Andrea Ferro è nato a Udine nel 1965, ma all’età di tre anni ha perso i genitori in un incidente stradale, quando la loro automobile è finita dentro al lago di Levico in circostanze mai ben chiarite. Rimasto orfano, è vissuto con i nonni paterni che hanno seguito la sua strana curva vitale, trasformatasi da infanzia in adolescenza per poi lasciarlo andare. A quasi cinquant’anni vive a Torino, dove lavora come assistente universitario, collaborando anche con una casa editrice e suonando ogni tanto musica country in un piccolo pub della periferia. La sua vita prosegue in precario equilibrio, seguendo un filo che sembra doversi spezzare a ogni passo. Al ricordo del funerale dei suoi genitori si mescolano immagini e musiche di vecchi film, il passato si confonde con la finzione per lui che “vissuto nella voragine della loro assenza”, mentre il suo cervello continua a girare a vuoto, proprio come un funambolo che non riesce più ad andare né avanti né all’indietro. Qualcosa si smuove quando, avvisato telefonicamente dall’infermiera personale di sua nonna Antonia, Ferro viene richiamato improvvisamente a Udine a causa dell’aggravarsi delle condizioni dell’anziana donna. Il ritorno in città rischia di essere la pietruzza che smuove i primi macigni di una valanga che potrebbe diventare incontrollabile. Complici anche la lettura di uno strano manoscritto inviatogli dalla casa editrice, l’intenso scambio di mail con l’autore che diventa una sorta di ossessione e il complicato e spinoso rapporto con le donne, a cominciare da Silvia, una ex fidanzata dalle molte ombre troppo simili alle sue. Tornano a galla i trascorsi politici dei suoi genitori, la loro implicazione con la strage di Peteano del 1972, di matrice politica di estrema destra, e il conseguente tentativo di depistaggio che ne seguì e, di nuovo, le cause che portarono all’incidente mortale nella quale la loro auto finì nelle acque del lago…
Il 31 maggio 1972 a Peteano, una piccola frazione della provincia di Gorizia, una carica esplosiva posta all’interno di un’automobile provoca la morte di tre carabinieri. L’attentato è opera dell’estrema destra e uno degli esecutori materiali della strage, Vincenzo Vinciguerra, in un’intervista lo indica come il momento in cui i membri eversivi della destra radicale si rendono conto di essere manovrati dallo Stato. È il momento in cui si rendono conto anche che la rivoluzione fascista e la Repubblica sociale non sarebbero mai potute tornare. Ciò che invece nonna Antonia era certa sarebbe accaduta. E cioè che “la purezza di un’idea diventa realtà attraverso la forza”. Concetto ripetuto all’infinito al piccolo Andrea Ferro e che ha macerato dentro di lui senza però mai mettere vere radici, ma tormentandolo e uscendo dall’armadio come uno scheletro il giorno in cui Andrea fa ritorno a Udine. La città che lo ospita è perennemente grigia, piovosa, così come la casa buia di Antonia che lo trattiene umida e silenziosa. Predominante per il lettore, la sensazione di straniamento provocata dall’incontro di Ferro con Luca Quarin, che gioca ad essere al tempo stesso personaggio e autore, innescando una sorta di cortocircuito che lo fa saltare come un pesce fuori dall’acqua tra finzione narrativa e cronaca politica nera riportata all’interno del racconto con stacchi improvvisi. La medesima sensazione si prova leggendo il romanzo d’esordio di Luca Quarin, Il battito oscuro del mondo, uscito nel 2017 per Autori Riuniti. Sebbene le tematiche siano diverse, alcuni rimandi sono però comuni, come i riferimenti al Moby Dick di Melville che torna anche in di sangue e di ferro nel quale l’obbiettivo sembra quello di costringere il lettore, con le buone o con le cattive, a riprendere in mano un periodo buio della politica e della società italiane, concentrando il focus su quell’avvenimento tragico accaduto negli anni Settanta nella provincia friulana alla quale anche Luca Quarin appartiene. Indubbia la capacità dell’autore di evitare che il filo conduttore della storia si spezzi, poiché la lettura non risulta immediatamente semplice ma necessità di pause, di tornare sui passi appena percorsi per ripensare e riprendere di nuovo ciò che si era appena letto, come se la paura fosse quella di poter perdere qualcosa di importante lungo il cammino.
Praga, giorni nostri, Istituto di Antropologia Interdisciplinare. Ada, ricercatrice, lavora destreggiandosi tra colleghi che si arrovellano intorno ad annose teorie e direttori afflitti da disturbi psicosomatici. Unica, vera amica lì dentro è Valeria, tormentata dalla misteriosa scomparsa del figlio alcuni anni prima. Nella vita privata e nel suo piccolo appartamento, Ada legge, ascolta musica, accetta disimpegnate avventure amorose, ospita il fratello un po’ scapestrato, si prende cura di sé in bagno, dove ha appeso il poster con la fondamentale Scala di Bristol. Saltuariamente va a dormire dall’ex fidanzato, ma a puro scopo di lucro. I sogni di Ada, infatti, sono forieri di idee che possono trasformarsi in marchingegni da brevettare. La decisione di far luce sul mistero del figlio di Valeria coincide con la comparsa di alcuni eventi, tra loro collegati da quella che sembra una legge universale. Ada inizia allora a elaborare la sua «Teoria della Stranezza». Horáková fa della sua protagonista una giovane donna capace di ironia e autoironia, di riflettere in profondità su sé stessa e la città che la circonda, di accettare la resa finale come esempio dei suoi e dei nostri umani limiti. Quattrocento pagine che meritano di essere lette, 24 euro.
