ignificati inaccessibili solcano le pagine di Ore di piombo, colossale, coraggiosa e inesorabile opera di Radka Denemarková. Un libro con un destino, intessuto di simboli, visionario, complesso e affascinante, intriso di rara purezza. “È possibile vivere e scrivere allo stesso tempo?” si chiede l’autrice. Un contrasto apparentemente insanabile. “Scrivere, l’incessante attività della sua mente, è una stretta passerella sopra la voragine”. Per farlo, forse, occorre vivere “in un duplice tempo, in un duplice mondo”. Dicotomia simboleggiata dal grido lacerante della gazza azzurra, condannata a soffrire per ciò che è destinata a vedere, e dalla cecità della cornacchia nera, alla quale hanno fatto il lavaggio del cervello. Denemarková si muove in equilibrio su un abisso. Da un lato Praga, dall’altro Pechino. Nel mezzo un filo sottilissimo e periglioso. La sua scrittura assume forme inconsuete nel tentativo, perfettamente riuscito a nostro avviso, di fornire al testo pregnanza polisemica.
Entrare in un’altra cultura è quanto di più arduo si possa immaginare. Forte di un universo interiore di inconsueta profondità e di un’esperienza diretta sul campo, Denemarková – Scrittrice nel libro – indaga le dinamiche che muovono la società cinese per riflettere sul mondo contemporaneo. L’ambientazione “esotica” intride di fascino la narrazione, dietro l’atmosfera fiabesca il libro è ben radicato nel reale. L’autrice ha vissuto in prima persona il totalitarismo. La Cina di oggi, come la Cecoslovacchia sovietica, è un luogo nel quale nessuno esprime la propria opinione e, quando si azzarda a farlo, ne paga le conseguenze con il sangue, come è accaduto in Piazza Tienanmen; un Paese dove le intercettazioni sono sempre più sofisticate, dove “il sistema legale difende solo coloro i cui profitti lievitano”. “La Cina è un campo di concentramento dai confini impermeabili”. Denemarková ricorda la primavera di Praga, soffocata dai carri sovietici, eppure c’è ancora chi pensa di aver assistito a una liberazione, e non a un’occupazione. Riflessioni che possono applicarsi all’attuale invasione dell’Ucraina da parte della Russia. “La propaganda è una menzogna collettiva e le calunnie collettive non c’è modo di estirparle”.
A tal punto arriva la manipolazione delle menti. In una realtà in cui l’unica virtù è l’obbedienza, l’accettazione acritica, le persone non rieducabili vengono estromesse e annientate con il sospetto e la calunnia. Il controllo delle menti è anche manipolazione dei corpi. Ai condannati vengono espiantati gli organi. “Una voce legge davanti al corpo mutilato la sentenza”. Il sistema indirizza la vita privata. Il governo cinese detta il numero dei figli, e quindi le dinamiche familiari. Di tutto questo la donna è vittima, schiacciata da un modello patriarcale che non le lascia spazio, né le riconosce dignità.
L’incapacità dell’uomo di imparare dai propri errori è un fardello arduo da sopportare, in quanto mortifica qualsiasi speranza. Il libro non resta confinato a un singolo angolo geografico, per quanto immenso, ma è caratterizzato da una continua erranza, anche temporale, che ci trasporta dalle lande del lontano oriente ai paesaggi dell’Europa dell’est, dal passato al presente. Gli anni Novanta appaiono come un’orgia di potere, dominata dall’ossessione del comando e del denaro. Città elefantiache e impersonali, coperte da una perenne coltre di smog, racchiudono esseri sbiaditi, privi di personalità. Le tecnologie moderne, sempre più sofisticate, intossicano gli uomini finché questi non riescono più a distinguere fra gioco e realtà.
Stilisticamente il linguaggio ricchissimo, potente e visionario, così come le prospettive illimitate, possono ricordare gli universi barocchi creati da Vollmann. Il libro è un romanzo con derive saggistiche, pregno di riflessioni sulla politica, sulla natura del linguaggio e sulla calligrafia, un mondo di enorme vastità nel quale perdersi. La Cina è uno specchio dove vediamo riflesse le nostre paure, i nostri dubbi, le contraddizioni che lacerano la realtà in cui viviamo. Le tematiche della modernità si addensano in un affresco di enorme complessità. L’architettura stratificata, labirintica della narrazione addita le lacerazioni e i mutamenti che scuotono il nostro pianeta. Quali saranno gli esiti e le conseguenze, quando passeranno le ore di piombo evocate dal titolo, è l’interrogativo principale del libro. “La letteratura è la chiave per arrivare alle vite degli altri”. La parola è un’arma potente. Per questo i libri considerati nocivi vengono tratti al rogo, per questo libraie appassionate vengono torturate e offese, per mortificare ogni anelito libertario.
La Cina appare come un disumano meccanismo kafkiano, oppressivo e avido, mentre gli individui svaporano in un nulla colmo di apatia. Anche l’Europa si sta sgretolando, aggredita dalla paura. Le persone sono terrorizzate, i cuori anestetizzati dal capitalismo sfrenato. La divisione fra noi e loro impedisce qualsiasi forma di comunicazione con l’altro. “Si ripete un modello che ha funzionato nel corso di tutta la storia umana. La disumanizzazione”. Con grande coraggio Denemarková vuole dire tutto, desidera attingere alla verità, è stanca di tacere, perché anche il silenzio è menzogna. La cornacchia nera cava gli occhi alla gazza azzurra, incarnazione dell’anima inquieta dei defunti. Esiste la vita ed esiste la morte, e poi c’è la non vita a minacciare il nostro tormentato presente.
