L’Edonista è il titolo del romanzo scritto a quattro mani da Francesca Angeleri e Alessandra Contin (Miraggi Edizioni, pp. 172, euo15). Edo è il nome del ragazzo protagonista, nonché voce narrante: un giovane rampollo dell’alta borghesia torinese, che già nelle prime pagine impartisce una lezione tanto severa, quanto realistica: «nella vita contano i soldi e quelli fatti in una sola generazione non sono sufficienti. Nell’ufficio di mio padre ci sono appese lauree che risalgono agli inizi dell’Ottocento Quei titoli rappresentano una vasta rete di contatti e di benessere, nonché un laboratorio di eugenetica che ha portato al mio concepimento».
IL ROMANZO racconta il percorso che ha condotto il ragazzo, che all’inizio della storia è dominato da una tale visione del mondo, feroce e classista, a diventare un adulto. La vita di Edoardo si compone di studio – deve scrivere la tesi in giurisprudenza – uscite con amici, che appartengono alla sua stessa classe sociale, e amplessi con ragazze che hanno tutte in comune disturbi alimentari. Queste amanti non hanno un nome, ma vengono indicate con locuzioni tipo: «Disturbia Mentina», «Disturbia Cappuccino», eccetera. Le principali attività che Edoardo svolge insieme agli amici Gianmarco, Leone e Sofia sono: assumere dosi massicce di alcol e droghe sintetiche e fare delle bravate, come terrorizzare coppiette appartate sulle strade della collina torinese. Sembrerebbe quasi che la ferocia e la superficialità dei comportamenti di Edoardo siano da addebitare alla sua situazione familiare: la madre, anch’essa laureata in legge, ha abbandonato la sua carriera da giovane, mentre il padre, brillante e agguerrito avvocato torinese, che lavora per «il diavolo», cioè le grandi aziende, la tradisce regolarmente con ragazze, che non superano mai i venticinque anni.
IL TURNING POINT del testo è generato, ça va sans dire, dall’amore: Edoardo che sembra un anaffettivo, erotomane cronico, è in realtà semplicemente innamorato, senza volerlo ammettere neanche a se stesso, della sua compagna d’asilo Viola. Anche la ragazza è figlia dell’alta borghesia torinese, ma non di quella che si assume la responsabilità del classismo, bensì la fazione radical chic. Dopo che la verità del sentimento esploderà in faccia a entrambi, Edo si recherà a Brighton, per la consueta estate a casa di sua zia Ginevra. La donna ha il ruolo della coadiuvante dell’eroe: grazie all’affetto di questa zia e al suo essere davvero irresistibile, Edoardo scoprirà alcune verità sulla sua famiglia, lasciandosi alle spalle l’insensatezza delle abitudini torinesi, il vuoto di un’esistenza dedicata alla distruzione di se stesso e al consumo di sostanze e di persone, come se fossero la stessa cosa.
Il testo di Angeleri e Contin si contraddistingue per un uso della lingua particolarmente adeguato al tema della narrazione e coerente coi personaggi, che rende la lettura agevole e contribuisce alla creazione di un mondo, composto da persone estremamente ricche, eccezion fatta solo per il personale domestico, che nel testo è decisamente riuscita e convincente.
Dal frivolo al più profondo, i racconti, ben 65, sono tutti a tinte forti, ben delineati, pur nella estrema brevità sono pieni di dettagli che li rendono sorprendentemente articolati.
Nell’insieme, a fine lettura, si rivelano come i singoli, minuscoli frammenti di un discorso unico.
Zurru semina questa unitarietà in ciascun racconto e lascia il lettore trovare il suo fil rouge.
Una parola, un luogo, una scena, comporrà il tutto in un unico affresco.
Non a caso i racconti non hanno un titolo; forse proprio per non spezzare quel filo che li lega. Per non dare loro un’indipendenza, lasciando che sia il lettore a unire i piccoli indizi, come puntini che formano una sola figura.
La voce di Zurru è molto precisa. Ha caratteri univoci è ironica, ma sa essere anche dura, drammatica. Il registro cambia spesso lungo i racconti e questo rende la lettura oltremodo piacevole, mantenendo alta l’attenzione alle tante storie raccontate.
Lui stesso parla della propria voce di scrittore. Nel racconto 44 confida al lettore che, dopo mille ricerche, osservando le cose, la natura, e dopo l’ascolto dei suoni e delle voci altrui, è stata proprio lei a trovarlo e a rimanergli fedele “la voce scava da sola, se vuole, le parole sanno la strada che parte e arriva sicura”.