La storia di un uomo dall’infanzia all’età adulta: una linea retta che spesso ha fatto da architrave a romanzi e film. Infrange completamente le regole di questa geometria Luca Ragagnin, che in Il bambino intermittente propone una biografia sminuzzata in piccolissimi tasselli e li rimescola in un libro componibile à la Cortázar, esperibile nell’ordine scelto dal lettore. Il gioco letterario non è gratuito: se la biografia di ogni uomo è una ricostruzione parziale elaborata a posteriori, perché non assecondarne la natura segreta, ludicamente ipotetica? (g.s.)
Jack, Malcom e Palmiro, i tre amici e personaggi principali di questo romanzo, sono tre anime un po’ a disagio in un mondo che non è proprio a loro consono, senza sapere bene il perché. Il primo è un poeta che rifugge la celebrità e i luoghi anche poco affollati, che rincorre una donna in rosso, finendo per sfinirsi e perdersi nei fumi dell’alcol, il secondo un musicista di un certo tipo di musica, che riesce ad avere “un parco di donne” sempre disponibili, ma per sopravvivere lavora in una ditta che installa gabinetti, che non disegna l’alcol.Palmiro un liutaio, “ puro “ , che costruisce i suoi strumenti con i legni e le vernici più nobili “Stradivari docet”, una passione di amore ossessivo per i suoi manufatti che protegge con assoluta devozione tanto che rinuncia a venderli per non farli contaminare da mani che possono sporcarli, graffiarli o anche non in grado di suonarli. Aggiusta con dovizia non richiesta strumenti ( alcuni non meritano manco di essere aggiustati) e così rinuncia anche ad un bel guadagno. Ogni chitarra con tanto di griffe “Palm “ ha un nome. Un amore finito, o forse no. Nemmeno lui disdice l’alcol ma è più forte il richiamo di certi “ funghetti “ di cui la valle vanta dai tempi dei Camuni per chi li sa trovare, e lui sa. Tutti e tre della Val Crodino, una montagna che ancora permette un ambiente incondizionatodalla tecnologia, dove sembra a volte che il tempo si sia fermato .Il loro ambiente naturale, dove trovare anche quel senso di pace, che a volte sta stretto, ma da cui è anche difficile fuggire.Vivono tutti e tre un po’ alla giornata, come sospesi in questa valle. Ed è alla scoperta di un luogo particolare della valle, dove Palmiro ha letto di uno strano personaggio che in un antro particolare abita, che Palm riesce a convincere gli amici ad avventurarsi. Ed è l’avventura, dopo la caratterizzazione dei personaggi che completa il romanzo. È una bella storia, tra il serio e il faceto, che nasce dall’amore vero per la montagna in tutte le sue declinazioni, la Val Crodino non manca di nulla, le meraviglie che la natura offre a chi sa apprezzare ed i suoi tesori nascosti. Tre uomini e una valle che sono riusciti a non rovinarsi il sabato.È un libro molto interessante e molto divertente, la scrittura ironica ma anche ricca di riferimenti tutt’altro che inventati, ne fanno un bel romanzo. Non c’è niente di scontato , si ride, ma c’è molto da riflettere. Consiglio di leggerlo.
Libro copertina della settimana è quello di Patrizio Zurru, Endecascivoli, Miraggi.
Endecascivoli è una serie di racconti legati dal ritmo, con le parole smosse dal vento dei ricordi e di storie che partono dalle realtà per arrivare sul bagnasciuga come legni trasportati e trasformati dalle maree. Sono piccoli camei che in parte raccontano ricordi, in parte hanno il fascino surreale dell’inconscio. Ogni frammento è una partitura la cui metrica perfetta ricorda orchestrina e ottavini sommersi. La prosa è poetica, malinconica e lascia sempre spazio a finali possibili, ad altre storie come in un gioco di scatole cinesi. La particolarità. Con Endecascivoli di Patrizio Zurru, Miraggi edizioni inaugura la nuova veste grafica della collana “Golem Narrativa” L’autore Patrizio Zurru, classe ’65, come i racconti contenuti nel suo libro d’esordio, ha dedicato la sua vita per il libro. Nel 2012 fu votato come miglior libraio d’Italia, ha attraversato tutta la filiera, iniziando come editore nella 3B+Z edizioni, dove nel 1993 pubblica 13 racconti, poi come libraio per 26 anni, ufficio eventi e consulente per case editrici, agente letterario, attualmente svolge il ruolo di Ufficio Stampa, Comunicazione ed eventi in Arkadia Editore, dove cura la collana SideKar insieme a Mariela e Ivana Peritore.
