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Recensione di «Non commettere infinito» di Nicola Neri su «D – Repubblica»

Recensione di «Non commettere infinito» di Nicola Neri su «D – Repubblica»

di Maurizio Fiorino

In corsa sull’autostrada, una telefonata dopo l’altra, per darsi un’ultima chance

“Mi faccia capire, sta fuggendo da qualcosa?”, chiede all’improvviso una delle tante voci senza volto presenti in questo libro e, quasi, verrebbe da dire che sta tutto qui, il senso di Non commettere infinito (Miraggi Edizioni), quarto romanzo di Nicola Neri. “Dalla realtà” è la risposta che arriva dall’altro capo del telefono. A rispondere è un uomo che guida come un forsennato nella notte ma sarebbe troppo semplice, finanche riduttivo, liquidare questa storia con l’aneddoto che sta alla base di ogni seduta psicoanalitica. Certo, fuggiamo tutti da qualcosa ma la fuga di Morelli – questo il nome del protagonista – descritta da Neri che, di professione, fa (anche) lo psicologo, è ovviamente un escamotage per celare intrecci e ossessioni. La storia è pressappoco questa: Morelli è un uomo di trentacinque anni e, nonostante amici, colleghi, donne, si sente infinitamente solo. “Sai dove conducono le bugie. Le bugie conducono a incidenti”, si dice a un certo punto. Guida su un’autostrada che sembra infinita e, nel tragitto, fa e riceve una telefonata dopo l’altra. Nelle conversazioni si perde e si ritrova, si confessa, si lascia andare a un flusso ininterrotto di pensieri. Vorrebbe solo schiantar-si, andare a fondo, “al centro della corrente che sembra sul punto di esplodere” ma, prima di farlo, vuole una chance, l’ultima, perché – parole sue – “poi non ce ne sono altre”.

Se la struttura della telefonata-ossessione ha tanti esempi celebri (uno su tutti il Cocteau de La voce umana), l’ambientazione, forse perché lo abbiamo da poco visto al cinema, sembra uscita da Una notte a New York, l’ultimo di Sean Penn e Dakota Johnson, girato interamente in un taxi notturno. “Ho passato tutto il pomeriggio sdraiato a letto. E perché? Il tempo. Ero sdraiato e davanti a me c’era un vecchio orologio a muro, con i secondi. O almeno, io pensavo che fossero secondi”, fa dire Neri al suo io narrante e, senza voler scomodare Proust (che, a proposito, all’improvviso appare in un personaggio, “la proustiana con la madre lontana”) e il suo concetto di tempo cronologico e lineare versus tempo interiore e oggettivo, leggendo Non commettere infinito e analizzandolo in un rapporto spazio-tempo, viene in mente il gioioso caos mentale di Zeno Cosini, soprattutto laddove il protagonista sembra rielaborare il suo passato relazionandolo alla guida tormentata della sua autovettura. Così il Morelli che, come dicevamo, crede di scappare dalla realtà, diventa una metafora del tempo che passa e noi lettori, in fondo, non possiamo fare altro che arrenderci e seguirlo nella sua spericolata avventura alla ricerca di se stesso.

Nicola Neri (classe 1992) ha una scrittura già affilata e chiara e in questo suo romanzo, a proposito di linguaggio, ha deciso di usare una lingua puramente visionaria e cinematografica, evidentemente l’unica possibile a rendere questa lunga seduta psicoanalitica “on the road” lucida e spigolosa. “Le emozioni. Da quando ricordo, io le vivo come… fossero entità esterne. Forze esterne che mi afferra-no”, dice il protagonista, a dimostrazione che il tema cardine del libro è semplicemente l’incomunicabilità con noi stessi e, ovvia conseguenza, con tutto ciò che definisce i nostri confini e che consideriamo il mondo esterno.

Recensione di «L’ora delle Distanze» su Mescalina.it

Recensione di «L’ora delle Distanze» su Mescalina.it

di Giada Lottini

“Per passare meglio la notte, per non avere più paura del buio”.
Immaginate di trovarvi in un’ambiente dominato da un grigiore opprimente, in cui le emozioni sono annichilite da un sentimento di rassegnazione angoscioso e angosciante: un luogo non così dissimile da molteplici realtà urbane in cui siamo calati. In questa dimensione, che un tempo sarebbe stata etichettata come distopica, si muove Fluon, uomo tra gli uomini e protagonista di L’ora delle distanze, il nuovo romanzo breve di Lory Muratti illustrato da Andy dei Bluvertigo e uscito a settembre 2024 tramite Miraggi Edizioni assieme a un 45 giri strettamente connesso alla storia raccontata.

Una dimensione distopica in realtà esiste e si rivela nel momento in cui il protagonista rientra a casa la sera ed assume un’identità completamente diversa, variopinta e glamour, proiettandosi proprio nelle Distanze, un luogo che ricorda da vicino il Paese delle Meraviglie in cui si muoveva l’Alice di Lewis Carroll, quanto a bizzarrie di luoghi e personaggi.

Maestro del colore a sua insaputa e creatore delle Distanze, Fluon si trova catapultato ogni notte in questo non luogo dalle tinte accese per ritrovare se stesso e un’umanità perduta che si fa carne in ogni pagina grazie alle illustrazioni vivide di Andy. Il protagonista esplora questo mondo nascosto, imparando a riconnettersi con i frutti della sua mente e con le sue emozioni, a tratti traumaticamente rimosse: saranno i personaggi che incontra lungo intricati corridoi e oltrepassando porte e stanze a guidarlo, e a dargli lezioni di vita da conservare, una volta tornato alla realtà.

In alcuni capitoli incontriamo personalità geniali, come il Killer del Phon, che ci permettono di trovare gli antidoti a una realtà tristemente spenta, sia tramite dialoghi accesi sia tramite passaggi necessariamente dolorosi come nell’Interludio Fucsia, capitolo particolarmente commovente in cui per la prima volta affiora il vissuto di Fluon.

Muratti adotta una prosa variegata e piacevole, mai scontata. Sa raccontare in modo leggero rimanendo denso, tanto che L’ora delle distanze si finisce in un giorno e vien voglia di rileggerlo per trovare al suo interno ulteriori significati. Gradevolissima la scelta editoriale della pagina su due colonne corredate dalle tavole di Andy, come tocco esteticamente accattivante e come invito a spogliarsi delle maschere di cinismo che ci circondano per riscoprirsi vivi.

Andando invece ad ascoltare l’EP che accompagna il romanzo, pubblicato da Riff Records anche in vinile colorato, il primo singolo estratto riprende il titolo del libro e ne descrive il contesto diurno, avvisandoci che verrà presa una nuova consapevolezza ed una nuova direzione. La notte sarà il momento in cui poter ancora sognare e piantare i semi di una ribellione possibile dal punto di vista umano.
In La caduta invece i toni sono particolari, finanche pop nel ritornello, capace di imprimersi in testa sin dal primo ascolto. Il sax di Andy crea un’atmosfera noir estremamente piacevole accompagnandoci dentro la controrealtà delle Distanze, con un gusto per gli anni Ottanta riscontrabile anche dall’uso sapiente dei synth.

Lory Muratti, oltre che scrittore e musicista, è anche un visual artist e un attore: chi ha partecipato ai suoi monologhi –  concerto sa che ci si può aspettare di essere attratti da tutte le sue declinazioni artistiche. Da qualche giorno, lui ed Andy stanno portando in giro il talk & sounds incentrato sul romanzo: per chi si accosta per la prima volta all’autore sarà una scoperta, per chi conosce già il suo modo di stare sul palco invece sarà un’ottima conferma.