Ed è bellissimo anche il racconto 43, nel quale accosta lo scrittore a un direttore d’orchestra, la scrittura alla musica. Scrivere è come riempire uno spartito. La ricerca della parola perfetta è come il tocco del musicista sui tasti d’avorio; la lettura del proprio testo finito è come suonare la musica che si è creata. Un racconto elegantissimo.
Per questo Endecascivoli non è solo un’antologia di racconti. Sembra piuttosto un insieme di frammenti dello stesso romanzo, una storia unica distinta in flash, in istantanee. Piccole fotografie che possono essere scattate o disegnate e inserite nel riquadro vuoto che il lettore trova all’inizio di ciascun capitolo, come una cornice pronta a ospitare l’immagine evocata leggendo in racconto. Gradevole e molto fantasiosa questa idea editoriale di far interagire, sotto diversi punti di vista, chi legge.
Spesso, chi scrive, lo fa partendo da un’immagine; che sia un passaggio volontario, un’operazione contemporanea o meno alla stesura, è un’operazione comune a molti scrittori. Si parte da un’immagine e poi ci si scrivono su le parole; in questo caso, l’incontro è doppio e intrecciato. La prima immagine è Zurru a metterla, scrivendo un racconto che poi il lettore potrà tradurre in un’altra immagine ancora. Due immagini e in mezzo le parole a veicolarla.
Con questi racconti il lettore è ricondotto in un mondo che non esiste più. Quando si legge dei frammenti di una vita rurale ormai dimenticata, quando l’autore ricorda le merende di pane e zucchero per i bambini preparate dalle nonne, “in campagna, riuniti nei giorni di festa. Parlavano poco, ma questo è già detto. Mangiavano l’aria che avevano intorno. Mangiavano l’aria, almeno quel giorno”, i ritmi lenti, i sapori forti di sentimenti e rapporti umani.
In altri racconti, a uscire nitido è invece il rapporto viscerale con il mare. Descritto come una creatura sensuale la cui brezza è un essenza conturbante, il respiro è l’artefice di un movimento che diventa seduzione “mi fermo su un granello di sabbia che rimane sul letto anche se ho fatto la doccia al ritorno dal mare.”
E ancora, c’è la vita circense come metafora usata spesso da Zurru per divertire il lettore e suscitare in lui una riflessione profonda con un’atmosfera onirica, dal sapore quasi felliniano, per descrivere una realtà tragicomica.
Ma è nei racconti che sono filastrocche, in cui l’autore dà il meglio di sé. Divertissement con un fondo di riflessione che addolciscono l’anima in uno spazio effimero; il loro ritmo giocoso si esprime e comprime in una pagina o poco più. Il racconto 45, ad esempio, in cui lo scrittore usa una filastrocca ironica che fa ridere di gusto, malgrado la tematica sia tutt’altro che scherzosa nel far riflettere sulle persone che si perdono, lasciando un retrogusto amaro nel lettore più attento.
Da metà libro in poi si trovano, forse, i racconti più profondi, più intimistici; la voce dell’autore si fa confidenziale, calda, la sua visione del mondo si rivela appieno ed esce l’attenzione ai rapporti umani, in particolare all’amicizia come istante in grado di durare tutta una vita e unire nel profondo le persone, pronto a rinnovarsi.
E c’è anche l’attualità. La pandemia, che pervade, ma non invade il campo. Rimane come elemento incidentale, fa da sfondo nel racconto 50. Un pezzo particolarmente esilarante e critico al tempo stesso. Nell’intervallo esiguo di una pagina, vi trova posto un’acre critica ai social, mondo inventato, dove si riciclano frasi e comportamenti che prima trovavano posto “nei cessi”. Un racconto che è quasi un sonetto, per struttura e morale.
In altri casi invece, i racconti assomigliano a ballate; ritmi e contenuti che, ancora con una metafora musicale, potrebbero esprimersi in fraseggi alla De Andrè, coi quali condividono il ritratto dolce-amaro dell’umanità.
In Endecascivoli c’è anche tanto della terra natìa dell’autore: la Sardegna con le sue miniere, la vita dei minatori, dura, essenziale e ricca di valori, descritta con tinte meno vivaci, forse più cupe, ma sempre schiette.
Complimenti a Patrizio Zurru, che incontra la realtà e ne scrive con vigore e nuance variegate, conservando una voce personale, a tratti tinta di poetico, dove la realtà è ricordo, evocazione o durezza del quotidiano. Questa raccolta fa riflettere in modo talvolta leggero, talvolta impegnativo sull’esistenza, sul passato e sui valori attuali della vita.