“Uno di noi” di Daniele Zito finisce di diritto nella shortlist dei libri migliori letti nel 2021 (il libro è stato pubblicato nel 2019). Non c’è nulla che possa farmi cambiare idea. Anzi, dirò di più, Zito mi sembra una di quelle persone capaci di dare il meglio di sé in più di un campo. Ho avuto modo di leggerlo anche nel suo romanzo d’esordio “La solitudine di un riporto” edito da Hacca edizioni e anche in quel momento ricordo di essermi lasciato andare alla lettura con enorme soddisfazione.
“Uno di noi” è uscito per Miraggi Editore, una casa editrice di Torino che ormai lavora su più fronti. Pubblica romanzi, racconti, fumetti, poesia; pubblica italiani esordienti e affermati e inoltre pubblica anche letteratura straniera, con un occhio di riguardo all’est europeo. Le loro edizioni sono elegantissime e fanno sempre una gran figura.
“Uno di noi” però è un libro che non posso far rientrare in un’unica categoria tra quelle menzionate poco sopra. La storia che racconta è quella di una serata andata male. Un gruppo di amici, dopo aver perso l’ennesima partita di calcetto, decidono di dare alle fiamme una baraccopoli. Purtroppo per loro, come se non fosse già grave questo gesto violento e ignorante, il loro operato non si limita a bruciare vecchi materassi e spazzatura, ha un impatto potente anche sugli abitanti della baraccopoli, ma non entro nei particolari altrimenti vi rovino la lettura.
Cos’ha dunque di speciale questo libro? Zito utilizza, come forma espressiva, il verso. Si tratta, a mio modo di vedere, di una costruzione molto simile alla tragedia greca, con un coro che fa da controcanto alla voce dei protagonisti; un coro che si insinua in tutti gli anfratti della storia e la esplora riempiendola di sé. La forma di “Uno di noi” è questa dunque, una forma classica, che potremmo anche definire antica, che però riesce a dare l’abito perfetto per la storia che viene raccontata. L’effetto che provoca è straniante, da un lato la forma guida l’occhio, ma a conti fatti a volte si ha l’impressione di avere davanti un racconto, una novella.
Il tasso emotivo di questo libro è molto alto. La voce dei protagonisti che provano ad analizzare ciò che hanno fatto è straziante, inoltre, nei commenti di chi definisce “bravata” ciò che a tutti gli effetti è una tragedia, mi sembra di notare l’essenza putrida e nauseante di molte della chiacchiere che sento anche io al bar o in treno.
Non c’è molto altro che possa dire di quest’opera di Daniele Zito, se non che vi consiglio di leggerla vivamente.
Daniele Zito è nato a Siracusa, vive e lavora a Catania. Collabora con L’«Indice dei libri del mese» e «Che fare». Ha esordito nel 2013 con La solitudine di un riporto (Hacca). Il suo secondo romanzo, Robledo (2017, Fazi) è stato pubblicato anche in Francia. Nel 2018 ha pubblicato: Catania non guarda il mare (Laterza Contromano).
I Pellicani di Sergio La Chiusa è un romanzo che racconta la storia di ribellione al mondo dei Pellicani, padre e figlio che in risposta all’invadenza delle aspettative della società si ritirano in casa come unici inquilini di un immobile pericolante.
Avevo l’impressione di essere penetrato in un mondo in cui ero il solo sopravvissuto e ciò mi dava una certa importanza agli occhi degli altri.
Un quarantenne, che si definisce un renitente, è appena stato licenziato dall’azienda in cui lavorava come venditore. Una sera decide di tornare a far visita al padre che non vede da diversi anni e fingersi realizzato facendo sfoggio di un completo grigio topo e una valigetta. In realtà il vestito è sgualcito e la valigetta contiene articoli di cancelleria sottratti all’azienda e una mutanda di ricambio per gli appuntamenti importanti.
La situazione che trova non è quella che si aspetta. Il padre, che ricorda come un uomo sempre in movimento e impegnato in piccoli lavoretti di casa, ora vive in un appartamento in stato di abbandono, è molto invecchiato e sta sempre a letto. Il figlio non è sicuro che si tratti del padre, ma nell’uomo riconosce chiare fattezze di famiglia e di sé, nel dubbio lo definisce a volte paralitico, a volte Pellicani e raramente papà.
Il punto debole di Pellicani era l’immobilità, per cui risultava sempre reperibile.
Lo stato della casa e la situazione di vita di Pellicani creano una curiosità morbosa nel figlio, l’idea iniziale di essere solo di passaggio diventa per uno stabilirsi con l’intento di favorire l’emancipazione dell’anziano signore. Convinto che l’uomo si crogioli troppo nell’accidia, il figlio escogita una serie di stimoli per rendere Pellicani indipendente dalle cure della donna di servizio, dalla televisione e persino dal letto e dal cibo.
L’unica lucidità nel figlio pare essere l’accanirsi nel suo piano assurdo di rianimare l’iniziativa di Pellicani, tutto il resto invece è avvolto da dubbi e sospetti: a volte si sente in una rappresentazione teatrale di un regista occulto, la casa in rovina sembra il labirinto della sua mente confusa e l’anziano signore lo specchio del suo immobilismo. Chiudersi in casa e cercare di prendere le distanze da un alter ego impotente pare l’unica risposta dei Pellicani all’insistenza con cui il mondo esterno continua a proporre in loop il sapersi reinventare e l’essere sempre in movimento.