Leggere i romanzi di Sergio La Chiusa è un esercizio di equilibrio. Vuo dire camminare su un filo sottilissimo – quello che separa ciò che reale da ciò che non lo è– cercando di rimanere in piedi, ma finendo irrimediabilmente per cadere. Cadere in uno spazio dove l’adesione alla realtà cede di continuo il passo all’immaginazione e all’invenzione, e viceversa. accadeva nell’esordio IPellicani, menzione Treccani alla XXXii edizione del Premio Calvino: “La distanza tra messinscena e vita vera è così sottile alle volte che si scivola da una parte all’altra senza nemmeno accorgersene”, diceva a un certo punto il protagonista, e accade in questo secondo romanzo, frutto di un lavoro di scrittura ventennale e sempre pubblicato da miraggi: “ma basta divagazioni. ipotesi, peraltro. mica fatti certi, indiscutibili. d’altronde, nella società dell’informazione non sono proprio i fatti a scomparire? tanto vale tornare alle nostre invenzioni, allora, riprendere il filo del romanzo…”, sentiamo dire quasi alla fine del libro al narratore. Un narratore che irrompe nel racconto, passa all’improvviso alla prima persona plurale, utilizzando un “noi” che trascina nel discorso se stesso e il lettore. e accompagna, anzi, insegue il protagonista – di nuovo, come nei Pellicani, un fallito sul piano sociale e professionale, “un personaggio incolore, una tipica risorsa in esubero” ma anche, per la sua aria pensierosa, un po’ sospetto “in questi tempi dominati da risorse umane pragmatiche, industriose e performanti” – in un viaggio-peregrinazione attraverso “la città delle opere” o “della moda e degli eventi”. Una metropoli “brulicante di affari e di futuro”, chiaramente milano, dove “non si può sostare da nessuna parte, (…), bisogna circolare sempre, e con una ragione precisa, e se proprio non si può circolare che perlomeno si marcisca in luogo appartato, deputato alla putrefazione”. e nella quale l’unico modo per riuscire a vedere, per farsi largo nella nebbia – quella interna, soprattutto, una nebbia che è “sparita dalla città delle opere, e a pensarci può darsi che si sia in effetti trasferita nella testa dei sui indaffarati abitanti” – è cogliere l’ambiguità intrinseca del mondo usando la lente dell’assurdo, dell’ironia e dello humour. e qui il pensiero corre immediatamente alle possibili origini di questa storia, ossia a quei segni che, nel saggio L’artedelromanzo, milan Kundera ha identificato come distintivi del romanzo moderno: lo “spirito dello humour” e la “saggezza dell’incertezza”. Non appena “il nostro protagonista” – che, non a caso, di nome fa Ulisse orsini ed è un vero e proprio cavaliere errante del nostro tempo, affetto da una cupa stanchezza esistenziale, indebitato e a rischio di sfratto – esce di casa per andare in banca a ritirare gli ultimi risparmi, pagare i debiti e “mettersi in regola col mondo, guardare tutti a testa alta”, ci accorgiamo infatti che la città in cui lo vedremo camminare seguendo “l’istinto di cancellazione” è raccontata intendendo “il mondo come ambiguità”, accentando il fatto di “dover affrontare invece che una sola verità assoluta, una quantità di verità relative che si contraddicono (verità incarnate in una serie di io immaginari chiamati personaggi)”.
E quindi, ecco che La Chiusa, facendoci pedinare orsini, servendosi di un umorismo a volte feroce e a volte amaro, di una lingua che magicamente sa essere allo stesso tempo limpida, asciutta, densa, allusiva, colta, triviale, ci fa entrare in quello spazio del quale si diceva all’inizio. Uno spazio dove è facilissimo perdere le coordinate del reale e lo spaesamento la fa da padrone. Una città dove l’unico punto di riferimento solido, il duomo, con i sui pinnacoli che svettano oltre la luce gassosa della modernità, è diventato “un monumento variabile, smontabile e rimontabile secondo la moda e la domanda del mercato”. Un mondo dove i luoghi appartenenti a una dimensione altra – di volta in volta surreale, grottesca, infernale – e le presenze enigmatiche e allucinatorie – una Venere dell’immondizia trasandata, indisciplinata e licenziosa, le ombre che frequentano un condominio-bordello del centro – sembrano manifestarsi per dirci com’è la nostra esistenza, per spiegarci la realtà assurda e insostenibile in cui viviamo. e così, si parte dall’ultimo piano di un palazzo fatiscente e dallo studio del dottor Guido Klammermann, al quale orsini è arrivato su suggerimento di un condomino solerte e il cui pianerottolo è zeppo di personaggi dall’aria derelitta. si passa per il corteo funebre di un morto prematuro – sebbene i morti abbiano compreso di stridere con l’immagine moderna della città delle opere, “tali testardi sabotatori dell’ottimismo non conoscono recessioni” – e per la “corsia degli incurabili” di un ospedale che non guarisce nessuno e ti mette di fronte al tuo “stato di spettro ambulante scomposto e replicato”. Fino ad arrivare – insieme a un orsini in pigiama, con una valigia piena di biancheria e senza documenti, “ed eccolo agitarsi, Ulisse, sentirsi perduto, preso nella massa anonima dei profughi” – al luogo centrale di questo romanzo: il cimitero delle macchine, collina di rottami e di rifiuti anche e soprattutto umani, rifugio di un gruppo di antispeciste per cui i diritti umani valgono anche per i moscerini, di una “tardona” naturista incinta di un imbrattamuri, sede di un movimento di piromani ragazzini e regno incontrastato dell’imbianchino Lazzaro Lanza, sedicente riformatore del mondo, messia che, seduto su un bidet incastrato in un monticello di ceramica, predica di “poter costruire ponti ideologici e spirituali” per traversare il tempo e tornare a quando “si viveva tutti in pace, nel giardino dell’eden”.
Ed è in questo “paesaggio degenere, anzi, un’anteprima della fine dei tempi” che, alla fine di un corteo molto simile a una via crucis per il centro della città, prima dell’ennesima fuga di Ulisse orsini, capiamo due cose: non solo a stare in equilibrio sul filo teso tra reale e non reale, ma soprattutto che, in libreria, vorremo molti più romanzi come questo: perché ci mostra che è possibile abbandonare il dominio assoluto del realismo e, allontanandosi dalla mera cronaca, dai fatti, servirsi dell’inverosimiglianza per illuminare i meccanismi del reale.
La ceca Radka Denemarková costruisce un romanzo fluviale su più piani narrativi che è un atto d’accusa contro i totalitarismi.
La Cina è uno splendido campo di concentramento dal confini impermeabili, la Cina e un giardino fiorito, e non è una contraddizione», grida un’artista nel corso di uno del tanti incontri del peculiare diario di viaggio nell’anima dell’Europa e nell’anima di un pezzo d’Asta» di Scrittrice, la protagonista del ro manzo Le ore di piombo, Radka Denemarková, apprezzata intellettuale ceca, non sfuggite certo i temi controversi. Versatile autrice che vuole «svincolarsi dalle catene della mia lingua, del mio sesso, del mio Paese e della mia epoca », Denemarková è una delle voci più originali dell’attuale letteratura ceca. Arriva ora nelle librerie il violento atto d’accusa Le ore di piombo, con cui Denemarková ha vinto nel 2019, per la quarta vol-ta, il più importante premio letterario ceco, Magnesia Litera. Monumentale alfresco narrativo traboccante di riferimenti culturali, Il romanzo riprende nel titolo una poesia di Emily Dickinson sui momenti fatali che trasformano i destini individuali. Fatale ha del resto un duplice significato: il piombo è una sostanza che avvelena lentamente. Denemarková stessa ne ha paragonato la scrittura alla costruzione di un tempio. Le ore di piombo è un ro manzo che ricorda l’arte raffinata della calligrafia cinese. L’ampiezza e la densità del testo hanno rappresentato una sfida editoriale vinta sia per l’editore che per l’ammirevole traduttrice.
Abbiamo di fronte un’opera che si dilata nello spazio e nel tempo, basata sulle vicende di una serie di personaggi che esplorano variazioni esistenziali della stessa situazione: Scrittrice, Programmatore, sua moglie e la figlia Olivie, Amico, Marziano e la sua famiglia, Diplomati-co, Ragazza Cinese e Madre Cinese, Avvocato, Studentessa America-na, Pittore, Arrampicatore. Sulle pagine del romanzo si dipanano sotto lo sguardo attento della polizia segreta cinese, ambigui e spesso patologici legami, piccoli intrighi quotidiani e scambi di parole prive di contenuto. Il destino di questi lugubri personaggi è quello ti trovarsi di fronte alla loro ora del la verità, che per qualcuno porterà a scene di violenza familiari o alla fuga verso oriente, per altri alla dittatura dei rituali domestici o anche a un braccialetto spia. Più che un romanzo sulla Cina, abbiamo di fronte uno specchio, una luce sconsolata puntata sul labirinto di rap porti servili che legano gli europei alla Cina, che spesso mascherano solo sete di profitto.
