Joao Paulo Cuenca è uno dei più importanti scrittori della letteratura brasiliana contemporanea. Il suo ultimo romanzo, “Ho scoperto di essere morto”, pubblicato in Italia da Miraggi, è stato tradotto in otto lingue e ha vinto il prestigioso Premio Machado de Assis. Cuenca, che è anche opinionista su diverse testate e regista cinematografico, è un grande appassionato di calcio e per questo ha accettato di affrontare diverse questioni: da quelle più strettamente legate alla passione per il Flamengo e per l’Argentina a tematiche politiche, sociali ed economiche.
Quando è nata la tua passione per il Flamengo?
«Credo che il calcio sia un tipo di malattia che ereditiamo dai nostri padri. Il mio, un argentino, è tifoso del Flamengo perché è una sorta di Boca Juniors brasiliano, è una squadra del popolo, e di conseguenza lo sono diventato anch’io. Poi sono cresciuto vedendo Zico vincere tutto. Insomma, non era difficile tifare Flamengo».
Ecco, tuo padre è argentino e tu sei nato a Rio de Jaineiro. Ti senti un’anima divisa in due o non hai dubbi su quale nazionale scegliere tra Argentina e Brasile?
«In campionato tifo Flamengo, ma quando ci sono il Mondiale o la Copa America non ho esitazioni su chi tifare: Argentina».
Qual è il tuo primo ricordo legato al calcio?
«Questo può spiegare la mia precedente risposta. Nel primo ricordo forte legato al calcio c’è mio padre che urla e piange di fronte a un vecchio televisore con il tubo catodico dopo che Maradona ha segnato il secondo gol nella partita contro Inghilterra durante il Mondiale del 1986. Quale altro tipo di spettacolo potrebbe avere un tale effetto su un uomo adulto?».
L’eterna questione: Maradona o Pelé?
«Non ho esitazioni: Maradona!».
Detta da un brasiliano, per quanto di padre argentino, è un’affermazione clamorosa.
«Ne sono convinto. E resto convinto, anche se, proprio in Italia, mi hanno soprannominato il Pelé della letteratura». (Ride).
Quando Socrates arrivò in Italia, gli fu chiesto se preferiva Rivera o Mazzola. Rispose: Gramsci. Credi che oggi ci possa essere un calciatore con questa cultura e questa capacità di guardare oltre gli aspetti quotidiani del suo lavoro?
«Purtroppo no. Una figura come Socrates sembra molto improbabile al giorno d’oggi. La maggior parte dei calciatori brasiliani sono molto lontani dalla politica o addirittura hanno sostenuto Jair Bolsonaro, candidato di estrema destra e vincitore delle elezioni di due settimane fa. Temo che molti di loro non abbiano mai letto un libro nella loro vita».
Il calcio sta diventando sempre più un business e molti tifosi rimpiangono i valori del passato. È un punto dal quale non riusciremo a tornare indietro?
«Temo di sì. Non può essere un caso che sempre più persone si divertano con i videogames o i giochi di simulazione in cui si trasformano in manager che si occupano di soldi, investimenti e profitti. E spesso la stampa dà a certe questioni lo stesso spazio riservato a ciò che avviene in campo. Ma quello che mi preoccupa di più è la corruzione che il denaro porta. In Brasile, la Federazione è coinvolta in diversi scandali».
Nel tuo libro si sottolinea in maniera molto netta la condizione di una Rio de Janeiro colpita dalle speculazioni legate ai Giochi Olimpici e al Mondiale.
«Il Mondiale organizzato nel 2014 si è trasformato in una opportunità per compiere diverse frodi e per aumentare a dismisura i prezzi dei biglietti. E questo è molto peggio del 7-1 subito dalla Germania o del vedere Neymar piangere come un bambino».
«Fin da bambina, era come se nel mio intimo ci fosse un tizzone di brace ardente. Crescendo, fui testimone della violenza domestica su mia madre e già in giovane età questa brace prese la forma di poesie…» Così si presenta Jacinta Kerketta nell’incipit alla sua prima raccolta di poesie dal titolo Angor, appena pubblicata dalla Miraggi Edizioni di Torino, con il titolo appunto Brace. Una quarantina di poems vibranti di tensione per quel continuo stupro di terre (oltre che di corpi) del quale è stata testimone fin da bambina nelle zone tribali del sud Jharkhand, in cui è nata. Land grabbing, sfollamenti, regolamento di conti tra minatori e caporali, dispute regolarmente risolte in favore del più forte, foreste teatro di ogni genere di saccheggio – e poi la fame, “che diventa fuoco”; campi impunemente sacrificati, magari a una diga. E la città che avanza, annulla/rimescola ogni identità: questi i temi che ricorrono nel lavoro di Jacinta, fortemente intriso di determinazione al riscatto e impegno a tutto campo, come animatrice di workshop di scrittura creativa nei villaggi, come role model per tante donne (e anche maschi) più giovani di lei, come esploratrice di quell’infinito field work che è il personale/politico – e quindi appunto scrittrice.
In questi giorni Jacinta è in Italia, protagonista di un lancio degno di una star: ieri era alla Ca’ Foscari di Venezia, per unalecture dal titolo quanto mai intrigante, Voices of Nature, Voices of Human Beings. Milano la vedrà oggi ospite della Libreria delle Donne, e lunedì dell’Università Statale; e poi Torino, Roma (tutti i dettagli nel Box) «e senza alcun bisogno di crowdfunding, perché ci sono situazioni, come questa che siamo riusciti a mettere in moto, dove bastano e avanzano le relazioni» commenta il suo editore/agente/amico Johannes Laping, che da anni frequenta quelle zone in rivolta in cui lei è nata, come attivista della piccola Adivasi Koordination che ha contribuito a fondare in Germania nel 1993 – quando le popolazioni indigene dell’India non se le filava nessuno…
Quel che segue è il succo di una lunga chiacchierata telefonica con Jacinta Kerketta qualche giorno fa, in attesa di incontrarla di persona.
Il tuo CV racconta di uno strepitoso debutto professionale come giornalista: borse di studio, premi, promettente carriera da inviata nelle zone calde del centro India, che poi interrompi per darti alla poesia…
Avevo deciso di diventare giornalista, iscrivendomi alla Facoltà di Mass Communication di Ranchi (e per questo devo ringraziare mia madre), dopo essere stata testimone di tanti abusi nella totale disattenzione dei reporters locali, e sarebbe fuorviante parlare di corruzione, spesso si tratta solo di pigrizia. Avevo voglia di raccontare come stavano veramente le cose e sono stati anni straordinari, prima come apprendista, poi inviata di qua e di là, e poi i Premi, alcuni importanti… al punto da farmi decidere a un certo punto di lasciare il quotidiano Prabhat Khabar (testata in lingua hindi con enorme seguito, ndr) e continuare come free lance. Una gioia alzarmi presto la mattina, fiondarmi dove mi pareva a bordo del mio scooter, il pomeriggio tutto per me, pubblicare quel che volevo, magari solo sulla mia pagina Facebook – ed è stato in quel periodo di totale libertà che la poesia ha cominciato a guadagnare spazio, non in alternativa al giornalismo, semmai come trasmissione più immediata di ciò che mi stava a cuore, e dritto al cuore di chi mi leggeva. Ha influito in questo cambio di registro la consapevolezza che il giornalismo, a determinati livelli, ha le mani legate – difficile non ricevere pressioni nella regione ricchissima di risorse minerarie, dove vivo io… Il che ha reso ancor più semplice la mia ritirata dalla stampa. I socials mi hanno aiutato.