Un libro da leggere anche in questa estate bizzarra, sia nel meteo che nel quotidiano, che si lascia scorrere in modo scorrevole e piacevole; con la consapevolezza che qualsiasi cosa si possa leggere “appena finisce il racconto è finito l’amore che hai ascoltato, che hai letto, o immaginato”.
Inforcata una bici un monaco buddhista tibetano si inoltra nel Bardo, dimensione in cui per 49 giorni viaggia l’anima del defunto in attesa di rinascere o di raggiungere l’illuminazione. Nel suo pedalare si imbatte in Garibaldi, Fausto Coppi, Omero, Gesù, Attila, Van Gogh, Dante, Karl Marx, Freud, Hitler, Santippe, Elvis Presley, Cleopatra… per citare solo alcuni dei 49 trapassati, tutti più o meno «illustri» e tutti confusi e perplessi, di cui riporta le peripezie. Nel Bardo non valgono le leggi dello spazio-tempo dei vivi, passato presente e futuro si intrecciano, si sovrappongono, e i ricordi di quanto si è fatto in vita non mollano facilmente la presa, annebbiando la mente. È la trama di «Più di là che di qua», ultimo scritto di Paolo Morelli (Miraggi edizioni, 170 pag. 16,15 euro). Di ogni deceduto viene riportata la data, il luogo e la causa della morte, e quando è possibile anche l’ora. «’Addio Totonno, non veggo più luce’ esalato l’endecasillabo sfranto Giacomo Leopardi s’è appressato alla morte il 14 giugno del 1837, alle 21 precise in vico Piero 2 a Napoli, tra le braccia di Ranieri Antonio, appunto». Dopo varie avventure calcistiche ed endecasillabi sempre peggiori, l’ex poeta infinito «riuscirà a intrufolarsi nella signorina Clemente Anna, la quale il 15 febbraio ’98 dava alla luce Antonio Vincenzo Stefano, meglio conosciuto come Totò».
Alighieri Durante, detto Dante, cerca di capire chi sono tutti questi arrabbiati con lui che gli vengono incontro. Che gli ha fatto? Non se lo ricorda. Johann Sebastian Bach si risveglia in un canneto. Gesù «ha esalato l’anima il 7 aprile dell’anno 30 dopo sé stesso, un retrogusto acetoso in bocca…».
I primi passi nel Bardo di Blaskó Béla Ferenc Dersö, in arte Bela Lugosi, sepolto con mantello di velluto nero e rosso, sono in un campo sterminato, coltivato ad aglio. «Ah no! Io qui non ci vivo neanche morto!». Per Karl Marx c’è il deserto rosso di Marte, landa senza una capitale, per Napoleone Buonaparte ovviamente il manicomio. Cristoforo Colombo è prigioniero di una banda di vichinghi. Cervantes e Shakespeare, morti entrambi il 23 aprile 1616, si ritrovano abbracciati l’un l’altro guardandosi in cagnesco. Adolf Hitler si porta appresso le ultime ore nel suo bunker, e ossessivamente cerca invano di suicidarsi di nuovo, con coltelli, veleni, cocci di bottiglia, salti nel vuoto… «non era certo un trionfo per la logica tentare di ammazzarsi per chi è già morto». Archimede di Siracusa fu ucciso veramente il 14 marzo del 212 a.C., ossia nel giorno del pi greco?
La testimonianza del monaco a un certo punto viene interrotta da un reportage dalla Moravia, regione della repubblica Ceca, di cui discutono Alberto Moravia, Elsa, Pierpaolo ed Enzo. In chiusura prende il via il Gran Premio del Mandala, corsa ciclistica di 40 km. Garibaldi va subito in fuga, il plotone guidato da Bach e Paganini lo riprende quasi subito. Il primo gran premio della montagna se lo aggiudica Lugosi su Savonarola. La corsa continua, scatti di Van Gogh, Dante e Salomone e via pedalando con Romolo, Elvis, Cleopatra, pioggia e vento contrario, cadute, inseguimenti, fino al circuito di Quintessenza dove si taglia il filo di lana caprina dell’arrivo.
«Più di là che di qua ha un che di psichedelico, si specchia nella dimensione dei sogni, a volte assurdi e sconclusionati, a volte profetici o misteriosi. I giochi di parole e i calembour abbondano, la fantasia straripa. L’autore si è chiaramente divertito in sella a questo libro, che rimanda alla Livella del Principe de Curtis lucidando la falce del Tristo Mietitore.
