valenza universale, che possono essere letti ovunque, anche se la maggior parte delle storie è ambientata a Siracusa».

I santi e i commissari tecnici in Italia sono un binomio. Ma i poeti?
«In Italia non siamo cattolici, il cristianesimo è un’abitudine e quasi nessuno legge la Bibbia. La vera religione è il calcio, con i calciatori al posto dei santini. I poeti? La nostra è una nazione di mancati lettori che si sono autoproclamati scrittori e che pubblicano a pagamento libri brutti».

Il racconto Ode al perfetto imbecille a dispetto del titolo racconta una storia piena di pietà, nel senso più nobile del termine. Cosa rappresenta questo racconto nel progetto del libro?
«È il momento spartiacque in cui divento tragico: una storia di ordinaria ingiustizia e classismo che probabilmente molti avranno subito o cui avranno assistito, perché la nostra è una società ingiusta. È una storia dal ritmo rock: i pezzi rock possono essere commoventi e parlare dell’amore tra padre e figlio, di tutto quel carico di silenzi e di parole mancate che quell’amore lì a volte si porta appresso».

La costruzione del personaggio nel libro è centrale. C’è davvero tanta “mostruosità” nell’uomo? Quanto si arrabbieranno i siracusani a vedersi rappresentati così?
«Questa ondata di odiatori seriali, razzismi camuffati, collassi cognitivi, nazionalismo (che per me è il male nel mondo) ci costringono a concludere che l’umanità faccia schifo. I miei personaggi, invece, sono dei perdenti con un cuore grande, più umani degli umani incazzati sul web. Circa i miei concittadini siracusani, li descrivo con pregi e difetti, come dovrebbe fare qualsiasi scrittore onesto».

Sostieni che non c’è una letteratura ma tante letterature. In quale metteresti questo libro?
«Dovremmo venire a patti con l’idea che ci sono tanti canoni letterari, che ognuno di noi forma durante un percorso di lettura lungo una vita. Il mio libro è uno spaghetti-fantasy: realismo magico con la granita siciliana al posto degli spaghetti».

L’ultimo racconto è Il campionato più brutto del mondo e ha una conclusione quasi apocalittica. Un’apocalisse per liberarci dalla dittatura del senso comune?
«Senza dubbio. Dedico il mio libro a tutti quelli che non ne possono più di 4-3-3 di Juve, Inter e Milan, di retorica patriottarda d’accattonaggio fatta di inni, gagliardetti, coreografie, striscioni. Come cantava Rino Gaetano, anche io Nuntereggaepiù…».

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

http://www.viveregiovani.it/news/libri/261174/angelo-orlando-meloni-caro-4-3-3-nuntereggaepiu.html?fbclid=IwAR3qr4Evgo3cKx6bcrrhFgsiriE_IidoB4aQntbPVcgwA63OhYuCS1NcSfw

NON SERVE NASCONDERSI. “Racconti che vogliono prendere posizione con forza in una realtà sempre più oscura e difficile da sopportare.” – intervista di Paolo Restuccia su Genius

NON SERVE NASCONDERSI. “Racconti che vogliono prendere posizione con forza in una realtà sempre più oscura e difficile da sopportare.” – intervista di Paolo Restuccia su Genius

MARCO PROIETTI MANCINI: “IO SCRIVO SEMPRE DI GETTO E DI ISTINTO”

Marco Proietti Mancini ha da poco pubblicato un nuovo libro di racconti, Non serve nascondersi (Miraggi edizioni), dopo diversi romanzi e altre raccolte. Romano, ama scrivere storie nelle quali oltre a lui si riconosce facilmente anche il suo pubblico, come la trilogia Da parte di PadreGli anni belliIl coraggio delle madri e i romanzi Oltre gli occhi e La terapia del dolore. Instancabile, fa anche il curatore di antologie e il giurato nei premi letterari. Ci è venuta voglia di ascoltarlo, leggendo i suoi racconti che vogliono prendere posizione con forza in una realtà sempre più oscura e difficile da sopportare.

La tua raccolta di racconti si apre con una dedica suggestiva: “Questo libro è dedicato a tutti quelli che si sentono diversi. Siete diversi, siamo diversi, siamo unici. Siamo ricchi”. A parte il contenuto dei racconti che in effetti la giustifica, perché hai scelto di rivolgerti a chi si sente “diverso”, e che intendevi con questa parola?

Sono partito da una riflessione tutta interiore e – temo – molto poco originale. L’umanità (e quindi gli individui che la compongono) ha bisogno di secoli per progredire e invece le bastano pochi anni, a volte mesi, per tornare indietro. Quello che sembrava fino a pochissimo tempo fa un modello avviato e consolidato di integrazione ed accettazione della “varietà”; termine che gradisco molto di più di “diversità”, è stato totalmente rimesso in discussione con una involuzione a tutti i livelli, sociale, politica, scientifica.
Ho voluto dimostrare che la varietà è una ricchezza, un’opportunità, una realtà umana inequivocabile e innegabile. Nasconderla, negarla, vietarla, è l’ipocrisia maggiore. I miei “diversi”, a vario titolo, sono la dimostrazione di un’esistenza forte, che non può e non deve essere cancellata in un’omologazione che – quella sì – mi spaventa.
Non sono i “diversi” che mi fanno paura, sono gli “uguali” forzati.

Nel primo racconto fai un paragone di grande effetto tra chi arriva sui barconi oggi e chi si muoveva più o meno nello stesso modo in altre epoche. È una storia che si ripete sempre, ma c’è chi dice che un tempo era un’altra cosa. Non hai paura di essere attaccato da una parte del pubblico?

Veramente più che una paura, la mia è una speranza. Quel racconto non è altro che una “cronaca”, tanto inventata quanto verosimile (e quel che in un libro è verosimile, diventa “il vero”). Che mi attacchino per aver scritto una storia che è LA storia. Sarà così che attaccheranno loro stessi.
Il complimento più bello ricevuto per quel racconto?: “Ma quello non l’hai scritto tu, è un documento originale, come mai non hai messo la fonte?”

In questi racconti utilizzi spesso una struttura a rivelazione finale, fai crescere la tensione lasciando sconosciuti alcuni particolari decisivi per il lettore e li riveli proprio all’ultimo, come nella busta che viene consegnata a uno dei protagonisti. Ti è venuto naturale costruirli così oppure l’hai deciso a tavolino?

Non riesco a “costruire a tavolino” neanche i romanzi, figurati se potrei farlo con i racconti, che sono l’istantanea di un’emozione, il fermo immagine di una storia immediata, che rappresentano poche ore di una vita, a volte pochi minuti.
Mi rendo conto che i puristi delle tecniche narrative inorridiranno, ma io scrivo sempre di getto e di istinto, lasciando alle fasi di revisione le verifiche di congruità e il controllo temporale degli avvenimenti. Certo è che la maggior parte di questi racconti sono stati scritti in un arco temporale breve, due, tre settimane, quindi è venuto naturale assecondare una struttura narrativa abbastanza simile.

Tra i “diversi” che popolano queste storie c’è spazio anche per gli animali, c’è un cane molto amato. Qual è il tuo rapporto con il mondo dei nostri “fratelli” pelosi?

È un rapporto fisico, animale. Un rapporto naturale di relazione corporea. Il cane che vive con noi è parte integrante della famiglia. Dorme con me, giochiamo insieme, ci guardiamo negli occhi e – secondo me – chi soffre nel “non capire” sono io. Perché lui mi capisce benissimo.
Sono convinto di quel che ho scritto nel racconto in cui parlo di lui, sono esseri “migliori” nel loro essere diversi (vedi, perché c’è un racconto sul mio “figlio diverso”?), sono capaci di amore incondizionato e quindi purissimo. I loro calcoli, se pure il loro fosse un amore interessato, sono calcoli basati su istinto e natura, mai su convenienza.

Molto del tuo immaginario in queste storie si regge sulle relazioni che toccano i sentimenti essenziali dell’uomo. Ti offenderesti se qualcuno ti definisse sentimentale?

Ne sarei orgoglioso. È una definizione positiva, che porta con se valori e ricchezza. Anche qui, credo che bisognerebbe essere capaci di rivalutare al positivo etichette come – appunto – “sentimentale” emancipandosi da snobismi e cinismi di facciata.

Io scrivo di sentimenti, le persone vivono di sentimenti. Ci può essere qualcosa di più bello di cui vivere e di cui scrivere?

Altri personaggi delle tue storie sono i bambini, bambini in difficoltà, a rischio in questa vita, oppure chiusi nel loro autismo, come in Dondolo. Sei colpito dalla loro fragilità?

Sono colpito e provo pulsione a proteggere qualsiasi fragilità, dei bambini, degli anziani, dei disabili, degli animali, delle donne violate. Nel caso dei bambini c’è un’ulteriore motivazione, più estesa e sociale di una pulsione emozionale e immediata; i bambini di oggi saranno gli adulti di domani, trascurarli oggi, diseducarli, violarli, produrrà una società peggiore. Mi viene da pensare alla risposta alla prima domanda, se la società è imbarbarita e peggiorata, forse è anche colpa di una diseducazione dei bambini degli anni ’70 e ’80. Forse.

Mi ha molto colpito in un racconto la definizione “uomo di merda” che il padre del protagonista riserva a un personaggio squallido della storia, questa definizione è dovuta alla rabbia del momento oppure secondo te esiste davvero qualcuno che merita in modo assoluto queste parole?

Esiste davvero, esistono davvero. La rabbia del momento è quella che ti fa pronunciare quelle parole e ti fa battere i pugni dalla frustrazione. La lucidità è quella che ti permette – consapevolmente e coscientemente – di riconoscere questi uomini di merda, di evitarli, di controllarli, se possibile di metterli in condizione di non esercitare la loro natura e di non trarne vantaggi. Durante una delle presentazioni mi è stato chiesto “quindi per te la diversità è un valore assoluto?”. La risposta è no; ovviamente, no. Ci sono diversità che sono negative, disvalore, pericolo. Un pedofilo è un diverso che va messo in condizione di non nuocere, come un uomo violento, come un sadico, eccetera.
Uomini di merda, appunto.

Quanto c’è di autobiografico nelle tue storie? O meglio, quanto c’è di inventato? Perché sembri essere forse il protagonista di tutti questi racconti.