Screenshot

QUI l’articolo originale: https://www.mescalina.it/libri/recensioni/lory-muratti/lora-delle-distanze

Recensione di «Ore di piombo» su «Blow Up Magazine»

Recensione di «Ore di piombo» su «Blow Up Magazine»

di Alice Pisu

Nasce dal dissenso l’urgenza della scrittrice ceca Radka Denemarková di comporre un romanzo-tempio sulla Cina, dopo viaggi e incontri che l’hanno portata a riflettere sullo scarto tra la percezione di sfaldamento e trasformazione sociale e la rappresentazione di equilibrio e armonia. Le tetre affinità con un’idea di controllo collettivo vissuto nella Cecoslovacchia della normalizzazione producono nella scrittrice un senso di contaminazione, in un “vortice di censura e autocensura”. Voce di spicco del dibattito pubblico ceco, Denemarková è autrice di saggi, opere teatrali, romanzi, e traduttrice di Tokarczuk, Müler e Stavaric.

Ha ottenuto per la quarta volta il prestigioso Magnesia Litera con Ore di piombo, costato il bando perpetuo dalla Cina, anche per la vicinanza con gli attivisti del manifesto Charta 08 (ispirato alla Charta 7 dei dissidenti cecoslovacchi). Definito un romanzo di perenne stupore, di dialoghi socratici, di domande, iniziazioni e variazioni dolorose, è un “peculiare diario di viaggio nell’anima dell’Europa e nell’anima di un pezzo d’Asia”. Con un racconto fluviale strutturato su stratificazioni di storie di soggetti che incarnano visioni agli antipodi e con una narrazione dal passo apparentemente favolistico in cui si avvicendano Scrittrice, Ragazza Cinese, Madre Cinese, Programmatore, Diplomatico, Studentessa Americana, Avvocato, etc., l’opera riflette sugli esiti individuali e collettivi dei totalitarismi. Denemarková si approccia a questo tema faustiano, polisemico, archetipale vestendolo di nuovo”, attraverso lo studio narrativo di “questo animale che chiamiamo società, in un romanzo di concreto realismo e infusa astrazione”. Tra diario di viaggio, romanzo corale, saggio filosofico, studio poetico, indagine sociologica, il romanzo si regge su frammenti ricomposti del dialogo aperto tra Oriente e Occidente da cui emerge una vicinanza di destini per condizionamenti famigliari, alienazione contemporanea, confinamento nella norma, logoramento delle reti sociali canonizzate dalla parvenza coesa. L’opera è intesa come un corpo vivo in trasformazione e risponde a impulsi diversi a seconda dei luoghi e dei tempi che abita. Ala crisi dell’individuo che si riverbera anche nelle arti e, in particolare, nella letteratura, Denemarkova contrappone l’esempio di Václav Havel, a cui si ispira nel misurare il rigore etico di un paese. Tra le influenze il realismo russo; le visioni kafkiane dell’intrico inquieto originato da un cocente smarrimento esistenziale tra incognite spirituali; lo studio dell’anomalia in Bernard, in particolare nelle riflessioni sull’isolamento e l’annientamento dell’essere umano nel racconto della solitudine in rapporto al paesaggio. La peculiare visione del tempo nell’opera, che a tratti abbandona la presa sul contemporaneo in favore di una fratturazione del discorso lirico in movimenti, cela rimandi alla poesia ceca proletaria, surrealista, civile. L’elogio della dissonanza riluce in un’opera maestosa, che si contrae in un’espressività minimalista di gusto orientale nel cogliere sfumature recondite dell’animo, e si espande in un flusso di storie interconnesse, descrizioni urbane, affreschi sull’irrequietezza, dissertazioni ideologiche. 

Il titolo omaggia Dickinson e rimanda alla sensazione di scrivere con il piombo intorno ai polsi. Nel bilico tra adesione al noto e aperture fantastiche, la presenza animale evoca una tensione tra libertà e controllo simboleggiata da cornacchie nere, gazze azzurre e gatti sapienti. Il riconoscimento della coesistenza in Cina di socialismo e capitalismo, e la sua definizione come uno splendido campo di concentramento dai confini impermeabili e al contempo un giardino fiorito, passano attraverso l’analisi dell’Europa centrale per riflettere sul significato della propaganda nel trasfigurare gli eventi, e della menzogna come un “camaleonte non rieducabile”. Denemarková riconosce una comunanza tra il ciclo di singole vicende esistenziali e quello della storia dell’umanità, in bilico tra atrocità e rinascite, in una vana ricerca identitaria. Nel confronto tra realtà diverse, la cifra comune è l’impronta patriarcale nei condizionamenti individuali, nelle politiche sociali, nel controllo del concepimento: “Lo Stato si pianta a gambe divaricate davanti a un corpo e decide”. Immortala un’umanità malata di burn-out, infettata da razzismo, antisemitismo, sessismo e zelo patriottico, a cui contrappone l’appiglio fornito dalla scrittura come atto di difesa, come fuga dalla disperazione e come tentativo di decifrare il codice della solitudine delle parole”. L’opera è un ritratto allucinato di paesi dal personale Olocausto, dotati di un subconscio dove prospera la mentalità dei popoli: uno studio che con una lirica cifra visionaria consegna interrogativi su ciò che sostanzia la moralità, sull’autorità della coscienza e sulla fusione della crisi dell’individuo con la crisi dell’umanità.

Recensione a «Ore di piombo» su Universoletterario.it

Recensione a «Ore di piombo» su Universoletterario.it

di alelitartculturapop

Ore di piombo di Radka Denemarková, edito in Italia da Miraggi Edizioni, è un romanzo mastodontico e denso che intreccia le storie di vari personaggi provenienti da Europa, America e Cina. L’autrice riflette su come le loro vite si incrocino e si trasformino in un contesto globale di tensioni, disuguaglianze e lotte per i diritti umani.

Tra le figure centrali troviamo uno scrittore ceco, un diplomatico, una giovane studentessa americana e imprenditori che navigano nella complessità della Cina contemporanea. La narrazione è guidata da Scrittrice, un alter ego che rappresenta la coscienza democratica e la resistenza intellettuale. Il titolo stesso, Ore di piombo, richiama una condizione di stasi e apatia che si ispira alla poesie di Emily Dickinson in cui l’ora di piombo rappresenta un momento di paralisi emotiva e morale. Questo tema permea l’intero romanzo, simboleggiando una società globale intrappolata tra oppressione politica, consumismo e perdita di ideali.

I temi principali del romanzo

Denemaková esplora le intersezioni tra Oriente e Occidente, mettendo a nudo le ipocrisie e le somiglianze tra due mondi che si percepiscono come opposti. Da una parte c’è l’Europa, che appare stanca e consumata, incapace di difendere i suoi valori democratici; dall’altra, la Cina, rappresentata come un colosso in rapida crescita ma soffocato da un controllo oppressivo.

La globalizzazione, lungi dall’essere un processo armonioso, diventa nel romanzo un meccanismo che amplifica le disuguaglianze e porta a una colonizzazione culturale reciproca. Un elemento chiave del romanzo è l’analisi della violazione sistematica dei diritti umani, in particolare in Cina, ma con riferimenti anche ai fallimenti delle democrazie occidentali. La figura di Scrittrice diventa quindi un simbolo della lotta contro le ingiustizie, un richiamo all’impegno intellettuale e alla necessità di alzare la voce contro ogni forma di oppressione.

I personaggi del romanzo vivono una profonda alienazione, non solo geografica ma anche interiore. Il trasferirsi da un continente all’altro non porta soluzioni, ma acuisce il senso di estraneità. Questa perdita di radici e identità è descritta con una precisione dolorosa, riflettendo una condizione universale nel mondo contemporaneo.

