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I tedeschi – recensione di Angelo Di Liberto su La Repubblica di Palermo

I tedeschi – recensione di Angelo Di Liberto su La Repubblica di Palermo

Viaggio al termine dell’amore in cerca di una verità dolorosa

Gentili lettori, quante volte abbiamo temuto che il corso delle nostre vite quotidiane si interrompesse di colpo per un evento imprevisto? E non mi riferisco alla contingenza sanitaria, ma a una frattura nella propria storia personale. Se perdere qualcuno è una delle esperienze più dolorose, cosa ne è della sottrazione di un’identità? Jakuba Katalpa è una scrittrice ceca di arguto intuito letterario, che ha fatto della geografia della perdita il fulcro di una storia. “Nèmci”, potente metafora di un’assenza, che assurge a emblema di tutto ciò che ci manca. In Italia Miraggi Edizioni ha pubblicato il libro con il titolo “I Tedeschi”, nella traduzione di Alessandro De Vito (che è anche uno dei tre editori Miraggi), e l’ha inserito nella collana NováVlna, che ormai vanta un elenco di scrittori cechi di grande respiro stilistico e ideativo. È proprio la lingua di De Vito che valorizza la parola calibrata e capace di creare chiare immagini conoscitive di Katalpa, premiando il lettore con un ritmo intenso, un effetto domino che costringe a non sottrarsi alla bellezza della storia e del linguaggio.

La vicenda si apre con un funerale a Praga, ma si sviluppa su un dubbio: «È tutta qui la questione, se invitare al funerale anche i parenti tedeschi». La figlia di Konrad, il defunto, è stata abituata dal padre a una strana storia. Durante quasi tutta la vita dell’uomo, a casa della famiglia arrivavano puntualmente dei pacchi pieni di dolciumi e altre cibarie da parte di una signora tedesca di nome Klara Rissmann, madre biologica di Konrad, che aveva affidato il figlio in tenera età a una donna di nome Hedvika, che viveva nella Repubblica Ceca, senza mai più rivederlo. Perché aveva fatto questo? “Scrive di nuovo la troia” diceva di solito con scherno. Parlava di sua madre.

Cercando di svelare il mistero, la figlia di Konrad decide di partire per la Germania, alla volta di Lahnstein, dove abitano ancora due sorelle del padre. Inizia da qui la geografia della perdita, intrecciandosi con gli anni bui della Germania, con la Seconda guerra mondiale e con la condizione delle donne nell’Europa della prima metà del Novecento.

La scrittura di Katalpa è un magnete a cui non ci si può sottrarre, per un bizzarro gioco di scatole cinesi, entro le quali si annidano le ragioni del male e dell’incomprensione. La specularità delle storie dei personaggi con la grande Storia crea un meccanismo ipnotico in grado di svelare la verità che risiede dietro l’identità di ciascuno di noi. “Konrad non hai mai fatto parte della nostra famiglia” mi spiega Gertrude. “Nostra madre gli mandava i pacchetti, questo sì, e non ha mai nascosto la sua esistenza. Ma non ci ha raccontato niente di lui”. Chi è Konrad? Qual è la verità della sua esistenza? Qual è il peso della memoria? Forse ci sono destini votati alla perdita, come fosse una condizione connaturata a quell’essere. E, forse, certi segreti dovrebbero rimanere tali, perché se la verità è un dovere, ciò che ne deriva è una dannazione.

L’Antiquario vi saluta.

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Cara catastrofe – recensione di Giuseppe Lorin su Periodico italiano magazine

Cara catastrofe – recensione di Giuseppe Lorin su Periodico italiano magazine

n’inchiesta in versi per raccontare l’amore malato, la violenza di genere e l’abbandono: temi che purtroppo accompagnano la quotidianità e le notizie di cronaca

Sono 112 le vittime di femminicidio nel 2020. E nel 2021, in meno di tre mesi, sono già 15 le donne uccise per mano di chi diceva di amarle. Il bilancio sembra un fluire di sangue inarrestabile: un problema sociale e antropologico enorme. Felicia Buonomo, da brava giornalista d’inchiesta,si è sempre occupata di temi delicati legati ai minori e al mondo femminile.Questa volta, però, ha scelto di compiere un lavoro di analisi del drammatico fenomeno, attraverso un genere di scrittura che ama particolarmente: la poesia. E infatti, ‘Cara catastrofe’ edita da Miraggi Edizioni segna il suo esordio nel mondo editoriale della poesia. E’ una raccolta ben strutturata, coraggiosa, senza censure, come riportato da Valerio Di Benedetto nella nota di commento al libro. Il progetto si divide in tre parti: nella prima, c’è una sorta di carteggio e tutte le poesie iniziano con ‘Cara catastrofe’:“Cara Catastrofe, non chiedermi cosa penso/se ho un ramo di mano sulla fronte./Reggo le foglie dei miei tormenti su cui ti adagi leggero”. L’autrice tenta un dialogo con il dolore e rende partecipe il lettore. Inizialmente, l’amore ha tutte le caratteristiche di qualcosa di magico, speciale; poi, quando inizia a prendere un’altra forma, cambiano il lessico, le sonorità, le metafore. Felicia Buonomo sceglie una poesia prevalentemente breve, asciutta, ma diretta e mirata; nella seconda par

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te, si entra nel vivo della violenza attraverso la fisicità. Non a caso, tra i versi troviamo ‘clavicole’, ‘braccia molli’, ‘carne debole’, ‘segni rossi sul collo’. Le immagini, potentissime, riconducono a situazioni di profonda e amara verità, in cui chiunque si trova a dover riflettere e molti sono i simboli che incidono nel ritmo e nel linguaggio; la terza e ultima parte apre a una consapevolezza dell’amore malato, che invade anima e corpo a un dopo possibile: si può uscire dal tunnel della sofferenza. L’autrice attinge a storie vere di donne che ha incontrato. E le traduce in poesia autentica, attraverso una scelta chirurgica delle espressioni comunicative. Le ferite nella pelle e nell’anima restano indelebili, ma è possibile recuperare, lentamente rimarginare pesanti cicatrici. Felicia Buonomo compie un lavoro necessario per tutte le donne, vittime che spesso si sentono colpevoli di ciò che vivono. Una raccolta di valore,che serve a sensibilizzare, a scuotere le coscienze. Ognuno può fare la propria parte. E la poesia è un ottimo strumento per affrontare tematiche così complesse, che toccano l’umanità.