Ho dato uno sguardo alla tua pagina FB: non c’è componimento che non registri centinaia di condivisioni, ti ho visto nominata “ambasciatrice della causa adivasi fuori dal Jharkhand”…
Sorprendente anche per me. L’unica spiegazione è che la poesia risuona con un’intimità speciale, in immediata sintonia con la musicalità rapsodica della gente per cui scrivo, che magari è inurbata da due generazioni ma nel suo intimo non ha perso il ricordo di ciò che nutre anche il mio scrivere: e parlo del sarna, quello che voi tradurreste come animismo, e che per noi è proprio un sentirsi dentro, ritrovarsi nella propria essenza dentro il creato, immaginare ciò che certi alberi o pietre hanno visto, in dialogo con il profilo delle colline, con la voce dei fiumi… un senso di viscerale appartenenza che nei miei versi si intreccia a fatti di inaudita brutalità, di cui tutti ormai sanno (grazie ai social networks) senza bisogno dei giornali. L’ultimo è di pochi giorni fa: decine di morti ammazzati, contadini innocenti, nell’ennesima battuta di caccia contro i naxaliti, in Bastar. Una guerra di cui nessuno parla da voi e che ha di nuovo traumatizzato quella terra di foreste da cui provengo.
Di tutto questo scrivi in hindi, che non sarebbe la tua lingua madre…
Ti sorprenderà sapere che l’hindi è la mia prima lingua, benché io appartenga all’etnia Oraon la cui lingua sarebbe ilkuruk. Ero piccola quando i miei genitori si spostarono dal villaggio di Khudpos alla più vicina cittadina, Manoharpur. Mio padre era entrato nei ranghi della polizia (un sogno per un giovaneadivasi di allora, come per tanti giovani di oggi, ahimè) e la mia educazione fu in hindi e poi in inglese, neppure a casa si parlava il kuruk. L’ho dovuto quasi imparare, quando ho cominciato a tenere i miei corsi di scrittura creativa per le ragazzine del villaggio di Kacchabari, nella zona di Khunti. Esperienza straordinaria, dalla quale ho ricevuto moltissimo, che mi ha messo a confronto con un mondo di cui sapevo ma di cui non immaginavo la felicità, per quella totale consonanza con la natura, e una natura che ovunque guardi letteralmente ti parla… e poi le feste, per ogni momento del ciclo agrario, con le danze, donne e uomini, tutti in circolo, al suono dei tamburi, fin dentro la notte, unica luce quella della luna che non hai idea quanto riesce a illuminare. Letteralmente una gioia scappare dalla città per sentirmi a casa lì, perché è lì che so di avere le mie radici…
Su questo tema è appena uscita infatti la tua seconda raccolta poetica, Land of the Roots, Terra di Radici,che presenterai in Germania subito dopo questo tour italiano.
Importanti le radici, questo ho scoperto rivivendomi nella mia identità più ancestrale di donna adivasi – questo cerco di trasmettere con le mie poesie. Esattamente come per quegli alberi secolari, quei campi che sono stati ricavati disboscando solo alcune zone, quegli esseri che armonicamente ci vivono dentro, partecipi di quello stesso humus che continuamente si arricchisce proprio in virtù di quella infinitamente rinnovata convivenza, l’umanità dovrebbe capire che, nel profondo, we are all one, figli della stessa terra. La politica cercherà sempre di dividerci, per dominarci meglio: hindu contro mussulmani, dalits contro adivasi,e all’interno del mondo adivasi ecco che stanno fomentando il risentimento contro i cristiani. Anche la violenza contro le donne rientra in questa strategia: non è solo violenza di genere, è violenza istigata per dividere ancor meglio uomini di comunità diverse che fino a ieri riuscivano a convivere e oggi conviene che siano in guerra, perché in questo modo ci si appropria più facilmente di territori che magari fanno gola – ed ecco che anche il corpo delle donne diventa campo di battaglia. Ma come dimostrano i corpi rimasti sul terreno nel massacro di pochi giorni in Bastar, questa è una guerra che non risparmia nessuno.
Fabio Selini, “Torneremo ad Amsterdam” è un libro a forti tinte granata. Quando è nata l’idea?
«Quella notte ha segnato intere generazioni: perdere una finale senza perdere, colpire tre legni in un’unica partita, storie che soltanto un tifoso del Toro può vivere e immaginare. Non superare, perché comunque quella rimane una ferita ancora aperta. E così ho deciso di raccontare la splendida cavalcata senza lieto fine: ho sentito come una fitta 15 anni fa, quando in viaggio ad Amsterdam andai al museo dell’Ajax e vidi quella coppa che doveva essere nostra. A 40 anni era giunta l’ora di fare i conti con la realtà e cercare di superare quel trauma».
Chi sono i protagonisti?
«Ettore e Paolo sono due grandi amici uniti dalla stessa passione, il Toro. La vita non è particolarmente felice per loro, hanno tanti problemi, ma quando vedono correre i granata su un prato verde dimenticano tutto. E allora partono per un viaggio per tutta Europa, proprio come fecero i ragazzi di Mondonico: Reykjavik, Atene, Madrid, e poi Amsterdam, tappe che un tifoso granata conosce a memoria. Tutto, però, non finisce all’Olympic Stadium, ma al Filadelfia: la nostra casa è rinata, quello è il luogo dove potersi ritrovare tutti insieme. E pensare a un futuro migliore, alzando lo sguardo e vedendo in lontananza la collina e Superga, altro luogo sacro per noi granata. A me è capitato proprio il 25 maggio 2017, all’inaugurazione del nuovo Fila con tutta la mia famiglia».
Come hai vissuto le serate delle due finali?
«All’andata per cause di forza maggiore ero rinchiuso in una casa di riposo a Mantova: mi isolai in un enorme stanzone vuoto con tre amici, mi diedero tanto supporto durante quel botta e risposta tra noi e l’Ajax fino al 2-2 finale. Al ritorno, invece, ero a casa con pochi intimi. Superai il primo palo di Casagrande, sopportai a malincuore quello di Mussi, ma alla traversa di Sordo non ce la feci più: mi inginocchiai davanti alla televisione, non ci volevo credere. Non ci potevo credere. E invece era tutto vero, e ancora oggi, nonostante abbia superato i 40 anni, fa ancora tanto male».
Abbiamo il piacere d’incontrare Elisa Occhipinti, in libreria con E lucevan le stelle per Miraggi Edizioni.
Buongiorno Elisa e ben venuta nella nostra cucina.
Buongiorno a voi e grazie per l’ospitalità.
Ami cucinare? Cosa prepariamo?
Amo tantissimo cucinare, soprattutto gli antipasti e i primi piatti. È un’attività che mi rilassa in modo particolare: dopo una giornata in giro e sotto stress, la sera mi fermo e dedico tutto il tempo e l’attenzione necessari per preparare una buona cena. Spesso cucino insieme a mio figlio Leonardo, che ha sei anni e mezzo. Prepariamo uno dei suoi piatti preferiti, il risotto allo zafferano.