E possibile resistere in «un’epoca in cui qualcosa di essenziale sì sta sfaldando e trasformando»? È giunta per la cultura europea l’ora fatale? Di fronte all’onnipresente paura della società cinese torna attuale la questione della battaglia spesso vana contro la propaganda (anche russa) e in favore dei diritti umani, qui personificata dal lascito ideale di Václav Havel. Dopo ripetuti soggiorni a Pechino, certo non sorprende che l’autrice sia stata bandita dal Paese per i suol contatti con la locale scena dissidente del manifesto Charta 08, che si rt-collegava alla cecoslovacca Charta 77. In quella che è forse la più inquietante linea narrativa del romanzo, per colpa di Scrittrice quest’eredità contagia Ragazza Cinese, ma la sua rivolta conduce solo alla sua esecuzione, dopo l’asportazione del reni, merce pregiata sul mercato nero degli organi. La persecuzione dei “non rieducabili” come lei si svolge davanti all’indifferenza generale, rimarcata dalle reiterate conversazioni da salotto de gli europei che contano: «Gradisce un altro bicchiere? E la sua prima volta in Cina? Com’è andato il volo? Le piace la Cina?-. In questo squallido panorama di maschi predatori e donne superficiali sembra no tutti concentrati sulla propria scalata sociale, Tra le pochissime eccezioni, Olivia e David, giovani outsider sui quali si riflettono le malattie del presente. Sulla propria pelle vivono invece la minaccia alla libertà le gazze azzurre che combattono nei cieli una battaglia impari con le cornacchie nere (‘on-nipresente polizia segreta?), e il gatto millenario Arancio e il suo discepolo Mansur, che attraversano la storia, osservando i travagli dell’uomo con sempre maggiore disincanto.
Radka Denemarková descrive un’umanità moribonda, che avreb be urgente «bisogno di una trasfusione» perché «nel suo sangue circolano liberamente i virus dell’anti-semitismo e del razzismo. La narrazione avanza per microsituazioni, per accumulazione di storie, ognuna delle quali avrebbe potuto rappresentare materiale sufficiente per una novella. Anche per questo Scrittrice può affermare a buon diritto che «probabilmente non troverò mai più l’energia per scrivere un libro come questo».
ora delle distanze è un singolare romanzo, ma anche un singolo musicale e un 45 giri disponibile da ottobre su vinile colorato, scritto da Lory Muratti e illustrato da Andy (Andrea Fumagalli) fondatore, insieme a Morgan, del gruppo musicale Bluvertigo. Colpisce subito la bella copertina e il particolare layout a due colonne che mi ha catapultato rapidamente in un tempo in cui ero ragazzina e tenevo in mano le pubblicazioni “Urania”. Il libro è un viaggio che, traendo ispirazione dalle numerose illustrazioni dei quadri visionari di Andy, è giocoforza qualcosa di surreale e psichedelico.
Il protagonista di questa strana storia è un disegnatore costretto da una misteriosa voce al telefono nel ruolo di “pusher del colore” che, se di giorno spaccia dosi di emozioni acriliche agli abitanti disorientati e anestetizzati di un mondo in bianco e nero, di notte si rifugia nel suo laboratorio per sottoporsi a una trasfusione di colore che lo porta a viaggiare dentro le sue stesse opere: ci viene così raccontata una “contro-realtà” abitata da personaggi imprevedibili, pittoreschi, onirici e fuori dagli schemi tipo il Killer del Phon, la Regina, l’Uomo dell’Interludio e il Violinista Appeso, ma anche da personaggi molto meno irreali come David Bowie, Isabella Rossellini, Alain Delon e un suo doppio malvagio da sconfiggere in una dura battaglia a colpi di pennarello.
In questo viaggio lungo una notte, troviamo musica, letteratura e pittura in modo da coinvolgere tutti i sensi nella lotta quotidiana di chi non vuole arrendersi a vivere in una realtà corrotta in quanto abitata da un’umanità che ha dimenticato l’importanza dei sogni e delle emozioni e che, sconfitta dal vuoto che avanza, vive immersa in un mondo in bianco e nero pericolosamente privo di sfumature: “Un mondo annoiato dai sogni è un mondo da far saltare in aria” ci dicono gli autori. Esiste, dunque, un’alternativa a questo nostro mondo violento, ignorante e vinto da regimi che indossano l’abito della democrazia, in cui la perdita di ciò che avevamo duramente conquistato decenni fa, ci ha portato a vivere in assenza di sentimenti, soffocati da rapporti malsani e fasulli, a convivere con persone che ci rubano il tempo – specie quello libero, preziosissimo – senza neanche chiedere scusa.
I sogni e i colori presenti nella dimensione parallela delle “Distanze” in cui si ritrova l’io narrante, rappresentano non solo una fuga da una realtà divenuta insostenibile, ma anche la cura, il rimedio, la possibilità di mantenere vivo il sogno viaggiando dentro noi stessi per poi provare, una volta tornati alla dimensione in bianco e nero, a invertire la rotta: infondere nuovo colore nelle persone vuol dire trasmettere speranza e ridare la giusta rilevanza ai sentimenti veri, specie in chi li aveva persi da tempo, perché solo chi emana vibrazioni positive potrà partecipare a una festa nel mondo a colori inventato dagli autori. Bisogna, quindi, avere coraggio nell’affrontare un viaggio dentro noi stessi: a volte occorre arrivare a scordare chi siamo per ricominciare, decostruirsi, per usare un termine molto attuale, perché ciò che succede dentro di noi può essere utile a trasformare anche ciò che avviene fuori da noi.
Il cimitero delle macchine di Sergio La Chiusa è un romanzo coinvolgente nel senso più stretto del termine: l’autore usando la prima persona plurale, fa sembrare che il protagonista e la sua storia siano nelle mani del lettore e che insieme lo si plasmi e ne si diriga le sorti, in una sorta di Truman show di tempi moderni.
Un modo davvero inusuale e “furbo” per farci sentire parteci del destino del nostro eroe.
“L’ abbiamo detto che è solo? No? Lo diciamo adesso e anzi, dato che la famiglia è un impaccio per il nostro romanzo, diciamo pure che ha perso entrambi i genitori così ci siamo levati di dosso un po’ di zavorra biografica”.
Il nostro protagonista (ecco, ho ceduto alle lusinghe dell’autore cadendo nel suo tranello) si chiama Ulisse Orsini.
Un nome impegnativo che suppone una vita movimentata fatta di viaggi, avventure e incontri.
Ma più che al famoso progenio, il nostro Ulisse sembra più un Don Chisciotte de nojaltri.