L’ora di piombo è arrivata per tutti noi. Non ci sono eroi, solo sopravvissuti.

I personaggi e il loro sviluppo

I personaggi, sebbene diversi per background e motivazioni, condividono una condizione di fragilità. Scrittrice è il fulcro morale e intellettuale del romanzo, una figura che incarna la necessità di resistere all’indifferenza e di agire in nome della giustizia.

Il diplomatico e l’imprenditore ceco rappresentano due facce dell’Europa contemporanea. il primo cerca di mantenere una facciata di ordine, mentre il secondo è attratto dalle opportunità economiche della Cina, ignorandone le implicazioni etiche.

E, infine, la studentessa americana è un simbolo della giovinezza globale, intrappolata tra l’idealismo e la rassegnazione.

Ogni personaggio riflette le contraddizioni di un mondo interconnesso, ma frammentato.

Non importa dove vai: l’oppressione si nasconde ovunque, sotto maschere diverse.

Stile di scrittura e tematiche filosofico-politiche

Radka Denemarková adotta uno stile ricco e stratificato, intrecciando citazioni filosofiche e letterarie (Confucio, Václav Havel, Emily Dickinson) con dialoghi incisivi e descrizioni vividissime, che incantano il lettore. La narrazione è frammentaria, una scelta che rispecchia la complessità del mondo che descrive, dove ogni storia individuale è un tassello di un mosaico più grande.

L’autrice utilizza un linguaggio visionario, poetico, che invita il lettore a riflettere oltre la superficie. La struttura, tuttavia, può risultare impegnativa, perché richiede attenzione e una certa familiarità con i temi trattati per cogliere appieno la portata del romanzo.

La scrittrice non si limita a raccontare una storia: il suo romanzo è una meditazione sulla condizione umana in un’epoca di grandi cambiamenti. I riferimenti a filosofi e scrittori non sono mai decorativi, ma strumenti per ampliare la portata della narrazione. La tensione tra libertà e controllo, tra progresso e perdita di valori, è costante e viene esplorata con una profonda rarità.

Radka Denemarková

Nata nel 1968, è una delle scrittrici ceche più celebri e influenti della scena contemporanea, nonché figura di spicco nel dibattito politico e culturale del suo paese. Autrice versatile, ha scritto tantissime cose tra cui romanzi, saggi, opere teatrali e sceneggiature. Oltre a essere un’affermata traduttrice di letteratura tedesca, con autori di rilievo come Herta Müller e Michael Stavaric.

Denermarková ha studiato letteratura ceca e tedesca presso l’Università Carlo IV di Praga e lavora come ricercatrice presso l’istituto di Letteratura Ceca dell’Accademia delle Scienze della Repubblica Ceca. La sua abilità artistica e intellettuale le ha permesso di ottenere per ben quattro volte il prestigioso premio letterario Magnesia Litera. Le sue opere sono tradotte in oltre venti lingue, hanno ricevuto numerosi riconoscimenti internazionali, tra cui il: Literary Prize of Styria e il Brücke Berlin Preis nel 2022 e l’Austrian Franz Kafka Preis e l’European Tolerance Price nel 2024.

Il suo impegno politico e le sue posizioni critiche nei confronti del governo cinese l’hanno condotta al bando perpertuo dalla Cina nel 2017, ben prima della pubblicazione di Ore di piombo.

In conclusione

Ore di piombo è un romanzo complesso, che richiede impegno, ma ripaga con una prospettiva unica e profonda sul mondo contemporaneo. La scrittura di Dernemarková è potente e stimolante, capace di catturare la mente e il cuore.

Ore di piombo è un’opera visionaria che intreccia storie personali e collettive per riflettere sulle tensioni di un mondo globalizzato. Con una scrittura densa e ricca di significati, Radka Denermarková offre un romanzo che non solo intrattiene, ma invita alla riflessione. Una lettura impegnativa, ma imprescindibile per chi cerca opere che esplorano le complessità del nostro tempo.

Recensione a «Il cimitero delle macchine» su «Il Sole 24Ore» – Il sogno concreto di una metropoli moderna

Recensione a «Il cimitero delle macchine» su «Il Sole 24Ore» – Il sogno concreto di una metropoli moderna

di Giuseppe Lupo

Due romanzi pubblicati di recente – Un sogno cosi di Paolo Colombo (Feltrinelli) e Il cimitero delle macchine di Sergio La Chiusa (Miraggi, pagg. 392, € 26) – forniscono l’occasione per comprendere fino a che punto la città di Milano continui a trovarsi al centro del dibattito sulla modernità nella sue forme utopiche e distopiche. Sara certo un caso, ma in entrambi la vicenda narrata comincia dal Giambellino, un quartiere già raccontato dalla penna trasognata e dialettale di Giovanni Testori e dove negli anni 50 sarebbe stato facile incontrare il Cerutti Gino, l’inconsapevole eroe della canzone di Gaber, un po’ ganzo e un po’ tonto, sicuramente dentro il clima di un’epoca che faceva delle periferie il luogo di maggiore impatto antropologico.

[…]

Ogni medaglia però ha sempre due facce e qualcosa ci dice che anche il romanzo di Sergio La Chiusa contiene una profonda verità, tanto più necessaria se si considera che con il suo libro siamo arrivati ai titoli di coda del Novecento e quelle stesse macchine, intorno alle quali era stata costruita la nuova, indistruttibile civiltà, adesso sono finite nel grande cimitero del postmoderno, corrose dalla ruggine, simili a oggetti di un sogno infranto perché maldestro. È questa l’impressione che si ricava seguendo l’itinerario allucinato di un personaggio che si fa chiamare Ulisse (mai nome poteva calzare meglio) strizzando l’occhio a quell’altro Ulisse che aveva inaugurato il precedente secolo percorrendo le strade di Dublino), sicché balza subito evidente che la corrosività con cui l’autore affronta la stagione del disincanto, diciamo anche l’approccio apocalittico della sua prosa labirintica e canzonatoria provoca un segnale di sfiducia nei confronti di quel modo d’essere occidentali senza regole e senza morale, il capitalismo darwiniano (e non quello vegetale, come invece scriverebbe Luigino Bruni), dove le società sono rimaste intrappolate da ciò che appariva sogno e invece si è poi tradotto in incubo. Siamo già nel post-occidente. Seguire le orme di questo

Ulisse nella città che si fregiava d’essere capitale del Paese, frenetica e produttiva ma pur sempre capitale morale, equivale a compiere una specie di via Crucis nella disperazione degli ultimi, degli invisibili, dei rimossi, quelli che sperimentano il risveglio senza futuro all’alba del day after, quando Milano ha perduto l’immagine scintillante della moda e, guardandosi allo specchio, si e scoperta somigliante a un immenso cantiere, dove però non si costruisce più niente. A un certo punto del suo vagare questo Ulisse si imbatte nella statua malridotta di un angelo e si chiede che senso ha il suo apparire in un angolo remoto del Cimitero Monumentale, tra le tombe delle grandi famiglie imprenditoriali, i Falck, i Pirelli, i Campari, quelle del boom. E si chiede: «L’angelo della storia, non più in volo, ma esautorato, chiuso in un ripostiglio e decollato, così che non registri nemmeno le rovine che produce e s’accumulano al suo passaggio?» Chissà quale commento avrebbe fatto Walter Benjamin sentendosi tirato in causa.