Abbiniamo vino o birra?
Vino, preferibilmente bianco (magari un Riesling).
Sei in libreria col tuo romanzo di esordio. Dacci una breve anteprima. Di cosa parli e perché consigli di leggerlo? E lucevan le stelle è il racconto di una vita apparentemente come tante, “apparentemente” perché in realtà ogni esistenza è straordinaria. La storia tedesca del Novecento e le tradizioni di una piccola isola del Sud Italia si intrecciano con le vicende personali di Ulrike, che decide di ripercorrere, durante il suo ultimo viaggio, la sua storia e quella di quattro generazioni della sua famiglia. Spero che ogni lettore trovi il suo personale perché: per conoscere meglio la cultura e la storia tedesca, perché c’entrano la musica e l’opera (E lucevan le stelle è una famosa aria dellaTosca di Puccini), perché è un romanzo delicato, breve eppure denso di temi e di riflessioni.
Sei una appassionata lettrice, blogger, scrittrice. Che altro?
Vivo in Germania da cinque anni e sono principalmente un’insegnante di italiano, per bambini e adulti. Sto completando una formazione in Italianistica e Comparatistica e lavoro all’Università di Bochum come assistente e tutor. Curo un progetto di promozione della lettura, ogni tanto traduco dal tedesco verso l’italiano, organizzo presentazioni letterarie. Sono caporedattrice del sito Il Club del Libro e scrivo di libri su Magma, il nuovo magazine per gli italiani in Germania.
Come ti sei avvicinata alla lettura? E alla scrittura?
Mi sono avvicinata alla lettura da bambina e non ho mai smesso. Mio fratello Giovanni è un topo di biblioteca (oltre a essere poeta, ma questa è un’altra storia), mi ha sempre regalato molti libri. Non pensavo che mi sarei mai cimentata nella scrittura, semplicemente perché chiunque abbia letto – cito qualcuno dei miei libri preferiti – I Buddenbrook di Thomas Mann, Fahrenheit 451 di Ray Bradbury, Olive Kitteridge di Elizabeth Strout, Un uomo di Oriana Fallaci o Il teatro di Sabbathdi Philip Roth, non può che sentirsi piccolissimo… poi è arrivata una storia da raccontare, e insieme la voglia di raccontarla. Così è nato E lucevan le stelle, ma io continuo a sentirmi piccolissima.
Un consiglio ad un giovane che sogni di diventare scrittore?
Tenere sotto controllo gli avverbi ed evitare come la peste l’editoria a pagamento.
Oltre ad occuparti del mondo delle lettere, quali altri hobbies/passioni hai?
Studio il violoncello e pratico yoga. Mi piace lo scrapbooking, trovo sia un bellissimo modo per creare biglietti d’auguri e album di fotografie davvero unici. I miei prossimi obiettivi sono un corso di calligrafia e un corso di acquerelli.
Grazie per il tuo tempo. Ora, come tradizione di Giallo e cucina, ti chiediamo di salutarci con una ricetta che ami e con la tua citazione preferita.
Cucino quasi esclusivamente “ad occhio”, quindi non ho idea delle dosi. Si tratta di una ricetta semplice, veloce eppure raffinatissima, che faccio ogni volta che ne ho l’occasione e riscuote grandissimo successo: pasta con gamberi, pomodorini e farina di pistacchio.
Di solito uso le mezze maniche o le trofie, ma si sposa benissimo anche con pasta lunga come le linguine o le pappardelle. Faccio soffriggere uno spicchio d’aglio intero in olio extravergine, poi butto in padella i gamberi e sfumo con il vino bianco. Dopo qualche minuto aggiungo i pomodorini tagliati in quattro, insaporisco con sale e pepe e lascio cuocere ancora. Poco prima di spegnere la fiamma, tolgo lo spicchio d’aglio e aggiungo la farina di pistacchio, amalgamando di modo da ottenere una cremina (se necessario aggiungo pochissima acqua di cottura della pasta). Infine faccio saltare la pasta in padella, impiatto e… buon appetito!
La mia citazione preferita, da molti anni a questa parte, è “Be the change you want to see in the world”, sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo. È una frase di Gandhi che mi ha molto ispirata e incoraggiata in diversi momenti della mia vita.
Nicola Manuppelli, come è nata l’idea di Roma e perché ambientarlo in quel periodo storico?
«L’idea è nata da un pettegolezzo su una coppia di amanti emiliani che avevano dimenticato un dildo dentro un cespuglio. Il dildo era stato ritrovato dall’anziana vicina di casa della coppia. La donna, non sapendo di cosa si trattasse, aveva chiamato gli artificieri. Qualche giorno dopo, ero in un ristorante vicino a Cinecittà con Pasquale Panella, il paroliere dell’ultimo Battisti, che mi raccontava di quando da ragazzo scavalcava il muretto per andare a vedere gli studi cinematografici. Da questi due episodi è nata la scintilla. Anche se già da un po’ di tempo avevo deciso che avrei scritto un libro su Roma».
La scelta di Fellini era nei tuoi pensieri fin dall’inizio o si è fatta strada durante la scrittura della storia? Fellini è un autore che ami? Quali suoi film preferisci e perché?
«Adoro Fellini. Adoro I vitelloni, Amarcord, La dolce vita, Le notti di Cabiria e potrei andare avanti a elencare tutti i suoi titoli, disegni, copioni. Fellini è un autore a cui sono arrivato col tempo. Come mi è successo con Fitzgerald. Nella mia testa, li vedo come due autori molto simili, seppur con una diversa tonalità di voce, ma la sensibilità è quella. Anni fa, a Rimini, ho avuto per la prima volta l’impressione di essere davvero entrato in contatto con la sua opera. Più tardi, ospite a casa dello scrittore americano Chuck Kinder a Pittsburgh, buttai giù un romanzo mai pubblicato che fu il mio primo approccio con un modo di narrare “felliniano”. Sia in Gatsby che in La dolce vita il protagonista/voce narrante è dentro e fuori dalla storia. Questo era lo stesso tipo di approccio che cercavo. Così prima ho pensato a Roma, poi ho pensato che Roma potesse essere una sorta di nostra los Angeles, così come Milano poteva essere una nostra New York. Il protagonista si sposta da Milano a Roma. E a quel punto, ho pensato che il libro dovesse essere una grande festa, con un tocco di malinconia come le feste di Fellini e Fitzgerald – chiamiamoli le due F, i miei numi tutelari – dove ci si perdeva e dove far girare la mia giostra di personaggi. Fellini mi lascia continuamente meravigliato. Pensare a lui in corso della lavorazione del libro è stato inevitabile. Volevo che fosse un personaggio del libro, la luce verde del protagonista. E ho rivisto tutti i suoi film mentre lavoravo a Roma. La Dolce Vita, visto forse per la decima volta, mi ha lasciato ancora a bocca aperta. Non è solo un capolavoro di immagini, ma di moda, dialoghi, struttura narrativa. Un film immenso».
Quanto all’epoca storica, volevo che fosse il tramonto di un’epoca di Cinecittà, e c’era anche l’idea di un doppio piano per cui i protagonisti del libro si trovavano all’interno di una Roma ricostruita sul set di Roma di Fellini, che venne girato fra il ’70 e il ’71.