Bellissimo complimento, sai? Significa che il mio personalissimo “Metodo Stanislavskij” secondo il quale applico un transfert (naturale e non studiato) tra scrittore e protagonista, funziona bene. Comunque, per essere concreto; ci sono storie che sono di ispirazione “autobiografica” nel loro spunto iniziale; “Il natale di Antonio”, “Uomini di merda” e “Figlio mio”, quest’ultimo in realtà molto più che nell’ispirazione.
Tutte le altre sono pura invenzione e immedesimazione.

C’è pure un racconto erotico (per quanto alla fine si scopre che i due…), c’è stato qualcuno che ti ha guardato in un modo diverso dal solito dopo averlo letto?

A parte mia moglie, dici? No, o almeno io non l’ho notato, anche se immagino che qualcuno debba essere rimasto spiazzato dalle parole che ho usato e dalle scene che ho descritto in quel racconto (per quanto alla fine si scopre che i due…)

E alla fine c’è un racconto con i dialoghi in romanesco anche se fuori contesto visto che gli eroi sono greci… Cos’è per te Roma?

Roma è tante cose ed è tutto. È vita ed è morte, è felicità e sorpresa ed è incazzatura feroce, è frustrazione ed è speranza. È disincanto, cinismo, ironia feroce ma anche romanticismo.
Di questi ultimi, tristissimi tempi, respiro anche un sentimento che nei miei primi cinquantotto anni di vita non avevo mai assorbito; la rassegnazione. A Roma c’era il fatalismo, che significava dire “tanto ha da passa’“; ma il fatalismo è lo scrollare di spalle e il dire “sopravviveremo anche a questi e torneremo grandi”. Adesso noto la resa che si fa trascuratezza, l’abbandono, la perdita della voglia di incazzarsi e combattere. Perfino quella di risolvere tutto con una battuta e una risata, perché alla fine “Sémo romani, ma ‘sticazzi!”
Riguardo al racconto, dopo tredici storie tutto sommato, almeno nelle intenzioni, impegnative, volevo appunto regalare un sorriso e una risata. E come farlo meglio se non, appunto, spruzzando di spirito romanesco un racconto, parodiando quei seriosi dei greci?

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

Marco Proietti Mancini: “Io scrivo sempre di getto e di istinto”

Lorenzo Bartolini: quando succede questo, son felice! – Dialogo con Dimitri Ruggeri

Lorenzo Bartolini: quando succede questo, son felice! – Dialogo con Dimitri Ruggeri

 

Dimitri Ruggeri dialoga con Lorenzo Bartolini, artista che fa della parola il suo mestiere.

D.R. Come mai hai avuto la necessità di “emancipare” la poesia portandola a teatro?

L.B. Urca! No, no. Io alla Poesia non ho fatto niente.
La Poesia è un’anziana, elegante signora millenaria che non ha assolutamente bisogno di emanciparsi. Sono stato io ad aver bisogno di lei.
A un certo punto mi sono trovato a scrivere diverso. A scrivere in versi.
Faccio teatro-canzone o canzone-teatro, a seconda degli spettacoli, da 15 anni. Prima omaggiando Giorgio Gaber e poi con spettacoli originali con il duo Formazione Minima in cui canto e recito.
Poi, dal punto di vista della scrittura, ho messo per un po’ da parte le canzoni e ho cominciato a scrivere poesie.
In realtà me l’hanno detto che erano poesie: io avevo molta paura a chiamarle così.
A un certo punto, nel 2015, mi son preso la responsabilità di quello che stavo facendo e ho costruito e cominciato a proporre il mio primo spettacolo di teatro-poesia dal titolo “Anche se”.
Mi presentavo alla mia piccolissima fetta di pubblico e a un pubblico tutto nuovo con una forma d’arte non ancora sviluppata in Italia. L’ho fatto mettendo, in qualche modo, le mani avanti. Per questo “Anche se”. Anche ora non siamo in tanti a fare questo tipo di spettacolo.

Mi ha insegnato
Che non si porta
il rancore.
Verso quelli
che gli vuoi bene
non si porta.
T’arrabbi
sì,
sbatti gli sportelli
della cucina,
sì,
le porte,
fai gli urli
forte,
sì,
ma il rancore
non si porta
verso quelli
che gli vuoi bene.
Non si porta
perché
pesa troppo.
Che non c’è
bisogno
di fare il muso.
Si porta
il perdono.
Senza dir niente.
Senza tante
parole.
Che il voler bene
si fa
più che
si dice.

Questo
m’ha insegnato
la Leonarda,
la mia mamma.
E non me l’ha
mai detto.

D.R. Nei tuoi spettacoli, il teatro è solo un luogo fisico oppure influenza anche il linguaggio/struttura della rappresentazione?

L.B. Il teatro per me non è mai solo un luogo fisico. Anzi. Il teatro per me è innanzitutto una relazione fra persone in ascolto. Uno spettacolo si fa sempre insieme. Si può far teatro in un prato in montagna se c’è un pubblico che ha voglia di ascoltare e un attore che ha voglia di darsi. Esiste una scenografia migliore?

D.R. Il teatro si compone di spazio, tempo, gesti, corpo e di molte altre discipline. Come strutturi i tuoi spettacoli di Poesia? Qual è il processo creativo? Ti avvali di una regia, sceneggiatura o cosa?

L.B. Parto sempre dalla poesia. Poi costruisco un monologo che la anticipi, che possa preparare il pubblico alla miglior fruizione di quel testo. Il monologo è al servizio della poesia. Il tutto sta dentro a un discorso più ampio, a una narrazione che lega: c’è una sorta di drammaturgia. Non è un semplice reading, dunque. L’alternanza di monologhi e poesie mi permette, poi, di utilizzare ritmi differenti al fine di rendere lo spettacolo più dinamico.

D.R. Raccontaci qualche aneddoto che ti ha particolarmente segnato in questo percorso.

L.B. Uno su tutti. Spettacolo all’aperto, d’estate, nel giardino di una villa contadina sui colli romagnoli.
Scenografia: le mie poesie appese a un filo teso fra due alberi; sullo sfondo, antico monastero diroccato, in lontananza, illuminato da una luna splendida.
Faccio lo spettacolo. Pubblico caloroso ed entusiasta. Anche io felicissimo.
Una ragazza mi chiede se può “rubarmi” una poesia. I fogli sono per terra, sull’erba. Su quello che era il mio palco.
Altre persone, vedendola raccogliere il testo, si accalcano per raccogliere a loro volta.
Mi portano via tutte le poesie: rido!
La prima ragazza torna da me e mi chiede se può ricontattarmi via mail. Le dico: “Certo, con piacere!”
Da quel giorno comincerà una collaborazione che porterà i miei testi a essere studiati alla Duke University, negli Stati Uniti, da più di cento studenti per il corso di italiano di primo e secondo grado. Poi si è fatto anche l’incontro con l’autore via skype: un’esperienza incredibile che ancora mi imbarazza e mi emoziona.

D.R. La tua esperienza nei poetry slam si può dire che è ritornata utile per maturare questo percorso o lo hai intrapreso da prima?

L.B. Io facevo teatro-poesia prima di partecipare a uno Slam. Il poetry slam è una forma d’arte affascinante e complessa. Molto utile a chiunque voglia salire su un palco e voglia scrivere testi da recitare. A me è servita tanto. Lo Slam ti costringe a ritmi e tempi che ti permettono di comprendere quanto un tuo testo sia, più o meno, efficace. Scrivere a voce alta è molto difficile. Le parole dicono quello che vogliono, non quello che vogliamo far dire loro. Il Poetry Slam è bello per questo. Ti ridimensiona. Ti costringe per poi, eventualmente, darti i mezzi per imparare a liberare le parole a voce.

D.R. Cosa ti ha fatto decidere di pubblicare “Senti cosa ho scritto”? Sono testi scritti per essere rappresentati “vocalmente” nei reading?

L.B. In realtà non avevo mai pensato alla pubblicazione. I ragazzi di Miraggi mi hanno contattato e chiesto se potesse interessarmi. Ho tergiversato un po’. Poi, dopo un anno di lavoro sui testi che già avevo, è uscito il libro. Il libro è diviso in tre sezioni a seconda della lunghezza. E’ un libro che finisce. Per capirci: nell’ultima sezione ci sono haiku. A parte questi, tutti gli altri testi sono scritti per essere detti. Sono testi per il mio teatro-poesia. Hanno il ritmo della mia voce, del mio recitato.

D.R. Cosa intendi quando si parla in generale di “performance” poetica o poesia performativa?

L.B. Ci sono tanti e diversi modi di dire poesia. Io li intendo tutti. A me interessa soprattutto la bellezza. Stimo performers molto diversi fra loro. Faccio alcuni nomi, in ordine sparso: Mercadini, Petrosino, Agrati, Sandron, Tricarico, Fabiani, Burbank, Miladinovic, Gironi, Balestra, Racca, Monti, Bravuomo, Cancian, Savogin, Di Genova, Garau, Socci, Catalano.
Sono poeti performers distanti nella scrittura e nel modo di stare sul palco.
Quello che mi importa è la relazione. E’ l’effetto emergente della relazione messa in atto con parole belle. Quando succede questo, son felice!

*
Lorenzo Bartolini scrive canzoni, monologhi e poesie. Dal 2004 è cantattore dei Formazione Minima, duo di teatro-canzone.
Fa spettacoli di teatro-poesia in solitaria o in compagnia. Fa monologhi e reading. Tiene corsi di Scrittura A Voce Alta. Hanno inserito le sue poesie nel programma di studi di Lingua Italiana alla Duke University (USA), Department of Romance Studies, Fall 2016.
Ad Aprile 2017 è uscito il suo primo libro di poesie, “Senti cosa ho scritto”, per Miraggi Edizioni. Nel 2018 è relatore al Convegno “Crescere attraverso il Teatro” dedicato a Gianfranco Zavalloni. Ha una rubrica su YouTube dal titolo “ESPRESSO POESIA”.