Io stesso avevo sopravvalutato il movimento. Ridacchiavo da solo, completamente soddisfatto della conclusione dei mei ragionamenti.
Jack, Malcom e Palmiro, i tre amici e personaggi principali di questo romanzo, sono tre anime un po’ a disagio in un mondo che non è proprio a loro consono, senza sapere bene il perché. Il primo è un poeta che rifugge la celebrità e i luoghi anche poco affollati, che rincorre una donna in rosso, finendo per sfinirsi e perdersi nei fumi dell’alcol; il secondo un musicista di un certo tipo di musica, che riesce ad avere “ un parco di donne” sempre disponibili, ma per sopravvivere lavora in una ditta che installa gabinetti, che non disegna l’alcol.
Palmiro un liutaio, “ puro “ , che costruisce i suoi strumenti con i legni e le vernici più nobili :“ Stradivari docet “, una passione di amore ossessivo per i suoi manufatti che protegge con assoluta devozione, tanto che rinuncia a venderli per non farli contaminare da mani che possono sporcarli, graffiarli o anche non in grado di suonarli. Aggiusta con dovizia non richiesta strumenti ( alcuni non meritano manco di essere aggiustati) e così rinuncia anche ad un bel guadagno. Ogni chitarra con tanto di griffe “Palm “ ha un nome. Un amore finito, o forse no. Nemmeno lui disdice l’alcol ma è più forte il richiamo di certi “ funghetti “ di cui la valle vanta dai tempi dei Camuni per chi li sa trovare, e lui sa.
Tutti e tre della Val Crodino, una montagna che ancora permette un ambiente incondizionato dalla tecnologia, dove sembra a volte che il tempo si sia fermato. Il loro ambiente naturale, dove trovare anche quel senso di pace, che a volte sta stretto, ma da cui è anche difficile fuggire. Vivono tutti e tre un po’ alla giornata, come sospesi in questa valle. Ed è alla scoperta di un luogo particolare della valle, dove Palmiro ha letto di uno strano personaggio che in un antro particolare abita, che Palm riesce a convincere gli amici ad avventurarsi. Ed è l’avventura, dopo la caratterizzazione dei personaggi che completa il romanzo. È una bella storia, tra il serio e il faceto, che nasce dall’amore vero per la montagna in tutte le sue declinazioni, la Val Crodino non manca di nulla, le meraviglie che la natura offre a chi sa apprezzare ed i suoi tesori nascosti. Tre uomini e una valle che sono riusciti a non rovinarsi il sabato. È un libro molto interessante e molto divertente, la scrittura ironica ma anche ricca di riferimenti tutt’altro che inventati, ne fanno un bel romanzo. Non c’è niente di scontato, si ride, ma c’è molto da riflettere.
All’indomani del secondo dopoguerra, discutendo intorno ai testi di giovani autori da inserire nella collana dei “Gettoni”, Vittorini e Calvino trovarono nel termine “allucinato” l’etichetta interpretativa che poteva definire la scrittura di Giovanni Pirelli. Per Vittorini si trattava di una risorsa quella maniera di procedere lungo i sentieri di un raccontare poco definito, spesso involuto, torbido, del tutto privo di linearità. Per Calvino invece rappresentava un segno di una vaghezza che poteva diventare manifestazione di una incapacità nel rappresentare la realtà. L’altro elemento – era questo il testo su cui dibattevano entrambi e che poi, con molte insistenze da parte di Vittorini, fu accolto nelle edizioni Einaudi nel 1952 – conteneva i caratteri di una letteratura allucinata, kafkiana nel senso più autentico di indefinito e assurdo. Quella linea, che tanto piaceva a Vittorini, preesiste a Pirelli e gli va oltre, toccando i nomi di certi visionari: Landolfi, Zavattini, Manganelli, fino ai più recenti Celati e Cavazzoni.
Sergio La Chiusa non sta lontano da questa linea. Il suo libro di esordio, che . arrivato nella rosa dei finalisti del Premio Calvino, ha tutte le carte in regola per essere annoverato in questa schiera: è una storia vaga, infatti, priva di collocazione geografica, di precisazione cronologica, perfino di azione. Ci troviamo di fronte al dialogo (muto) tra figlio e padre. Non sappiamo in che tempo siamo. Quel che possiamo dedurre è solo che il figlio fa di mestiere l’agente di commercio ed è in partenza per la Cina, dove dovrebbe concludere un affare importante. Ma questo sta sullo sfondo delle intenzioni. Il romanzo, infatti, non riguarda il lavoro di questo personaggio, ma la visita che egli fa al suo genitore. Il quale vive in un edificio diroccato, in una città di cui non si fa il nome e in uno stato di infermità, vero o presunto è difficile da dire, ma comunque in condizioni pietose.