«L’uso di più personaggi, poi, con tutte le loro storie, mi permetteva di spaziare anche in altre epoche di Roma, facendo del romanzo una sorta di piccola cronaca di Roma».
A leggerlo si ha la sensazione che sia un’opera in qualche modo “destinata” a trasformarsi in un film. L’hai pensata con questo obiettivo o è casuale?
«Sì, è una delle cose che voglio fare in futuro scrivere per il cinema. E mi piacerebbe molto che Roma potesse diventare un film. Per la prima volta, in un romanzo, ho lavorato in questo modo; visitando i set, visionando gli attori che volevo ne facessero parte – per esempio, mi sono divertito a riprodurre la parlata di Walter Chiari o quella di Fellini -, suddividendo il tutto in scene, parlando con gente che sapeva informazioni che cercavo. Nella mia ottica, mi sono aperto alla collaborazione. Ho fatto come un regista che lavora con dei collaboratori, mentre nei libri precedenti mi chiudevo da qualche parte a scrivere, qui sono uscito e ho ascoltato e ho lasciato che io e tutto il resto fossimo al servizio della storia, o delle storie».
Quanto ti ha impegnato il lavoro di documentazione?
«Sei mesi. Oltre a tutto ciò che avevo accumulato ogni volta che ero stato a Roma e ogni volta che l’avevo vista rappresentata in un libro o un film, da Petronio a Belli fino a Scola e Monicelli. E poi mi è stato molto utile l’appoggio di amici romani, che mi hanno aiutato per esempio col dialetto. Su tutti, un magnifico libraio che si chiama Emanuele Spinelli e suo padre Franco che è una sorta di Omero romano».
Quanto ha influito la tua esperienza come traduttore di importanti scrittori americani?
«Come ogni altra esperienza biografica influisce sull’opera di uno scrittore. Non amo molto essere visto come “traduttore”. Tradurre fa parte del mestiere dello scrivere. E scrivere rientra nella categoria più grossa del raccontare storie. Vorrei essere in primo luogo uno che racconta storie, quindi per derivazione uno scrittore e infine un traduttore».
Il riferimento a Il giorno della locusta di Nathanael West è esplicito…
«È uno dei miei libri preferiti e ho avuto anche il piacere di tradurre. Non ho invece mai visto il film. In Roma c’è anche un omaggio all’autore, un produttore che di cognome fa Locusta. Invece il libro è in memoria di William Styron, autore un po’ dimenticato ma che con La scelta di Sophie ha scritto uno dei romanzi più belli del secolo scorso».
In questi ultimi mesi mi sono dedicata molto alla ricerca di blog letterari, soprattutto perché cercavo libri interessanti da leggere in italiano e informazioni sul mondo dell’editoria in Italia. Come tutte le ricerche che si fanno su internet, non sai bene da dove parti e non sai mai dove finisci.
Mi sono imbattuta nel blog di Elisa mesi fa, seguendo il suo profilo di Caporedattrice della rubrica letteraria sul Club del Libro. La cosa che più mi ha colpita? È una mamma che si è trasferita in Germania e ha un figlio maschio con lo stesso nome del mio.
Ho letto il suo blog marginaliae mi è piaciuto molto lo stile delle recensioni e la sua storia. Quando ho visto il suo profilo, mi son detta che sarebbe stata perfetta da intervistare per la rubrica del mio blog “Meet another working mom”. L’ho contattata, le ho spiegato il mio progetto ed eccomi qui.
Elisa mi sorprende per la sua determinazione e positività. Vivendo anche io in un paese di lingua tedesca, so per certo quanto sia difficile integrarsi nella cultura nordica e imparare la lingua. Lei invece è andata alla ricerca di questi elementi. Mi ha raccontato di aver studiato economia e tedesco all’università appassionandosi alla lingua e alla cultura.
LA MAMMA
L’arrivo del figlio cambia gli equilibri di Elisa, che a quel tempo lavorava in uno studio legale a Torino. Noi mamme sappiamo come l’arrivo di un figlio sia sempre uno sconvolgimento nelle nostre vite. Le priorità cambiano, le dinamiche di coppia evolvono e di colpo la nostra esistenza gravita attorno ad un esserino di pochi chili. Elisa si rende conto che il tempo dedicato al figlio è poco e il suo lavoro poco appassionate le porta via tempo prezioso. Capisce presto di voler un ritmo di lavoro più compatibile con la sua famiglia e una vita più interessante. Queste, ed altre ragioni, l’hanno spinta a voler cambiare vita. Con suo marito decide di trasferirsi in Germania.
Sono molto colpita dal suo racconto: molte persone ci mettono anni, o addirittura decenni, a capire cosa vogliono davvero e rimangono a lungo intrappolate in una vita di frustrazioni. Elisa invece dimostra molto presto maturità e autodeterminazione, caratteristiche rare in una ragazza che non ha ancora compiuto 30 anni.
Elisa: “Ho sempre lavorato” dice Elisa“e anche da mamma in Italia ero molto attiva professionalmente ed avevo molti hobby. Quando sono arrivata in Germania mi sono ritrovata a casa con mio figlio per un anno fino a che non ha iniziato l’asilo. In quel periodo mi sono resa conto di quanto il lavoro fosse importante per me. Lavorare mi fa sentire viva e attiva!”.
Anche Elisa, come molte altre madri, dice che la maternità non è che una parte di lei. Siamo donne con interessi e una vita professionale da sviluppare, oltre ad essere compagne, mogli e madri. I figli sono la nostra priorità, ma non posso essere l’unica cosa a cui ci dedichiamo.
E: “È importante crearsi delle oasi senza figli dove potersi ricaricare. Non siamo solo mamme!” dice lei con foga, dopo avermi raccontato che ogni tanto si ritaglia del tempo per sé stessa.
E cosa ne pensa il figlio di questa mamma piena di passioni?
E: “Sto educando mio figlio alla parità uomo-donna. Lui cresce con l’idea che sia normale che la sua mamma lavori e che abbia anche attività al di fuori della famiglia e del lavoro. Per me è importante che capisca che io sono anche molto altro, oltre ad essere la sua mamma. E lui non solo lo accetta, ne è anche contento”.
Non posso che essere d’accordo con lei. Dare il buon esempio ai figli è sempre la scelta giusta.
SCRITTRICE E…
“La vita da freelance si adatta bene ai tempi e ai ritmi dei bambini, specialmente se piccoli. Chiaro che ci sono anche dei contro. Si è da soli e si tende ad accettare molti piccoli mandati, non tutti molto soddisfacenti, ma per ora va bene così. Ho provato a riprendere un lavoro d’ufficio per qualche settimana, pochi mesi fa, ma non mi sentivo soddisfatta ed equilibrata. Per cui ho smesso e sono tornata ai miei progetti da freelance”.
Elisa però non si ferma alla sua attività di editor, redattrice e traduttrice. Cura un blog letterario, è caporedattrice del Club del libro, sta completando una formazione in Comparatistica e Italianistica alla Facoltà di Filologia della Ruhr-Universität Bochum, si dedica all’insegnamento dell’italiano e coordina il progetto per bambini “Nati per Leggere Deutschland”.