Per festeggiare lo stato di prolifica grazia in cui versa la sua prosa da qualche anno a questa parte, Morelli si concede un vagabondaggio oltre la soglia non oltrepassabile che divide perentoriamente in due le esistenze di noi tutti: il di qua della vita e il di là della morte. Nell’intercapedine, quello che i buddisti chiamano Bardo, l’interregno di 49 giorni prima dell’ingresso in nuovo corpo e via così. Se Saunders si era dilettato di buttarci Lincoln, in quella terra di mezzo, crogiolandosi (anche) nel lacrimevole dolore, Morelli prova ad attraversarla in bicicletta, inanellando una schidionata di incontri che si riappropriano delle salutari rughe della commedia, sorridendo di fronte all’imperscrutabile. Fedele alla strampalatezza, il nostro crea un pretesto ridicolo per violare il diaframma e dilagare tra le anime dei morti, millenarie o giovani che siano.
Che sia Elvis o Napoleone, Gesù o Omero, Nerone o Salomone, Hitler o Socrate; ma anche Totò, o Marx, Bela Lugosi o Luigi Malabrocca la celebre maglia nera del ciclismo eroico, il punto vitale sta sempre nella felicità dell’incontro. Non c’è mai abbassamento o sarcasmo, piuttosto una serena attenzione di sguardo, pronto al riso, certo, ma anche all’inevitabile malinconia della finitezza, a una salutare saggezza del non sapere.
Lunedì 20 alle 19 nell’Aula consiliare del Palazzo municipale di Sant’Agata Li Battiati, appuntamento con la maggiore autrice contemporanea cecoslovacca, Bianca Bellová, tradotta in 22 Paesi del mondo, in Italia dalla piemontese Miraggi, che per l’area metropolitana di Catania in occasione del suo tour italiano ha scelto il piccolo Comune, noto per essere Città della cultura tout court. Se il giorno prima sarà a Palermo e il giorno dopo, il 20, a Firenze, la Bellová che è stata inserita in un fuori programma di “Etnabook 2021” per volontà del presidente del Comitato scientifico, Salvatote Massimo Fazio, che assieme al sindaco Rubino hanno dialogato col direttore Cristaldi, del Primo Festival del Libro e della Cultura della Città Metropolitana di Catania, motivando la straordinarietà del personaggio, porta con sé copie rare dei due volumi tradotti in Italia, a prezzo normali: per lettori, per collezionisti che avranno possibilità di farseli autografare. «Un incontro unico – dichiara Fazio – Scegliere e sapere della consapevolezza d’oltre confine che Sant’Agata Li Battiati è il territorio primo dell’area etnea riconosciuto come paese della cultura, rende onore ad un sindaco; Rubino, definito “del fare”».
All’incontro, oltre alla Bellová, accompagnata dalla traduttrice Algeloni e dall’editore Reina, e al sindaco Rubino, il blog “Letto, riletto, recensito!”, la Libreria Sofà delle muse” e la “No_Name AC” encomieranno il comunicatore dott. Giovanni Di Stefano contraddistintosi per l’impegno culturale, e il presidente del ritorno nella massima serie della pallavolo etnea, la Saturnia Acicastello, nonché scrittore, Luigi Pulvirenti.
Rare volte la lettura di un romanzo dà tanto piacere per la scrittura in sé; e rare volte tanta ricchezza narrativa viene con tanta disinvoltura stipata in un solo romanzo, in un solo appartamento, quasi in una sola stanza.l giovane Pellicani è un chiacchierone. Si presenta una sera – una sera tardi – nella casa del padre, casa dalla quale si era allontanato – dopo aver sottratto certi risparmi da un certo cassetto – vent’anni prima. L’immobile, un condominio di sei, sette piani, è disastrato. Ma la scritta «Pellicani» sul campanello dell’ultimo piano c’è ancora; e la porta è appena accostata. Il giovane Pellicani – un completo grigio un po’ sdrucito, una valigetta ventiquattrore portata solo per darsi un tono – vuole fermarsi una notte e via, andare altrove: ha degli affari in Cina, sostiene. Il padre avrà dimenticato i fatti di vent’anni prima, lo accoglierà volentieri.