Siamo stati davvero ingenerosi con il nostro protagonista (ops, ci sono cascata di nuovo)… abbiamo deciso debba essere troppo lungo e magro con braccia e gambe svitate e scricchiolanti.
Imbranato, sfigato, cammina sfruttando la striscia d’ombra lungo i muri in balia di persone ed eventi.
E infatti quando il poveretto si trova improvvisamente disoccupato, sfrattato e senza un soldo, non trova di meglio da fare che errare in pigiama per una Milano che La Chiusa fa sembrare post apocalittica, con una valigia piena di tutto ciò che gli resta: la sua biancheria intima.
Con una scrittura originale e una creatività espressiva tragico/umoristica, faremo scoprire al nostro (!) Ulisse nel suo vagabondare tra emarginati, Guru e fuori di testa che vogliono salvare il mondo, lo stridente contrasto tra edifici sciccosi su cui troneggiano le pubblicità patinate con modelli vestiti all’ultima moda e gli ambienti in cui si trovano a galleggiare i derelitti che, inevitabilmente, escono nelle tenebre e coi quali si accompagnerà.
Viene rapito e liberato, si unisce ai salvatori e alla loro lotta per sopravvivenza dell’umanità partecipando a improbabili cortei, diffondendo volantini “Anche tu puoi riformare il mondo. Movimento di Lazzaro Lanza imbianchino e riformatore del mondo. Per informazioni tel xxx disponibile anche per tinteggiature”, brucia auto contro il sistema capitalistico.
È preso da un vortice. È questo il vero lui o quello pacato e mite del prima?
D’altra parte è solo al mondo, l’Orsini.
“Pedagoghi tutti intorno a sostenere i primi passi: madri, padri, maestri d’asilo e delle elementari, insegnanti di italiano e matematica, di sostegno per i più riluttanti, e più avanti, per farsi strada in società, tutta una serie di tutori patrocinatori che indirizzano, raccomandano, procurano posti. Ulisse Orsini, invece, non ha nessuno cui rivolgersi. Non ha avuto il privilegio di un Dante per esempio: Nel mezzo del cammino della vita non si è presentato il suo idolo di gioventù uscito da un poster a prestargli soccorso nella selva di rate e bollette, tirarlo fuori dal suo monolocale in affitto e organizzargli un percorso di conoscenza articolato in tre cantiche e Cento Canti in terzine endecasillabi”.
Ma il nostro protagonista è più duro di quanto pensiamo e “tiene botta” negli incontri a volte aspri con il popolo del cimitero delle macchine nel quale trova accoglienza e rifugio.
Probabilmente fa suo il detto “Se non li puoi sconfiggere unisciti a loro” pur non essendo previsto dal nostro copione.
E torniamo al Truman show.
Ce la farà a emergere dall’incubo in cui lo abbiamo gettato?
Titolo emblematico, tematica attuale, storia antica. No, non è una nuova puntata editoriale sul conflitto russo-ucraino o israeliano-palestinese che angoscia i nostri giorni, sebbene i due principali focolai del presente abbiano molta attinenza con i contenuti di questo libro. Malapace(Miraggi) è un romanzo nato dalla riformulazione di uno scenario storico non molto approfondito in verità tra i banchi di scuola. Parliamo della Francia della Repubblica di Vichy, argomento che l’autrice, Francesca Veltri, ha affrontato per ragioni professionali.
Come l’Italia, anche se per diverse dinamiche, la Repubblica transalpina era divisa in due parti durante la Seconda Guerra Mondiale, in un arco di tempo che va dal 1940 al 1945, ben più lungo rispetto alla separazione avvenuta di fatto all’indomani dell’8 settembre del 1943 sul territorio italiano. La parte meridionale della Francia, convenzionalmente chiamata Repubblica di Vichy, era di fatto un satellite del Terzo Reich sebbene si dichiarasse neutrale sulla carta. Dopo l’invasione nazista e l’occupazione del nord del paese, lo Stato francese aveva trovato un compromesso per sopravvivere in quanto entità politica e culturale, accettando una condizione di “malapace”, volendo estendere il titolo del libro al contesto storico fin da subito.
Fatte queste doverose seppure sbrigative premesse, il titolo dell’opera e l’ambito in cui la vicenda si snoda costituiscono elementi già sufficientemente precisi su cui incardinare qualche riflessione utile per il presente, perché in letteratura è necessaria una ricerca di natura esistenziale e spirituale: laddove l’attuale interroga il presente è necessario attingere al passato per poter arrivare a deduzioni più vaste e complete da parte della nostra coscienza. Francesca Veltri ci guida in questo processo con ponderatezza, ma altrettanta decisione, e nel definire personaggi credibili, tra loro complementari eppure opposti, attraversa una serie di situazioni e stati d’animo talmente intricati da rendere così bene la tragedia che si consuma pagina dopo pagina. La Storia non può essere solo un fatto memoriale, si caratterizza per atti, azioni che in determinanti momenti vanno oltre le ideologie e le convinzioni personali. Pertanto non mi soffermerò sui caratteri principali dei protagonisti, preferisco lasciare al lettore l’onere di empatizzare con François, Antoine, Martine e Jean-Pierre; chi legge ha il diritto di regalarsi un giudizio pieno o parziale, riflettere doverosamente e vivere l’azione come se si svolgesse sulla propria pelle.
Da parte mia, invece, cercherò di addentrarmi nello spirito che caratterizza il romanzo e nella complessità che i contesti e le convinzioni personali generano, nell’intento di deragliare da un dibattito attuale dominato dall’opinionismo da talk show, più interessato a eccitare gli animi che a ragionare. Non è importante maturare immediatamente un’idea definita, questo non è un romanzo che intende osannare i vinti e crocifiggere i vincitori, ma è pur sempre un testo che ribadisce la labilità tra idea e coerenza al cospetto della necessità. Le parole di Francesca Veltri tentano di andare oltre determinate contrapposizioni, la Storia è terreno comune quando riesce a trovare, per quanto possibile, chiavi interpretative che sappiano infondere un senso di condivisione e appartenenza. Per certi versi tutti i personaggi del romanzo sono degli sconfitti, uomini e donne non privi di ingegno e di cultura, abitati da passioni incontenibili, da un senso di bene comune dai propositi nobilissimi. Eppure, qualcosa di più grande nelle loro vite incrina questo assetto di idee e i protagonisti si ritrovano a rivedere posizioni e lottare su postazioni divenute quasi irriconoscibili tenendo conto proprio dei presupposti iniziali. Si è spesso portati a ritenere che certi cambiamenti siano frutto del trasformismo e della convenienza personale, al contrario Malapace riesce a far emergere la perfetta buona fede delle parti, prigioniera nell’ineluttabilità degli errori dettati dalle contingenze, nonché dalle terribili conseguenze che il contesto politico e sociale impongono. Volendo trovare un parallelismo, oggi come allora ci si chiede se sia un bene sacrificare lo Stato, inteso come entità di valori e luogo di espressione collettiva, in nome di una non identificata sopravvivenza, chiamando con la parola pace un mero esistere. Ci si chiede se sia necessario ribadire i principi di libertà e combattere fino in fondo laddove le forze individuali e plurali possono arrivare o se non sia meglio cedere sul terreno dei diritti in funzione di uno stato di relativa quiete. Sono domande urgenti che da qualche anno a questa parte hanno ritrovato dimora nelle coscienze di molti. Mai come in questi tempi avvertiamo i confini sottili di una pace che in un nonnulla si converte in resa o addirittura prostrazione. Nulla di nuovo sotto al sole, è solo che a tali dinamiche del tutto comuni nella Storia ci eravamo disabituati per via di decenni di stabilità, crescita, fiducia e prosperità farcite da considerazioni storiche fatte con il senno del poi. Questo romanzo arriva a interrogarci su questioni delicatissime, sulla necessità di dover fare scelte dure, con consapevolezza e fuori dalla retorica nazionalista, pacifista o non interventista, andando verso le ragioni che spingono gli attori politici a muoversi e che determinano le misure del campo da gioco con o senza il consenso popolare.