Si capisce dalla luce nei suoi occhi come tutto quello che riguarda i libri e l’insegnamento l’appassioni. Non sono molto sorpresa quando alla fine dell’intervista scopro che ha anche scritto un libro, che è stato appena pubblicato in Italia da Miraggi Edizioni.
Decido di leggere il suo romanzo, “E lucevan le stelle”, e lo leggo in un fiato. Bellissimo. Non sono molto stupita che la storia si svolga in Germania, ma sono molto colpita dalla maturità del racconto e dalla scorrevolezza della narrazione, nonostante i temi trattati siano molto seri. Il libro è un lungo racconto della vita di una donna tedesca come tante, delle sue tragedie familiari e del suo sviluppo di donna adulta. Raccontato in prima persona, Elisa, tramite la voce di Ulrike, ci fa scoprire l’impatto che hanno avuto il nazismo e la Seconda guerra mondiale nella vita dei tedeschi e percorre i decenni che seguono raccontando vicende familiari all’apparenza normalissime, ma che nascondo mondi di solitudine.
“E lucevan le stelle” è un romanzo bellissimo, poetico, pieno di riflessioni e molto ben scritto. Una lettura che non lascia indifferenti.
Leggendo il primo romanzo di Elisa sono ancora una volta colpita dalla maturità e determinazione di questa donna, ora anche scrittrice.
Un’altra madre che lavora come noi, una vita normale ma allo stesso tempo incredibile, un altro esempio da seguire.
Elisa Occhipinti, da dove è partita per scrivere “E lucevan le stelle”?
Da diversi anni mi sono trasferita in Germania, appena sono arrivata ho subito stretto un rapporto
con Brigitte: era una signora anziana che viveva in una struttura, appena sei mesi dopo il mio
trasferimento lei è venuta a mancare. Io ho iniziato la mia vita tedesca nell’aprile del 2013, a
dicembre dovevo già darle l’ultimo saluto. E’ stata una figura fondamentale per me, anche se ho
iniziato a conoscerla meglio dopo il suo funerale. La sua era stata una vita particolarmente difficile
e non ne aveva mai voluto parlare, ma io ho iniziato a indagare e ho trovato tanti spunti
interessanti. Chi è l’Ulrike del libro?
E’ proprio Brigitte stessa, perché sono partita da una storia vera e ci ho costruito sopra qualcosa.
Però è molto romanzato, ci sono tanti elementi di fantasia. Tutto, però, inizia appunto dal mio
incontro con Brigitte: la sua vita mi ha suscitato grande interesse e ho deciso di scrivere un libro.
L’ho iniziato nella primavera del 2014, pochi mesi dopo la sua scomparsa. Germania e Italia sono i suoi luoghi del cuore?
La vicenda si svolge proprio tra questi due paesi, sono legatissima ad entrambe le terre. L’Italia è il
mio paese, sono nata e cresciuta a Torino e tutti i miei parenti mi aspettano sempre a casa, perciò
non potrò mai dimenticare la mia terra d’origine. Dall’altra parte, però, ho sempre sentito mia la
Germania: ho studiato tedesco a scuola, il mio desiderio di trasferirmi in Germania si è realizzato
cinque anni fa e ora sono felice qui. Da chi si è ispirata per il titolo?
In qualche modo richiama Dante, sono una sua grande ammiratrice, ma in realtà è tratto dalla
Tosca di Giacomo Puccini: sono proprio le stelle e questa romanza a fare da filo conduttore. E sono
anche le due più grandi passioni di Ulrike, che in qualche modo richiamano quelle di Brigitte.
Eva Clesis, da dove nasce l’idea di “Amor”?
Ho iniziato a scrivere di una telefonata, poi il romanzo è continuato senza seguire un filone ben preciso: a differenza degli altri libri, quando avevo una trama fissa e organizzata nella mia mente, non sapevo bene dove sarei arrivata. Però mi piaceva l’idea di questo equivoco, di questo scambio di persone tra un uomo che è convinto di parlare con la sua amata e di una donna che, dialogo dopo dialogo, fa finta di essere chi non è. Perché anche nella vita di tutti giorni, consapevolmente o inconsciamente, ognuno di noi tende a manipolare il prossimo.
Chi è Lucia, la protagonista del romanzo?
E’ una donna che sta convivendo con il dramma di un brutto incidente, di un marito che l’ha abbandonata, di una persona che sta vivendo una fase di stallo della propria vita. E che, scoprendo tanti segreti dell’uomo con cui parla al telefono, trova il coraggio di affrontare situazioni che aveva sempre rimandato per paura: capendo che chi sta dall’altra parte della cornetta è un tipo violento e con la paura che la possa trovare, va in giro per Roma per risolvere tante questioni in sospeso. Il suo obiettivo è uscire dalla campana di vetro che si era costruita attorno a sé perché si rende conto di non poter vivere per sempre facendo la vittima.
C’è qualche elemento autobiografico?
Io stessa ho subito un gravissimo incidente, proprio come la protagonista, ma non ho mai voluto parlarne sui social, me lo sono tenuta per me. Perciò si può dire che è autobiografico dal punto di vista emotivo del personaggio principale. Non è stato facile scrivere questo romanzo, è stato mio marito a convincermi a portarlo a termine. Mi sono interrotta tante volte, ci ho impiegato quasi tre anni e nel frattempo ho scritto anche altri libri, un qualcosa per me impensabile dal momento che sono una persona particolarmente organizzata. Ma alla fine ce l’ho fatta.
Cosa significa il titolo?
Innanzitutto è un’espressione di un passaggio del libro, quando la protagonista interrompe il suo interlocutore che vorrebbe chiamarla “amore”. Ma il vero significato è Roma scritto al contrario, è una parola palindroma: ed è “amor” verso il corpo che dopo l’incidente mostra tutte le sue trasformazioni, oltre al sentimento verso la città. Perché per Roma provi amore e odio, una città bellissima ma allo stesso tempo difficile da vivere.
Matthias Martelli, partiamo dall’amore o partiamo dal contraccolpo? Partiamo dall’amore, si deve partire sempre dall’amore. Ma subito dopo arriva proprio lui, inaspettato: il contraccolpo, l’onda d’urto riculatoria. Gli effetti indesiderati dell’amore. Piernasi, l’autore-personaggio del libro, si innamora spessissimo, di decine di donne diverse, ma è un amore goffo, strambo, malriuscito, strampalato. Un amore desiderato ma che difficilmente si avvera, e quando sembra avverarsi, eccolo, sempre lui: il contraccolpo!
Oppure saremmo potuti partire anche da Pruno Piernasi: chi era costui? Pruno Piernasi è il più grande poeta contemporaneo. Un uomo difficile, duro, facilmente irritabile e pieno di sé. È un po’ la parodia del grande poeta contemporaneo. Si esprime con un linguaggio fintamente aulico, che alla fine si rivela inevitabilmente comico. Perché il Piernasi non parla e scrive come tutti noi: il suo lessico è pieno di parole storpiate, spesso inventate di sana pianta, che vanno a costruire una poesia nuova, spesso buffa, sicuramente originale. Piernasi, infine, è un personaggio inventato da me, ma ultimamente non ne sono più così sicuro: forse esiste realmente.