Sergio La Chiusa / L’entrata di Cristo a Milano

Sergio La Chiusa / L’entrata di Cristo a Milano

di Lorenzo Mari

Con il nome che si ritrova, Ulisse Corsini non può che essere il degno erede di quella tradizione modernista che comprende il Leopold Bloom dello Ulysses joyciano e lo Zeno Cosini della Coscienza di Zeno di Italo Svevo. Nel Cimitero delle macchine di Sergio La Chiusa, tuttavia, si sente anche il peso del secolo che ormai ci separa da questi testi canonici del primo Novecento europeo, cui bisogna perlomeno aggiungere il riferimento kafkiano contenuto nel nome di un altro personaggio, il dottor Klammermann (dal Klamm del Castello). Nel frattempo sono intervenuti, tra gli altri, Buzzati e soprattutto Bianciardi – per la Vita agra, rispetto all’ambientazione milanese del romanzo, dove Milano non è “capitale morale” del Paese, bensì il luogo fantasmagorico e al tempo stesso crudo del titolo: un “cimitero delle macchine” –, come ha notato, tra gli altri Gianni Barone, parlando di un testo che, effettivamente, «gronda letterarietà da ogni pagina».

Questo non significa, d’altra parte, che la scrittura di Sergio La Chiusa manifesti strette affiliazioni epigoniche ai suoi modelli, risultando invece libera dagli stilemi più marcati del modernismo e risolvendosi, anzi, in una pagina che è spesso molto nitida, per quanto costantemente attraversata da potenti tensioni linguistiche. Si tratta, infatti, di una scrittura che tende verso l’orizzonte del nuovo Grande Romanzo Italiano, ma all’interno di una torsione della lingua che rifugge le banalità formali di molta altra prosa, per così dire, “mainstream”, per assestarsi in una zona superficialmente pacificata e in realtà foriera di continue deviazioni, trasgressioni, illuminazioni. Si sta dicendo, in altre parole, di un disegno e di un controllo autoriale già visibile nelle ultime pubblicazioni di La Chiusa – I Pellicani (Miraggi, 2020) e Madre nel cassetto (Industria & Letteratura, 2023) – e che di certo attiene a un progetto autoriale di lunga data, visto che l’ideazione dell’opera viene ricondotta, nelle note finali, al biennio 2003/2005.

Rispetto al precedente libro per Miraggi, Giorgio Mascitelli ha poi osservato, nella sua recensione apparsa su “Nazione Indiana”, che «se ne I Pellicani ci troviamo in una generica periferia urbana, in questo romanzo l’azione si svolge a Milano, che nell’immaginario mediatico nazionale è la città patinata e nuova di zecca per eccellenza». Anche di Milano, in realtà, sono esplorate zone periferiche e marginali – quasi mai rintracciabili con certezza a livello topografico, o sociologico, nella realtà della città lombarda – che finiscono per intaccare la patinatura di capitale “morale”, “degli affari” o “della moda”.

Una di queste è il cimitero delle macchine che dà il titolo al libro e che compare con espressionistica forza in apertura della seconda parte del romanzo come una corte dei miracoli anarcoide e incendiaria nella quale spicca il personaggio di Lazzaro Lanza – figura borderline (e dunque delirante e al tempo stesso umanissima, per nulla caricaturale) del militante rivoluzionario. È sul medesimo livello che resta una possibile interpretazione della politica rappresentata e agita nel testo, con implicazioni più vicine a una sorta di pessimismo umanista che a un vero e proprio nichilismo. Le traiettorie di Ulisse e Lazzaro si sovrappongono per buona parte della seconda sezione, con almeno una scena che si imprime vividamente nell’immaginazione, almeno nella nostra lettura, ovvero con la riproposizione milanese di un novello Cristo a dorso d’asino che replica l’Entrata di Cristo a Bruxelles nel 1889 di James Ensor.

Capolavoro pre-espressionista, quest’ultimo, la cui presenza para-ecfrastica rinforza le torsioni espressionistiche del linguaggio che si agitano sotto la superficie della pagina, assai ripulita, di La Chiusa. Non è questa, tuttavia, la sola immagine che si può consegnare, in chiusura, del libro: di Ulisse Corsini restano memorabili le disavventure condominiali, sessuali e sanitarie, a completare la figura di un personaggio che a un certo punto, in un passaggio carico non solo di letterarietà ma anche di metaletteratura, viene definito “posticcio e inattendibile”, ma che mostra, proprio per questo, mille sfaccettature (spesso molto materiali, e anche triviali). Ulisse Corsini è senza dubbio un “fuggiasco assoluto”, come ha giustamente osservato Mascitelli, ma sempre umano, umanissimo, al punto da contagiare chi legge con l’insopprimibile desolazione che è tanto sua quanto del cimitero delle macchine che, oggi, si nasconde in ogni nostra città.

QUI l’articolo originale: https://www.pulplibri.it/sergio-la-chiusa-lentrata-di-cristo-a-milano/?fbclid=IwZXh0bgNhZW0CMTEAAR2VfNuPh_ym7GIcpVfX2q0CmEWqG7E3ywKBnChfxVzOmgi_0c0hvsxWd0g_aem_ibpFboSRyNwU1ZEdjxqmDA

Radka Denemarková / La gazza azzurra e la cornacchia nera. Recensione su «PulpMagazine»

Radka Denemarková / La gazza azzurra e la cornacchia nera. Recensione su «PulpMagazine»

di Riccardo Cenci

ignificati inaccessibili solcano le pagine di Ore di piombo, colossale, coraggiosa e inesorabile opera di Radka Denemarková. Un libro con un destino, intessuto di simboli, visionario, complesso e affascinante, intriso di rara purezza. “È possibile vivere e scrivere allo stesso tempo?” si chiede l’autrice. Un contrasto apparentemente insanabile. “Scrivere, l’incessante attività della sua mente, è una stretta passerella sopra la voragine”. Per farlo, forse, occorre vivere “in un duplice tempo, in un duplice mondo”. Dicotomia simboleggiata dal grido lacerante della gazza azzurra, condannata a soffrire per ciò che è destinata a vedere, e dalla cecità della cornacchia nera, alla quale hanno fatto il lavaggio del cervello. Denemarková si muove in equilibrio su un abisso. Da un lato Praga, dall’altro Pechino. Nel mezzo un filo sottilissimo e periglioso. La sua scrittura assume forme inconsuete nel tentativo, perfettamente riuscito a nostro avviso, di fornire al testo pregnanza polisemica.

Entrare in un’altra cultura è quanto di più arduo si possa immaginare. Forte di un universo interiore di inconsueta profondità e di un’esperienza diretta sul campo, Denemarková – Scrittrice nel libro – indaga le dinamiche che muovono la società cinese per riflettere sul mondo contemporaneo. L’ambientazione “esotica” intride di fascino la narrazione, dietro l’atmosfera fiabesca il libro è ben radicato nel reale. L’autrice ha vissuto in prima persona il totalitarismo. La Cina di oggi, come la Cecoslovacchia sovietica, è un luogo nel quale nessuno esprime la propria opinione e, quando si azzarda a farlo, ne paga le conseguenze con il sangue, come è accaduto in Piazza Tienanmen; un Paese dove le intercettazioni sono sempre più sofisticate, dove “il sistema legale difende solo coloro i cui profitti lievitano”. “La Cina è un campo di concentramento dai confini impermeabili”. Denemarková ricorda la primavera di Praga, soffocata dai carri sovietici, eppure c’è ancora chi pensa di aver assistito a una liberazione, e non a un’occupazione. Riflessioni che possono applicarsi all’attuale invasione dell’Ucraina da parte della Russia. “La propaganda è una menzogna collettiva e le calunnie collettive non c’è modo di estirparle”.