Sta tutto qui il cuore del libro: in un viaggio che non avviene e in una permanenza che assume una curva di abbagli, di doppi sensi, di realtà capovolta, in cui quasi sempre il lettore avverte la sensazione di trovarsi nello stesso palazzo in cui Kafka aveva ambientato il Processo: una costruzione di stanze, che immettono in altre stanze, le quali poi, a loro volta, conducono ad altre stanze. Il nome di Kafka non viene qui invocato per puro caso. Il suo fantasma aleggia sul racconto di un io che, da una parte, si trova in mezzo a un vero e proprio guado, tra il rischio di scavalcare l’età della giovinezza (non sappiamo quanti anni ha questo figlio) in nome di quell’emancipazione, richiamata nel sottotitolo del romanzo, e il timore di identificarsi con la figura di questo padre, di cui non conosciamo nemmeno il nome, ma che tuttavia incarna il destino speculare di chi parla e (presumiamo) scrive.
Ne vien fuori un esteso monologo, fatto di supposizioni, di ipotesi, di contraddizioni, di convinzioni; un monologo ossessivo e contorto in cui vengono a fronteggiarsi, in maniera certo camuffata da descrizioni al limite del paranoico, i sentimenti di una civiltà che sta sul crinale del falso e del vero, che insegue la stasi ma non sa rinunciare alla frenesia e alla fuga (“il nullafacente era il vero sovversivo dei tempi moderni”), che è incapace di elaborare la nozione di tempo e tuttavia trascorre la vita nel miraggio di dominarne gli esiti.
Con una scrittura rabdomantica ed elicoidale, visionaria quanto basti per spaventare e sedurre, Sergio La Chiusa ci consegna una storia che potrebbe non finire mai, anzi autoriprodursi come certi organismi che vivono in natura e sembrano appartenere a specie estinte oppure, al contrario, a organismi rari e sconosciuti, prossimi a sferrare il loro attacco alla razza umana.
Un volume di recentissima uscita per i tipi di Miraggi Edizioni ci propone un ampio percorso antologico nell’opera di Petr Hruška (1964), uno dei più importanti poeti cechi. La traduzione e la cura sono affidate a Elisa Bin, che già nel 2017 aveva tradotto lavori di Hruška, e che qui firma un saggio ampio e pregevole a introduzione di queste poesie (selezionate, apprendiamo, dallo stesso Autore) e prose brevi. L’opera di Hruška è caleidoscopica, piacevolmente complessa, e proprio al contributo di Bin rimando per l’approfondimento dei moltissimi leitmotiv e dettagli. In questa sede non posso che limitare la mia analisi ai punti che ho avvertito come più salienti o miei.
Dovessi intanto individuare un fulcro, lo indicherei proprio in quella “collisione”, citata dalla curatrice, tra dettaglio realista e condizione umana. Se l’attenzione del lettore può soffermarsi sulla robusta motrice oggettuale, Williamsiana (“no ideas but in things”), a volte quasi catalogatrice, nei versi, tuttavia già dalla prosa di apertura lo scrittore punta il binocolo verso quel brulicare di esseri umani in azione, “lo sconosciuto affaccendarsi di ciascuno (…) pur di non restare soli, perdio, almeno un momento” che “non smette di incantarmi” (pp. 23-25). Lo sguardo del poeta è lucido nel denunciare, in rapporto e in risalto con la fredda concretezza delle cose e degli ambienti (due volte da Bin definiti “prosaici”, credo nel senso di “ordinari, quotidiani” usato da Hruška a p. 175), l’insignificanza dell’umana industriosità e come questa, alla radice, sia determinata da una enorme antropologica solitudine e senso del vuoto. Il rimedio, o piuttosto il lenimento, non è visto però nel Pascaliano starsene tranquilli nella propria stanza, ma anzi nell’intensificare questo “sentirsi vicini” (p. 147); a costo – Kafka docet – che esso si riveli non più di un “venirsi incontro senza mai incontrarsi” (p. 157). Meritoriamente, i riflettori di Hruška illuminano spesso gli ultimi o gli anonimi, e ciò rende ancora più chiaro il suo istinto solidale.
Sul piano stilistico, Hruška adotta un verso libero e asciutto, antilirico; con una certa attenzione per anafora o ripetizione del verso/stanza, e un marcato interesse poematico: ci sono microcicli (Luglio; E ho visto…), e in questa autoantologia compaiono ampi estratti di una raccolta (Di nessuno) incentrata sulla figura di Adam, un archetipo di giovane uomo “mai coordinato con le dinamiche umane” (Bin).
Non mancano alcune suggestioni lusitane: nella poesia Giardino compare la “pioggia obliqua” Pessoana e la prosa L’identico getta idealmente un ponte verso L’uomo duplicato di Saramago.
Tutt’altro che prive di interesse proprio le prose brevi poste prevalentemente in coda al volume. In esse trovano uno spazio maggiore ironia e sarcasmo, ma soprattutto si palesa più chiaramente un atteggiamento combattivo nei confronti di ogni autocompatimento (Disperazione) o assuefazione alla noia (Le scuole); il libro si conclude con la convinzione gnomica che la qualità della vita sia per gran parte determinata dalla nostra capacità di accordarci con ciò che non conosciamo.