Questo librone è un libro leggerissimo. La sua vasta e perenne nevicata verbale copre e ricopre di candore un territorio che, tutto bianco, ci appare come sconfinato. Ha invece dei confini, ma noi non li avvertiamo perché Luca Ragagnin è un fuoriclasse del montaggio e il suo racconto corre, si impenna come un cavallo imbizzarrito, dilata in lunghe e molto belle pagine dialoghi di un momento, inventa a getto continuo cose, persone, situazioni, si riallaccia continuamente in sé stesso con rimandi vertiginosi messi lì sulla pagina pacatamente, tra parentesi in apparenza umili, comprime il Tempo mentre espande i singoli tempi. L’oceano di parole allestito dallo scrittore ha qualcosa di mirabolante: cioè è bello perdersi fra le sue onde, le sue correnti, senti che alla fine le quasi 700 pagine avrebbero potuto essere il doppio, perché le parole, qui, oltre ad avere il loro senso hanno anche una funzione particolare, che confluisce in un senso più ampio e generale. La funzione, che è a loro conferita dall’agilissima scrittura dell’autore, è quella di andare a dissodare un intrico di tempi, quello storico e quello personale, quello psicologico e quello immobile di un’infanzia e giovinezza cristallizzate. È una funzione di scoperta e insieme di copertura. È di scoperta perché tutte le figure che compongono il racconto e che attraversano il piccolo Berg (il bambino intermittente, ma anche una montagna) vanno a costellarsi in una formazione che probabilmente neppure l’autore si prefigurava all’inizio di questa straordinaria esperienza di scrittura (lo si intuisce dalla libertà che spira da tutte le frasi e che non esisterebbe se il progetto fosse stato tutto disegnato in anticipo). Dunque è una scoperta anche per l’autore, per il narratore e figuriamoci per il lettore. Ma è anche una funzione di copertura, perché la generosità e la ricchezza dell’affabulazione – la penna che scivola sulla pagina in stato di grazia e senza attrito – coprono qualcosa di abissale che si fa presto a chiamare “vuoto”, ma che vuoto non è: è piuttosto uno spazio tremendo fatto di paura e inesistenza, fatto di ondate di fumo nero e tossico, fatto di emozioni indicibili e maledettamente inevitabili, che riguardano la vita e la morte come un tutto, l’esserci e il sentirsi nulla incollati insieme in un organismo disperato. Qui il libro di Ragagnin va visto come un prodotto eroico, secondo me. Io vedo questo libro come la registrazione verbale, e pertanto preziosamente a disposizione di chi lo legge, di un atteggiamento che è dell’autore e che viene autodefinito come bulimico. Bulimico di che? Molto semplicemente della vita, direi. Un segno di questo sta nella mostruosa conoscenza musicale di Luca, tale per cui viene da chiedersi come sia possibile che tutti i brani che conosce totalizzino insieme un tempo di ascolto che supera di molti lustri il tempo della sua vita cronologica: li ascolta tutti insieme? Ha un acceleratore musicale in casa? Ha un’entrata nel cranio per fare un rapido download di tutto quanto? Qui nel suo libro la musica ha l’importanza che deve avere, ma è anche oggetto di smisurato amore, la bulimia di Luca è un atto d’amore. In questo libro si entra da tutte le parti e si esce anche da tutte le parti. Ma se si sceglie di uscire linearmente dalla fine, rimaniamo con questa immagine centrale e neuronale della perpetua costruzione di “nuovi edifici che crolleranno”, poiché questo fanno i nuovi edifici, crollano (struggente saluto, in epilogo, agli Einstürzende Neubauten).
Scrivere un libro a quattro mani non è semplice, vale per i saggi, per i testi divulgativi. Se parliamo di romanzi la faccenda si complica: incastrare pezzi di storia servendosi di approcci e sensibilità creative diverse. Una sfida. Quando poi la voce narrante è addirittura quella del protagonista sembra quasi impossibile. Se non sacrificando coerenza di stile e credibilità. La voce è la voce.
Invece ci riescono benissimo Francesca Angeleri e Alessandra Contin con L’EDOnista, pubblicato da Miraggi. Angeleri è giornalista freelance e collabora con numerose testate tra cui Il Corriere della Sera e Donna Moderna; Contin è esperta di cultura videoludica e scrive per La Stampa, compare in molte antologie e quaderni di “games studies”. Mondi diversi che in questa riuscita prosa trovano sintesi.
L’EDOnista appunto. Il protagonista è Edo, giovane, bello e dannato di famiglia torinese molto agiata. Casa in collina, servitù, padre fedifrago e madre che nel botulino e nelle fughe solitarie dalla città trova riparo e motivo per andare avanti. Un copione già scritto tante altre volte. Eppure ogni volta diverso.