A tal punto arriva la manipolazione delle menti. In una realtà in cui l’unica virtù è l’obbedienza, l’accettazione acritica, le persone non rieducabili vengono estromesse e annientate con il sospetto e la calunnia. Il controllo delle menti è anche manipolazione dei corpi. Ai condannati vengono espiantati gli organi. “Una voce legge davanti al corpo mutilato la sentenza”. Il sistema indirizza la vita privata. Il governo cinese detta il numero dei figli, e quindi le dinamiche familiari. Di tutto questo la donna è vittima, schiacciata da un modello patriarcale che non le lascia spazio, né le riconosce dignità.

L’incapacità dell’uomo di imparare dai propri errori è un fardello arduo da sopportare, in quanto mortifica qualsiasi speranza. Il libro non resta confinato a un singolo angolo geografico, per quanto immenso, ma è caratterizzato da una continua erranza, anche temporale, che ci trasporta dalle lande del lontano oriente ai paesaggi dell’Europa dell’est, dal passato al presente. Gli anni Novanta appaiono come un’orgia di potere, dominata dall’ossessione del comando e del denaro. Città elefantiache e impersonali, coperte da una perenne coltre di smog, racchiudono esseri sbiaditi, privi di personalità. Le tecnologie moderne, sempre più sofisticate, intossicano gli uomini finché questi non riescono più a distinguere fra gioco e realtà.

Stilisticamente il linguaggio ricchissimo, potente e visionario, così come le prospettive illimitate, possono ricordare gli universi barocchi creati da Vollmann. Il libro è un romanzo con derive saggistiche, pregno di riflessioni sulla politica, sulla natura del linguaggio e sulla calligrafia, un mondo di enorme vastità nel quale perdersi. La Cina è uno specchio dove vediamo riflesse le nostre paure, i nostri dubbi, le contraddizioni che lacerano la realtà in cui viviamo. Le tematiche della modernità si addensano in un affresco di enorme complessità. L’architettura stratificata, labirintica della narrazione addita le lacerazioni e i mutamenti che scuotono il nostro pianeta. Quali saranno gli esiti e le conseguenze, quando passeranno le ore di piombo evocate dal titolo, è l’interrogativo principale del libro. “La letteratura è la chiave per arrivare alle vite degli altri”. La parola è un’arma potente. Per questo i libri considerati nocivi vengono tratti al rogo, per questo libraie appassionate vengono torturate e offese, per mortificare ogni anelito libertario.

La Cina appare come un disumano meccanismo kafkiano, oppressivo e avido, mentre gli individui svaporano in un nulla colmo di apatia. Anche l’Europa si sta sgretolando, aggredita dalla paura. Le persone sono terrorizzate, i cuori anestetizzati dal capitalismo sfrenato. La divisione fra noi e loro impedisce qualsiasi forma di comunicazione con l’altro. “Si ripete un modello che ha funzionato nel corso di tutta la storia umana. La disumanizzazione”. Con grande coraggio Denemarková vuole dire tutto, desidera attingere alla verità, è stanca di tacere, perché anche il silenzio è menzogna. La cornacchia nera cava gli occhi alla gazza azzurra, incarnazione dell’anima inquieta dei defunti. Esiste la vita ed esiste la morte, e poi c’è la non vita a minacciare il nostro tormentato presente.

QUI l’articolo originale: https://www.pulplibri.it/radka-denemarkova-la-gazza-azzurra-e-la-cornacchia-nera/

Ulisse in discarica – recensione su «L’Indice dei Libri del Mese» di «Il cimitero delle macchine

Ulisse in discarica – recensione su «L’Indice dei Libri del Mese» di «Il cimitero delle macchine

di Chiara D’Ippolito

Leggere i romanzi di Sergio La Chiusa è un esercizio di equilibrio. Vuo dire camminare su un filo sottilissimo – quello che separa ciò che reale da ciò che non lo è– cercando di rimanere in piedi, ma finendo irrimediabilmente per cadere. Cadere in uno spazio dove l’adesione alla realtà cede di continuo il passo all’immaginazione e all’invenzione, e viceversa. accadeva nell’esordio IPellicani, menzione Treccani alla XXXii edizione del Premio Calvino: “La distanza tra messinscena e vita vera è così sottile alle volte che si scivola da una parte all’altra senza nemmeno accorgersene”, diceva a un certo punto il protagonista, e accade in questo secondo romanzo, frutto di un lavoro di scrittura ventennale e sempre pubblicato da miraggi: “ma basta divagazioni. ipotesi, peraltro. mica fatti certi, indiscutibili. d’altronde, nella società dell’informazione non sono proprio i fatti a scomparire? tanto vale tornare alle nostre invenzioni, allora, riprendere il filo del romanzo…”, sentiamo dire quasi alla fine del libro al narratore. Un narratore che irrompe nel racconto, passa all’improvviso alla prima persona plurale, utilizzando un “noi” che trascina nel discorso se stesso e il lettore. e accompagna, anzi, insegue il protagonista – di nuovo, come nei Pellicani, un fallito sul piano sociale e professionale, “un personaggio incolore, una tipica risorsa in esubero” ma anche, per la sua aria pensierosa, un po’ sospetto “in questi tempi dominati da risorse umane pragmatiche, industriose e performanti” – in un viaggio-peregrinazione attraverso “la città delle opere” o “della moda e degli eventi”. Una metropoli “brulicante di affari e di futuro”, chiaramente milano, dove “non si può sostare da nessuna parte, (…), bisogna circolare sempre, e con una ragione precisa, e se proprio non si può circolare che perlomeno si marcisca in luogo appartato, deputato alla putrefazione”. e nella quale l’unico modo per riuscire a vedere, per farsi largo nella nebbia – quella interna, soprattutto, una nebbia che è “sparita dalla città delle opere, e a pensarci può darsi che si sia in effetti trasferita nella testa dei sui indaffarati abitanti” – è cogliere l’ambiguità intrinseca del mondo usando la lente dell’assurdo, dell’ironia e dello humour. e qui il pensiero corre immediatamente alle possibili origini di questa storia, ossia a quei segni che, nel saggio L’artedelromanzo, milan Kundera ha identificato come distintivi del romanzo moderno: lo “spirito dello humour” e la “saggezza dell’incertezza”. Non appena “il nostro protagonista” – che, non a caso, di nome fa Ulisse orsini ed è un vero e proprio cavaliere errante del nostro tempo, affetto da una cupa stanchezza esistenziale, indebitato e a rischio di sfratto – esce di casa per andare in banca a ritirare gli ultimi risparmi, pagare i debiti e “mettersi in regola col mondo, guardare tutti a testa alta”, ci accorgiamo infatti che la città in cui lo vedremo camminare seguendo “l’istinto di cancellazione” è raccontata intendendo “il mondo come ambiguità”, accentando il fatto di “dover affrontare invece che una sola verità assoluta, una quantità di verità relative che si contraddicono (verità incarnate in una serie di io immaginari chiamati personaggi)”. 