***
VEDRAI
Voltati guarda dove hai dormito ieri e vedrai la provvisorietà più assoluta la carcassa sottile della coperta la stropicciata postazione di lavoro l’acqua sinistramente vecchia nella tazza vedrai i tuoi sforzi di essere e di sopravvivere e il sogno che tutt’a un tratto ti ha strattonato e il deserto che nel frattempo si è allargato in tutte le direzioni dal tuo accampamento e te stesso che ti sei tirato su e ti sei posto di nuovo contro la terribile velocità della luce
*
VERSO SERA
Con decisione improvvisa la mano di un senzatetto impressa in nero sul duro peltro del cielo indica là
Tanto che dolgono gli occhi Dove può ancora esserci un qualche là
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AL DI LÀ DI TUTTO
furiose case ai margini della città un cane beve più che un uomo una recinzione scorticata come un eczema nella discarica un mappamondo sfondato a calci
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FIGLIA
Spero che mi investa un’auto mentre vado a prendere il pane! hai gridato verso l’interno di casa
Per tutto il tempo finché non sei tornata la vita è stata in me ritta e austera in stile dorico
Ora mettiti a tavola prendi il burro duro e bianco come un muro e preparati:
sarà un lungo pasto
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PASSANTE NOTTURNA
La riconosco dall’andatura, dalle borse. Arriva fino alla fine della via notturna e scoppia a ridere come sopra all’abisso. Come se sapesse che non c’è modo di proseguire oltre e lei stessa dovrà creare ora la prosecuzione intera di questa città folle, che nel mattino ha un aspetto così convincente.
La vita che ristagna. Su “Still Life” di Adriano Padua
Still life, ancora vita: così il titolo dell’ultima opera di Adriano Padua, uscita per Miraggi nel 2017. Una raccolta articolata in sei sezioni, in cui il verso si confronta con una realtà magmatica, l’ambientazione urbana, il senso del precario, la violenza, e in conclusione con la presa di coscienza di un decadimento uni-versale, cioè incontrovertibile. Il manifesto in favore di una poesia che irrompi nella dimensione non consolante del reale, e acquisti valore proprio in quanto capace di perforarlo, in quanto performativa, è il lascito più importante di questo libro.
La vita, ovvero la palude
Per cominciare, occorre tenere presente lo scenario evocato dalla poesia di Padua a livello denotativo, sul piano della mimesis. Il motivo è nella relazione che la pratica poetica intesse con lo spettacolo in cui si inserisce: lo “scenario”, di fatto, non è uno scenario, ma un tutt’uno col fare poetico, dal momento che quest’ultimo sorge (e può sorgere solo) all’interno di un contesto umano degradato, e, contemporaneamente, verso quel contesto si dirige, col doppio fine – ma sono due facce della stessa medaglia – di criticarlo e di salvarlo catarticamente («non c’è una medicina ma la cura / del nostro male è la ferita stessa»). Volendo porre una teoria di fondo, si può considerare, a mio parere, che la poesia di Still Life sia eziologicamente e teleologicamente giustificabile attraverso l’idea di “mondo”, insieme sua origine e sua destinazione.
Questo mondo, come dicevo, compare in vesti lacerate. La città è l’ambiente in cui sono più facilmente osservabili le sue ferite, gli spazi in cui più chiaramente emergono la precarietà dell’umano, la sua caduta («buio deserto di città teatrale», «la città che è un teatro tranquillo di guerra», «una tempesta di persone perse / tra processioni ferme di cemento»), mentre la notte è la stagione più disposta a svelare la nudità di queste contraddizioni, proprio ottundendo le certezze vendute dal giorno. Alla notte è infatti dedicata l’intera sottosezione Intorno, notte, e il buio, proprio agendo come «sipario calato sul mondo», di quello indica le smagliature e la frammentarietà irriducibile, agendo come «madre non norma», cioè come origine oltre-sociale che «disvela […] delle case l’anomala quiete».
La verità dell’essere che coincide col proprio nascondimento – influsso probabilmente heideggeriano – è alla base, o tra le basi, di un’idea di poesia che scaturisce dalla necessità della nominazione, ma ciclicamente si dimostra incapace di eseguirla correttamente («lasciando cose come innominate», «dalla voce che grida strozzata il suo linguaggio distrutto», «è dovere di dire le cose / non compiuto»). Tornerò nel finale alla ragion poetica del libro; per ora basti questa considerazione: che il mondo è palude nel senso di luogo indefinito, bucherellato, e perciò pantano in cui è difficile muoversi; ma anche nel senso di «acqua senza genere» che costantemente si infiltra e riappare nelle zone che sfuggono alla faticosa attività di nominazione operata dalla poesia. Still Life vuol dire questo: che la vita è una pozza che ristagna e la poesia non riesce a bonificarla del tutto; che alla base del libro c’è una scissione insanabile tra linguaggio e materia.
La misura orale
Vista in questo modo, la poesia di Padua non può che caratterizzarsi per una forte tendenza all’oralità. Il dato più significativo in questo senso è che l’autore affianca all’attività di poeta quella di performer: le stesse poesie di Still Life hanno una trasposizione live in cui i versi, pronunciati con ritmo lento e scandito, ma anche tagliente, si innestano su arrangiamenti in chiave post-rock (quasi immediatamente il pensiero va, ad esempio, ai Massimo Volume). E del resto anche all’interno del libro i riferimenti alla musica abbondano: nei numerosi eserghi che accompagnano le aperture delle sezioni e sottosezioni dell’opera, accanto a poeti e prosatori (“classici” o contemporanei), troviamo riferimenti alla musica pop/alternativa (Le luci della centrale elettrica) o rap (Kaos One, DJ Gruff).