Malapace non risparmia critiche alle dottrine politiche dell’epoca (i cui echi non si smarcano dall’attualità), non elude il processo di autocritica all’interno della trama in cui si muovono i personaggi: nello sfondo della vicenda si intravedono momenti dove le attuazioni delle utopie, nelle declinazioni più drammatiche, scuotono convinzioni granitiche mettendo a repentaglio valori personali, imprescindibili, e Francesca Veltri, atomizzando il proprio Io autoriale in varie creature letterarie riesce a entrare nel vivo di certi sentimenti attraverso una grande capacità di immedesimazione, strumento di cui la letteratura non dovrebbe fare a meno, in particolar modo in un’epoca in cui tutto viene polarizzato dall’esperienza personale e/o familiare, senza ricercare un senso più ampio dei contesti. In altre parole, si tratta di un romanzo che intende fare i conti con la Storia andando oltre le storie mettendo da parte la buona fede e l’appartenenza.
Termino questi spunti con un passo brevissimo, esempio di una capacità rappresentativa notevole da parte di Francesca Veltri, decisamente lucida e schietta nella narrazione, senza risultare tagliente in maniera forzata. La parte affilata di questa faccenda spetta al non detto, al silenzio, un invito a nozze per il lettore. A chi legge lascio le conclusioni.
«Immaginai Martine che usciva insieme alle SS da quella stessa porta, il cappotto sulle spalle perché all’Est avrebbe fatto freddo, un po’ curva sotto il peso della valigia, forse appena affannata, in viso la smorfia di sfida che le riusciva così bene. Mi chiesi se si fosse fermata a guardare per un attimo la donna che l’aveva venduta, prima che la portassero via.
Com’è che aveva detto a Jean-Pierre, in quel parco di Leningrado? Fammi vedere la faccia di quest’umanità per cui si fanno le rivoluzioni».
Basta dire che il titolo proposto da Riccardo De Gennaro per il quarto piano (Miraggi) era la libreria, per capire a chi si rivolge questo romanzo: ai bibliofili e agli amanti della carta che non saprebbero vivere senza circondarsi di libri e di storie. Libro agile e vero divertissement per chi è capace di cogliere il gioco di sottili rimandi – ma non preoccupatevi, qualora non li individuiate tutti, nelle ultime pagine c’è un utile elenco di tutti i volumi citati -, l’ultima uscita del giornalista torinese è un duro attacco all’editoria contemporanea, per la quale il libro è divenuto merce e profitto, capace anche d’interrogare nel profondo ogni lettore sul ruolo che la letteratura riveste nella propria esistenza. Ponendo anche il dubbio che, a volte, sia meglio posare quanto si ha in mano per confrontarci con la realtà. Sempre che ci si riesca.
Mezzanotte tra gli scaffali
Protagonista è Giorgio Lanfranchi, cinquantenne mai sposato, non ha una fidanzata, non lavora e vive con gli anziani genitori, una madre succube e un padre burbero. Attanagliato dai giramenti di testa, ama la narrativa italiana dal ’67 al ’77 – come non vederci l’amore autobiografico di De Gennaro verso autori come Lucio Mastronardi, di cui ha curato una biografia e a cui il titolo è omaggio al tentato suicidio dal balcone del proprio appartamento
— e suole recarsi nella libreria sotto casa che, due giorni la settimana, apre fino a mezzanotte. Il romanzo prende avvio dalla magra cena da cui, irritato, Giorgio scappa e si rifugia per una sera nel suo luogo preferito. Una vicenda che seguiamo quasi in presa diretta, tanto il tempo di lettura si avvicina a quello delle vicissitudini surreali e divertenti tra gli scaffali. Ed è qui che si mostra ancora una volta il raffinato mondo narrativo dello scrittore torinese, che porta avanti un’opera compatta, tutta giocata in poche ore e personaggi.
L’industria della letteratura
L’ironia tagliente verso l’industria letteraria si perpetra in primis attraverso i personaggi. I commessi della libreria sono descritti come antipatici, ignoranti e digiuni di libri. Lo è la responsabile, che «avrebbe potuto lavorare come impiegata del catasto, nelle retrovie di un qualsivoglia ufficio» (p.46), e soprattutto Renzo, doppio di Giorgio, in quanto figlio unico che vive con i genitori e ha superato la soglia dei cinquant’anni, ma che si rivela un inetto totale nel mestiere di libraio. Contro di lui si scaglierà la foga del protagonista, picchiandolo e relegandolo in uno scantinato, e contro quei libri stupidi che, per una mera divisione alfabetica, finiscono vicini a veri capolavori: per loro andrebbero inseriti cartoncini divisori, è una delle proposte di Giorgio.
In questa discesa agli inferi tra personale squalificato e spreco di carta per volumi inutili, due sono le figure salvifiche, entrambe alla cassa o in giro per il locale: Maria, commessa che scrive romanzi, e Laura, ragazza di cui il protagonista era innamorato tra i banchi di scuola e che rivede dopo trentasei anni. Quest’ultimo incontro, forse onirico, anticipa un finale che sovverte l’ordine della trama e rivela la vera essenza del volume, ma di cui preferisco non fare spoiler.
Di Zátopek avevo già sentito parlare, o letto degli aneddoti da qualche parte sul web, e l’immagine di quest’uomo e della sua leggendaria caparbietà mi era rimasta curiosamente impressa. Per questa ragione, quando mi sono trovata tra le mani Zátopek. Quando non ce la fai più, accelera!, ho pensato fosse arrivata l’occasione giusta per approfondire la sua storia.
Zátopek. Quando non ce la fai più, accelera! è una graphic novel nata dallo sforzo congiunto di Jan Nováke Jaromír99 e giunta in Italia grazie alla casa editrice torinese Miraggi Edizioni e alla traduzione di Stefano Baldussi. La storia è quella di Emil Zátopek, atleta cecoslovacco di fama internazionale e figura di particolare rilievo del XX secolo.