E quindi, ecco che La Chiusa, facendoci pedinare orsini, servendosi di un umorismo a volte feroce e a volte amaro, di una lingua che magicamente sa essere allo stesso tempo limpida, asciutta, densa, allusiva, colta, triviale, ci fa entrare in quello spazio del quale si diceva all’inizio. Uno spazio dove è facilissimo perdere le coordinate del reale e lo spaesamento la fa da padrone. Una città dove l’unico punto di riferimento solido, il duomo, con i sui pinnacoli che svettano oltre la luce gassosa della modernità, è diventato “un monumento variabile, smontabile e rimontabile secondo la moda e la domanda del mercato”. Un mondo dove i luoghi appartenenti a una dimensione altra – di volta in volta surreale, grottesca, infernale – e le presenze enigmatiche e allucinatorie – una Venere dell’immondizia trasandata, indisciplinata e licenziosa, le ombre che frequentano un condominio-bordello del centro – sembrano manifestarsi per dirci com’è la nostra esistenza, per spiegarci la realtà assurda e insostenibile in cui viviamo. e così, si parte dall’ultimo piano di un palazzo fatiscente e dallo studio del dottor Guido Klammermann, al quale orsini è arrivato su suggerimento di un condomino solerte e il cui pianerottolo è zeppo di personaggi dall’aria derelitta. si passa per il corteo funebre di un morto prematuro – sebbene i morti abbiano compreso di stridere con l’immagine moderna della città delle opere, “tali testardi sabotatori dell’ottimismo non conoscono recessioni” – e per la “corsia degli incurabili” di un ospedale che non guarisce nessuno e ti mette di fronte al tuo “stato di spettro ambulante scomposto e replicato”. Fino ad arrivare – insieme a un orsini in pigiama, con una valigia piena di biancheria e senza documenti, “ed eccolo agitarsi, Ulisse, sentirsi perduto, preso nella massa anonima dei profughi” – al luogo centrale di questo romanzo: il cimitero delle macchine, collina di rottami e di rifiuti anche e soprattutto umani, rifugio di un gruppo di antispeciste per cui i diritti umani valgono anche per i moscerini, di una “tardona” naturista incinta di un imbrattamuri, sede di un movimento di piromani ragazzini e regno incontrastato dell’imbianchino Lazzaro Lanza, sedicente riformatore del mondo, messia che, seduto su un bidet incastrato in un monticello di ceramica, predica di “poter costruire ponti ideologici e spirituali” per traversare il tempo e tornare a quando “si viveva tutti in pace, nel giardino dell’eden”.

Ed è in questo “paesaggio degenere, anzi, un’anteprima della fine dei tempi” che, alla fine di un corteo molto simile a una via crucis per il centro della città, prima dell’ennesima fuga di Ulisse orsini, capiamo due cose: non solo a stare in equilibrio sul filo teso tra reale e non reale, ma soprattutto che, in libreria, vorremo molti più romanzi come questo: perché ci mostra che è possibile abbandonare il dominio assoluto del realismo e, allontanandosi dalla mera cronaca, dai fatti, servirsi dell’inverosimiglianza per illuminare i meccanismi del reale.

La Cina vista da Praga, recensione su «la Repubblica – Robinson» di «Ore di Piombo»

La Cina vista da Praga, recensione su «la Repubblica – Robinson» di «Ore di Piombo»

di Alessandro Catalano

La ceca Radka Denemarková costruisce un romanzo fluviale su più piani narrativi che è un atto d’accusa contro i totalitarismi.

La Cina è uno splendido campo di concentramento dal confini impermeabili, la Cina e un giardino fiorito, e non è una contraddizione», grida un’artista nel corso di uno del tanti incontri del peculiare diario di viaggio nell’anima dell’Europa e nell’anima di un pezzo d’Asta» di Scrittrice, la protagonista del ro manzo Le ore di piombo, Radka Denemarková, apprezzata intellettuale ceca, non sfuggite certo i temi controversi. Versatile autrice che vuole «svincolarsi dalle catene della mia lingua, del mio sesso, del mio Paese e della mia epoca », Denemarková è una delle voci più originali dell’attuale letteratura ceca. Arriva ora nelle librerie il violento atto d’accusa Le ore di piombo, con cui Denemarková ha vinto nel 2019, per la quarta vol-ta, il più importante premio letterario ceco, Magnesia Litera. Monumentale alfresco narrativo traboccante di riferimenti culturali, Il romanzo riprende nel titolo una poesia di Emily Dickinson sui momenti fatali che trasformano i destini individuali. Fatale ha del resto un duplice significato: il piombo è una sostanza che avvelena lentamente. Denemarková stessa ne ha paragonato la scrittura alla costruzione di un tempio. Le ore di piombo è un ro manzo che ricorda l’arte raffinata della calligrafia cinese. L’ampiezza e la densità del testo hanno rappresentato una sfida editoriale vinta sia per l’editore che per l’ammirevole traduttrice.

Abbiamo di fronte un’opera che si dilata nello spazio e nel tempo, basata sulle vicende di una serie di personaggi che esplorano variazioni esistenziali della stessa situazione: Scrittrice, Programmatore, sua moglie e la figlia Olivie, Amico, Marziano e la sua famiglia, Diplomati-co, Ragazza Cinese e Madre Cinese, Avvocato, Studentessa America-na, Pittore, Arrampicatore. Sulle pagine del romanzo si dipanano sotto lo sguardo attento della polizia segreta cinese, ambigui e spesso patologici legami, piccoli intrighi quotidiani e scambi di parole prive di contenuto. Il destino di questi lugubri personaggi è quello ti trovarsi di fronte alla loro ora del la verità, che per qualcuno porterà a scene di violenza familiari o alla fuga verso oriente, per altri alla dittatura dei rituali domestici o anche a un braccialetto spia. Più che un romanzo sulla Cina, abbiamo di fronte uno specchio, una luce sconsolata puntata sul labirinto di rap porti servili che legano gli europei alla Cina, che spesso mascherano solo sete di profitto.

E possibile resistere in «un’epoca in cui qualcosa di essenziale sì sta sfaldando e trasformando»? È giunta per la cultura europea l’ora fatale? Di fronte all’onnipresente paura della società cinese torna attuale la questione della battaglia spesso vana contro la propaganda (anche russa) e in favore dei diritti umani, qui personificata dal lascito ideale di Václav Havel. Dopo ripetuti soggiorni a Pechino, certo non sorprende che l’autrice sia stata bandita dal Paese per i suol contatti con la locale scena dissidente del manifesto Charta 08, che si rt-collegava alla cecoslovacca Charta 77. In quella che è forse la più inquietante linea narrativa del romanzo, per colpa di Scrittrice quest’eredità contagia Ragazza Cinese, ma la sua rivolta conduce solo alla sua esecuzione, dopo l’asportazione del reni, merce pregiata sul mercato nero degli organi. La persecuzione dei “non rieducabili” come lei si svolge davanti all’indifferenza generale, rimarcata dalle reiterate conversazioni da salotto de gli europei che contano: «Gradisce un altro bicchiere? E la sua prima volta in Cina? Com’è andato il volo? Le piace la Cina?-. In questo squallido panorama di maschi predatori e donne superficiali sembra no tutti concentrati sulla propria scalata sociale, Tra le pochissime eccezioni, Olivia e David, giovani outsider sui quali si riflettono le malattie del presente. Sulla propria pelle vivono invece la minaccia alla libertà le gazze azzurre che combattono nei cieli una battaglia impari con le cornacchie nere (‘on-nipresente polizia segreta?), e il gatto millenario Arancio e il suo discepolo Mansur, che attraversano la storia, osservando i travagli dell’uomo con sempre maggiore disincanto.

Radka Denemarková descrive un’umanità moribonda, che avreb be urgente «bisogno di una trasfusione» perché «nel suo sangue circolano liberamente i virus dell’anti-semitismo e del razzismo. La narrazione avanza per microsituazioni, per accumulazione di storie, ognuna delle quali avrebbe potuto rappresentare materiale sufficiente per una novella. Anche per questo Scrittrice può affermare a buon diritto che «probabilmente non troverò mai più l’energia per scrivere un libro come questo».