QUI l’articolo originale:

www.periodicoitalianomagazine.it/notizie/Libri/pagine/Cara_catastrofe

I tedeschi – recensione di Antonello Saiz su Satisfiction

I tedeschi – recensione di Antonello Saiz su Satisfiction

«A volte sognavamo che un giorno la nonna avrebbe ripreso piena coscienza, guarita e con una memoria perfetta, e ci avrebbe raccontato tutto quello che volevamo sapere. Non ci passava neanche per la testa che i suoi segreti li avrebbe voluti preservare, che avrebbe potuto rannicchiarsi intorno a essi, circondarli con le braccia e non lasciarci passare; che non avrebbe voluto condividere. Con un retrogusto amaro, sentivamo che la sua appartenenza dalla nostra famiglia ci desse il diritto di insinuarci nel suo passato.

Jakuba Katalpa, I tedeschi. Una geografia della perdita, traduzione di Alessandro De Vito, Miraggi Edizioni 2021

ultimo nato nella collana di narrativa ceca NováVlna di Miraggi edizioni, curata da Alessandro De Vito, è giunta al dodicesimo titolo con I tedeschi di Jakuba Katalpa, romanzo intriso di tematiche di grande valore sociale e individuale.

Ricordiamolo, NováVlna è la collana di letteratura ceca che prende il nome dalla Nouvelle Vague cinematografica attiva negli anni della Primavera di Praga. Una letteratura portatrice di freschezza e innovazione, spesso dal carattere ironico, grottesco e surreale, sia quando si tratta di opere di autori contemporanei – come in questo caso, visto che l’autrice è nata nel 1979, sia quando recupera testi preziosi ingiustamente dimenticati o mai tradotti.

Il libro di Jakuba Katalpa, che ha esordito nel 2006, è stato pubblicato nel 2012 collezionando diversi importanti premi, come il Premio Josef Škvorecký 2013 e il Premio Libro Ceco dell’Anno 2013, più una nomination al Magnesia Litera 2013 categoria Prosa. Inoltre è stato tradotto in cinque lingue e ora, finalmente, giunge ai lettori forti italiani nella precisa e fluida traduzione di Alessandro De Vito.

L’autrice crea con I tedeschi una indagine privata e familiare che affonda le radici nella storia del nostro Novecento, riuscendo anche nella non facile impresa di essere originale in una materia su cui molto è stato scritto. Interessante il focus sul punto di vista dei “tedeschi ”, fino a quel momento dominatori del mondo e qui ritratti in un momento storico preciso, ovvero quando si ritrovano allo sbando, come individui e come popolo.

Fin dalle prime pagine siamo testimoni della costruzione di una “geografia della perdita”, come recita il sottotitolo. Del resto è il romanzo stesso che si apre con una perdita importante.

Siamo nel 2002 e a Praga muore Konrad, padre di tre ragazzi e di una ragazza che vive in Inghilterra. È lei che diventa la voce narrante di questa epica familiare. Suo fratello Martin vive in California, Pavel in Australia, solo il più piccolo Daniel esercita la professione di medico nella Repubblica Ceca e si è laureato in coincidenza con la morte della madre.

Tutti perdono qualcosa in questo libro e sembrano destinati a perdere altro nella complessa giostra della vita. Ma il dilemma iniziale della giovane protagonista è se avvertire o meno della morte del padre i parenti tedeschi indicati nel titolo. I fratelli vi si oppongono fermamente, al fine di onorare le volontà del padre.

Per loro quei parenti rappresentano l’altro, il diverso, qualcuno con cui non c’è niente da condividere, che non va accolto anzi, verso cui si erige una ulteriore barriera.

Da qui parte un viaggio alla scoperta di una complessa verità. Veniamo a sapere col procedere delle pagine che per anni – a partire dal 1947 e fino alla caduta del muro, nel 1989 – questa famiglia praghese ha ricevuto pacchetti di piccoli doni dall’Ovest. Contenevano dolciumi, cioccolata, confetture in barattoli di lusso e orsetti gommosi. Il loro arrivo era cessato con la caduta della cortina di ferro. A spedirli fino ad allora era stata Klara Kolmann Rissmann. Li mandava al figlio da cui si era separata poco dopo la nascita, alla fine della guerra, quando aveva fatto ritorno in Germania. Prima aveva insegnato alcuni anni nel villaggio di Rzy, vicino a Ticky Brod nel Protettorato dei Sudeti.

Konrad è infatti cresciuto con un’altra donna, Hedvika, che da suo marito Jaroslaw non poteva averne, di figli. Solo con l’approssimarsi di un tumore, nell’età adulta del figlio, gli confessa che quei pacchi erano della vera madre.

La figlia di Konrad, dopo la morte del padre, mentre si occupa dello svuotamento della casa paterna trova delle bretelle per la cura della displasia dell’anca. Da quel preciso momento decide di intraprendere un percorso di ricerca. Dopo il ritrovamento la ragazza va sulle tracce degli sconosciuti parenti tedeschi per scoprire almeno un barlume di verità su quel particolare dramma famigliare. Così facendo arriva, con sua figlia Dorotka, nella casa a due piani di Gertrude, una delle due figlie che Klara ha avute da un architetto sposato nel 1949 a Lahnstein.

Con lei ripercorreremo la vita di Klara, immersa nel flusso spesso tragico della storia tedesca ed europea del Novecento. Scopriremo inoltre che questa signora nata nel 1912 è ancora viva, ma avendo l’Alzheimer è ricoverata in un istituto.

A questo punto, tutto il libro comincia a ruotare intorno alla figura della vera protagonista, Klara, donna ribelle ed emancipata che sceglie di andare a insegnare nei Sudeti, dove è percepita come estranea e nemica

Sempre avvolta nella nuvola di fumo delle sue sigarette, prova a cercare indipendenza in una società maschile e maschilista, dibattendosi tra l’attrazione verso un brutale tassidermista, il disagio e il male di vivere del padre di Konrad, il poetico insegnante Erich Fuch.

È un libro potente e dal ritmo incalzante I tedeschi, composto da nove macrosezioni, ognuna portatrice di un titolo evocativo e suddivisa in tanti piccoli capitoli sui rapporti familiari incrinati e sulle assenze ingiustificate, che diventano perdita e ferita sanguinante. Una perdita legata soprattutto alla maternità. Infatti, siamo in presenza di un romanzo di donne e di madri: Klara, Hedvika, Anna, Franziska, Gertrude, Joanna. Donne buone o cattive, madri mancate o defraudate, a seconda dei punti di vista.