Articolo originale qui: https://slamcontempoetry.wordpress.com/2019/06/06/lorenzo-bartolini-quando-succede-questo-son-felice

“SONO STATA FEDELE A UNA MILITANZA FUNESTA”: FINO A STRAPPARSI LE OSSA VERBALI, CON VERONICA TOMASSINI – su Pangea.news

“SONO STATA FEDELE A UNA MILITANZA FUNESTA”: FINO A STRAPPARSI LE OSSA VERBALI, CON VERONICA TOMASSINI – su Pangea.news

Posted On Marzo 13, 2019, 7:31 Am

I più, penso, resteranno lì, non vedranno altro oltre l’insolente insolazione della ‘denuncia’, al sole del ‘neorelismo’ di facciata, che sfacciati. Insomma, la scrittrice dei drogati, della periferia di Siracusa, che è poi anima di catrame, l’isolamento dell’uomo, catabasi, catarsi, etc. etc. Sarebbe come considerare Il processo di Kafka un legal thriller e Moby Dick un baldo romanzo d’avventure a bordo di baleniera e l’Ulisse di Joyce una guida turistica della città di Dublino, che idiozia. Con Mazzarrona (Miraggi Edizioni, 2019) Veronica Tomassini – già autrice di libri importanti, cito solo Sangue di cane e L’altro addio – va al di là del gergo linguistico di Altri libertini, è in esilio dalla ‘denuncia’ – propria dei burocrati della provvidenza, dei puri di cuore – redige l’implacabile epica dei rimpianti, dei persi senza pianto, dei tossici, degli indifesi, degli indegni, degli indimenticabili dannati senza aura, senza beneficio di pietà (senti qua: “I fiori degli aranci restituivano la leggerezza della stagione. Oggi mi sembra un fatto straordinario assistervi senza dover pagare un prezzo, sentirmi indegna. La primavera è per tutti. Anche per noi in quel tempo. Il nostro inverno perenne disconosceva la primavera”). Ci sono tante frasi da sottolineare e una bellezza così candida – del candore che si ottiene soltanto dopo il massacro – in questo romanzo, lo prendi ed è come se un pezzo d’ombra e un pezzo di sole fossero conficcati sotto i mignoli, a spalpebrare il senso del tatto. Ma non è questo. Veronica Tomassini scrive facendo scempio di sé, come i pittori d’icone che murano la propria vita nel carcere del Volto – per Veronica, ogni volta, scrivere è sudario, pazienza, perdizione – si scuoia per dare grammatica di fiamme al nostro caos. Ne parlo, è certo, con un giudizio sghembo, di Veronica, perché ho il privilegio di dialogare con lei, fino a sfinirci, fino all’ultimo lembo emblematico di fiato. Veronica significa colei che ‘porta la vittoria’, ma il nome, storpiato, ha a che fare con la vera immagine (icona) di Cristo. Il volto è vittoria; lei porta il tuo volto con una grazia indecente. Attraversi Veronica per trovare te stesso – e l’esperienza non è indolore. (d.b.)

Cosa bisogna avere per scrivere, per te: compassione o ferocia? Amore per sé o desideri per gli altri? Necessità di perdersi, definitivamente, o di risorgere, luminosamente?

La compassione è lo sguardo che finisce dove gli altri lo tolgono; la luce che si fa strada dove per tutti ripara l’ombra. L’ombra e non le tenebre. Il mio sguardo è compassionevole anche quando è feroce, serve alla scrittura, il dolore laconico, l’ho imparato dai nostri maestri russi, è la grande lezione russa, il dolore non si ribadisce, lo devi mortificare, ignorare, così lo esalterai nel suo potere di salvezza. È il riso con il suono del singhiozzo, persino, capace di seppellire il lettore nello sgomento e nella tristezza. Il dolore nella pozzanghera mirgorodiana di Gogol’. E alla fine l’uomo risorge, sì. E tuttavia non per questa ragione io sia nobilitata, migliore, dedicata all’altro, no, si può essere creature mostruose, fuori quello sguardo, fuori la scrittura.

Tu sei la santa dei sottosuoli, la regina virginea degli inferi della periferia: con un linguaggio visionario, da apocalisse gnostica, garantisci una consistenza narrativa a quella “loggia di sbandati” che è l’umanità di Mazzarrona. Mi pare, però, che la tua lucidità non preluda a una facile ricerca di ‘riscatto’. Dimmi. Dimmi perché quei luoghi sono la tua materia narrativa.

Racconto solo la mia vita. Tranche de vie. Non so fare altro. Sono finita nei luoghi sbagliati, tra gli imperdonabili, fino ad amarli. Io stessa lo sono, imperdonabile. Sono fuori dal mondo colpevolmente, una brutta copia della Bess di Von Trier de Le onde del destino. Ho letto Christiane F. Noi i ragazzi dello zoo di Berlino a nove anni. Mi ha cambiato la vita, forse me l’ha rovinata. Da allora quello sguardo di cui ti dicevo “deragliava”, illuminava i segreti e la laidezza della vita, mi sembrava di averla già conosciuta così marcia e finita a pochi anni. Ero preparatissima, a pochi anni conoscevo già l’abbecedario del tossico. Gropiusstadt, Haus der Mitt, il Sound, David Bowie, il trip, l’acido che devi calare con un succo di ciliegia, Sense of doubt. Era il mio paesaggio a nove anni. Allora ho capito che c’era una verità, dovevo trovarla, non l’ho ancora trovata. Devo capire ancora, non so cosa, quel tossico forse con l’ago infilato nel collo, Riboldi Gino chino sul cesso di un bagno pubblico (In exitu, Testori) o l’altro che muore steso su una panchina. Così è andata. E da adolescente e poi da adulta sono stata fedele a una militanza funesta, una vita in pezzi forse. E invece no, perché poi tutto mi è stato restituito, gloriosamente, tutto è diventato scrittura. Sono diventate parole, quelle parole che a Mazzarrona non si usavano, erano ridicole, troppo lunghe.

Ami dal culmine dell’abbandono, forse perfino in una compiaciuta estremità ed eresia. Il narcisismo dei perduti. È così? Contestami.

Sì, amo dal culmine dell’abbandono. L’amore è il grande assente. Il narcisismo dei perduti: mi piace. Mi sta bene. Ma devo essere perdonata e voglio solo perdonare in fondo, così sopravvivo.

C’è più denuncia sociale, rivolta civica o atto sacro, liturgia dell’amare e dell’accettare nel tuo romanzo, nelle tue intenzioni?

No, non c’è una denuncia sociale, mi annoia solo l’idea di un romanzo da denuncia sociale. Qualcosa da tessera di partito, inefficace, inutile come una posa. Soltanto racconto (non mi importa delle intenzioni, agiscono per i fatti loro, non le riconosco), poi io stessa divento simbolo di qualcosa magari. Quella che scrive di periferie o di ubriaconi, vagabondi, disadattati. Senza pietismo, però, per carità. Lo faccio e basta. Il resto mi annoia. La noia è un problema. Ho vissuto così.

“Era solo la morte degli altri, che avanzava implacabile e lenta, ad avermi contagiato”: che cosa significa?

Eroinomani, creature esangui. Erano la negazione della vita, una provocazione, un parto cieco. Frequentare eroinomani, sentir parlare solo di ‘roba’, di overdose, spade, rota, Aids, mi aveva fatto ammalare. Frequentare l’ignoranza che per me equivale a una volgarità morale, una volgarità tout court. Mi aveva fatto ammalare. Dimagrivo, avevo smesso di mangiare, non del tutto però. Non vedevo altro, solo questo orizzonte, pesto, greve. Solo la morte. Non c’era leggerezza. Era un castigo.

Da dove arriva questo tuo linguaggio che brucia i cliché di certa narrativa contemporanea, che affila il coltello con cui ti punisci? Che cosa leggi, intendo? Che cosa ti piace leggere, dell’oggi?

Oggi leggo solo testi sacri o classici dello spirito. Ho amato molto i russi, il neorealismo, alcuni autori americani, ma se vai a vedere scopri che sono poi russi o giù di lì, tipo Saul Bellow (origini lituane).

Ora cosa ti attendi? Lo Strega, un nuovo libro, uno che ti porti via da tutto bruciando i ponti, niente, tutto?

Uno che mi porti via da tutto, bruciando i ponti.

Qui l’articolo originale: http://www.pangea.news/sono-stata-fedele-a-una-militanza-funesta-fino-a-strapparsi-le-ossa-verbali-con-veronica-tomassini

Veronica Tomassini: «Mazzarrona è il simbolo di un fallimento civile» – intervista a cura di Salvatore Massimo Fazio su SicilyMag

Veronica Tomassini: «Mazzarrona è il simbolo di un fallimento civile» – intervista a cura di Salvatore Massimo Fazio su SicilyMag

Nel nuovo romanzo, edito da Miraggi e candidato allo Strega, il degrado di sballo e droga vissuto nel quartiere periferico della sua Siracusa dagli adolescenti degli Anni 90 diventa preludio di un sogno infranto – «Ogni periferia è concepita dentro un’istigazione al suicidio» – di chi si sente estraneo sempre: «Mazzarrona è terra lacerata da irredimibili dissidi»

di Salvatore Massimo Fazio


Tornare per ricordare, per scendere oltre la siepe dove “Mazzarrona è da una parte periferia grigia come grigie sono le scelte di chi vive, e come grigio vorrebbe essere il tentativo della protagonista quando sin dalle prima battute di questo spettacolare romanzo pubblicato per i tipi di Miraggi editore, candidato al Premio Strega 2019, narra di urla da “bambina vecchia” per far smettere Massimo di iniettarsi eroina. Una complessità di azioni che porterà a fregarsene di colei con la quale scopa Massimo, che è il suo compagno, che morirà di overdose, che sarà sempre piegato e chino su sé stesso, in una smania continua di recuperarsi denari e droga. Il contorno non è da meno, le amiche che senza sbeffeggiarla le chiedono il perché lei stia alla Mazzarrona, lei che è di tutt’altro ambiente. C’è chi ha l’Alfa Romeo, poi l’Audi, chi decide di non fumare più, chi si occupa di tessere la relazione con la migliore amica. Lei che della Mazzarrona non è, non vuole farne a meno. Non vuole frequentare le compagne del liceo. Lei vive lì nel disagio degli anni Novanta di una delle periferie più complesse di una città: Siracusa.
La scrittrice siracusana Veronica Tomassini dichiara che questo è il suo primo romanzo fortemente e nitidamente siciliano, perché negli altri, seppur si citano ambienti siculi, quel citar la Trinacria è solo una condizione geo-localizzante. Romanzo crudo, diretto, ferreo, fermo e che ci svela una “zona” d’animo della stessa autrice: «Mazzarrona sono io in un frammento della mia vita. Ciò che ne è venuto dopo, è altro».