La poesia, oggi: più luci o più ombre? Ci sono grandi poeti sia popolari sia di nicchia. Il rischio ogni tanto è cadere da una parte nella banalità del “sole, cuore, amore” e dall’altra parte nell’eccessiva ricercatezza e aulicità, che poi è quello che prendo in giro in questo libro.
Amore di nicchia o amore popolare? Quale buttiamo dalla torre? Non buttiamo nessun amore dalla torre, per carità! Butterei piuttosto la pedanteria, la spocchia e l’eccessiva autocritica, che distruggono creatività e originalità. Mentre dai discorsi sull’amore toglierei quella vena di banalità che rischia di affogare il sentimento e di renderlo insulso.
La comicità nella poesia: ce la spieghi? La poesia comica è un genere antico, che risale fino al XIII secolo: basta pensare alla comicità giullaresca di Cielo (o Ciullo) D’Alcamo in “Rosa Fresca Aulentissima”. Si pensa che la comicità sia qualcosa di inferiore rispetto al tragico, di più semplice, io credo invece che scrivere poesie comiche sia un’arte raffinata. Fra i poeti di oggi stimo particolarmente Guido Catalano, che ha inaugurato un genere, con Catalano spesso si ride, ma non solo, è davvero geniale. Tuttavia la mia comicità in “T’amo aspettando il contraccolpo” è molto diversa: sono un giullare che prende in giro i poeti tronfi, quelli così seri che perdono credibilità. E nella parodia, alla fine, il finto poeta rischia di diventar poeta per davvero.
Ci racconti la tua infanzia, che certamente ha avuto un ruolo importante anche in questo libro? “Tutto dipende da dove sei nato”, diceva Dario Fo. Io sono nato a Urbino, un luogo così meraviglioso da non sembrare vero. Faccio parte dell’ultima generazione che giocava per i vicoli e nei cortili. In quelle vie si incontravano i personaggi di Urbino: studenti, artisti, professori, poeti, scrittori, e anche pazzi, pazzi buoni ovviamente, con cui chiacchieravamo e facevamo amicizia. Dentro i miei personaggi ci sono i matti buoni d’Urbino.
T’amo aspettando il contraccolpo lo vedremo a teatro o lo troveremo solo in libreria? Lo vedremo dappertutto, per le strade, nel teatri, nelle librerie, nelle case. Una vera persecuzione. A parte gli scherzi: sì, credo sia un testo legato anche alla performance.
A proposito di teatro: ormai i tuoi spettacoli valicano i confini italici. Com’è stata l’esperienza di Londra? È stata un’esperienza entusiasmante. Non voglio fare il solito discorso sulla superiorità di certi paesi europei rispetto all’Italia, ma l’impressione purtroppo è quella: dobbiamo puntare con forza sulla cultura in questo Paese, altrimenti il futuro è impensabile. Gli altri Paesi lo stanno facendo. Con la cultura si mangia. Si fanno dei gustosi banchetti di follia, allegria, riflessioni e meraviglia.
C’è un romanzo nel futuro di Matthias Martelli? Un altro libro di poesie? O cos’altro? Teatro, poesie, romanzi … Tutto quello che uscirà dalla mia testa. Ma non mi sento né un attore, né un poeta né uno scrittore: sono un giullare, che viene da joculator, da jocus = gioco, quindi gioco a esserlo.
Cinquanta anni dal 1968, quando Torino si ritrova al centro del mondo della contestazione nata in università. Tutto prende il via nell’autunno 1967 a Palazzo Campana, all’epoca sede delle facoltà umanistiche. Qui si affaccia la matricola Bruno Boveri e qui incontra Ermanno Gallo, gli autori di Il gioco della verità. Un libro scritto allora e rimasto inedito per mezzo secolo, oggi proposto da Miraggi. Gallo non c’è più, Boveri – dopo quei giorni e la laurea con Gianni Vattimo – ha insegnato, ha fatto il deejay, ha fondato radio libere, ha aperto (e chiuso nel 2007) la libreria Agorà a Torino, è stato dirigente di Slow Food dalla nascita fino a poco tempo fa (“E senza prendere un euro”).
Come nasce Il gioco della verità?
“Sono arrivato in università a novembre 1967, a Palazzo Campana, iscritto a Filosofia. Tre lezioni e, a fine mese, scatta l’occupazione contro lo spostamento della sede della facoltà: si parlava di un trasferimento alla tenuta della Mandria. In quei giorni ho conosciuto una ragazza, che mi ha presentato a Ermanno. Fino a quel momento avevo scritto solo poesie, con un passaggio di gloria personale quando mia mamma le spedì alla trasmissione Rai del professor Cutolo. Si faceva un primo tentativo di divulgazione culturale, venne letta una mio componimento. Ermanno aveva già scritto un romanzo. In quei giorni vivevamo insieme ogni momento e lui mi disse: “Perché non scriviamo qualcosa?”. Il giorno dopo è arrivato con due pagine e abbiamo continuato, sempre insieme ma mai assieme”.
Che cosa significa?
“Che non abbiamo mai scritto a quattro mani. Siamo andati avanti così, un pezzo a testa e raccontando il periodo che va da aprile 1968 all’inizio del 1969. Ancora adesso non so chi abbia composto certe parti”.
Che libro è?
“Un guazzabuglio: parti vere e parti inventate, autobiografia e romanzo. Non c’è una trama. C’è piuttosto un clima, il racconto di quello che capitava. Avevo 19 anni quando è scoppiato il movimento, ho subito aderito. Da lì è nulla è stato come prima, cominciando dal sesso. Si scopava come non mai… Si parla di un cambiamento, a iniziare da quello della persona, per poi raccontare quello della società. Si capiva che non sarebbe più stato possibile innestare la marcia indietro, con tutte le conseguenze del caso”.
Che tipo di conseguenze?
“Soprattutto che si sarebbe finiti nella lotta armata: Ermanno si fece un po’ di galera, io venni inquisito per costituzione di banda armata e poi prosciolto, anche se questo secondo aspetto difficilmente viene riportato oggi su internet. Ero vagamente di sinistra quando arrivai a Torino dalla provincia di Alessandria, mi ritrovai comunista duro e puro: l’attacco ai parrucconi accademici, il Vietnam, l’Internazionale. È stato un punto di rottura, soprattutto la presa di coscienza da parte di quei giovani che non si erano mai schierati fino ad allora. Volevamo tutto e subito, come cantavano i Doors. È andata poi male, ma era giusto farlo anche se lo sbocco del ’68, a livello teorico, era appunto la lotta armata: si partiva per fare la rivoluzione. Qualcuno è finito così; altri, e io tra questi, hanno fatto un passo indietro”.
Si parla del ’68 come di un unico movimento studentesco, in realtà non era così.
“C’era una grande frammentazione. Io facevo parte di Avanguardia proletaria maoista, eravamo 120 in tutta Italia, a Torino in 9. Al primo congresso, a Milano, siamo riusciti a spaccarci in due. Si arrivava fino ad assurdità come quelle di altri maoisti, tipo l’Unione marxisti leninisti. In una riunione sull’etica proletaria se ne uscirono con un documento vincolante che teorizzava il sesso simultaneo, ovvero che si dovesse raggiungere l’orgasmo tutti insieme, con vari corollari. Una posizione che sembrava inarrivabile ma che venne superata quando fu bollata come “trotzkista e tardoborghese” da quelli del Partito comunista d’Italia marxista leninista, altri maoisti…”.