Dunque un romanzo anche sulla memoria, quella che tende a svanire senza rimedio, tra le cose non dette e la cattiva coscienza, ma soprattutto un romanzo storico sugli effetti del nazismo e del declino dei suoi valori in anni di terribili deportazioni. Un libro di grande Storia, che incontra le storie minime dei familiari. Come quella di nonna Anna Mary o dei genitori di Klara, Franziska e Karl o dei nuovi coloni Barbora e Martin Levicka. Una storia di traumi e disagi che investono i personaggi maschili: Melman, Fuch, Malke.

Attraverso lo spessore e l’analisi di ogni singolo personaggio si comprende chi è il vero nemico della specie umana.

Sullo sfondo della Grande Storia, che inevitabilmente va a influenzare le storie minime dei singoli e le loro scelte, è il lettore a essere scosso e interrogato sul senso della vita e sul potere della cattiveria umana. La cronaca è ritmata dalla scelta stilistica di un linguaggio pulito, lineare, essenziale, capace di far risaltare potentemente la narrazione storica.

Sulla ragione ignota di un abbandono che fa da innesco alla storia ci si interroga continuamente, tra fenditure temporali e declino, tra disgregazioni familiari e crepe profonde della Storia. Un romanzo complesso intorno a un trauma originario e alla ricerca di possibili spiegazioni e verità, dove spesso nulla è come sembra.

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Penultimi – recensione di Livio Borriello su Zibaldoni e altre meraviglie

Penultimi – recensione di Livio Borriello su Zibaldoni e altre meraviglie

Caro penultimo quest’oggi più forte

era il canto, l’unisono di terra e cielo, 

– ‘sta cosa degli alberi e degli uccelli –

ma in forma di rosa poco più avanti

del tratto di strada fra Station Verlaine

e Tolbiac, in un soffio di vento nella

galleria sulla banchina è apparso

un angelo con la colla e con la carta,

che salendo e poi precipitando dalla scala

– la teneva in braccio come le ali sul dorso –

dispiegava il foglio tirando via gli angoli

e su mezzi quadrati spalmava la colla

come un bambino all’alba fa con la Nutella. 

E apparivano i santi, le madonne, le grazie,

il miracolo del progresso, i numeri magici,

la vie en rose, paradisi per morti di fame,

perfino terre promesse con tanto di account.

Noi come al solito si stava ad un solo passo

dalla linea gialla che separa la terra ferma

dal convoglio, e ci siamo scambiati uno sguardo

solo quando l’Arcangelo, s’è sfilato dal coro

novello Mercurio, che l’aveva stampato in faccia

il pensiero vero, l’oracolo – il affichait un sourire – 

Tutto era oro, tutto era loro, solo e nient’altro. 

Nella luce fra spettrale e esotica dell’alba, un penultimo, un attacchino che si rivela messaggero d’altri mondi, apre un varco spazio-temporale su un muro della realtà, da cui irrompe un flusso inarrestabile e multicolore di immagini edeniche, di sogni digitali con tanto di account, di deità arruolate alla promozione consumistica. È uno degli schemi tipici di Penultimi, quello dell’agnizione, della rivelazione che squarcia la realtà nel veleggiare di una busta di plastica, nella trasfigurazione in oranti dei pendolari assonnati nei convogli, o perfino nell’enigmatico discorso cromatico dei semafori. 

Penultimi è un’epopea del quotidiano, la codificazione di un luogo psichico, di una tonalità dell’esistenza che appartiene a tutti, di cui però non ci eravamo accorti, finché Forlani non lo ha nominato, non lo ha trasposto nella lingua. Un luogo abituale, dove tutti abbiamo sostato, e che proprio l’abitualità ci aveva nascosto. Ma è il luogo in cui le smagliature dell’abituale lasciano tralucere il prodigioso, il luogo-soglia in cui si confondono il notturno e il diuturno, lo spento e il radioso, il meccanico e il numinoso propri dell’umano. 

Il mondo dei penultimi è il mondo incerto dell’alba, il mondo del transito dall’indeterminato al visibile. L’alba di Forlani non è l’alba della chiarezza, il tracciarsi del tratto di Nancy, né l’aurora della speranza nicciana o straussiana. È l’alba carica di particelle di buio, degli aloni e delle permutazioni del sogno. In questo spazio di luce viscosa, torbida, abita un’umanità a sua volta indistinta, indecisa fra il buio e la luce. Sono uomini-non uomini, non sono individuati, ma paradossalmente proprio perciò intensamente uomini, propriamente uomini. Visti da lontano, visti sulla soglia del non essere notturno, gli uomini, le bestie, le cose non sono che un ammasso, una categoria, una muffa sulla superficie del mondo, un brulicare disperato e commovente… non esiste più il loro ego pretenzioso, non esiste Freud e forse nemmeno Marx… È la loro banalità che li rende numinosi, è la loro insignificanza psicologica che fa sfolgorare il loro dimesso mistero ontologico. Sono uomini che ci toccano completamente, perché hanno espulso il vestito e l’esoscheletro di persona, e vagano nella loro nudità inorganica, nella loro purezza di strutture eidetiche. La città produttiva, la città tecnologica li ha decolorati, li ha assimilati, li ha disanimati, ma restano fatti di quella sostanza enigmatica che è la carne, restano palpitanti e iridescenti – come pesci sommersi nella luce subacquea di Parigi. Scopriamo attraverso di loro che l’uomo è cosa molto meno importante di quanto pensavamo – e che però proprio questo merita forse, o comunque suscita, amore, compassione o passione.  È l’umanità del quadro rembrandtiano di Genet, quella sostanza greve eppure scintillante che circola da un corpo all’altro, da una storia all’altra.

I penultimi sono fantasmi vivi e fraterni. Forse sono in realtà, o sociologicamente, gli ultimi, e sono promossi a penultimi solo per delicatezza, oppure la stessa luce fluttuante e pulsante, come quella di certe vecchie pellicole, impedisce di descriverli con qualche tono definitivo. Sono penultimi, non sono degradati dall’ultimità e ancor meno dalla primarietà, non competono, sono solo-uomini. Certamente facciamo parte anche noi di quella folla, certamente anche noi ogni mattina, senza saperlo, ci sediamo su una panchina del metrò a testa bassa o trangugiamo una colazione affrettata prima di passare l’aspirapolvere in sala d’attesa… certamente anche noi, in quanto antropici, viviamo più sotto il segno del “fra” che posati sul su o giustificati dal perché… siamo il dintorno di un fra, la casuale agglutinazione che circonda un fra (fra’, lo chiamo a volte, e non so se è l’apocope di francesco  o di fratello… ma forse era fra e basta… era la congiunzione…).