Veronica TomassiniVeronica Tomassini

“Mazzarrona”, un titolo, con la bella rappresentazione grafica della copertina, che fa riferimento al rione aretuseo. È schiacciante: cosa vi è successo?
«Mazzarrona è il simbolo di un fallimento civile, la risacca di tutte le impunità, le omissioni, le disonestà. È una riserva indiana, più nel romanzo che nella realtà, traduce l’isolamento quasi commovente di tutte le periferie, concepite dentro una istigazione al suicidio preconcetta. Mazzarrona come Lo Zen a Palermo, Le Vele a Napoli, Librino o San Cristoforo a Catania»

Questo “fallimento civile”, appena uscito come libro, subito è stato candidato allo Strega. Pensi di riuscire a piazzarti sul podio o vincerà sempre la logica delle major che impongono i loro prodotti?
«Sullo Strega posso dire solo che è già tanto che sia arrivata alla candidatura, per me va bene. Io mi presento con una casa editrice interessante, la torinese Miraggi. L’editoria oggi spesso teme la cosiddetta spada che rompe il ghiaccio, tende a preferire un talento normalizzante e consolatorio. La grande editoria, intendo. Tuttavia con le dovute eccezioni».

Un quartiere difficile e dormitorio, dove in quel riposo costante lo smercio di droga e la rovina delle vite è una consuetudine…
«…la Mazzarrona è stato riqualificato in parte, con il decoro degli appartamenti costruiti in cooperativa. Rimane tuttavia un quartiere dormitorio, ed è nel destino della periferia in generale».

Il quartiere della Mazzarrona a Siracusa

Il quartiere della Mazzarrona a Siracusa

Un luogo, una dimensione. Cosa è accaduto a te?
«La mia vita ad un certo punto è finita nei luoghi sbagliati, frequentati da imperdonabili, io stessa mi sento così. La mia vita finiva – come il mio sguardo – dove per tutti riparava l’ombra, mentre per me cominciava la luce, ne intercettavo perlomeno la possibilità (di vederla questa luce) oltre le pieghe di quelle esistenze misere e provate. Ho vissuto con i poveri e gli emarginati, per una ragione o l’altra. Poveri di spirito, non lo so. È andata così».

Hai detto che “Mazzarrona” è un libro totalmente siciliano, dunque potrebbe discostarsi dai precedenti. È pur vero che ne L’altro addioe il Il polacco Maciej, il riferimento e l’ambiente alla Sicilia ci sono: le vicende si svolgono a Siracusa. È forse, per ciò che ho inteso, uscita fuori la radicalità del malessere di cui il siciliano è avvolto e dal quale difficilmente riuscirà a separarsene? Malessere descritto da questa selva dove anche una ragazza, che potrebbe ambientarsi con amiche del liceo, invece finisce per cadere nel peggio, un peggio che le porterà dolore a decorrere dalla morte del “suo” Massimo, per overdose.
«Gli altri romanzi erano siciliani per una geo-localizzazione casuale di un luogo, non certo siciliano, erano casomai ispirati da dinamiche slave – “L’altro addio” (Marsilio), “Sangue di cane” (Laurana), “Il polacco Maciej” (Zoom Feltrinelli) -, da qualcosa di nuovo, esotico, straniero. “Mazzarrona” contiene questa terra greve, complessa, sola, lacerata da insondabili o irredimibili dissidi, come la stessa voce narrante».

Un'altra immagine della MazzarronaUn’altra immagine della Mazzarrona

Dalle fattezze politiche di quegli Anni 90, in cui è ambientata la “Mazzarrona” di Veronica Tomassini, a quelle attuali, c’è il passaggio verso un ventennio distruttivo, che ha sempre più emarginato chi ancora dotato di speranza. Nella cultura tutto si è svelato in maniera marcia e vile: la periferia rivalutata, ma a supporto solo di certi colori politici, ha il volto di ragazzi di 20 anni. Poi altri coetanei di altra estrazione politica desiderano proporre qualcosa e si erge quell’atteggiamento inutile da casta: io sventolo la bandiera di colore X, e allora punto all’uguaglianza e alla socialità, tu che non sventoli la mia bandiera non devi fare cultura, perché la tua non è socialità.

Cosa c’è dietro? Nuovi baroni avanzano sotto mentite spoglie di persone dedite al dialogo e al supporto sociale?
«La questione è che certi quartieri affamati servono, eccome. Tenere affamata la bestia, come si dice, ha una sua raffinatissima ragione. Ovviamente nelle sacche di miseria e ignoranza si ingenerano diverse derive. Ad ogni modo, sacche di voti a parte (vecchia storia non solo siciliana), quando ancora la periferia non era di moda (lo è diventata se ci pensi), avevo notato che le istanze della buonanima della sinistra erano sparite, era più facile notare nei “non luoghi”, parto cieco del
fallimento civile e politico, in sua sostituzione avamposti di destra. Questa cosa l’avevo notata e scritta anche da qualche parte, ovviamente con un seguito di polemiche e accuse personali».

Ancora uno scorcio della Mazzarrona

Ancora uno scorcio della Mazzarrona

Ci distrugge e istiga al fallimento sociale la politica dei baroni, e questo è un dato assodato. Potrebbe, a tuo dire, un sincretismo delle posizioni politiche espresse dalle persone più genuine e marginali, aiutarci a uscire fuori da una condizione di accidentalità che innalza sempre un diritto di scontro?
«In ogni caso, non saprei cosa dire oggi, se esista davvero da qualche parte un’innocenza, un’etica, un risveglio reale».

L’amore, la droga, le emozioni che ne scaturiscono, sono i primi elementi che emergono nel tuo romanzo, e creano scompenso. Chi sono i protagonisti? Socio-storicamente si torna a momenti dolorosi dove nulla cambia?
«Il romanzo è stato definito insolente e tragico insieme. Racconta la storia di un gruppo di adolescenti dei primi Anni ’90, in questo non luogo, in questo deserto, chiamato Mazzarrona. L’eroina è il male, il sonno velenoso. La voce narrante racconta gli anni della sua giovinezza, un castigo, racconta il suo amore, Massimo, che morirà di overdose, il terrore, la miseria nera ovvero la volgarità a cui abituarsi, doversi abituare. La stessa protagonista frequenta il liceo, ma non le brave ragazze. Frequenta i tossici della Mazzarrona. Un’esistenza vile, avara».

Eroina, il sonno velenoso della gioventù Anni 90

Eroina, il sonno velenoso della gioventù Anni 90

C’è la tua vita, è un racconto intimo il tuo?
«Mazzarrona è il riassunto della mia vita da un certo punto in avanti. Le mie letture, i neorealisti, ma la mia vita in special modo: questo è Mazzarrona, un preludio di quel che sarebbe stato, che sarei finita nei luoghi sbagliati, ancora, da adulta, nelle ombre detestate, per raccontare la luce. I sette anni alla Mazzarrona, furono la cosa peggiore che mi potesse capitare».

È formativo questo libro?
«Non lo so se sia formativo. Parlo di eroina, di ragazze che stanno fuori la notte, che bevono, fumano, fanno a botte, ragazze illuse, adolescenti sentimentali che moriranno con una siringa conficcata nel braccio. È formativo tutto ciò? Forse no».

Junky boy

Junky boy

Vuoi mandare in messaggio diretto e chiaro? Se si, quale?
«Un messaggio c’è: vorrei suscitare nel lettore lo sgomento o lasciare che lo sguardo che attraversa me attraversi il lettore stesso, lo sguardo (imprestato a volte o forse sempre non mio) che vorrebbe solo perdonare e non chiede altro di essere perdonato».

È importante il rapporto con la terra di appartenenza, ed è lei stessa ciò che si vive? O che subiamo?
«Io mi sento una senza radici, estranea sempre, fuori la porta. Non è mai cambiato nulla, da bambina come adesso. La sensazione è che questa terra non capisca me e io non capisca lei. In questa distanza, dentro questa distanza, la osservo, la racconto».

Si può vivere e sopravvivere di scrittura nei tempi attuali?
«Posso vivere di scrittura eticamente, in un contesto giusto, con le persone giuste. E qui voglio ringraziare Patrizio Zurru, il mio agente che un po’ rappresenta il contesto giusto, nel senso di cura e attenzione per quel che faccio. Miraggi editore è anch’esso un contesto giusto. Incontrare scrittori con i quali stringere alleanze e empatie è il contesto giusto. Ad esempio lo scrittore e poeta Davide Brullo (immenso) con il quale sto scrivendo un epistolario sentimentale, è intenso, violento per certi risvolti emotivi. E tanto è vivere di scrittura o per la scrittura».

La libreria Tlon di Roma ha ospitato la presentazione del libroLa libreria Tlon di Roma ha ospitato la presentazione del libro

Mazzarrona” di veronica Tomassini sarà presentato il 2 marzo, alle 19, alla enoteca letteraria Prospero di Palermo, dove dialogherà con Isidoro Meli e Cristian Inguglia. Il 17 marzo, alle 19, il libro sarà presentato alla Libreria Prampolini di Catania dove l’autrice dialogherà con il professore Antonio Di Grado e sarà accompgnata da Alessandra Ristuccia, solista compositrice.

Il libro esposto da Prospero a Palermo

Qui per leggere l’articolo originale https://www.sicilymag.it/veronica-tomassini-mazzarrona-e-il-simbolo-di-un-fallimento-civile

Il ritorno di Veronica Tomassini è subito “Strega”. L’intervista di Salvatore Massimo Fazio  su L’URLO

Il ritorno di Veronica Tomassini è subito “Strega”. L’intervista di Salvatore Massimo Fazio su L’URLO

“Mazzarrona” pubblicato dalla torinese Miraggi edizioni, segna il ritorno alla narrativa di Veronica Tomassini.

La scrittrice e giornalista racconta una storia marginale tra periferia, giovinezza ed eroina, annunciando così un successo, a nostro dire, annunciato.

Ed è subito candidatura allo Strega 2019!