A livello personale che cosa ha significato il ’68?
“Per me è stata la svolta della vita, da quel momento non sono stato più lo stesso. Avevo fatto il liceo classico tra Tortona e Voghera, pensavo solo a studiare, a costruirmi una carriera, a mettere su famiglia. È cambiato tutto: al primo posto c’era solo la politica”.
A chi è indirizzato il libro?
“Vorrei che lo prendessero in mano i ragazzi, anche se non è semplice da leggere. Però, se cominci, è un vortice, per capire che cosa era e che cosa siamo. Per capire che bisogna muoversi in prima persona, parlare e fare. E vorrei che gli ex del ’68 potessero ricordare quei giorni”.
Come mai sono passati 50 anni prima di vederlo pubblicato?
“A inizio 1970 io e Ermanno diamo il romanzo a Giorgio Barberi Squarotti, che insegnava Letteratura italiana. Ci dice: “È bello, lo mando a Einaudi”. Lì c’è Guido Davico Bonino, che lo boccia: “Troppo pornografico per Einaudi”. Ne parliamo a Barberi, la sua espressione dice tutto, lui manda il libro a Rizzoli. Due mesi di silenzio, Barberi dice che è positivo, che ci stanno lavorando su. Ci convocano a Milano, incontriamo uno che ci dice: “Ci è piaciuto, ci interessa ma così non è pubblicabile. Bisogna fare un lavoro di editing”. Ci siamo alzati dandogli del fascista, del cretino. Due coglioni”.
Il 17 agosto Giacomo Sartori è stato ospite di Fahrenheit, storica trasmissione di Rai Radio 3. Ovviamente si è parlato anche ti “Autismi”, pubblicato da Miraggi. Per chi avesse perso la puntata, vi mettiamo a disposizione il podcast
Come ha scritto sul Fatto Quotidiano Lorenzo Mazzoni, Il suono di Torino «è una bellissima e originale raccolta che narra il capoluogo piemontese attraverso un’operazione totale. Lo stile a puzzle di John Dos Passos e quello ermetico senza fiato di Nanni Balestrini si incontrano davanti a Mirafiori e si mischiano, con il gergo volgo-forbito di Vittorio Giacopini». Una scelta stilistica forte e per certi versi controcorrente, così come molti contenuti del libro scritto da Domenico Mungo, che in questa intervista ci svela i segreti del suo lavoro.
Il suono di Torino è indubbiamente un libro eterogeneo. Come lo definiresti? «Oggi è quasi impossibile scrivere un romanzo classico, a mio parere, poi c’è che lo fa egregiamente, con intrecci e caratterizzazioni psicologiche congrue e coerenti. La contemporaneità è imprevedibile, così come la ricostruzione sistematica di un passato più o meno distante, come quella che sottende la narrazione di una storia altra di Torino. Ho così raccolto eventi importanti, simbolici, fondamentali, ma anche personali, ironici, tragici. Veri, verosimili o fantastici che hanno influenzato, sfiorato, intersecato la mia biografia e ho cercato di costruirne un romanzo contemporaneo, o meglio un anti-romanzo. Un esercizio stilistico ma anche di contenuti sperimentali. Con una trama sottesa che riaffiora carsicamente legando luoghi, vicende, personaggi. Confondendo i livelli della storia, certificata attraverso una rigorosa ricerca di fonti e testimonianze- essendo fondamentalmente io uno storico, un docente di letteratura e storia ed un ricercatore – e la fiction, cut-up sonori e visivi, brandelli di documentari e sceneggiature mutanti, epitaffi e visioni mistiche. Imbevute in un maleodorante tentativo di noir urbano postpunk. Questo in virtù del fatto che anche la mia esistenza è stata molto frammentaria, un romanzo a racconti ne è lo specchio più fedele. Io sono un artigiano della scrittura. Parto da una massa informe di informazioni, documenti, appunti, bozze, scritti che ho lasciato scivolare nel retrobottega della memoria o pubblicato altrove sotto forma di articoli, recensioni, appunti, epigrammi ed epitaffi e poi lavoro di cesello. Scavo. Sostituisco. Taglio migliaia di parole, paragrafi, capoversi, fino a raggiungere ad una forma più essenziale, agile e, mi auguro, organica per il lettore. Per me lo diventa, eccome! Torino rappresenta il paradigma della città globale, non intesa dal punto di vista delle dimensioni e dell’esorbitante numero di abitanti, bensì per l’eterogeneità talvolta schizofrenica del suo tessuto etno-sociale e culturale. Una città storicamente multilivello e contraddittoria. Città imperiale e plebea, monarchica e rivoluzionaria, operaia e capitalista, avanguardia delle emancipazioni e roccaforte del conservatorismo, allevata dalla cultura istituzionale, editoriale, einaudiana, rigenerata ed innervata dalle contro-sottoculture di fine millennio, nobilitata dalle lotte operaie e studentesche e genuflessa alle logiche del neobusiness globale dalla riqualificazione ambientale, culturale e politica posteriore alla crisi dell’industrialismo novecentesco. Laboratorio di rivolta e repressione. Capitale dei buoni sentimenti di De Amicis e Fogazzaro, dell’ipocrisia piemontarda del Bicerin e Fiorio, ma anche dell’esoterismo nero, del razzismo scientifico di Lombroso, del taylorismo esasperato, della follia visionaria edesotica di Salgari, del pessimismo suicida di Pavese, della rabbia dei quartieri e dei vernissage internazionali del libro, dell’auto, dell’arte e della repressione. Del monopolio delle risorse pubbliche per cultura ed entertainment appanaggio dei soliti noti, degli spazi sociali autogestiti strappati all’asfalto, al degrado e all’ottusità del demanio al prezzo di arresti, denunce, torture, assassini di Stato e fiere occupazioni ancora r-esistenti. Era pertanto difficile rendere omogenea una matassa geneticamente incoerente. Era difficile raccontare una sola Torino. Era necessario osare una formula ibrida, urticante, uggiosa, palesemente devota alla letteratura classica e oscenamente debitrice delle avanguardie letterarie internazionali. Bisognava osare, infarcire le parole di suoni ed i suoni di parole. Un mosaico presente e chiaro nella mia mente, ma arduo da dipanare organicamente all’uso del lettore prosaico e diffidente. Il suono può essere pertanto considerato un romanzo sperimentale, multilivello, fraudolento in quanto spaccia per raccolta di racconti quello che la mia inerzia indolente non ha voluto trasformare in un romanzo composito e coerente».