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I Pellicani – recensione di Maria Laura Labriola su Cronache di Caserta

I Pellicani – recensione di Maria Laura Labriola su Cronache di Caserta

“I Pellicani”: romanzo allucinato e burlone

Chi sono i Pellicani? Sono realmente ciò che appaiono nelle prime pagine? Vi è una specie di burla e di ricerca d’identità all’inizio del romanzo di Sergio La Chiusa, “I Pellicani” edito da Miraggi edizioni. Un racconto che è arrivato finalista al 32° Premio Calvino con la Menzione Speciale Treccani. Alla maniera di Dino Buzzati, un giovane con la valigetta va a trovare un anziano paralitico in un palazzo fatiscente. Sulla carta, lui dovrebbe essere il giovane Pellicani, e l’anziano suo padre. Ma già dalle prime battute il vecchio non viene riconosciuto, se non che per il naso. “Che ci faceva un tale relitto in casa di mio padre? Come si permetteva di occupare il suo posto?“. Si presenta tutto come un equivoco al lettore, il quale non è certo più di nulla. Una storia vaga, priva di collocazione geografica, di limiti spazio-temporali. Non vi sono nomi propri e vi è un dialogo non dialogo, direi “muto” tra figlio e padre. Kafka e Landolfi vengono evocati in ogni dove con una scrittura allucinata e aliena. Un monologo che non finisce e che avvolge il lettore imbrigliandolo in un vortice di supposizioni, ripetizioni, ipotesi e convinzioni.

Un fiume di parole che denuncia un’inerzia dell’uomo moderno che anela a dominare gli esiti della civiltà. La Chiusa crea mondi inesplorati e al contempo riflessi nel presente, forse all’avanguardia rispetto al patrimonio letterale attuale. Abbiamo una certa etica del corpo che appare certamente al centro del romanzo. Non è solo uno, ma due di cui uno è in movimento e l’altro immobile rinchiusi dalle parole in uno spazio ristretto di un appartamento.

“I Pellicani appaiono come eredi di un teatro di Beckett”, ove personaggi sono costituiti di flussi torrenziali di parole e la cui vecchiaia perde il suo colore e la sua identità nell’infanzia e nel nulla. Tutto il romanzo è pervaso inoltre da un torpore, da una stanchezza fisica e mentale che non permette di raggiungere la verità più intima delle cose.

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Endecascivoli – recensione di Giovanni Follesa su Unione Sarda

Endecascivoli – recensione di Giovanni Follesa su Unione Sarda

“Endecascivoli”, racconti dal sottosuolo

Le memorie di un padre (minatore poi laureato) accendono le narrazioni di Patrizio Zurru

Se al termine della lettura di ciascuno dei 65 racconti arriva l’impulso di cercare il pollicesù per mettere un mi pia­ce, non c’è da preoccuparsi. È solo uno dei sa­ni effetti collaterali di “Endecascivoli” scrit­to da Patrizio Zurru e pubblicato per Mirag­gi edizioni. Storie ritmate e brevi, come den­tro un social network, da leggere con la liber­tà di non seguire l’ordine proposto nel libro.

Vita social

Il nostro tempo, pesante di preoccupazio­ni, con questi racconti sembra prendersi una tregua, e così si fa largo un’oasi di leggerezza e giocosità che offre riparo soprattutto in cia­scuna pagina dispari del libro dove è presen­te un riquadro bianco concepito per racco­gliere pensierini, appunti o disegni. Anzi, sca­rabocchi come succedeva ai tempi del telefo­no grigio a rotella della Sip. L’evoluzione di quei ghirigori diventa la vita social del volume: è stato infatti creato un hashtag, #endecasci­voli, per interagire con l’autore e magari esprimere un giudizio.

Istruzioni per l’uso

In apertura un bugiardino offre qualche spiegazione sul testo e sul senso della narra­zione. «Tutto nasce», spiega l’autore, «dalle storie raccontate da mio padre e dalla suc­cessiva richiesta al sottoscritto di mia madre: mettile in bella, come sai scrivere tu. In par­ticolare gli aneddoti sulla miniera». Non han­no titoli i racconti-post, quindi il riferimen­to è la pagina. Alla 29 si legge: «15 anni di sot­tosuolo a spalare carbone, e a un certo punto ha deciso che poteva esserci un’altra possi­bilità, si è messo a studiare per laurearsi, fa­cendo registrare a mia madre le lezioni su un Geloso, che ascoltava nella strada che da ca­sa ogni notte lo pottava in miniera. Avanti e in­dietro. Play, stop, rewind. Play again, stop, rewind, return home».

Il viaggio

Lo spunto per ciascun brano è reale, spes­so sono le memorie a dettare il viaggio alla fantasia per spaziare tra nonsense, sarcasmo, realismo liberatorio. Ovunque si ritrova mu­sicalità, che come brezza di parole investe il lettore per poi scivolare via e lasciare sensa­zioni rarefatte che sono già ricordi. Pagina 70: «Mio padre, che si faceva i chilometri a piedi per incontrare mia madre, un amore scavato con scarpe coi chiodi sotto, per non consumarsi, arrivare ad Iglesias per un sor­riso». Difficile scegliere il passo più diverten­te, specie quando la narrazione attinge alla memoria collettiva di chi negli anni Sessan­ta ci è nato. A pagina 25 c’è un viaggio in tre­no per raggiungere Parigi, alla frontiera il controllo dei documenti, delle borse, delle va­ligie… e le Superga di tela o le espradillas usa­te come «potenziale bellico non indifferen­te» per non condividere lo scompartimento con nessuno. E come non citare Eros Ramazzotti suonato all’infinito da un sopravvissu­to jukebox in un pub belga non appena il ge­store, troppo ospitale, capisce che Zurru ar­riva dall’Italia. “Endecascivoli” è questo. È pa­rola che non esiste ma che parla di racconti, scritti perfino durante il tempo di cottura di un minestrone.

Lo scrittore

Nome noto nel panorama editoriale per es­sere stato prima libraio e ora ufficio stam­pa, agente letterario, direttore di collana, Zur­ru è passato per un attimo dall’altra parte, quella degli autori, quasi non per scelta. «Non ho ansie da scrittore», dice a tal proposito, “il libro è un divertissement, niente di più. Deter­minante è stata la spinta forte delle gemelle Ivana e Mariela Peritore, con le quali lavoro per la collana SideKar, altrimenti chissà… ».