Quelle del protagonista sono giornate fotocopia, studio, locali, droga, sesso, tutte irrimediabilmente accomunate da una apatia disarmante, che cela rabbia. Pronta ad esplodere e trovare la sua canalizzazione nel padre, dal quale il ragazzo vorrebbe affrancarsi sapendo in realtà di assomigliargli inevitabilmente.
Edo ha tante relazioni, donne quasi prive di identità, non fosse per Viola, sua compagna sin dall’asilo verso la quale nutre qualcosa di simile all’amore. Tutte le altre, alle quali riserva il nomignolo di “Disturbia” e un sostantivo che le differenzia, hanno il comune denominatore della magrezza, aspetto per lui irrinunciabile.
Colpisce che la voce narrante, così egocentrica e in qualche modo sprezzante del mondo femminile alla quale si rapporta, sia frutto dicevamo non di una ma ben di due donne, che si sono alternate nella stesura dei capitoli del romanzo. Il risultato è credibile e, sebbene le due in diverse interviste si siano dette diametralmente opposte nel modo di scrivere, questa prova non ne ha risentito al punto che leggendo sembra di trovarsi di fronte ad un autore solo. Dico volutamente autore non per generica definizione di mestiere che preferisce il sostantivo maschile anche quando ci si riferisce ad una donna. La mano autoriale sembra proprio quella di un uomo. Grande lavoro di astrazione da se stesse e grande lavoro di revisione si immagina.
Fosse un film il primo punto di svolta sarebbe l’incontro-scontro di Edo con il padre al quale un bel giorno rinfaccia tutta la sua assenza, tutto il suo menefreghismo verso un matrimonio nel quale forse si sente costretto e basta. Un momento epifanico in cui il protagonista riversa anni di collera inespressa. Tutta la sua inquietudine cresciuta in un mondo apparentemente dorato. Il secondo punto di svolta sarebbe il suo trasferimento a Londra dopo la laurea: viaggio di formazione che vive come tantissimi giovani alla sua età. La zia Ginevra, sorella minore e molto più giovane di suo padre, è l’approdo dei naufragi emotivi di Edo e colei che gli offre un tetto. A Londra sistema i pensieri, riprende la musica, sua vera passione sin da piccolo, cerca di realizzare se stesso riconoscendo finalmente quali sono i suoi bisogni. Pian piano diventa grande.
C’è tanta Torino in questo romanzo, i luoghi dove la gioventù torinese consuma alcolici e il suo tempo, il Po che fa da spartiacque tra la borghesia della collina e il resto della città, underground e mistica.
Edo è un ragazzo che potremmo incontrare ai Parioli a Roma, in Sant’Ambrogio a Milano, a Posillipo se fossimo a Napoli; è la voce autentica di una gioventù che sente di bruciare le sue stagioni cercando emozioni forti nelle serate estreme, nelle relazioni che durano una sola notte, nell’esaltazione data da sostanze eccitanti.
Tutto al solo scopo di cercare l’unica cosa per cui valga davvero la pena spendersi: il senso dell’essere qui.
GIAGLIONE – La musica è l’altro grande amore di Luca Ragagnin. Il suo “Autoritratto in vinile” è una biografia vera e propria attraverso i vinili che l’hanno attraversata, e che a Giaglione diventa anche un reading musicale con dieci brani letti e suonati dal vivo. La lettura, affidata alla voce stessa dell’autore, si affianca alle trame sonore di Luca Tartaglia, noto bassista torinese, tra melodie, sovraincisioni create in tempo reale con solo basso e loop station.
Il libro “Autoritratto in vinile”, di Luca Ragagnin (Miraggi Edizioni, 2020). Prefazione di Max Casacci, fondatore e chitarrista dei Subsonica. 61 brani 61 dischi 61 artisti 61 copertine 61 racconti che attraversano generi e periodi musicali mixati a ricordi personali 61 episodi d’infanzia e di gioventù in un gioco di rimandi rigorosamente analogici e 33 scatti da collezione di Alberto Ledda
#iostoacasa è stato l’hastag con il quale durante il lockdown duro e puro della primavera del 2020, abbiamo provato a convincerci che in qualche modo l’avremmo sfangata. Il suono delle sirene delle ambulanze ci ricordava ogni 5 minuti che qualcuno stava lottando con il Covid19 per non lasciarci le penne e i telegiornali ci raccontavano che in tanti quella lotta l’avevano persa. Tutti noi abbiamo perso qualcuno: un parente, un vicino, uno del palazzo accanto, uno che non abbiamo più visto portare il cane a pisciare nel giardinetto di fronte.