I racconti nella letteratura italiana hanno spesso faticato a trovare spazio tra i lettori: perché hai scelto questa forma? «Ritengo che nell’epoca della sovraesposizione iper-cinetica della comunicazione, laddove i tempi di reazione all’istantaneità sono ridotti a pochi frammenti di tempo e la soglia di attenzione, soprattutto dei più giovani, è ridotta a brandelli infinitesimali, il racconto – che può essere letto per intero senza interruzioni, compreso e analizzato anche in un tempo limitato – rappresenta un’opportunità usufruibile facilmente e positivamente. Brevità ed intensità caratterizzano il racconto, congeniale pertanto ai nostri tempi convulsi e frammentati. Nel Novecento, peraltro, tutti i grandi autori della letteratura italiana e straniera si sono confrontati con la misura del racconto attraverso storie di fatti concreti e coinvolgenti soprattutto alla portata dei lettori più giovani. Leggere, i racconti in particolare, significa incontrare dei personaggi, farsi imbrigliare ed affascinare subito da una storia, da un intreccio e da un epilogo abbastanza rapido ma anche dal modo di raccontare di chi scrive e narra. Attraverso il racconto, talvolta, è più agevole comprendere i contenuti di una storia, ma anche i pregi estetici, le caratteristiche stilistiche, la delicata poesia e/o la sottile ironia che li pervadono». Tutti i maggiori autori del Novecento sono riusciti efficacemente attraverso il racconto, talvolta anche più che con il romanzo lungo, a lambire ed approfondire – sembra una contraddizione in termini data l’essenzialità del racconto –efficacemente il nostro paese e ci danno il senso della ricchezza lessicale e delle vivacità creativa e spesso sperimentale della nostra lingua. Pertanto la mia risposta a questa domanda ribalta i termini: sono io che chiedo a voi “non è il racconto ad essere entrato in crisi, ma piuttosto non è forse vero che l’industria editoriale non è più disposta a riempire cataloghi, scaffali, distribuzione e visibilità con raccolta di racconti, antologie o racconti singoli?”. Bisogna vendere prodotti, che giustifichino costi di copertina adeguati, e non che abbiano l’esigenza primaria di raccontare e basta. Ecco, ritengo che non sia il racconto ad aver perso la sua forza narrativa, speculativa e divulgativa, bensì il correre forsennato dei tempi che assembla e omologa tutto al maggior consumo possibile per il maggior numero di pagine possibile».
Il libro è anche un duro atto di accusa nei confronti di Torino… «Torino è una madre ingrata. Torino da secoli fagocita tutto ciò che raggiunge le sponde del Po. Partorisce, accoglie, nutre, alleva, fortifica, deprime, reprime, sbrana e sputa via. Un Conte Ugolino sopraffatto dalla storia, un Abramo che non viene fermato da Dio un attimo prima che il sacrificio abbia luogo. L’aspetto gotico, soffusamente noir e seriale, che sottende la sciarada di racconti vuole perorare la tesi che il vero responsabile di questa ecatombe è la stessa Torino transgender: un uomo-donna nero, con un cappellaccio ed un coltello a serramanico nascosto sotto il mantello. Si aggira tra Villarbasse dove compie un efferato eccidio rurale e Porta Susa a traino delle squadracce fasciste di Brandimarte inviate da Mussolini nel 1922 ad impartire una dura lezione a quella porca Torino avanguardia del Biennio Rosso, facendo capolino tra i Murazzi e Piazza Vittorio. E i suoi sotterranei. Si accanisce sulla Val Susa sotto forma di treno ad alta velocità e mortalità. Incendia il Cinema Statuto e fugge tra i mortaretti di un carnevale tragico e spolverato di neve fangosa. Deporta milioni di meridionali nella fabbrica sottratta ai nazisti dagli scioperi di guerra del ’44 con l’illusione del boom economico per incatenarli alla catena di montaggio di corso Agnelli e lasciarli senza lavoro, quindi condannarli alla morte sociale, dopo le occupazioni del 1980 ed il tradimento dei 40mila crumiri. Dal suo sottosuolo emergono artisti, musicisti, assassini, scrittori, ribelli, infami, venduti, eroi, tossici, tatuatori mistici, ultras, anarchici, pezzenti, santi e filosofi, puttane e spacciatori. E tutti muoiono a Torino oppure sopravvivono morituri, oppure incidono con il loro sangue la lapide del muro di suono digrignante che viene prodotta negli altoforni della sua civiltà industriale sepolta da un piano regolatore di riqualificazione urbana eppure disumana. Gli esempi sono decine disseminati in quasi tutti i 31 racconti, ma in realtà a me serviva un capro espiatorio, un assassino seriale, un’antropizzazione di un concetto allegorico, politico e storico per delineare organicamente il corpus tradizionale di un romanzo che, tradizionale, non lo è per niente. Pertanto la metafora che domina l’incedere del volume è caratterizzata dalla duplice icona della Torino omicida seriale che perpetra un’ecatombe lunga un secolo. Imprendibile e responsabile di lutti e sciagure come il Solito Sconosciuto che conclude, tragicamente, l’epopea rurale di Fontamara. È comunque questo un lavoro ancora nella sua fase iniziale ed incompiuta, poiché prevedo Il Suono come la prima parte di una trilogia torinese, il cui sequel è già in cantiere con il titolo del L’Altro Suono di Torino, una raccolta dei racconti in negativo di quelli comparsi nel primo volume, in grado di incastrarsi nelle zone d’ombra volutamente lasciate sospese e finalmente completare la cornice spazio-temporale e di causa effetto dei racconti».
Quanto c’è di autobiografico e quanta parte ha la fiction nella tua opera? «La maggior parte dei racconti sono veri o verosimili. Lo spazio per la fiction è relegato al connettore delle diverse storie, costruito attraverso il grezzo canovaccio dell’eccidio di Villarbasse: una sorta di onirico gotico, allegorico neorealista. I criteri di scelta sono quasi sempre legati all’emozione, al sentimento, al caso e ad una buona dose di culo».
A rappresentare un filo conduttore tra le pagine è anche la musica punk… «I racconti sono intersecati dalla liriche blasfeme ed insolentemente anarchiche dei Nerorgasmo, seminale punk rock band torinese che a cavallo dell’inizio degli anni 80 significò molto per la controcultura torinese e nazionale, ma anche di numerosi altri gruppi torinesi e non solo, ma anche di Lucio Dalla, Fred Buscaglione e gli eroi del rock e del punk internazionale. Il Suono di Torino è anche il ronzare impenitente delle sue chitarre digrignanti rabbia&disperazione, poesia e melodia in battere e levare, colate di velluto e bitume e cipressi distorti da un Marshall in eruzione incastonato in un giardinetto emostatico di Mirafiori e della Barriera di Milano.
In un’intervista hai dichiarato che “più le imprese sono disperate e più mi affascinano”: qual è oggi un’impresa disperata? Credo che gli scrittori debbano osare, oggi più di ieri. Credo in un ruolo ancora destabilizzante, curioso, provocatorio, puro ed ingenuo dello scrittore rivolto alla società contemporanea, ed alla narrazione dei suoi mutamenti genetici e cronologici. Vedo attorno a me decine di scrittori bravi, ma sostanzialmente innocui. Ottemperati alla catena di produzione industriale della scrittura: al posto giusto nel momento giusto, senza incidere sulle coscienze, ma accompagnandone lo scorrere nell’alveo della normalità. Al cadenzar della periodicità stabilita dai contratti estorti e dal copyright e non dall’intuizione e dal talento. Osare, bisogna osare, come ha fatto la casa editrice Miraggi nel voler testardamente pubblicare Il suono di Torino, altrimenti la letteratura rimane ancella del consumismo e non si emanciperà mai come sua Cassandra. Io sono un disperato perché ti voglio amare…
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