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Endecascivoli – recensione di Gabriele Ottaviani su Convenzionali

Endecascivoli – recensione di Gabriele Ottaviani su Convenzionali

Aveva permesso che il tempo si annullasse, che quei baci lontani arrivassero prima.

Endecascivoli, Patrizio Zurru, Miraggi. Icastici, brillanti, intelligenti, vividi, schietti, i racconti di Patrizio Zurru sono gemme liriche che indagano senza retorica e con freschezza impareggiabile la condizione umana in tutta la sua gamma di colori, dalle tinte più tenui a quelle più fosche, tra le fragilità più inconfessabili e gli improvvisi e irresistibili slanci di forza, vitalità e resilienza, facendo conoscere, tra realismo e magia, un festoso assembramento di caratteri al lettore, che in loro riconosce e il sé, e non si sente più solo. Un gioiello.

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I tedeschi – recensione di Martina Mecco su Andergraundrivista

I tedeschi – recensione di Martina Mecco su Andergraundrivista

La scrittura come ricerca della verità. “I tedeschi” di Jakuba Katalpa

I tedeschi. Una geografia della perdita (Němci, 2012) è il primo romanzo della scrittrice ceca Jakuba Katalpa ad essere pubblicato in Italia. L’opera è tradotta da Alessandro De Vito ed edita lo scorso febbraio da Miraggi Edizioni come dodicesimo volume della collana NováVlna. Nel 2013 il romanzo è stato insignito del prestigioso Cena Josefa Škvoreckého (Premio Josef Škvorecký) e del Cena Česká kniha (Premio Libro Ceco dell’anno). Jakuba Katalpa è lo pseudonimo utilizzato da Tereza Jandová nelle vesti di autrice, dove “Katalpa” (in italiano Catalpa) è il nome di un albero dalle foglie caduche.

Katalpa è già autrice di altre opere, tra cui la raccolta di racconti Povídka beze jména (“Racconti senza nome”, 2003) o i romanzi Hořké moře (“Mare amaro”, 2006) e Doupě (“La tana”, 2017). L’ultima pubblicazione della scrittrice è invece il romanzo Zuzanin dech (“Il respiro di Zuzana”, 2020). Si segnala, inoltre, l’incontro con l’autrice organizzato dal Centro Ceco di Milano, che si può recuperare al seguente link.

All’interno di uno dei suoi saggi, la studiosa tedesca Aleida Assmann sostiene che il ricordare e il dimenticare risultano strettamente legati perché insieme organizzano i ritmi mutevoli dell’esistenza. Ciò che affiora grazie al ricordo non è altro che la superficie della coscienza, una materia in continuo movimento, tra la riscoperta e il riconoscimento. L’atto del ricordare si materializza quando si dissolve quella distanza temporale che si situa tra il soggetto e l’evento, oppure quando viene superata una condizione priva di consapevolezza. All’interno del romanzo di Jakuba Katalpa il recupero del passato è alimentato da entrambi questi aspetti. Innanzitutto, occorre chiedersi quale sia il passato che viene rievocato, sebbene sia meglio parlare di diverse manifestazioni di quest’ultimo. Infatti, la prosa di Katalpa è rappresentata da un continuo intersecarsi di due dimensioni: quella intima, legata al contesto famigliare, e quella di un passato che si identifica con la Storia stessa.

La narrazione ha inizio con la morte di Konrad, che riporta sua figlia e due dei suoi tre figli a rincontrarsi a Praga. Tutti a parte uno hanno già da tempo lasciato il paese e per la figlia il ritorno nella città d’origine rappresenta un’occasione inaspettata di indagare sulla vera origine della propria famiglia. Il ricordo dei dolciumi che ogni anno giungevano per posta dalla Germania e il ritrovamento delle bretelle sono i due aspetti che mettono in moto questa sua necessità e fanno scattare in lei il dubbio sulle verità che le sono sempre state date per assodate – secondo lo stesso meccanismo che alimenta la verità delle masse. La questione messa in gioco da Katalpa è quella che ruota intorno al problema dell’identità e che si costituisce tanto del presente quanto di un passato di cui, paradossalmente, non si è stati protagonisti diretti e di cui sono rimaste poche tracce effimere. Konrad ha sempre rifiutato ogni contatto con “i tedeschi”, quei parenti che vivono oltreconfine e che per quarant’anni a partire dal ‘47 hanno spedito in dono dei dolciumi.

Con gli anni i pacchetti di nonna Klara sono entrati a far parte delle leggende d’infanzia, e a prova della loro esistenza sono rimasti solo i francobolli tedeschi che i miei fratelli avevano incollato negli album.

La figlia di Konrad, nonostante sia stata educata a non porsi domande su questi “parenti fantasma”, decide di tentare di fare chiarezza su una vicenda che ha un sapore del tutto generazionale. Per riuscire in quella che si rivela essere una vera e propria impresa è necessario per la protagonista, che nel romanzo è curiosamente l’unica ad essere priva di nome nonostante il suo ruolo chiave nella storia, crearsi un percorso fisico all’interno di quello spazio che nel sottotitolo viene definito in termini di “una geografia della perdita”. La chiave di volta di questa riscoperta non solo del passato, ma di una verità raggiungibile solo grazie alla presa in considerazione di più prospettive, è rappresentata proprio dalla nonna Klara, la nonna tedesca che non ha mai conosciuto. Nonostante la figlia di Konrad riesca a ritrovarla, la faccenda viene ulteriormente complicata dal fatto che la donna soffre di Alzheimer, altro emblema che enfatizza il tema della perdita.

La storia procede allora nel tentativo di ripercorrere le tappe della vita di Klara, dall’infanzia passata in una famiglia alto-borghese, al momento del trasferimento a Rzy, il paese che di trova “nel distretto dei Sudeti, quattrocento chilometri a Est di Praga.” Katalpa non sceglie un luogo qualunque per l’ambientazione della vicenda, ma la colloca in un paesino inserito in una zona fondamentale per le questioni che riguardano i rapporti tra cechi e tedeschi nel corso del secolo scorso. Arrivata a Rzy, Klara viene etichettata come “straniera”, oltre a sentirsi lei stessa estraniata osservando quanto accade fuori dalla sua finestra.

Erano tedeschi diversi da quelli che conosceva nel Reich, rapaci e scontenti. La studiavano, valutavano fino a che punto per loro potesse rappresentare un problema, e lei non aveva idea di come convincerti di non essere un pericolo.