Disegni dai tratti spigolosi, pochi colori primari che creano un contrasto austero tra tinte calde e fredde rendendo l’atmosfera rigida e talvolta opprimente… l’opera dedicata al grande corridore riesce a trasportarti subito in un mondo altro, altrettanto spigoloso e ormai distante anni luce da quello che oggi conosciamo.
Ci troviamo del resto in un periodo storico particolarmente caldo, tanto per l’Europa quanto per l’allora Cecoslovacchia, dove Zátopek nasce all’inizio degli anni ’20. Emil si trova infatti a dover affrontare prima il periodo del nazismo, poi la guerra, e subito dopo il comunismo con l’influenza dell’URSS. Sono anni di cambiamenti radicali, tanto forti da segnare con la stessa forza, inesorabilmente, anche la vita privata, le scelte e i rapporti tra le persone.
Zátopek si muove in questo contesto cercando di fare del suo meglio, sbarcando il lunario con un semplice impiego in una fabbrica di scarpe, ma scoprendo ben presto il mondo dello sport e dell’atletica proprio grazie a una competizione organizzata dal calzaturificio.
Uno degli aspetti interessanti della narrazione è ciò che traspare del rapporto di Emil con gli organi di potere: emerge con chiarezza una continua ricerca di libertà, comune a molte personalità sportive del tempo, che tuttavia non portasse a destare preoccupazione negli alti livelli, attenti a mantenere una determinata immagine del paese anche attraverso i propri rappresentanti in ambito sportivo.
Il libro non si limita però a celebrare le vittorie e la figura di Zátopek, ma esplora anche la dimensione della sua vita personale, segnata in qualche modo anch’essa dalla stessa disciplina ferrea che Emil applicava alla corsa.
Zátopek. Quando non ce la fai più, accelera! è un’opera che coinvolge, ispira e commuove, unendo la Storia più grande a quella più personale di una figura straordinaria che, grazie a una determinazione e una forza fuori dal comune, ha saputo scrivere una pagina importante dello sport e non solo.
Quando cinque anni fa Sergio La Chiusa, palermitano d’origine e milanese d’adozione, fu finalista al Premio Calvino e premiato con la Menzione Speciale Treccani per il romanzo I Pellicani, poi pubblicato da Miraggi, ci fu chi ne salutò l’eterodossia rispetto alle forme narrative dominanti. Ispirato a maestri della letteratura umoristica come Gombrowicz e Beckett, quell’esordio in prosa di un ex-poeta attestava in effetti doti stilistiche non comuni, un senso pronunciato dell’assurdo e la capacità di osare senza manierismi il richiamo a certi capisaldi del modernismo letterario. Oggi sappiamo che quel libro fu scritto tra una fase e l’altra del lavoro quasi ventennale a un’opera più ampia, ora proposta con altrettanto coraggio dallo stesso editore torinese: Ilcimiterodellemacchine(Miraggi, pp. 400, euro 26) è un romanzo – mondo esaltante e benefico, perché dimostra come l’arte nata con Rabelais e Cervantes possa ancora esercitarsi in piena libertà.
ILBELLO è che fa ridere e non spaventa: il protagonista si chiama Ulisse Orsini, la sua peregrinazione estiva nella «città delle opere» (o «della moda e degli eventi») ammicca tanto all’antenato joyciano quanto al progenitore acheo di entrambi, la rete intertestuale è fitta e sfacciata nel chiamare in causa altre pietre miliari della cultura occidentale, letterarie quanto figurative o spirituali, eppure il romanzo non pecca né di grandeur né di epigonismo. Alto e basso vi si amalgamano anzi con una tale divertita disinvoltura da non lasciare dubbi sulle intenzioni dell’autore: abbordare ogni stortura del nostro presente con un mezzo più duttile possibile, sia linguisticamente sia nella composizione, e farlo attraverso un protagonista sfigato per bene, ma privo di una dimensione tragica. Orsini è infatti un quarantenne senza più lavoro, trascurato e depresso di conseguenza, indebitato quanto basta, che vive da solo fra condòmini più o meno molesti e da uno di questi si lascia avviare alla prima tappa del suo smarrimento: nel palazzo fatiscente dove ha sede l’ambulatorio del dottor Klammermann, kafkiano per nome e imperscrutabilità.
È solo l’inizio, ma già qui il narratore s’immischia parlando per sé e il proprio personaggio alla prima persona plurale, con il disincanto di chi sa quando rompere la finzione perché sa anche come ripristinarla, per poi di stazione in stazione concedersi divagazioni, accumuli, proliferazioni a latere che illuminano direttamente aspetti del reale. Il quale per il resto è qui trasfigurato in un cosmo metropolitano ad alto tasso immaginifico, non importa se si tratta di un artista mancato fattosi prete o di una venere dell’immondizia, di un bordello o di un reparto geriatrico: sempre le vicende di Orsini attraversano luoghi e s’imbattono in esseri di sorprendente vividezza e icasticità, e la sorte bislacca e inconcludente che sembra perseguitarlo nella prima parte è solo la premessa della sua avventura centrale – poiché a un eroe dei nostri tempi può toccare, nel migliore dei casi, di finire in una discarica.
È QUESTOILCIMITERO delle macchine: lo scenario alla periferia di una Milano mai nominata ma ben riconoscibile dove convergono gli estromessi di un sistema votato alla catastrofe. Ci sono i giovani incendiari, che dibattono puerilmente da posizioni ideologiche complementari ma inconciliabili, le antispeciste che indossano la mascherina per non ingerire i moscerini, gli imbrattamuri infoiati, il palestinese in crisi post-traumatica e la
naturista gravida. Ma soprattutto c’è Lazzaro Lanza, guru del «Movimento per la sopravvivenza dell’umanità» nonché imbianchino con l’Ape, capace di affondi profetici sull’oggi come di dialoghi notturni con Lao Tzu e altri «intellettuali insonni», e parente figurale sì di Gesù, giacché toccherà anche a lui una via crucis sui generis con annessa ascensione, ma anche del Franchino di Fantozzi, con pari dignità.
Non è tuttavia tra i rifiuti e gli scarti del capitale che finirà la deriva di Ulisse Orsini, né a Lanza basterà teorizzare ai margini, intenzionato com’è a conquistare il centro urbano con un nutrito seguito di diseredati inneggianti alla rivoluzione. Il trionfo pseudo-apocalittico in cui tutto culmina, prima del congedo di un Orsini sfrattato e spogliato, si sdoppia: ora in due varianti opposte e soltanto sognate di un diluvio che sommerge la città, ora in un ingresso cristico nella medesima che, quando non finisce a manganellate, è la farsa di un anzianotto accolto con ogni onore dalle autorità. Smarrito pure lui, non fosse per un’irresistibile ostia al cioccolato.
QUI l’articolo originale: https://ilmanifesto.it/archivio?autore=Stefano%20Zangrando
Quando nel 1926, in una nota a “Il Castello”, Max Brod divulga la volontà di Franz Kafka di fare terminare il romanzo con la morte dell’agrimensore K. proprio quando dal castello arriva la concessione all’uomo di poterci vivere e lavorare, Kafka apre una questione mai risolta sul rapporto tra essere umano e libertà.