Domenica 24/02 dalle ore 19:00, in anteprima nazionale, con l’introduzione e moderazione di Antonio Di Grado, si potrà assistere alla presentazione del libro presso la Libreria Vicolo Stretto di Catania.

L’intervista

A distanza di due anni da “L’altro addio” torni negli scaffali con un libro che già si candida a importanti riconoscimenti, come l’annunciata candidatura al Premio Strega 2019: emozioni, aspettative?

«Sì, molte più di quelle che hanno accompagnato gli altri romanzi.
Sono – come dire – un po’ arrabbiata, voglio esserci, ho talento a occhio e croce, posso
farcela, posso persino pretendere di raggiungere qualche traguardo. Riguardo lo Strega, moltissima emozione!»

 

Qual è la tematica di “Mazzarrona”?

«La periferia, l’eroina».

Cosa ti ha ispirato la storia narrata?

«La mia adolescenza. la mia giovinezza. Deserti.
La cosa peggiore che mi potesse accadere: i sette anni di Mazzarrona.
Mazzarrona è la metafora di un fallimento civile non solo personale,
di un lungo sonno, del mondo che arretra proprio lì, in quella riserva
indiana di disadattati, dove frana una morale collettiva o un senso di
giustizia. Oggi come allora».

 

Può considerarsi consecutio del precedente “L’altro addio” o dello
strepitoso quanto crudo e diretto “Sangue di cane”?

«No. O forse solo retrocedendo, lungo la mia assurda vita, ecco così possiamo dire che
Mazzarrona fu un preludio, ma quel che accadde dopo non ha niente a che vedere. Mazzarrona è molto siciliano, per quanto io lo sia pochissimo».

Antonio Di Grado: un anarchico puro a moderarti per la prima di questo libro. Una scelta non casuale…

«…Antonio Di Grado, che è il massimo studioso di Sciascia, è uno scrittore e saggista che amo moltissimo (siamo in tanti ad amarlo), e mi commuove sempre. Un onore infinito poter essere introdotta da lui, per questa prima di Mazzarrona».

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“Viviamo di poesia e non ce ne accorgiamo”: intervista a Valerio Di Benedetto – di Federica Santoni su Artwave

“Viviamo di poesia e non ce ne accorgiamo”: intervista a Valerio Di Benedetto – di Federica Santoni su Artwave

“L’arte è fondamentale per uscire da alcune visioni, per riprendersi la sacralità della vita”. Valerio Di Benedetto racconta su Artwave la sua esperienza poetica e artistica.

Quando la scrittura poetica incontra il talento artistico possono succedere grandi cose. Ce lo dimostra Valerio di Benedetto, in arte Umanamente inbilico: attore teatrale e cinematografico, Valerio ha saputo trasformare le sue poesie in vere e proprie opere d’arte urbana, decorando le serrande di più di una città con la vivacità dei colori e la bellezza dei versi.

“Amore a tiratura limitata” è la tua raccolta di versi edita da Miraggi Edizioni. Come è nata questa esperienza poetica?

Non pensavo assolutamente di iniziare a scrivere delle poesie, le circostanze della vita mi ci hanno portato: mi sono ritrovato a scrivere per canalizzare delle sensazioni che avevo dentro. Recitativamente parlando, non avevo la possibilità tutti i giorni o tutti i minuti di poter sfruttare quella sofferenza buttandola in un personaggio, quindi la cosa più rapida è stata scrivere. Ho iniziato a comporre poesie in maniera totalmente disinteressata rispetto alla pubblicazione di un libro, ma a un certo punto mi sono reso conto che scrivere era diventata una catarsi: ero riuscito a trasformare quella sofferenza in qualcosa di artistico, in questo caso di poetico. Ho pensato che sarebbe stato uno spunto di incoraggiamento per quelli come me, avrei potuto incoraggiarli: le poesie sono state come una corda grazie alla quale risalire per poter raggiungere la luce. Ho trovato così una casa editrice, Miraggi, alla quale mandare i miei scritti: la risposta mi è arrivata dopo quasi un anno. Mentre aspettavo ho sentito l’esigenza di pubblicare e di condividere le mie poesie in qualche modo, e ho trovato un’alternativa nelle serrande, che sono state per me pagine bianche: le città nelle quali poi ho portato le mie poesie (oltre a Roma anche Milano e Parigi, dove ho scritto una poesia in francese) hanno rappresentato per me dei veri e propri libri a cielo aperto.

Raccontaci della tua idea di scrivere poesie sulle serrande.

Nell’attesa della pubblicazione ho pensato che avrei scritto su pagine diverse da quelle consuete, pagine di metallo: trovo che sia molto poetico anche questo. Nel momento in cui “muore” un’attività perché è sera, la serranda viene abbassata e continua a vivere con una mia poesia scritta lì sopra. La leggono, la fotografano, la postano. Qualche volta mi diverto, su Instagram, a cercare l’hashtag #umanamenteinbilico, la mia firma, per vedere cosa esce fuori: all’inizio vedevo che molte persone postavano le fotografie delle mie serrande, magari senza il mio tag, e leggevo descrizioni sotto alle loro foto che mi gratificavano molto, del tipo: “dopo una giornata pesante parcheggio la macchina e mi trovo davanti questa cosa, che presa a bene”. In questo mondo social estremamente egoriferito, fatto di selfies e stories, si dimentica spesso cosa significhi empatizzare con l’altro, con la sua sofferenza, con il suo bisogno. In qualche modo anche la politica ce lo sta dicendo, stiamo vivendo una chiusura, non un’apertura.

 

In che modo credi di aver contribuito al cambiamento della fruizione della poesia, rendendo le tue parole leggibili sulle serrande di negozi o sui tuoi “quadri” così particolari?

Non so bene in che modo ho contribuito al cambiamento della fruizione della poesia. So soltanto che mi hanno chiesto se non sia un po’ anacronistico pubblicare poesie, in un libro o su una serranda, ai nostri giorni. Secondo me questa è una cosa fondamentale. Viviamo di poesia e non ce ne accorgiamo. La poesia è ovunque. Bisognerebbe solo avere più sensibilità nel riconoscerla. Effettivamente quella delle serrande (e, in generale, la poesia di strada in sé) rende l’esperienza poetica piùaccessibile: non perché la poesia sia qualcosa di elitario, ma perché tra le pagine dei libri riposti negli scaffali viene più facilmente dimenticata. Il concetto di arte di strada nasce con l’idea di essere davanti agli occhi di tutti, ogni giorno. Ho scritto una poesia su Spiderman su una serranda del negozio di un mio amico, che ha una fumetteria a San Paolo, in Via Gaspare Gozzi. La cosa interessante e divertente che mi racconta una mia carissima amica è che, quando va a lavorare presto la mattina, nella metro da San Paolo verso l’Eur riesce a vedere questa mia poesia. Io immagino che dalle sei alle dieci tutte le persone che passano di lì possano vederla. Magari la prima volta buttano l’occhio, vedono i colori. Il secondo giorno fanno più attenzione, la leggono, la vanno a vedere. Questa cosa in qualche modo ti fa arrivare a più persone, ed è bello saperlo.

 

 

 

 

Ho desiderato poi fare anche qualcosa che fosse accessibile a tutti: invece dei classici quadri, pannelli di legno o tela, per essere coerente con il mio progetto artistico ho preso dei pezzi di serranda della misura dei quadri e poi ho riproposto lo stesso layout. Mi sono basato sin da subito sulla palette della pop-art, ispirandomi agli accostamenti di Warhol, Keith Haring, Basquiat. Sono nate così queste serrande dalle diverse misure che ho esposto recentemente in una mostra a Via Margutta, e devo dire che mi piacciono tantissimo.

di Federica Santoni

Leggi l’intervista anche qui https://www.artwave.it/cultura/interviste/viviamo-di-poesia-e-non-ce-ne-accorgiamo-intervista-a-valerio-di-benedetto/

Autostop per la notte – Intervista a Massimo Anania di Chiara Stival su Italian-directory.it

Autostop per la notte – Intervista a Massimo Anania di Chiara Stival su Italian-directory.it

Autostop per la notte, libro d’esordio di Massimo Anania recentemente pubblicato da Miraggi Edizioni, si legge tutto d’un fiato: il ritmo della scrittura rispecchia le vicissitudini raccontate, è sostenuto, incalzante fino a giungere a quell’estremo che vede come unica soluzione la necessità di un tuffo in un’altra dimensione. Questo stacco prende la forma del flusso di coscienza che interrompe il vorticoso incedere della narrazione con pause di disorganizzata riflessione, momenti di sospensione utili nella musicalità di questo immaginario pentagramma.

L’alternanza tra i fatti reali che accadono a Maurizio, il protagonista, e le sue incontrollate riflessioni mantengono la cadenza sincopata per l’intero romanzo, un continuo movimento tra mondo reale e un mondo che si fa onirico per l’intero romanzo.

Autostop per la notte è ambientato a Torino, scelta che evidenzia maggiormente il contrasto tra possibile e impossibile, tra chiaro e scuro; il capoluogo noto per essere catalizzatore di magia bianca e magia nera, si mostra come una Torino signorile e aristocratica e al contempo segreta, chiusa in palazzi inaccessibili e governata da personaggi potenti, perché ricchi e privi di scrupoli.

In questo sfondo notturno e labirintico, un gesto abituale per Maurizio, quello di fare autostop, lo proietta in un susseguirsi di accadimenti che sfuggono al suo controllo e a qualsiasi sensata previsione, che si intrecciano anche quando sembra si siano finalmente districati.

L’apparente casualità, che innesta un’avventura durata tre giorni, assume diverse sembianze, inizia con quella del gentile automobilista che gli concede un passaggio, poi prende forma di donna e infine quella di un professore; il fluire degli eventi trasportano protagonista e lettori in una breve quanto incessante discesa agli inferi urbani.

Intervista

Come definisci Autostop per la notte: romanzo breve o racconto lungo?

Il confine tra romanzo breve e racconto lungo è difficile da stabilire, personalmente lo vedo come un romanzo breve ma non credo sia errato definirlo racconto lungo.

La seconda persona singolare per la narrazione è una scelta audace: perché la usi?

Mi trovo a mio agio in fase di prima stesura, anche se non è semplice da utilizzare mi permette di tenere il ritmo della narrazione elevato. E ho scoperto che mi piace parecchio.