Per Klara inizia un vero e proprio processo di integrazione tutt’altro che semplice, in quanto identificata immediatamente come “tedesca del Reich” e automaticamente associata alla figura di Goebbels. Rzy non è solo l’ambientazione del romanzo, ma anche un microcosmo creato dall’autrice stessa, all’interno del quale indagare la questione sociale tout court. Katalpa, infatti, intreccia la storia di Klara con quella degli abitanti del villaggio, analizzandone le inclinazioni psicologiche e, si potrebbe dire, quasi patologiche. La messa a fuoco dei personaggi corrisponde al volerne sottolineare la fragilità, spesso invece celata nella dimensione quotidiana. Attraverso questa messa a nudo vengono proposti temi che si accavallano a complicare una vicenda che, al contrario, è raccontata da Katalpa con una prosa piuttosto tradizionale. Tra questi, il tema della malattia che compare a più riprese nel romanzo e che in Melman si lega alla paura della morte. L’ombra di una fine spinge Melman a liberarsi della sua figura istituzionale e alla necessità di prendere coscienza di sé, mettere in atto un’analisi della propria condizione esistenziale, nonostante tutti i danni che questa potrebbe arrecare. Un altro tema fondamentale è quello della maternità, legato alla dimensione della donna – non a caso, infatti, le figure femminili hanno un ruolo di particolare importanza nel romanzo.

Oltre al riferimento spaziale, non bisogna però dimenticare il ruolo che viene giocato dalla dimensione temporale della narrazione, nella quale si staglia questa costellazione di eventi. A questa ricerca delle radici più intime si connette il tentativo di Katalpa di mettere in discussione degli aspetti che hanno a che fare una memoria di stampo collettivo, riallacciandosi ad eventi del secolo scorso che, per certi versi, rappresentano dei nervi ancora scoperti nella grande narrazione della Storia. L’autrice spinge il lettore a porsi delle domande simili a quelle di Klara, che hanno un respiro nettamente più ampio di quello del singolo personaggio. Katalpa stessa, in occasione dell’intervento che si citava inizialmente, sostiene che esista una necessità impellente di  interrogarsi riguardo ad aspetti che rappresentano ancora una sorta di ferita nella memoria collettiva europea. Le domande che la Storia pone all’individuo hanno molto spesso un carattere profondamente morale, illudendo chi ne fa parte attivamente che quest’ultima sia in qualche modo afferrabile, nonostante non lo sia affatto. La questione della verità e quella della colpa vengono evocati col fine di mettere l’accento sulla loro natura profondamente cangiante, un terreno instabile in cui bisogna cercare di fare chiarezza ponendosi delle domande. L’opera si presenta solo nelle vesti come la storia del recupero del passato di una singola famiglia, per aspirare invece a una dimensione universale. La forza della prosa di un’autrice come Katalpa si rivela chiara già in un romanzo come I tedeschi, dove gli eventi frastagliati in uno spazio che sfugge a qualificazioni si rincorrono e concorrono a creare una nuova immagine della verità, che sembra essere afferrata solo dalla pratica della scrittura.

Mi ha colpita un dolore risalente a quasi sessant’anni fa, e stavolta non è solo il dolore di mio padre, tante volte declamato e sofferto con un certa solennità, è qualcosa di ancora diverso a rodermi dentro, un’incertezza e una pena, scoprire che tra verità e menzogna c’è un confine così labile che lo si può rimuovere con un semplice gesto della mano, con un battito di ciglia.

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https://www.andergraundrivista.com/2021/04/13/in

Endecascivoli – segnalazione su TUSTYLE

Endecascivoli – segnalazione su TUSTYLE

Libri per la primavera. Racconti tra poesia e prosa

Endecascivoli di Patrizio Zurru, è una raccolta di 65 racconti legati dal ritmo. Con parole che sembrano mosse dal vento dei ricordi, le storie che partono dalla realtà per arrivare sul bagnasciuga come legni modellati dalle maree.

Ogni frammento è una partitura la cui metrica perfetta ricorda orchestrine e ottavini sommersi. La prosa, sospesa tra poesia e malinconia, lascia spazio ad altri finali possibili. Ad altre storie, come in un gioco di scatole cinesi.

In testa a ogni racconto, il lettore troverà un riquadro vuoto. L’autore invita a riempirlo con un pensiero o un disegno da condividere con lui e gli altri lettori con l’hashtag #endecascivoli.

Patrizio Zurru, che lavora nei libri da 30 anni come editor, consulente editoriale e ufficio stampa, regala un gioiellino di attualità, ironia, intrattenimento. Piccoli cammei cesellati nella spuma, talvolta tinti nel surreale dell’inconscio.

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I tedeschi – recensione su La Casa delle storie

I tedeschi – recensione su La Casa delle storie

Per anni una famiglia praghese riceve dei pacchetti di piccoli doni, dolciumi, orsetti gommosi. Li manda Klara Rissmann, dalla Germania, a suo figlio e alla sua famiglia. Un figlio da cui si è separata poco dopo la nascita, alla fine della guerra, lasciandolo crescere con un’altra donna, che credeva sua madre. La ragione, ignota, di quell’abbandono (volontario o obbligato?), spinge una nipote di Klara, dopo la morte di suo padre, a ricercare le tracce della possibile verità, e delle proprie origini. Alla ricerca della spiegazione di quel trauma originario e di chi sono “i tedeschi”, ripercorriamo tutta la vita di Klara, immersa nel flusso spesso tragico della storia tedesca ed europea del ‘900. Assistiamo così all’incompleta ricostruzione di una “geografia della perdita”, come recita il sottotitolo. Perdita strettamente legata con la maternità – è un romanzo di donne e di madri: buone, cattive, mancate e defraudate – e con la memoria, che svanisce, spesso senza rimedio, tra le cose non dette, e la cattiva coscienza.