Già nel quinto paragrafo del quinto libro di Fëdor Dostoevskij, “I fratelli Karamazov”, dal titolo “Il Grande Inquisitore”, l’autore russo mette l’Inquisitore nella condizione accusatoria contro il Cristo ritornato, che aveva tentato di portare la libertà a un popolo non in grado di riconoscerla e di usufruirne. In questo al pari di Vasilij Vasil’evič Rozanov, che nel suo “La leggenda del grande inquisitore” analizza quel rapporto in seno al potere ecclesiastico, vero responsabile della deriva nichilistica dell’essere umano, allontanato da se stesso e da Dio.
Perché sei venuto a infastidirci?, dice l’Inquisitore a Cristo, disvelando quell’inquietante verità del bisogno di un’autorità che governi e induca l’illusione di felicità negli uomini, che è una finta libertà, che acquieta e abiura l’incertezza.
La domanda viene ripetuta ancora, è il cardine di un consolidamento di potere, perché è nel binomio potere-libertà che l’Uomo fa i conti con la persecuzione, la solitudine e la colpa dinnanzi all’autorità.
Il terribile e ingegnoso spirito, lo spirito dell’autodistruzione e del non essere, – continua il vecchio, – il grande spirito parlò con Te nel deserto, e ci è stato tramandato nelle scritture che egli Ti avrebbe «tentato».
E prosegue, “I fratelli Karamazov”, col dubbio su chi fosse nel giusto, se Cristo o colui che l’interrogò.
In questa enunciazione vi è la forte opposizione dell’essere e del non essere, che è propria del gioco sottile del potere, che tenta di annientare qualsiasi volontà. L’Uomo acconsente perché il peso della libertà è insopportabile. L’irresolutezza, secondo l’Inquisitore, condurrà l’essere umano a innalzare una nuova Torre di Babele al posto del Tempio di Dio, in mezzo alla pena, agli affamati, ai torturati, nel ciarpame e nelle discariche del mondo. E in questo inganno consisterà la sofferenza. Nel non trovare un posto nel Castello, nel non poter incontrare Klamm, il sommo funzionario, sfuggente, iperboreo, a cui K. vuole rivolgersi per risolvere la sua situazione. In ceco “klam” significa inganno, illusione, e tale sarà il funzionario, le cui competenze non verranno mai esperite nel romanzo.
Ulisse Orsini invece non ha nessuno a cui rivolgersi. Nella sua innocua nullità non ha nemmeno un Mefistofele moderno che gli insidi l’anima. Ulisse Orsini è un ultimo, un esodato, un rifiuto, una crosta purulenta, un ibrido umanoide senza identità. Ce l’aveva, Ulisse Orsini, ma l’ha persa. È stato costretto, Ulisse Orsini, ad andare via da casa, dal lavoro, dalla società. Ulisse Orsini non esiste più. E al suo creatore, Sergio La Chiusa, non resta altro che regalargli la parte in un romanzo per tenerlo in vita, da cui entra ed esce, con un “tu”, con un “noi”, a seconda di chi lo segue, se i lettori da soli o insieme a lui, il protagonista, lo scrittore e chissà chi.
Calma però, calma: Ulisse non sa d’essere in un romanzo: è un personaggio serio, a suo modo, e invece di perdere tempo mettendo in discussione i ruoli cerca una via d’uscita.
Lo inducono ad andare dal dottor Klammerman, il deus ex machina, in ospedale, che il suo sia un caso clinico?, quest’Ulisse che sragiona, che non sa che farsene della sua libertà, ora che la società non lo vede più.
Ma è l’inizio di un’odissea tra gli antispecisti, tra statue e manichini, in un condominio frequentato da fantasmi, tra incendiari ed enigmisti, con la sua valigia piena di vestiti o di niente, come un moderno “Bad Boy Bubby”, alienato, visionario pronto a tutto, che non è capace di ribellarsi, o per meglio dire, che in una smaniosa, affettata e quanto mai disperata ribellione non trova la felicità. E allora vaga tra discariche e relitti umani scambiati per guru, mentre Sergio La Chiusa svuota le frasi del superfluo, quei pensieri che a Ulisse Orsini mancano, vanno e vengono si fanno ipotattiche paralisi dinnanzi all’abisso.
Come aveva fatto nei precedenti testi, La Chiusa, “Che ci facevo sulle scale di un caseggiato in rovina?La mia situazione mi sembrava così irreale che sospettai di essermi inventato tutto (“I Pellicani”, pubblicato da Miraggi Edizioni, finalista al Premio Italo Calvino – Menzione Treccani; al Premio Bergamo, al Premio Giuseppe Berto e al Premio Megamark) e “Tali interrogativi mi spaventano e m’allontanano pericolosamente dalla realtà” (“Madre nel cassetto”, pubblicato da Industria & Letteratura), dicevo, come aveva fatto nei precedenti testi, lo scrittore induce il suo protagonista in una realtà deliroide fatta di frasi stroboscopiche sapientemente dosate, che allargano la visione del lettore e la costringono a vedere tutto in primo piano, non esiste più la tridimensionalità, la visione di fondo, ogni cosa è percepibile accanto all’altra, senza soluzioni di continuità ma con forme nitide e riconoscibili nonostante non siano scisse dalle altre.
A La Chiusa non resta che l’ironia, il tragico umorismo come primordiale autocoscienza del personaggio, in questi tempi in-drammatici e non più tragici. E così Cristo torna tra noi, in una versione burlesque e anacronistica alla James Ensor, autore del quadro che lo stesso La Chiusa cita nel romanzo, “L’entrata di Cristo a Bruxelles”, un’opera pittorica del 1889, in cui Gesù è attorniato dalla trasfigurazione epigonale di categorie ridicole. Buffoni, medici, paladini, maschere da ruolo sociale. Quest’opera è da subito ribattezzata “L’ingresso di Cristo nella città della moda e degli eventi nel 2004”, alludendo a Milano, nella sua impostura più spietata, città finta e di superficie.
«Cari concittadini, come potete vedere vi abbiamo riportato Gesù in persona, la nostra giunta comunale ha lavorato a lungo per arrivare a questo risultato che ci ha permesso di vincere un’agguerrita concorrenza internazionale. Tutte le capitali europee se lo contendevano: Parigi, Berlino, perfino Londra, che avrebbe voluto metterlo in coppia con la regina ed esibirli insieme a Buckingham Palace, e più tardi al museo delle cere, e siamo davvero onorati che nonostante le molte proposte alla fine Gesù abbia scelto la capitale morale del Belpaese per ripresentarsi nell’arena pubblica, e ciò è motivo d’orgoglio per la nostra città delle opere, sempre all’avanguardia, sempre un passo avanti… Ma ora basta! Ve l’abbiamo fatto vedere!».