In gabbia © disegno di Luca Ferrari

Perché hai scelto Torino per ambientare la tua storia?

È una scelta d’istinto, ho vissuto a Torino per 26 anni e adesso che vivo lontano l’apprezzo di più e ne sento la mancanza. Tutto quello che scrivo è ambientato a Torino, non potrei scegliere un’altra città. L’unica eccezione potrebbe essere inventarsi un mondo nuovo, ma credo che in un modo o nell’altro somiglierebbe al capoluogo piemontese.

L’autostop è una pratica in disuso ma è il fatto che mette in moto tutte le altre connessioni del racconto: come ti è venuto in mente?

Per me l’autostop è stato il mezzo più usato per gli spostamenti dai sedici ai diciannove anni. A Torino non era difficile trovare qualcuno che si fermasse e questo mi permetteva di risparmiare i soldi dell’autobus e soprattutto di sottostare agli orari imposti dal servizio pubblico. All’occorrenza mi fermo a bordo strada con il pollice rivolto all’insù anche adesso.

Autostop per la notte © disegno di Farbod Ahmadvand

La tua passione per l’arte si unisce in questa “avventura” in diverse forme. Partiamo dalla prima: chi sono gli illustratori delle immagini che compaiono nel libro?

Gli scorsi anni ho organizzato diverse mostre di pittura alle quali hanno partecipato numerosi artisti. Mi piaceva l’idea di aggiungere qualche illustrazione nel romanzo e ho chiesto a qualcuno di loro di realizzare un disegno. Tra gli illustratori ho selezionato artisti che per tecnica potessero darmi un qualcosa in più. Farbod Ahmadwand dipinge fondendo gli insegnamenti della scuola europea con quella persiana. Luca Ferrari è il batterista dei Verdena che tra un tour e l’altro si diletta con la pittura e i collage. Sharon colli ha un modo unico di interpretare il disegno attraverso il quale riesce ad esprimere in modo deciso concetti anche semplici. Fabrizio Berti, Michela Roffarè e Sonia Luzzatto sono artisti che hanno esposto in diverse gallerie sul territorio nazionale e in diverse manifestazioni culturali non solo in Italia ma anche all’estero. Poi c’è un disegno di mio figlio di otto anni: un giorno gli ho chiesto di disegnarmi una macchinina e ha fatto un lavoro così bello che non potevo fare altro che includere.

Il passaggio © disegno di Samuele Anania

C’è anche un video che promuove il libro: da dove nasce questa idea?

L’idea è del regista Eric Lot che ha anche realizzato le foto di copertina. Riprese, montaggio e musica sono opera sua, e credo che riesca a guardare il mondo da un punto di vista inusuale e in futuro potrà togliersi grandi soddisfazioni.

Spesso accompagni le tue presentazioni con la musica: perché questa scelta?

Perché mi piace mettere insieme arti diverse e per dare libertà di espressione al maggior numero di artisti possibile. L’interazione tra musica, colori e parole è in grado di elevare il livello dei singoli artisti, pur esprimendo sentimenti e idee diverse.Consiglio: se sei un lettore interessato ai romanzi brevi, consigliamo Il blues delle zucche.

Roma. Intervista a Nicola Manuppelli di Silvia Castellani per Satisfiction

Roma. Intervista a Nicola Manuppelli di Silvia Castellani per Satisfiction

Quelle prime settimane mi permisero di mettere via un certo gruzzoletto. Con Satchmo c’era talmente da fare che avevo a malapena il tempo di dormire, figuriamoci per spendere dei soldi. I viaggi di andata e ritorno dal Pigneto, anche se non esageratamente lunghi, erano spossanti, e qualche notte finii per addormentarmi all’aria aperta dalle parti del Pincio o vicino alle Terme di Caracalla o sotto i ponti del Tevere, dove non potevo essere visto, come un vero vagabondo, uno di quei pitocchi che si facevano la strada a piedi e vivevano di espedienti. A volte, se avevo tempo sufficiente, prendevo il collegamento e raggiungevo la spiaggia di Ostia, dove mi addormentavo sotto le stelle. Com’erano belle le stelle romane. Veniva da pensare che fosse su quella spiaggia che agli uomini fosse venuta in mente l’idea delle costellazioni, che fosse stato lì che avessero pensato di unire tutti i puntini e pensarli sotto forma di oggetti o animali, e immaginare per ognuno di loro una storia. Ecco, le storie erano persino nel cielo. Fandonie nel cielo. Mi stendevo sulla sabbia ancora calda per il giorno e assaporavo la brezza, e tendevo le braccia verso l’alto come se potessi afferrare quei puntini lumino- si e spostarli, creare un disegno tutto mio. Avrei voluto disegnare una costellazione con la forma del mio cuore, per vedere cosa ci fosse davvero dentro. Ero convinto che finché avrei continuato a guardare il cielo, e a meravigliarmene, sarei stato per sempre giovane.

Nicola Manuppelli

brano tratto da Roma, Miraggi Edizioni, 2018, pp. 162-163.

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Nicola Manuppelli è nato a Vizzolo Predabissi nel 1977. Scrive, traduce, scopre autori americani e irlandesi (tra cui Andre Dubus, Charles Baxter, Jane Urquhart, Roger Rosenblatt, A.B. Guthrie, Sara Taylor, Gina Berriault, Don Robertson). Collabora, fra gli altri, con Mattioli, Minimum Fax, Nutrimenti, Aliberti. Suoi articoli sono apparsi su Chicago Quarterly, Numéro, D di Repubblica, Satisfiction, Il Primo Amore, IBS Café. Ha pubblicato i romanzi Bowling (Barney Edizioni, 2014) e Merenda da Hadelman (Aliberti, 2016), la biografia della scrittrice Alice Munro, La fessura (Barbera, 2014) e la raccolta di poesie Quello che dice una cameriera (Miraggi Edizioni, 2017). È biografo ufficiale dello scrittore americano Chuck Kinder.

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Roma (Miraggi Edizioni, 2018, pp. 320, euro 18) è un libro sul cinema, un mix di realtà e finzione, ambientato nel secolo scorso. È un concatenarsi di storie sulla città eterna, dove tutte le strade portano. Quanto tempo ha impiegato per scriverlo?

Se parliamo di stesura, di scrittura del libro, ho impiegato tra i 4 e i 5 mesi. Per quanto riguarda il materiale, i riferimenti che ci sono nel libro, si tratta di cose accumulate negli anni, sia a livello di sentito dire, sia di viaggi fatti a Roma, che poi sono tutti confluiti nella trama. Quello che mi piace dire è che rispetto ai due romanzi precedenti che ho scritto, questo è per me il primo romanzo in cui davvero mi riconosco, dove il modo di lavorare l’ho sentito molto mio: ho lavorato alla storia come fossi un regista, facendo domande, sopralluoghi, chiacchierando con le persone. Si è trattato di un lavoro di collaborazione, insomma. È stato proprio come fare un film, pur non avendo a disposizione i mezzi del regista.

Leggendo il romanzo mi è parso di trovarmi ora nel cottage dello scrittore protagonista del Grande Gatsby (Tommaso, il protagonista, è giornalista e scrittore), ora sul set di un film di Fellini. La sua scrittura è cinematografica, si è trattato di una scelta o di una combinazione?

Ho tre grandi passioni artistiche: la musica, la letteratura e il cinema. Per quanto riguarda la musica, diciamo che non posso sfogarmi nella stessa, come autore intendo, così la posso recepire soltanto in maniera passiva. Ho sempre sognato invece di lavorare per il cinema. Come passione direi che il cinema è forse addirittura superiore alla letteratura: quando guardo un film, infatti, riesco ad isolarmi e mi passa tutto. Il cinema, soprattutto quello di cui parlo nel libro, quello della prima Cinecittà, degli anni Cinquanta e Sessanta, ha una grandissima influenza. Per anni ho provato a scrivere un romanzo partendo dal mio background letterario, che è molto americano perché lavoro su autori americani, e mi venivano delle cose americane, così succedeva che le sentivo meno mie, mentre il mio background di spettatore cinematografico è molto italiano; amo Monicelli, Scola, Fellini e ho capito che con il romanzo dovevo andare lì. Per quanto riguarda la scrittura in scene è anche molto voluta, perché quando penso e leggo un libro, la prima cosa che cerco è di vedere. Fellini domandava: Come si fa un film? E rispondeva: Trova sette scene buone, mettile insieme e avrai il film. E questo modo di scrivere i romanzi è antico, sono un affastellarsi di episodi… Volevo la libertà di raccontare delle cose che vedevo e mi immaginavo di volta in volta, aspettando che il libro terminasse da solo. Io ero dentro Roma e, a mano a mano, vedevo le cose e le raccontavo. Per me scrivere è inventare, utilizzare la scrittura per creare. Non volevo un senso generale del libro, a un certo punto erano i personaggi stessi a reclamare il loro proprio spazio. Un personaggio diceva: ma come, l’altro personaggio ha avuto una storia, quell’altro pure e la mia non la racconti? Bè, è interessante, pensavo, e mi dicevo: in effetti si potrebbe raccontare anche… e a un certo punto mi sono dovuto strappare il libro dalle mani, perché avrei potuto continuare all’infinito, avevo in mente anche altre storie di altri personaggi.

Lei è mai stato a Cinecittà e se sì, cosa l’ha più colpita?

Sono stato a Cinecittà dopo averla sfiorata per tantissimo tempo, perché tante volte sono andato lì e non c’è stata occasione di entrarvi, perché era chiusa. Era un desiderio forte quello di poterla vedere, poi è accaduto che una volta mi trovavo lì vicino a pranzo con Pasquale Panella, che è il paroliere di Lucio Battisti, e lui che ha sempre abitato nei pressi di Cinecittà mi raccontava di quando da ragazzino scavalcava i muretti di Cinecittà e vi entrava per vedere cosa succedeva e questo racconto-ricordo è stato anche uno dei punti di partenza del libro. Poco dopo hanno aperto Cinecittà per vedere alcuni set e sono andato a vederla per la prima volta. Era il 2017. E’ stata per me una fascinazione totale, lì ho deciso che volevo ambientare il romanzo, oltre che a Roma, anche a Cinecittà. Ho trovato con entrambi un set naturale e molto materiale è rimasto fuori, quindi è nato il progetto di scrivere una biografia raccontata di Fellini per il 2020. Non sarà il mio prossimo libro, ma quello dopo.