Nello sconforto nascono le forme d’arte più intense. Succede sempre. Nella mia vita precedente, quando ero documentarista, era una sorta di legge non scritta: i documentari migliori arrivavano da registi che stavano facendo i conti con qualche casino vero e grande.
Stefano dell’Accio, attore, autore, padre, ex tornitore, durante il lockdown per combattere la noia, per uscire senza uscire, per vivere come prima senza poterlo fare, ha iniziato a portarsi il mondo in casa. A caso. Lo ha ricostruito, fotografato e, come si usa oggi, gli ha affibbiato un hashtag: #iostoacaso.
Tutti i giorni, tra marzo e aprile, Stefano, supportato e sopportato dalla figlia Matilde, ha ricostruito in casa tutti quei pezzi di quotidianità che il lockdown gli stava impedendo di vivere. Sono stati tantissimi gli artisti che in quei mesi hanno re-inventato le loro modalità di espressione: anche loro stavano vivendo un incubo e anche loro hanno cercato strategie per non farsi sopraffare. Come artisti.
Le donne e gli uomini di palcoscenico hanno chiesto alla loro creatività di fare gli straordinari e Stefano Dell’Accio, tra coloro che seguo e conosco, è colui che, secondo me, ha avuto la scintilla più intrigante.
Stefano è soprattutto un autore comico, ma raffinato, decisamente più un Antonio Albanese che un Franco Neri, e il suo #iostoacaso, che è costruito sulla fotografia, lo dimostra con evidenza.
Quel “gioco”, che è diventato espressione artistica quotidiana, è poi diventato anche un libro, da poco in libreria. Ha la prefazione di un autore di culto come Guido Catalano ed è stato pubblicato da Miraggi Edizioni, che è una casa editrice dal catalogo per teste che hanno un paio di lauree e che guardano alla mitteleuropa sapendo cos’è. Insomma: una garanzia.
Intendiamoci, questo libro non è un romanzo, ma la sintesi di tutto il progetto, shakerato con la vita dell’autore: biografia e arte. Lo si legge in un paio d’ore, però poi lo si va a riprendere. Quelle foto le si guarda più volte, perchè in #iostoacaso ci siamo noi, che in quei giorni abbiamo fatto una fatica maledetta, che ci siamo fatti mille domande senza risposta e abbiamo sentito forse per la prima volta la mancanza del logorio della vita moderna.
“Sulla consultazione dei sogni. Il sogno vien su durante il sonno, attratto dalla sua luce come lo sono i pesci dalla lampara. Come quelli della fiocina, viene arpionato e ucciso dall’interpretazione (…) Un’antica sapienza vuole invece che lo si consulti come un Pesce Sapiente e poi, spenta la luce del sonno, lo si lasci tornare intatto nel profondo e si tragga profitto dai suoi insegnamenti.”
Paolo Brunati è un fiume in piena, in questo libro, Colloqui con il pesce sapiente, disserta sui fatti della vita quotidiana, riflette sulle caratteristiche degli umani, usi e costumi , con occhio critico e acuto.
A volte canzonatorio, ironico quasi si diverta a beffeggiare anche se stesso.
Ci sono temi ricorrenti quali la morte, la poesia, lo scrivere e la lettura, di cui parla con ironia o con convinti disappunti. “Della lettura (…) a me per leggere non fa più bisogno del libro. O, meglio, di tutto il libro. Mi si è sviluppato un sistema per cui me ne basta un pezzetto (…) Potrei dire che come alla Rana cade la coda del girino, ho abbandonato la lettura del libro come una spoglia, come in una muta“
Gli animali compaiono spesso, nei ricordi di bambino quando “mutilai molti insetti e altri ne arsi vivi con la lente a scopo scientifico, lo stesso che perseguono con gran merito Entomologhi laureati “. Geniale. O come paragone con gli umani. Anche i ricordi tornano spesso, nei capitoli “Delle colpe la seconda colpa inespiabile “ quando a un compleanno della madre ebbe l’impulso di tirarle in faccia la torta che lei aveva preparato con tanto amore.
L’animo fanciullesco ritorna spesso ed è molto divertente. Di tutto scrive: A proposito della mia vita, Del nudo, Del tempo, Sulla Trinità, senza mai annoiare anzi lasciando al lettore punti di riflessioni su argomenti che magari non sono proprio all’ordine del giorno.