Introduzione

Che cosa significa amare?   Ci siamo mai chiesti perché fin dai Greci il binomio del sentimento del cuore si crea con il morire che non solo è il contrasto ma anche il suo prosciugamento? Έρως e θάνατος sono veramente in lotta tra loro o sono uno il proseguimento dell’altro?   Sono elementi interscambiabili in questa giostra che qualcuno ha chiamato vita.  Si sono susseguite varie teorie teologiche e filosofiche sull’amore sulla morte e sulla sua casa che è l’anima e dove la persona si spoglia di ogni orpello per mostrarsi nella sua nuda essenza. Non è forse vero che per amare realmente dobbiamo tutti un po’ morire?  Riusciamo tutti ad amare col sole ma quella è soltanto una subdola finzione perché già appena appare una nube, gli altri mutano il comportamento nei tuoi confronti, sono pronti a sostituirti come un giocattolo vecchio. Eppure c’è sempre qualcuno che resta anche quando la nube si trasforma in temporale, perché ha scelto di combattere con te le intemperie del destino.  Solo nel momento della caduta nel baratro profondo e oscuro quando sembrerà di aver toccato  veramente  il   fondo è in quell’attimo che comprendiamo la vera forza dell’amore sottoforma di luce della rinascita. Si muore anche perché quello che sta battendo non è più il nostro cuore ma quello di una persona nuova che ha abbandonato ogni personale egocentrismo per seguire sentieri inesplorati.  Amare è una scoperta, un affidarsi, un donarsi, un’ammissione di liberta ma è anche un peso e una rinuncia. L’atto del lasciare andare è la forma più alta d’amore. Non dovrebbe mai accadere, eppure ci sono sempre accadimenti e impedimenti che ci spingono verso tale direzione.  Il più triste degli arrivederci che ha il sapore  amaro di un addio. Quando qualcuno cui teniamo muore, abbiamo sempre il rimorso del non detto, quelle parole che ci muoiono in gola tra le lacrime della disperazione.
Per chi resta, non è solo una lotta contro la mancanza ma soprattutto una missione, perché la famiglia è un albero che ha ramificazioni molteplici e complesse. Di tutto questo tratta il romanzo I tedeschi di Jakuba  Katalpa che narra la storia di una giovane donna che non solo deve affrontare i propri dolori ma soprattutto essere per la sua famiglia la custode  della  memoria.

Aneddoti personali

Quando esce un nuovo titolo di Novavlna la mia collana preferita tra quelle di Miraggi, mi emoziono sempre particolarmente. Quando ho visto l’uscita di questo libro, l’ho messo subito in lista. Di lì a qualche giorno i miei amici Stefano e Cinzia, avrebbero presentato alcuni libri di questa sorprendente casa  editrice. Il caro Fabio uno degli editori, ci sorprende mostrandoci in anteprima la copertina. Mi sono detto non è possibile che in pochi giorni questo libro incroci il mio cammino già due volte. Lo porto sul blog perché avevo già captato che potesse avere quel quid in più che vado cercando nelle storie. In seguito sempre Stefano e Cinzia sul canale della libreria di quest’ultima hanno in  qualche  modo raccontato le loro impressioni e ora posso comprendere pienamente perché l’hanno amato così tanto La lettura del romanzo, mi ha piacevolmente devastato facendomi provare emozioni contrastanti. Quando l’ho cominciato, ho pianto, poi ho avuto un attimo di sbandamento durante le annotazioni storiche e qualche digressione che personalmente ho trovato lunga a tratti dispersiva.  Quando l’autrice ha finalmente ripreso la trama principale , è come se avessi ritrovato la via di casa .Devo dire senza remore che questa storia mi è piaciuta tantissimo e ti sorprende con pennellate di autentica poesia anche quando deve narrare la crudeltà umana. Chi legge questo libro ha inevitabilmente un rapporto viscerale con la storia perché I tedeschi non è un romanzo meteora, ti tocca l’anima, si posiziona in un cantuccio del cuore e lo fa per restarci per sempre.

Recensione

Il titolo originale di questo romanzo è Nemci. Questo è il termine ceco per indicare I tedeschi.  La geolocalizzazione è immediata ma non è un caso se la parola ha assonanza con l’italiano nemici. Se al focus narrativo,  diamo  una  connotazione  emotiva.   ci  si  accorge  di  come  il  paragone  sia  perfettamente  calzante . Il libro si apre con un funerale e il dilemma di una giovane donna se informare oppure no i parenti tedeschi della morte del padre. I fratelli della giovane si oppongono fermamente.  Per loro quei parenti rappresentano l’altro, il diverso, qualcuno con cui non c’è niente da condividere, che non va accolto ma anzi verso cui si erige un’ulteriore barriera. L’autrice attraverso ogni personaggio ci fa comprendere che il vero nemico dell’essere umano è se stesso. L’altro è la proiezione contraddittoria della nostra anima, che funge da specchio e per questo ne abbiamo  paura.  La protagonista in quanto custode  della  memoria familiare, compie però il salto nell’ignoto tracciando un impervio e tortuoso sentiero nella geografia della perdita tra le pieghe annichilite del tempo. Chi è realmente Klara  Kollmann- Rissmann? Su  quest’  interrogativo  si   dipana   tutto  il  libro  e  ogni  lettore  ne  fa  un  suo  personale    ritratto in  sospensione  tra  l’assoluzione  e  la  condanna .  Sullo sfondo la Storia che inevitabilmente influenza la microstorie e determina le scelte dei singoli. Il romanzo è suddiviso in nove parti. Il ritmo è incalzante, la scrittura è vivida e nello  stesso  tempo poetica, tutti questi elementi sono perfettamente mantenuti nell’ottima traduzione di Alessandro  De Vito.
La società descritta è ovviamente patriarcale divisa tra dominazione e sottomissione. Nell’analisi socio antropologica svolta dalla Katalpa la bontà è sporadica e la brutalità è pregnante, per rilevare volutamente fin dove si può spingere la cattiveria umana. I tedeschi è un romanzo sull’imperfezione, i personaggi a loro modo sono caratterizzati da corpi deturpati e anime mutilate. La caratterizzazione dei personaggi maschili si sofferma maggiormente sulla carriera politica – amministrativa e la loro virilità ad  eccezione  di Erich  Fuchi, un insegnante che tra pregi e difetti è la nuda rappresentazione del male  di  vivere. Lui non è conforme alla tipologia d’uomo descritta e come i personaggi virgiliani di Didone e Camilla deve pagare il prezzo della diversità arrivando a un comune destino.   Quelli femminili invece nella loro variegata differenziazione hanno una loro uniformità, sono accomunate dalla ribellione e dalla ricerca perenne d’indipendenza e accettazione della propria esistenza da parte  della società che le voleva, relegate al ruolo di moglie e madre.  Questo è un romanzo sulle donne, la vita di Klara s’intreccia con quella di Anna – Marie, Franziska, Anna, Hedvika e Gertrude. Donne che cadono ma si rialzano, rinascendo come fenici pur portando al loro interno cicatrici insanabili. Con loro non solo ripercorriamo pagine di Storia novecentesca ma altresì ci s’interroga sulla maternità e sulle varie forme d’amore. Un’analisi introspettiva che parte dalla carnalità dell’atto procreativo per poi dispiegarsi sulla presenza – assenza dell’amore materno. Tra guerre, dolori, amori, abbandoni, ossessioni e follie un romanzo indimenticabile alla  ricerca  del segreto nascosto nelle caramelle a  forma  di orsetto che racchiudono al loro interno il vento sussurrato del perdono .