Lory Muratti & Andy (Bluvertigo) / Viaggi psico-naturali – Recensione su «Pulp Magazine»

Lory Muratti & Andy (Bluvertigo) / Viaggi psico-naturali – Recensione su «Pulp Magazine»

di Roberta Cospito

ora delle distanze è un singolare romanzo, ma anche un singolo musicale e un 45 giri disponibile da ottobre su vinile colorato, scritto da Lory Muratti e illustrato da Andy (Andrea Fumagalli) fondatore, insieme a Morgan, del gruppo musicale Bluvertigo. Colpisce subito la bella copertina e il particolare layout a due colonne che mi ha catapultato rapidamente in un tempo in cui ero ragazzina e tenevo in mano le pubblicazioni “Urania”. Il libro è un viaggio che, traendo ispirazione dalle numerose illustrazioni dei quadri visionari di Andy, è giocoforza qualcosa di surreale e psichedelico.

Il protagonista di questa strana storia è un disegnatore costretto da una misteriosa voce al telefono nel ruolo di “pusher del colore” che, se di giorno spaccia dosi di emozioni acriliche agli abitanti disorientati e anestetizzati di un mondo in bianco e nero, di notte si rifugia nel suo laboratorio per sottoporsi a una trasfusione di colore che lo porta a viaggiare dentro le sue stesse opere: ci viene così raccontata una “contro-realtà” abitata da personaggi imprevedibili, pittoreschi, onirici e fuori dagli schemi tipo il Killer del Phon, la Regina, l’Uomo dell’Interludio e il Violinista Appeso, ma anche da personaggi molto meno irreali come David Bowie, Isabella Rossellini, Alain Delon e un suo doppio malvagio da sconfiggere in una dura battaglia a colpi di pennarello.

In questo viaggio lungo una notte, troviamo musica, letteratura e pittura in modo da coinvolgere tutti i sensi nella lotta quotidiana di chi non vuole arrendersi a vivere in una realtà corrotta in quanto abitata da un’umanità che ha dimenticato l’importanza dei sogni e delle emozioni e che, sconfitta dal vuoto che avanza, vive immersa in un mondo in bianco e nero pericolosamente privo di sfumature: “Un mondo annoiato dai sogni è un mondo da far saltare in aria” ci dicono gli autori. Esiste, dunque, un’alternativa a questo nostro mondo violento, ignorante e vinto da regimi che indossano l’abito della democrazia, in cui la perdita di ciò che avevamo duramente conquistato decenni fa, ci ha portato a vivere in assenza di sentimenti, soffocati da rapporti malsani e fasulli, a convivere con persone che ci rubano il tempo – specie quello libero, preziosissimo – senza neanche chiedere scusa.

I sogni e i colori presenti nella dimensione parallela delle “Distanze” in cui si ritrova l’io narrante, rappresentano non solo una fuga da una realtà divenuta insostenibile, ma anche la cura, il rimedio, la possibilità di mantenere vivo il sogno viaggiando dentro noi stessi per poi provare, una volta tornati alla dimensione in bianco e nero, a invertire la rotta: infondere nuovo colore nelle persone vuol dire trasmettere speranza e ridare la giusta rilevanza ai sentimenti veri, specie in chi li aveva persi da tempo, perché solo chi emana vibrazioni positive potrà partecipare a una festa nel mondo a colori inventato dagli autori. Bisogna, quindi, avere coraggio nell’affrontare un viaggio dentro noi stessi: a volte occorre arrivare a scordare chi siamo per ricominciare, decostruirsi, per usare un termine molto attuale, perché ciò che succede dentro di noi può essere utile a trasformare anche ciò che avviene fuori da noi.

QUI l’articolo originale: https://tinyurl.com/y6wc7m8d

Recensione a «Il cimitero delle machine» su Exlibris2.0

Recensione a «Il cimitero delle machine» su Exlibris2.0

di Laura Ghidini

Il cimitero delle macchine di Sergio La Chiusa è un romanzo coinvolgente nel senso più stretto del termine: l’autore usando la prima persona plurale, fa sembrare che il protagonista e la sua storia siano nelle mani del lettore e che insieme lo si plasmi e ne si diriga le sorti, in una sorta di Truman show di tempi moderni.

Un modo davvero inusuale e “furbo” per farci sentire parteci del destino del nostro eroe. 

“L’ abbiamo detto che è solo? No? Lo diciamo adesso e anzi, dato che la famiglia è un impaccio per il nostro romanzo, diciamo pure che ha perso entrambi i genitori così ci siamo levati di dosso un po’ di zavorra biografica”.

Il nostro protagonista (ecco, ho ceduto alle lusinghe dell’autore cadendo nel suo tranello) si chiama Ulisse Orsini.

Un nome impegnativo che suppone una vita movimentata fatta di viaggi, avventure e incontri.

Ma più che al famoso progenio, il nostro Ulisse sembra più un Don Chisciotte de nojaltri. 

Siamo stati davvero ingenerosi con il nostro protagonista (ops, ci sono cascata di nuovo)… abbiamo deciso debba essere troppo lungo e magro con braccia e gambe svitate e scricchiolanti.

Imbranato, sfigato, cammina sfruttando la striscia d’ombra lungo i muri in balia di persone ed eventi.

E infatti quando il poveretto si trova improvvisamente disoccupato, sfrattato e senza un soldo, non trova di meglio da fare che errare in pigiama per una Milano che La Chiusa fa sembrare post apocalittica, con una valigia piena di tutto ciò che gli resta: la sua biancheria intima.

Con una scrittura originale e una creatività espressiva tragico/umoristica, faremo scoprire al nostro (!) Ulisse nel suo vagabondare tra emarginati, Guru e fuori di testa che vogliono salvare il mondo, lo stridente contrasto tra edifici sciccosi su cui troneggiano le pubblicità patinate con modelli vestiti all’ultima moda e gli ambienti in cui si trovano a galleggiare i derelitti che, inevitabilmente, escono nelle tenebre e coi quali si accompagnerà.

Viene rapito e liberato, si unisce ai salvatori e alla loro lotta per sopravvivenza dell’umanità partecipando a improbabili cortei, diffondendo volantini “Anche tu puoi riformare il mondo. Movimento di Lazzaro Lanza imbianchino e riformatore del mondo. Per informazioni tel xxx disponibile anche per tinteggiature”, brucia auto contro il sistema capitalistico. 

È preso da un vortice. È questo il vero lui o quello pacato e mite del prima?

D’altra parte è solo al mondo, l’Orsini.

“Pedagoghi tutti intorno a sostenere i primi passi: madri, padri, maestri d’asilo e delle elementari, insegnanti di italiano e matematica, di sostegno per i più riluttanti, e più avanti, per farsi strada in società, tutta una serie di tutori patrocinatori che indirizzano, raccomandano, procurano posti. Ulisse Orsini, invece, non ha nessuno cui rivolgersi. Non ha avuto il privilegio di un Dante per esempio: Nel mezzo del cammino della vita non si è presentato il suo idolo di gioventù uscito da un poster a prestargli soccorso nella selva di rate e bollette, tirarlo fuori dal suo monolocale in affitto e organizzargli un percorso di conoscenza articolato in tre cantiche e Cento Canti in terzine endecasillabi”.

Ma il nostro protagonista è più duro di quanto pensiamo e “tiene botta” negli incontri a volte aspri con il popolo del cimitero delle macchine nel quale trova accoglienza e rifugio.

Probabilmente fa suo il detto “Se non li puoi sconfiggere unisciti a loro” pur non essendo previsto dal nostro copione. 

E torniamo al Truman show. 

Ce la farà a emergere dall’incubo in cui lo abbiamo gettato?