C’è una bella metafora a un certo punto del libro che parla di spiagge, barche e navi dirette verso la “gioia di vivere”. Qual è oggi una gioia del suo vivere?

Io sono felice. Una cosa che non sopporto nella letteratura è il cinismo. Nel libro esalto gli epicurei, scelgo appositamente dei personaggi epicurei. A me piace tutto, mi piace proprio il vivere. Vede, ho sempre inseguito quello, ho sempre cercato di fare quello che mi rende felice, perché credo che è ciò che a una persona riesce meglio. Oggi faccio un lavoro che mi piace, leggo e scrivo, e in futuro mi piacerebbe anche lavorare per il cinema… e sto insieme a persone che mi rendono felice e ho degli amici che mi rendono felice e dove non trovo questo sentimento mi allontano. Per me essere felice è esattamente quello che sto facendo oggi, che ho fatto ieri e spero farò domani.

A pag. 110 si parla degli odori che scandiscono le ore della giornata ed evocano storie, momenti che solo grazie agli stessi odori possono ricordarsi. Quale odore è legato alla sua infanzia e quale ricordo, se vuole ripercorrerlo con noi di Satisfiction, le evoca?

Mi ricordo mia mamma profumata, mia mamma che quando entravo in casa aveva sempre un buon profumo, fresco e accogliente. Questo è il profumo che mi ricordo dell’infanzia, poi c’è un profumo ch

e appartiene agli anni dell’adolescenza: i primi anni di liceo, quando arrivava il mese di gennaio e finiva il primo quadrimestre e ogni tanto c’era qualche giornata che annunciava la primavera e c’era un profumo particolare nell’aria che sento anche adesso e tutte le volte che sento quel profumo lì, rivivo i miei 14 anni. Mi piace ragionare per profumi e attraverso i sensi. La letteratura western include i personaggi spesso in questi grossi paesaggi naturali, mi piace che ogni tanto i personaggi alzino la testa e vedano il cielo e si ritrovino dentro il paesaggio con tutti i sensi e le percezioni attivati, in modo che non siano solo loro i protagonisti, non siano solo le parole, ma ci sia anche questa parte qua.

Prendendo a pretesto un personaggio marginale del libro, che fa i Tarocchi, le chiedo se lei crede alla fortuna.

Credo alla buona stella. O me la do come scusante. Come dicevo prima rispetto all’approccio alla vita felice, la vedo come una cosa bellissima, la vita, e siccome ho questa predisposizione buona, spero possa essere ricambiata. Non sono una persona coraggiosa, però rischio cose, dicendomi che in fondo ho una buona stella. Credo che se uno si asseconda e crede fermamente nelle cose che fa, la fortuna se la procura.

Emanuele fa da cicerone al protagonista Tommaso nei primi momenti dell’arrivo di quest’ultimo a Roma e contestualmente anche il lettore viene ad apprendere molte cose sulla città eterna, i suoi monumenti, i suoi passaggi segreti. Quale racconto da lei a sua volta appreso, riguardante Roma, l’ha più affascinata?

Mentre facevo un po’ di ricerche per il libro, mi ha colpito l’episodio del rastrellamento del Quadraro, che è un episodio davvero impressionante e poi Cinecittà durante la guerra. Erano cose che sapevo o avevo sentito raccontare, ma approfondite mi hanno colpito profondamente. Questo per quanto riguarda gli episodi storici. Dall’altro lato, c’è da dire che Roma è fatta di tante piccole storie, di tanti piccoli episodi, che sono straordinari. Per esempio, anche se nel libro è marginale, mi ha colpito molto la storia di Pasquino o quella che racconto della bocca della verità. Le stesse storie dei registi e degli attori che frequentavano Roma sono affascinanti. È pieno. Ecco, non riesco forse a identificare una storia precisa, devo dire che la prima fascinazione romana, pura, è stata per le poesie di Giuseppe Gioacchino Belli e per i film di Luigi Magni. Lì ho iniziato a vedere una Roma particolare che mi attraeva molto. C’è una storia romana però, ad onor del vero, che avevo sempre in mente quando lavoravo al libro. Si tratta delle due morti diverse di Seneca e Petronio, al tempo di Nerone. Seneca fece una morte da stoico bevendo la cicuta; Petronio invece si accomodò in una specie di vasca, si tagliò le vene, invitò tutti gli amici, chiacchierando e bevendo vino insieme a loro. Fece a sua volta una morte in linea con la sua filosofia. Questa storia è stata molto presente durante tutta la scrittura di Roma.

Nel suo libro trova spazio anche la poesia. Si racconta ad esempio di come Catullo arrivò a Roma, si citano versi e infine molte pagine sono intrise di poesia per lo stile e per una sorta di sentimento nostalgico che dimora in esse. Lei legge poesia e se sì, quali poeti apprezza di più?

La mia prima passione letteraria è stata l’opera del poeta irlandese William Butler Yeats. Il libro con cui ho iniziato a scrivere, nel senso di libro che una volta finitane la lettura, ha fatto sì che il giorno dopo prendessi in mano una penna per scrivere a mia volta, è stato I cigni selvatici a Coole di William Butler Yeats. Ho poi scritto un libro di poesie dal titolo Quello che dice una cameriera (Miraggi Edizioni, 2017) che per me ha rappresentato uno spartiacque, ovvero è stato il primo libro in cui mi sono davvero riconosciuto. E poi è arrivato Roma che, come ho già detto, è stato il primo romanzo in cui mi sono riconosciuto. Il mio libro di poesie raccoglie del materiale molto vecchio – fino naturalmente al più recente – e la prima persona con cui ho avuto a che fare nel mondo letterario e alla cui attenzione ho sottoposto la lettura delle mie poesie, è stata niente meno che Fernanda Pivano, che voleva farne pubblicare alcune, di quelle poesie. Non ci riuscì all’epoca. Se poi vuole dei nomi dei miei poeti di riferimento direi che mi piacciono molto Catullo, Lucrezio, Marziale, Foscolo, Shakespeare, Yeats, Francois Villon, Sylvia Plath, Anne Sexton, Emily Dikinson, Leonard Cohen. Questi sono i miei riferimenti. Dei contemporanei invece, il mio poeta preferito, che è anche un amico, è Edward Field, che ora ha più di 90 anni e lui è indubbiamente il mio poeta vivente preferito.

Nei ringraziamenti c’è scritto che il libro nasce da un pettegolezzo e da un ricordo. Ci racconta il pettegolezzo?

La zia di mia moglie è una sorta di cantastorie, conosce tante storie e ogni tanto ne racconta qualcuna. Da una di queste è nato il mio prossimo romanzo che in realtà ho iniziato a scrivere prima di Roma ed è un libro ambientato negli anni Cinquanta. Da lì ho iniziato a prestare ascolto attento a quanto raccontava e una volta ha raccontato un episodio vero accaduto in provincia di Piacenza riguardante una coppia che “dava scandalo”, come si usa dire, coppia che viveva vicina ad un’anziana signora. Quando la coppia andò via dalla casa in cui abitava, gettò un dildo in un cespuglio che confinava con la casa dell’anziana signora, la quale lo ritrovò. Non sapendo cosa fosse, iniziò a chiamare carabinieri, vigili del fuoco e artificieri, pensando che si trattasse di chissà quale ordigno. Questo episodio è stato quello che ha fatto scaturire l’inizio del mio libro Roma. Il ricordo invece, che ha dato il via a Roma, è quello raccontato prima, di Pasquale Panella e dei muretti.

Quest’ultima domanda ha a che fare con il cielo. Come è il cielo sopra Nicola Manuppelli?

Roma è un libro dove il cielo ha un ruolo enorme. È la prima cosa che mi viene in mente della città. Ed è immenso. Spero sia sempre immenso, chiaro e limpido, come quando di notte i protagonisti del libro, in una certa scena, lo vedono tutto stellato e si immaginano per ogni stella una storia e si immaginano di unire quelle stelle come puntini, per creare qualcosa. Ecco, forse questo è esattamente il mio cielo.

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Chiedi a papà – la partecipazione al destino degli altri ha un potere enorme, da sola può renderci migliori di quello che siamo mai stati – Gianfranco Franchi per Mangialibri

Chiedi a papà – la partecipazione al destino degli altri ha un potere enorme, da sola può renderci migliori di quello che siamo mai stati – Gianfranco Franchi per Mangialibri

Chiedi a papà – Gianfranco Franchi per Mangialibri

Papà Jan Nedoma, medico, ha combattuto per parecchio tempo con una tremenda malattia: i suoi figli Jan jr. (detto Hans), Emil e Kateřina hanno assistito alla sua decadenza e alla sua fine, così come la moglie, la compagna di una vita, Marta. Nella malattia di Jan, a un certo punto, non c’è stato più segno di luce e di speranza: in lui cominciava a essere la morte, e la morte è la tenebra degli uomini, quando sono dimentichi di un’autentica spiritualità. Testimoniare quel precipizio paterno era stato abbacinante; infine non esisteva più conforto. Morto Jan, Marta e i suoi figli fanno i conti con l’assenza, col nulla rimasto dopo di lui. Non se n’è andato soltanto lui, ma poco alla volta è finito nel nulla tutto ciò che avevano insieme, tutto ciò che erano stati insieme; ciò che avevano rappresentato. I fantasmi del passato si nascondono dappertutto: la memoria pretende più di un tributo, con imprevedibile frequenza; la coscienza fa sprofondare in più di un rovinoso esame. Hans dice che uno rimane bambino finché ha i genitori in vita. Forse è così. Intanto, la famiglia continua a ricevere lettere, scritte da un vecchio amico integerrimo; lettere che ripetono che papà Jan non era l’uomo che sembrava, era stato sleale, s’era ammantato d’un’aura di cristianità che non corrispondeva ai suoi comportamenti – ciò che aveva fatto per il regime comunista era criminoso. “Corrompere non è solo ingannare e pagare, nel suo significato principale vuol dire distruggere. In questo modo è stato distrutto tutto ciò a cui con tuo padre abbiamo aspirato per tutta la vita […]. La malattia è solo una parte della condanna che deve scontare in eterno, per espiare forse il sangue sulle sue mani”. Come accogliere parole così pesanti e inattese? Sono reali, è tutto reale? Siamo qui? “È possibile, per un istante, non morire? Per un istante, non fare del male? Per un solo istante non pensare alle lettere che cercano di convincerti che tuo padre era un uomo malvagio e meschino, che fingeva di essere un cristiano mentre prendeva parte ad autentici crimini? Un’accusa così tremenda che a causa sua ti cominciano a fare male proprio quei reni che tuo padre per tutta la vita ha curato […]. E le pareti ondeggiano e i rami si muovono, la sigaretta finisce”…