Ecco, l’influsso del rap è a mio avviso davvero decisivo, in questo libro, tanto per la denuncia e la condizione di marginalità sociale che sono, come si sa, alla sua origine, quanto per il tipo di verso adottato da Padua, spesso disteso (del resto le pagine sono stampate in orizzontale, generano un impatto visivo che ricorda – almeno a me – il Pagliarani de La ballata di Rudi) e con schemi ritmico-rimici incalzanti grossomodo regolari. La scrittura di Padua è predisposta alla recitazione, alla voce, si intesse su cadenze di accenti calcolate con precisione (spesso supportate anche dalla struttura dell’endecasillabo), sulla frequenza assidua di omoteleuti, paronomasie, rime, assonanze e consonanze (ad esempio, già nel primo testo, a intervalli omogenei, troviamo: «sorta», «sepolta», «vedute», «luce», «contraddice», «descritte», «scaturisce», «contratto», «scatto»…).
La poesia, ovvero l’arma
Quello di Padua è perciò una sorta di toasting poetico, da cogliere però non solo nella “forma” della sua fattualità estetica ma – congiuntamente con quella – soprattutto nella sua natura situazionale. Voglio dire: mi sembra che Still Life sia performativo nel senso più denso del termine, voglia far incarnare la poesia in un reale posto nel mondo, e rintracci nella misura orale la pista migliore per riuscirci.
Riprendendo lo schema posto a monte, per cui il poetico si origina dallo squilibrio del mondo e verso quello si dirige con l’obiettivo – fallito – di nominarlo, e così di ricongiungersi con esso, quella di Padua potremmo definirla poetomachia: la poesia si configura come colluttazione, come arma sfoderata contro una realtà che pare impossibile da richiamare dentro il linguaggio («qualcosa che colpisca dentro gli occhi», «martirio», «mani insanguinate», «le parole coltelli tra i denti»); una poetomachia giustificata sul piano metafisico dalla non coincidenza tra essere e linguaggio, ma anche, sul piano storico, dalla necessità avvertita di protestare contro una certa idea di poesia, che banalizza la portata eversiva della poesia stessa («scrivere […] non è mettere il cuore / in pace»).
È in questa chiave, dunque, che si può osservare l’andamento della scrittura di Padua come un andamento parabolico, dove la poesia è il vertice, il punto più lontano dal mondo, che però proprio verso il mondo si sforza di andare. Denunciando gli spasimi del linguaggio e ricercando la voce come presenza, Still Life pone il poetico nei termini di un tramite sciamanico (che rimane, comunque, una Preghiera (senza Dio)) teso al recupero dell’origine, per via di uno scontro con la (e l’attraversamento della) realtà materiale e sociale.
Campi magneto-semantici. Su “Pagina bianca” di Gianluca Garrapa
Per leggere Pagina bianca di Gianluca Garrapa (Miraggi Edizioni, 2020) è necessario mettere da parte l’intero orizzonte d’attesa codificato per la poesia (per lo meno quella comunemente intesa). Concetti – e pratiche – come quello di versificazione o di struttura strofica vengono meno di fronte a un approccio con la testualità (prima che con la lingua) tutto fondato sul sabotaggio – della struttura linguistica, del significato, dell’ordine tipografico.
Perciò voglio qui proporre un metodo di lettura diverso, rispetto a quello “tradizionale”; più adeguato al testo di Garrapa, che lo affronti trasversalmente invece che linearmente, nello stesso modo in cui l’autore espone la massa semantica a flussi di energia che la orientano, spezzano, organizzano in forme sempre diverse. Individuerò, dunque, le principali caratteristiche di quelli che potremmo chiamare i campi magneto-semantici su cui l’autore fonda di volta in volta un nuovo sistema di senso poetico.
Rifrazione
La prima proprietà dei campi magneto-semantici di Pagina bianca è la rifrazione, ovvero una rottura lieve, una sfasatura che rende non esattamente corrispondenti, fuori fuoco gli elementi che compongono un testo. In forme diverse, questa sfasatura, o glitch, è tipica delle prime quattro sezioni che compongono il libro.
In sabato – che nella forma tipografica anticipa, insieme a paese, anche i “circuiti” di cui parlerò più avanti – la sfasatura rende inutilizzabili le categorie narratologiche di fabula e intreccio: siamo infatti di fronte a un certo scenario e una certa “storia” (le vicende legate a una giornata di sabato, tra cena, dopocena e incontri), ma il flusso narrativo e la stessa possibilità per il lettore di costruire in maniera univoca il soggetto del racconto sono del tutto sabotati da pervasivi scardinamenti del linguaggio, come giustapposizioni nominali, congiunzioni svincolate, distorsioni delle coniugazioni verbali, agglutinazioni di parole e così via fino alla (quasi) totale abolizione della punteggiatura e delle maiuscole. La successiva paese applica le medesime deformazioni alla dimensione nazionale, ripercorrendo – con, sempre, una linearità interrotta dalle sfasature – la storia d’Italia.