È una raccolta di pensieri diventati libro, che ha accolto con meraviglia, meraviglia e stupore che ha avuto di fronte ad ogni situazione trattata. E per citare un evento particolare, che esprime bene la “filosofia “ dello scrittore: “Il giorno che la nonna cadde all’indietro è rimasto per me un giorno di chiarezza. Come uno di quei giorni di primavera dove senti nell’aria odore di resurrezione. Cadde all’indietro scendendo dal tram della linea 16. E già questo è strano (…) Quello della nonna fu un ribaltamento importante, una prova generale, una simulazione della sua uscita dal mondo (…) Andare in cielo in tram“. “Del nascere. Io nacqui nell’ottobre del 1989 dall’amore di mia moglie, una donna bellissima, con il suo amante. È stata per me una liberazione, perché fino ad allora qualcosa di plumbeo aveva gravato sulla mia testa dandomi un’andatura curva.”
E tanto altro tutto da leggere e sempre con almeno un mezzo sorriso. Purtroppo Brunati, se n’è andato poco dopo la pubblicazione del libro, in tempo per provare ancora con lo stupore di bambino questa nascita.
Vezze sul Mare. La Vigor Vezze è una squadra scarsissima e milita da sempre nei bassifondi di ogni campionato a cui partecipa. A un certo punto, sembra accadere un miracolo: la Vigor inizia a vincere. Una, due, tre partite consecutive. I cuori si scaldano, le speranze crescono e finalmente si inizia a pensare in grande. Ma questo cambiamento ha una matrice: la statua votiva della beata Serafina suggerisce al parroco del paese, padre Ruggero, la via per vincere le partite. Ninni De Maio, proprietario, direttore generale, allenatore e magazziniere della squadra, non riesce a crederci ma è proprio così: sta accadendo qualcosa di mistico. Chissà come andrà a finire il derby contro i cugini dell’A.S. Marina, lo squadrone del comune gemello di Marina di Vezze… Lino, Fausto e Gimmi sono amici da sempre e hanno una passione in comune: il Siracusa, che è stato promosso in serie B, puntando tutto sul mister Tito Recchia e su un nuovo centravanti, Lindo Martinez detto “el ratón”. La prima giornata va alla grande: doppietta, fortunatissima, di Martinez e tutti a casa. Poi le cose cambiano… Una squadra di giovani calciatori. Un ragazzino talentuoso che sfrutta la sua prima occasione con una prestazione da urlo. I sogni che s’infrangono per colpa del presidente, che deve far giocare qualcun altro per ragioni di convenienza… Siracusa: un torneo rionale, il “Piazza Belgio Trophy”, viene influenzato da una partita di serie A, Inter-Ternana, arbitrata da Leonardo Liberato, detto “il professore”… Catania. Fabrizio Speraben, ex calciatore, è giunto in città per una vendetta… Il calcio italiano, dalla serie D alla serie A, rischia di implodere e crollare su sé stesso. Il motivo? Alfonso Pipitone, vicedirettore della Polisportiva Ora et Labora di Palermo, ha ricevuto una telefonata dalla ex moglie, la quale pretende gli arretrati degli alimenti. Così, si scatena un effetto domino devastante…
Angelo Orlando Meloni, autore catanese trapiantato a Siracusa, torna con Santi, poeti e commissari tecnici, raccolta di sei racconti che ruotano attorno al mondo del calcio e lo declinano in maniera personalissima. Le storie raccontate da Meloni sono infatti costruite attraverso il filtro dell’ironia e della deformazione espressionistica, dissacrando quello che in Italia viene ritenuto un vero e proprio tempio, quasi una religione: il calcio, appunto. Si parte dal titolo, che riprende in chiave ironica l’espressione mussoliniana del 1935 che oggi troneggia sul Palazzo della Civiltà Italiana a Roma, il cosiddetto Colosseo quadrato: “Un popolo di poeti di artisti di eroi / di santi di pensatori di scienziati / di navigatori di trasmigratori”. Così, ci si addentra in storie di passione, di dolori, di speranze disattese, di illusioni, di malaffare; storie che ci mostrano il bello e il brutto del calcio, attraverso uno stile originale, ironico e frizzante, e una scrittura che spesso fa ricorso al mimetismo linguistico e alla deformazione grottesca, con personaggi che ricordano quelli delle novelle pirandelliane. Santi, poeti e commissari tecnici è un libro che, mescolando generi diversi, dal noir al fantastico al pulp, suscita emozioni diverse, contrastanti; un libro che, citando di nuovo Pirandello e il suo saggio sull’umorismo del 1908, provoca risate e riflessione, coniuga comico e tragico, e tocca il cuore di ognuno di noi.
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