Jan Balabán, classe 1961, nativo del borgo di Šumperk, vicino Olomouc, Moravia, cresciuto nella grigia città industriale di Ostrava, laureato in Filosofia, è considerato tra i maggiori scrittori cechi del secondo Novecento e degli anni Zero. Apprezzato soprattutto come autore di racconti (premio Magnesia Litera per l’acclamata raccolta Možna že odcházíme, vale a dire Forse ce ne andiamo, nel 2005), come romanziere è stato particolarmente elogiato per libri come Kudy šel anděl, cioè Dov’è andato l’angelo (2003) e per questo Zeptej se táty, cioè Chiedi a papà, apparso postumo, in patria, nel 2010, salutato nuovamente col prestigioso Magnesia Litera, poi tradotto in Svezia, Serbia, Polonia, Bulgaria, Macedonia. Si tratta di un cupissimo, terribile e parzialmente autobiografico romanzo esistenzialista, scritto nell’arco di tre, lancinanti anni per meditare sul senso della vita, sul peso dell’assenza e sull’irrimediabilità della morte; è stato considerato un libro maudit, perché l’artista è venuto a mancare poco prima di completare la revisione del manoscritto, soltanto quarantanovenne, senza essersi nemmeno ammalato. Nella nota all’edizione italiana, in appendice, il suo storico sodale Petr Hruška osserva che in questo lavoro, così come in tutti i libri di Balabán, “troviamo l’incessante ricerca di una stabilità interiore, della dignità della vita in una ‘verità emotiva’ e in una fede in Dio informale”: i testi dell’artista ceco, infatti, “mettono insieme immagini della vita di persone che si trovano in crisi esistenziale, che brancolano in stati di abbandono di vario genere oppure in procinto di affogare, colpite dalle impreviste ondate della fatica di vivere”. Considerando che Chiedi a papà è il primo libro di Balabán tradotto in lingua italiana, la visione d’insieme offerta da Hruška è particolarmente utile: niente sapevamo della sua estetica e della sua poetica. “Balabán” – spiega ancora il suo sodale – “fa parte degli autori in cui ogni angoscia viene infine riscattata da una certa partecipazione, preoccupazione per la vicenda del prossimo. Era consapevole che questa partecipazione al destino degli altri ha, in fin dei conti, un potere enorme, e da sola può renderci migliori di quello che siamo mai stati”. Quanto ai maestri e in generale agli artisti più considerati da Balabán, il suo vecchio amico ci riferisce che era particolarmente ispirato da William Faulkner, Raymond Carver e dal poeta John Donne; tra i russi, i più amati erano il Nobel Ivan Alekseevič Bunin e il prevedibile Dostojevskij. Dalla pagina di wikipedia english, appuriamo che aveva tradotto parecchio, dall’inglese al ceco; soprattutto pagine di Lovecraft e del critico letterario Terry Eagleton. Chiedi a papà è la terza uscita della seducente collana di letteratura ceca «NováVlna», diretta da Alessandro De Vito; è stato pubblicato col sostegno del Ministero della Cultura della Repubblica Ceca.

“La realtà pura” tra Camus, Mersault, Walser ma soprattutto Kafka! – Martina Carnesciali intervista Riccardo De Gennaro

“La realtà pura” tra Camus, Mersault, Walser ma soprattutto Kafka! – Martina Carnesciali intervista Riccardo De Gennaro

Com’è nata l’idea de “La realtà pura”, qual è stata la scintilla che ha dato via alla storia?

Io credo che nella realizzazione di un romanzo non ci siano mai scintille, o illuminazioni. Ci sono fatti, accaduti o che stanno accadendo. Il punto di partenza è dato da una situazione particolare, nell’ambito della quale si sviluppano delle idee. Direi, anzi, che l’origine di un romanzo è data dall’incrocio tra una situazione e un’idea. La situazione genera un’idea che, a sua volta, determina una nuova situazione. E così via. Per me è così.

Perché la scelta di inserire i temi della paranoia e dell’ossessione, tanto in termini amorosi quanto mentali?

La paranoia e l’ossessione sono due stati mentali, che danno origine a un immaginario allucinato. C’è qualcosa di più importante per un romanzo?

Quanto dei tuoi desideri irrealizzati c’è nell’idea della storia?

E’ chiaro che qualunque romanzo contiene degli elementi autobiografici e il mio non fa eccezione. Il punto, tuttavia, è un altro: quanto c’è di irrealizzato, o meglio, di irraggiungibile nella vita di una persona? Io, ad esempio, una mattina mi dico: bene, vorrei essere Mozart. Ma Mozart non potrò mai esserlo, neppure se studiassi musica e composizione per secoli. Ed è così per un’infinità di desideri, direi quasi tutti. Siamo circondati da ostacoli spesso insormontabili, possiamo fare e ottenere soltanto poche cose. Nel nuovo romanzo cerco di esaminare il problema dell’impedimento. Il romanzo è una metafora dell’impedimento. Che cosa, quali forze, quali cause, ci impediscono di essere altro da quello che siamo? Io queste forze, queste cause, le ho espresse immaginando l’esistenza di una misteriosa organizzazione criminale, che – quando si attiva – condiziona la tua vita.

Quali autori sono stati d’ispirazione, quali storie lette – e a quale età, in quale periodo – sono state fondamentali per la tua poetica? 

Senza dubbio “Lo straniero” di Camus, letto intorno ai vent’anni, ha influito fortemente sul mio stile e sul mio modo di pensare. Qualcuno, a suo tempo, scrisse addirittura che il protagonista del mio primo romanzo, “I giorni della lumaca”, ricorda Mersault. Un altro autore che sento molto vicino per atteggiamento e nitidezza della scrittura è Robert Walser. I primi che hanno letto “La realtà pura” hanno poi detto che c’è molto Kafka.

Hai una produzione letteraria piuttosto eterogenea; hai già pensato al prossimo lavoro?

È vero, la mia produzione è abbastanza eterogenea, ma lo faccio per non annoiarmi. Ho pubblicato tre romanzi, una biografia (di Lucio Mastronardi), un libro–reportage sull’Argentina e un libretto di aforismi. Nel cassetto ho anche un libro di racconti (buona parte dei quali pubblicati su riviste) e una pièce teatrale che fa il verso a “La cantatrice calva” di Ionesco. Se ho già pensato al prossimo libro? Guarda, siccome i miei tre romanzi sono, nell’ordine, un noir atipico, un romanzo storico atipico e, questo nuovo, un romanzo d’amore atipico, sto meditando un romanzo di fantascienza. Anch’esso atipico, naturalmente.

RAI Cutura – Letteratura intervista Nicola Manuppelli

RAI Cutura – Letteratura intervista Nicola Manuppelli

http://www.letteratura.rai.it/articoli/nicola-manuppelli-roma/42820/default.aspx

A sette anni Tommaso batte a macchina con disinvoltura; il padre, che fa il segretario in uno studio legale, gliel’ ha insegnato quando era piccolo e il suo primo regalo importante è una Olivetti portatile. È così che il ragazzo approda alla carriera di giornalista a Milano, mentre è l’esplosione della bomba di piazza Fontana e il ferimento subito in quell’occasione a fargli decidere di partire per Roma per cambiare vita. In Roma, pubblicato da Miraggi edizioni, Nicola Manuppelli affronta una sfida coraggiosa: raccontare la Cinecittà di Fellini, ma anche il Pigneto, Trastevere, piazza del Popolo degli anni 1970-71 attingendo ad aneddoti su aneddoti (su Richard Burton, su Walter Chiari, su Gore Vidal per citare solo alcuni dei personaggi famosi che compaiono nel libro) senza cadere nel bozzettistico. Ci riesce e il suo romanzo fa scoprire al lettore l’epoca d’oro del cinema italiano attraverso gli occhi di un giovane ingenuo ed entusiasta. A Roma, Tommaso conosce Satchmo, un sosia di Louis Armstrong che vive costruendo notizie false sui divi grazie a una rete di collaboratori, tra cui presto annovera anche il nuovo arrivato. Tra cene che si protraggono tutta la notte, bevute interminabili, corse di maiali al Circo Massimo, Tommaso fa gli incontri fondamentali della sua vita. A stregarlo è Judy, un’inglesina di Bath, con la passione per il pettegolezzo sui divi. L’amaro finale oltre a segnare la fine della giovinezza, marca quel confine tra vero e falso che tutta l’atmosfera intorno a Tommaso sembrava voler negare. Manuppelli alterna il lavoro di scrittore a quello di traduttore di classici americani: la sua prosa vivace e appassionata ne trae gran giovamento.

Nicola Manuppelli è nato a Vizzolo Predabissi nel 1977. Scrive, traduce, cura, scopre autori americani e irlandesi (fra i quali Andre Dubus, Charles Baxter, Jane Urquhart, Roger Rosenblatt, A.B. Guthrie, Sara Taylor, Gina Berriault, Don Robertson). Collabora, fra gli altri, con Mattioli, Minimum Fax, Nutrimenti, Aliberti. Suoi articoli sono apparsi su Chicago Quarterly, Numéro, D di Repubblica, Satisfiction, Il Primo Amore, IBS Café. Ha pubblicato i romanzi Bowling (2014, Barney Edizioni) e Merenda da Hadelman (2016, Aliberti), la biografia della scrittrice Alice Munro, La fessura (2014, Barbera) e la raccolta di poesie Quello che dice una cameriera(2017, Miraggi). Dal 2016 conduce il programma radio I fuorilegge con Claudio Marinaccio e dirige una collana omonima di letteratura americana e italiana. Nel 2016 il noir Merenda da Hadelman (Aliberti). È biografo ufficiale dello scrittore americano Chuck Kinder.