Se in sabato e paese assistiamo, però, a quel paroliberismo spazio-grafico che sarà tipico anche delle ultime sezioni, in due e tre la rifrazione si amalgama invece su forme di testo più strutturate. In due potremmo rintracciare una costruzione a episodi, micro-racconti, o perlomeno un ambiente che potremmo definire prosa. La langue sfasata persiste, ma notiamo qui subito una reintroduzione della punteggiatura (prima sporadica e quasi del tutto ridotta al punto interrogativo), che sembra tuttavia aver perso la propria funzione di organizzatore sintattico ed essersi ritirata tutta nel proprio valore ritmico (al punto da comparire dove non dovrebbe, separando ad esempio preposizioni o sintagmi strettamente connessi fra loro). Per contro, in tre il testo sembra assumere una forma simile a quella poetica (controprova una certa, seppur lieve, apertura intimistica, come in alieni), con dei versi riconoscibili e il rientro all’interno di uno schema (sempre libero, comunque) della spazialità sregolata dei testi precedenti.
Permeabilità
La seconda proprietà è invece la permeabilità, ovvero l’attitudine di un dato elemento a magnetizzarsi – dunque, semanticamente, a caricarsi al punto da acquisire una polarità di senso. È questo un impianto interpretativo con cui può leggersi la sezione Egli, sorta di cerniera tra una prima parte (incentrata soprattutto sulla “rifrazione”) e una seconda (composta da testi che chiamerò “circuiti”).
Egli conserva infatti alcune caratteristiche dei testi precedenti, e in particolare della sezione due, di cui riprende la punteggiatura libera e la struttura in prosa, nonché la divisione in “episodi” – segnalati tutti da un titoletto che contiene il pronome “egli”. Già dai titoletti, tuttavia, si nota come proprio la natura di “egli” – la natura di pronome – venga messa a dura prova da uno stress referenziale che lo destabilizza e in fin dei conti priva della sua funzione essenziale. Accanto a titoletti prodotti all’interno dell’orizzonte previsto dalla lingua (ad esempio, Egli pranza), ne compaiono altri paradossali e di assoluta discordanza verbale (Egli piove, egli la Clerici, Egli non ha senso scrivere oggi che è domenica, Egli è domenica).
Le prose introdotte dai titoletti, allora, non fanno altro che estendere, situare in uno spazio-tempo e in un flusso (anti-)narrativo i paradossi su cui i titoletti si fondano. In quelli – come nei calembours e nelle freddure molto frequenti in Garrapa – si verifica quella permeabilità di senso, sia anche assurdo, cui l’autore sottopone il linguaggio. Egli si manifesta come contenitore vuoto, pro-reale più che pro-nominale, dunque magneticamente attratto da ogni altra categoria o oggetto linguistico; e proprio questa accessibilità lo eleva a segno universale, comporta una ironica e insieme incontrovertibile pronominalizzazione del cosmo e, infine, il suo svuotamento.
Circuiti
Sulla forza delle proprietà magneto-semantiche individuate, le restanti sezioni (lapaginabianca, date), congiuntamente con le prime due, generano una serie di testi che seguono la vena fondamentale del libro; ovvero quella che fa dialogare le parole con lo spazio della pagina e dunque anche col bianco tipografico. Questa spazialità verbo-visiva configura tali testi come dei circuiti, in cui la forza magneto-semantica è organizzata secondo uno schema preciso dettata da polarità e direzioni di senso degli elementi, dagli effetti delle loro attrazioni.
Interpretandole così, queste parole sparse sul foglio appaiono effettivamente uguali ai disegni di campi semantici, appunto, stesi sulla lavagna di una scuola. Anche se nei campi di Garrapa, al contrario di quelli della lavagna, non è possibile rintracciare un effettivo nucleo semantico da cui scaturiscono gli altri termini (ma ci si avvicina a questo, ad esempio, nella pagina in cui al centro compare «ragazzi&ragazze») e le relazioni tra i vocaboli risultano spesso oscure, dettate più da una matrice inconscia o estetica che dalle strutture linguistiche, questi circuiti rompono egualmente l’ordine, la linearità, la logica in favore del caotico, della radialità, dell’aleatorio.
A questa dimensione, Garrapa aggiunge la significazione dello spazio bianco, che determina un certo orientamento del senso e dell’espressione proprio a livello topo-grafico: l’effetto di rapidità, ad esempio, è costruito (come nel testo che comincia con «luce») non dalla sintassi o dal significato, ma dall’avvicinamento tipografico dei termini; la parola si carica di densità semantica, e simbolica, quando è visivamente isolata, e non quando è rafforzata da una sintassi o da una punteggiatura.
Pagina bianca – che significativamente non riporta i numeri delle pagine (allargando così la significazione del bianco anche al paratesto: e infatti l’indice ha la forma di uno dei “circuiti”) – è dunque composto da campioni di magma, da testi fondati su relazioni che non si limitano al sema, ma chiamano in causa anche i legami “magnetici”, post-linguistici e fisici, che li costruiscono. Il bianco che chiude il libro (segnalato a destra così: «: pagina bianca») ne è la saturazione definitiva; il vuoto significato che permea l’intero mondo-libro.
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