QUI l’articolo originale: https://www.exlibris20.it/il-cimitero-delle-macchine-di-sergio-la-chiusa/

Recensione a «Malapace» di Francesca Veltri su Exlibris 2.0

Recensione a «Malapace» di Francesca Veltri su Exlibris 2.0

di Federico Preziosi

Titolo emblematico, tematica attuale, storia antica. No, non è una nuova puntata editoriale sul conflitto russo-ucraino o israeliano-palestinese che angoscia i nostri giorni, sebbene i due principali focolai del presente abbiano molta attinenza con i contenuti di questo libro. Malapace (Miraggi) è un romanzo nato dalla riformulazione di uno scenario storico non molto approfondito in verità tra i banchi di scuola. Parliamo della Francia della Repubblica di Vichy, argomento che l’autrice, Francesca Veltri, ha affrontato per ragioni professionali.

Come l’Italia, anche se per diverse dinamiche, la Repubblica transalpina era divisa in due parti durante la Seconda Guerra Mondiale, in un arco di tempo che va dal 1940 al 1945, ben più lungo rispetto alla separazione avvenuta di fatto all’indomani dell’8 settembre del 1943 sul territorio italiano. La parte meridionale della Francia, convenzionalmente chiamata Repubblica di Vichy, era di fatto un satellite del Terzo Reich sebbene si dichiarasse neutrale sulla carta. Dopo l’invasione nazista e l’occupazione del nord del paese, lo Stato francese aveva trovato un compromesso per sopravvivere in quanto entità politica e culturale, accettando una condizione di “malapace”, volendo estendere il titolo del libro al contesto storico fin da subito.

Fatte queste doverose seppure sbrigative premesse, il titolo dell’opera e l’ambito in cui la vicenda si snoda costituiscono elementi già sufficientemente precisi su cui incardinare qualche riflessione utile per il presente, perché in letteratura è necessaria una ricerca di natura esistenziale e spirituale: laddove l’attuale interroga il presente è necessario attingere al passato per poter arrivare a deduzioni più vaste e complete da parte della nostra coscienza.
Francesca Veltri ci guida in questo processo con ponderatezza, ma altrettanta decisione, e nel definire personaggi credibili, tra loro complementari eppure opposti, attraversa una serie di situazioni e stati d’animo talmente intricati da rendere così bene la tragedia che si consuma pagina dopo pagina. La Storia non può essere solo un fatto memoriale, si caratterizza per atti, azioni che in determinanti momenti vanno oltre le ideologie e le convinzioni personali. Pertanto non mi soffermerò sui caratteri principali dei protagonisti, preferisco lasciare al lettore l’onere di empatizzare con François, Antoine, Martine e Jean-Pierre; chi legge ha il diritto di regalarsi un giudizio pieno o parziale, riflettere doverosamente e vivere l’azione come se si svolgesse sulla propria pelle.

Da parte mia, invece, cercherò di addentrarmi nello spirito che caratterizza il romanzo e nella complessità che i contesti e le convinzioni personali generano, nell’intento di deragliare da un dibattito attuale dominato dall’opinionismo da talk show, più interessato a eccitare gli animi che a ragionare. Non è importante maturare immediatamente un’idea definita, questo non è un romanzo che intende osannare i vinti e crocifiggere i vincitori, ma è pur sempre un testo che ribadisce la labilità tra idea e coerenza al cospetto della necessità. Le parole di Francesca Veltri tentano di andare oltre determinate contrapposizioni, la Storia è terreno comune quando riesce a trovare, per quanto possibile, chiavi interpretative che sappiano infondere un senso di condivisione e appartenenza. Per certi versi tutti i personaggi del romanzo sono degli sconfitti, uomini e donne non privi di ingegno e di cultura, abitati da passioni incontenibili, da un senso di bene comune dai propositi nobilissimi. Eppure, qualcosa di più grande nelle loro vite incrina questo assetto di idee e i protagonisti si ritrovano a rivedere posizioni e lottare su postazioni divenute quasi irriconoscibili tenendo conto proprio dei presupposti iniziali. Si è spesso portati a ritenere che certi cambiamenti siano frutto del trasformismo e della convenienza personale, al contrario Malapace riesce a far emergere la perfetta buona fede delle parti, prigioniera nell’ineluttabilità degli errori dettati dalle contingenze, nonché dalle terribili conseguenze che il contesto politico e sociale impongono. Volendo trovare un parallelismo, oggi come allora ci si chiede se sia un bene sacrificare lo Stato, inteso come entità di valori e luogo di espressione collettiva, in nome di una non identificata sopravvivenza, chiamando con la parola pace un mero esistere. Ci si chiede se sia necessario ribadire i principi di libertà e combattere fino in fondo laddove le forze individuali e plurali possono arrivare o se non sia meglio cedere sul terreno dei diritti in funzione di uno stato di relativa quiete. Sono domande urgenti che da qualche anno a questa parte hanno ritrovato dimora nelle coscienze di molti. Mai come in questi tempi avvertiamo i confini sottili di una pace che in un nonnulla si converte in resa o addirittura prostrazione. Nulla di nuovo sotto al sole, è solo che a tali dinamiche del tutto comuni nella Storia ci eravamo disabituati per via di decenni di stabilità, crescita, fiducia e prosperità farcite da considerazioni storiche fatte con il senno del poi. Questo romanzo arriva a interrogarci su questioni delicatissime, sulla necessità di dover fare scelte dure, con consapevolezza e fuori dalla retorica nazionalista, pacifista o non interventista, andando verso le ragioni che spingono gli attori politici a muoversi e che determinano le misure del campo da gioco con o senza il consenso popolare. 

Malapace non risparmia critiche alle dottrine politiche dell’epoca (i cui echi non si smarcano dall’attualità), non elude il processo di autocritica all’interno della trama in cui si muovono i personaggi: nello sfondo della vicenda si intravedono momenti dove le attuazioni delle utopie, nelle declinazioni più drammatiche, scuotono convinzioni granitiche mettendo a repentaglio valori personali, imprescindibili, e Francesca Veltri, atomizzando il proprio Io autoriale in varie creature letterarie riesce a entrare nel vivo di certi sentimenti attraverso una grande capacità di immedesimazione, strumento di cui la letteratura non dovrebbe fare a meno, in particolar modo in un’epoca in cui tutto viene polarizzato dall’esperienza personale e/o familiare, senza ricercare un senso più ampio dei contesti. In altre parole, si tratta di un romanzo che intende fare i conti con la Storia andando oltre le storie mettendo da parte la buona fede e l’appartenenza.

Termino questi spunti con un passo brevissimo, esempio di una capacità rappresentativa notevole da parte di Francesca Veltri, decisamente lucida e schietta nella narrazione, senza risultare tagliente in maniera forzata. La parte affilata di questa faccenda spetta al non detto, al silenzio, un invito a nozze per il lettore. A chi legge lascio le conclusioni.

«Immaginai Martine che usciva insieme alle SS da quella stessa porta, il cappotto sulle spalle perché all’Est avrebbe fatto freddo, un po’ curva sotto il peso della valigia, forse appena affannata, in viso la smorfia di sfida che le riusciva così bene. Mi chiesi se si fosse fermata a guardare per un attimo la donna che l’aveva venduta, prima che la portassero via.

Com’è che aveva detto a Jean-Pierre, in quel parco di Leningrado? Fammi vedere la faccia di quest’umanità per cui si fanno le rivoluzioni».

QUI l’articolo originale: https://www.exlibris20.it/malapace-di-francesca-veltri/?sfnsn=scwspmo&fbclid=IwY2xjawFdfxRleHRuA2FlbQIxMQABHURwkhV06RlA-MzFdg1jBXKG8KY0uDUV7TXKC9N6mmIJ4q46gIQ1hQnJ6w_aem_f27Wusj-KIrGYb4mYeuqTA