Il Cristo pare vacillare, non è più di questi tempi, il Grande Inquisitore l’ha spodestato, tra palestrati, assessori, imprenditori, tutti a chiedere sciocchezze da talk show, incapaci di focalizzare le questioni essenziali. Sindaco e Cristo, come ne “I fratelli Karamazov”, solo che ora è una farsa, la farsa dei pomeriggi in tv, degli esperti che vedono talenti dappertutto, anche se il talento è fuggitivo ed è meglio che quello vero si disperda, liquefatto dalla prestazione posticcia di un qualsiasi saltimbanco da circo, fino a distorcere la parabola dei talenti.
Perché oggi si preferisce il fenomeno e tra tutti il morto singolo, fenomeno dei fenomeni, quello empatico, che scippa una lacrima al tizio seduto in poltrona a casa sua.
E chi vuole la verità?
Sono io il vero Ulisse, il signore è un impostore. Un personaggio! Posticcio e inattendibile pure come personaggio!
Il cimitero delle macchine (Torino, Miraggi, 2024, euro 26) è il secondo romanzo di Sergio La Chiusa, anche se, come precisa l’autore nella nota alla fine del libro, la sua ideazione precede I Pellicani risalendo al biennio 2003-05 e avendo poi vissuto una serie di rielaborazioni e riscritture anche in tempi più recenti. In questo romanzo dominano le rovine, le discariche abusive, le costruzioni fatiscenti e per l’appunto i cimiteri di macchine; ora al lettore di La Chiusa un paesaggio del genere non giungerà affatto sorprendente, ma se ne I Pellicani ci troviamo in una generica periferia urbana, in questo romanzo l’azione si svolge a Milano, che nell’immaginario mediatico nazionale è la città patinata e nuova di zecca per eccellenza. Ovviamente, come sa ogni milanese salvo quelli onorari, anche a Milano ci sono posti del genere, del resto l’immaginario futurista della città nasce da quelle tre piazze e quattro vie che oggi ricorrono in tutti gli spot pubblicitari, ma il tema della rappresentazione di La Chiusa non è di ordine geografico né sociale, perlomeno nel senso ristretto e immediato che tale aggettivo prende nella narrativa realistica di denuncia. In La Chiusa la rovina è la concretizzazione spaziale della natura della civiltà contemporanea e della dimensione psichica dei suoi abitanti. Se “La visita delle rovine ci fa fugacemente intuire l’esistenza di un tempo che non è quello di cui parlano i manuali di storia o che i restauri cercano di richiamare in vita. E’ un tempo puro, non databile, assente da questo nostro mondo di immagini, di simulacri e di ricostruzioni, da questo nostro mondo violento le cui macerie non hanno più il tempo di diventare rovine. Un tempo perduto che l’arte riesce talvolta a ritrovare” (Marc Augé), le rovine di La Chiusa in realtà non hanno alcuna funzione di recupero e di rievocazione e non sono nemmeno macerie che non hanno fatto in tempo a diventare rovine, al contrario esse sono perfettamente funzionanti, come dimostra il fatto che sono fittamente popolate. Si direbbe quasi che sono state progettate per essere fatiscenti come i carceri di Piranesi, infatti esse sono regolarmente previste dal funzionamento standard del potere e questo ne rivela la natura allegorica della situazione storica contemporanea, in cui sia le città sia i rapporti tra gli uomini sono malfunzionanti e tendenti al degrado perché sono state progettati e promossi per una finalità diversa da quella di un’armoniosa vita collettiva.
In questo spazio devastato si muove Ulisse Orsini. Egli è un disoccupato, disadattato che appartiene alla stirpe degli Ulissidi, ma più che al capostipite deve qualcosa al fondatore del ramo moderno della famiglia, quel Leopold Bloom di Dublino, con il quale se non altro condivide una qualche propensione a scorgere, nella veglia e nel sonno, epifanie della bellezza in questa realtà desolata. Ulisse incarna il tipo del fuggiasco, è un fuggiasco assoluto per così dire: dapprima resosi conto di essere ormai un emarginato fugge dalle ambigue istituzioni che il mondo predispone per coloro che non ce la fanno oppure è costretto a fuggire da casa sua e da altri luoghi; quando arriva nel cimitero delle macchine dove trova altri emarginati come lui, non molla mai la valigia e si pensa provvisorio, anche perché scopre a sue spese la verità del vecchio detto di Trotzky che è più facile morire in nome dei proletari, che qui potremmo parafrasare con reietti o appunto emarginati, che viverci assieme. In Ulisse è talmente connaturata la tendenza alla fuga che perfino quando partecipa a una dimostrazione per riformare il mondo, superando per una volta le proprie inclinazioni individualiste, viene messo in fuga dalle forze dell’ordine costituito. E questa tendenza spiega anche il finale, che per comprensibili motivi non posso anticipare qui.
Al protagonista capita di assistere nella discarica ai disperati tentativi di un bassotto di avere un coito con una cagna maremmana, destinato a fallire comicamente nel suo intento per le ostensibili differenze di taglia. In qualche modo in questa immagine vi è condensato lo scarto tra aspirazioni a una vita degna di essere vissuta e opportunità di viverla per davvero. Eppure questa immagine solleva lo spirito di Ulisse perché la vitalità del suo scopo sembra assegnare un senso a un mondo in cui anche il senso appartiene a pieno titolo alle rovine. Analogamente l’entrata di Cristo a Milano non è destinata a riprendere il racconto evangelico, come invece l’entrata a Bruxelles nel dipinto di Ensor che La Chiusa cita esplicitamente nel testo. Qui Cristo è accolto dalle autorità cittadine, trattato come celebrità per il quarto d’ora di sua spettanza e poi rapidamente dimenticato senza bisogno di alcun tradimento o voltafaccia della folla. Il racconto evangelico perde di senso nella società dello spettacolo.
Il romanzo è narrato in terza persona con cambi di focalizzazione e addirittura in alcuni passi con un cambio verso la prima persona plurale, quasi che il narratore onnisciente ci suggerisse la sua identificazione con il protagonista. Inoltre sono presenti inserti metanarrativi in cui il narratore rompe deliberatamente la finzione del racconto apostrofando il lettore. Tutte queste sono procedure, come nei classici del modernismo, volte a creare un rapporto di straniamento. Il problema non è qui fare una storia ben narrata che spieghi un po’ di tutto e un po’ di niente, ma di offrire squarci e agnizioni sul presente, quasi dei flash che illuminano frammenti di paesaggio nella notte e questo spiegherebbe perché in questo autore è presente un forte immaginario pittorico non solo in termini di citazione colta, ma di dialogo con alcuni grandi della nostra tradizione (il già menzionato Ensor, Botticelli, il prediletto da La Chiusa Brughel ecc.). Verrebbe da dire che nel romanzo ciò che conta non è il soggetto, ma lo sguardo doloroso che Ulisse grazie al chiaroscuro della scrittura di La Chiusa volge sulle persone e sugli oggetti senza mai distogliere gli occhi. Tutto questo iscrive Il cimitero delle macchine nel campo della letteratura inattuale, eppure quell’inattualità è la verità della letteratura ossia la capacità di gettare uno sguardo sul presente libero da quelle ipoteche culturali e psicologiche che la società getta su se stessa nella forma dell’ideologia se non della menzogna. E questo libro è oltremodo vero.
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