Conclusioni

Consiglio questo romanzo a tutti coloro che amano le saghe familiari e sono alla  ricerca  di una storia che in questo periodo faccia  riflettere riscaldando il cuore.

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Di sangue e di ferro – recensione di Renzo Brollo su Mangialibri

Di sangue e di ferro – recensione di Renzo Brollo su Mangialibri

Andrea Ferro è nato a Udine nel 1965, ma all’età di tre anni ha perso i genitori in un incidente stradale, quando la loro automobile è finita dentro al lago di Levico in circostanze mai ben chiarite. Rimasto orfano, è vissuto con i nonni paterni che hanno seguito la sua strana curva vitale, trasformatasi da infanzia in adolescenza per poi lasciarlo andare. A quasi cinquant’anni vive a Torino, dove lavora come assistente universitario, collaborando anche con una casa editrice e suonando ogni tanto musica country in un piccolo pub della periferia. La sua vita prosegue in precario equilibrio, seguendo un filo che sembra doversi spezzare a ogni passo. Al ricordo del funerale dei suoi genitori si mescolano immagini e musiche di vecchi film, il passato si confonde con la finzione per lui che “vissuto nella voragine della loro assenza”, mentre il suo cervello continua a girare a vuoto, proprio come un funambolo che non riesce più ad andare né avanti né all’indietro. Qualcosa si smuove quando, avvisato telefonicamente dall’infermiera personale di sua nonna Antonia, Ferro viene richiamato improvvisamente a Udine a causa dell’aggravarsi delle condizioni dell’anziana donna. Il ritorno in città rischia di essere la pietruzza che smuove i primi macigni di una valanga che potrebbe diventare incontrollabile. Complici anche la lettura di uno strano manoscritto inviatogli dalla casa editrice, l’intenso scambio di mail con l’autore che diventa una sorta di ossessione e il complicato e spinoso rapporto con le donne, a cominciare da Silvia, una ex fidanzata dalle molte ombre troppo simili alle sue. Tornano a galla i trascorsi politici dei suoi genitori, la loro implicazione con la strage di Peteano del 1972, di matrice politica di estrema destra, e il conseguente tentativo di depistaggio che ne seguì e, di nuovo, le cause che portarono all’incidente mortale nella quale la loro auto finì nelle acque del lago…

Il 31 maggio 1972 a Peteano, una piccola frazione della provincia di Gorizia, una carica esplosiva posta all’interno di un’automobile provoca la morte di tre carabinieri. L’attentato è opera dell’estrema destra e uno degli esecutori materiali della strage, Vincenzo Vinciguerra, in un’intervista lo indica come il momento in cui i membri eversivi della destra radicale si rendono conto di essere manovrati dallo Stato. È il momento in cui si rendono conto anche che la rivoluzione fascista e la Repubblica sociale non sarebbero mai potute tornare. Ciò che invece nonna Antonia era certa sarebbe accaduta. E cioè che “la purezza di un’idea diventa realtà attraverso la forza”. Concetto ripetuto all’infinito al piccolo Andrea Ferro e che ha macerato dentro di lui senza però mai mettere vere radici, ma tormentandolo e uscendo dall’armadio come uno scheletro il giorno in cui Andrea fa ritorno a Udine. La città che lo ospita è perennemente grigia, piovosa, così come la casa buia di Antonia che lo trattiene umida e silenziosa. Predominante per il lettore, la sensazione di straniamento provocata dall’incontro di Ferro con Luca Quarin, che gioca ad essere al tempo stesso personaggio e autore, innescando una sorta di cortocircuito che lo fa saltare come un pesce fuori dall’acqua tra finzione narrativa e cronaca politica nera riportata all’interno del racconto con stacchi improvvisi. La medesima sensazione si prova leggendo il romanzo d’esordio di Luca Quarin, Il battito oscuro del mondo, uscito nel 2017 per Autori Riuniti. Sebbene le tematiche siano diverse, alcuni rimandi sono però comuni, come i riferimenti al Moby Dick di Melville che torna anche in di sangue e di ferro nel quale l’obbiettivo sembra quello di costringere il lettore, con le buone o con le cattive, a riprendere in mano un periodo buio della politica e della società italiane, concentrando il focus su quell’avvenimento tragico accaduto negli anni Settanta nella provincia friulana alla quale anche Luca Quarin appartiene. Indubbia la capacità dell’autore di evitare che il filo conduttore della storia si spezzi, poiché la lettura non risulta immediatamente semplice ma necessità di pause, di tornare sui passi appena percorsi per ripensare e riprendere di nuovo ciò che si era appena letto, come se la paura fosse quella di poter perdere qualcosa di importante lungo il cammino.

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La teoria della stranezza – recensione su Alias

La teoria della stranezza – recensione su Alias

I suoi sogni si trasformano in brevetti

Praga, giorni nostri, Istituto di Antropologia Interdisciplinare. Ada, ricercatrice, lavora destreggiandosi tra colleghi che si arrovellano intorno ad annose teorie e direttori afflitti da disturbi psicosomatici. Unica, vera amica lì dentro è Valeria, tormentata dalla misteriosa scomparsa del figlio alcuni anni prima. Nella vita privata e nel suo piccolo appartamento, Ada legge, ascolta musica, accetta disimpegnate avventure amorose, ospita il fratello un po’ scapestrato, si prende cura di sé in bagno, dove ha appeso il poster con la fondamentale Scala di Bristol. Saltuariamente va a dormire dall’ex fidanzato, ma a puro scopo di lucro. I sogni di Ada, infatti, sono forieri di idee che possono trasformarsi in marchingegni da brevettare. La decisione di far luce sul mistero del figlio di Valeria coincide con la comparsa di alcuni eventi, tra loro collegati da quella che sembra una legge universale. Ada inizia allora a elaborare la sua «Teoria della Stranezza». Horáková fa della sua protagonista una giovane donna capace di ironia e autoironia, di riflettere in profondità su sé stessa e la città che la circonda, di accettare la resa finale come esempio dei suoi e dei nostri umani limiti. Quattrocento pagine che meritano di essere lette, 24 euro.

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