Del compianto Roberto Bolaño, lo scrittore Rodrigo Fresán ricorda la frenesia della scrittura sempre ai margini dell’abisso, sempre lanciata dall’ultima frontiera: quella voglia di raccontare l’utopia che solo nella letteratura può diventare reale. Alan Pauls ne decanta la poetica dell’assenza: riuscire a raccontare e fare poesia parlando di presunti poeti particolarmente impegnati, politicamente impegnati, umanamente impegnati (I detective selvaggi) senza che di loro esista nemmeno un’opera. Si tratta di un’overdose prima ancora di un’intossicazione. Bolaño riesce attraverso i suoi racconti a creare una vera etnografia di personaggi inesistenti, di quadri e di possibili vite, nelle quali si è frammentato e suddiviso. L’amico e scrittore Enrique Vila-Matas, azzardando paragoni con Franz Kafka, Marguerite Duras e George Perec, ricorda l’attività fervida e ricca del Bolaño narratore che riesce a servirci le sue storie come un piatto forte della Cina distrutta, cioè con la stessa voracità che abbiamo di solito quando consumiamo un piatto originale, forte, serio e senza mezze tinte: bisogna conoscere e raccontare la tristezza della vita, ma saperla apprezzare ed amare anche con quella intensità così forte da farci dire che abbiamo davvero vissuto…
Roberto Bolaño è stato uno degli scrittori cileni, sudamericani, latini e mondiali più importanti della fine del XX secolo: nato in Cile, vissuto in Messico, esploso in Spagna, ha racchiuso nella sua scrittura la frenesia di chi ha fatto della letteratura un campo di sopravvivenza oltre ogni limite umano e fisico: “La letteratura somiglia molto alla lotta dei samurai, ma un samurai non combatte contro un altro samurai: combatte contro un mostro. Generalmente, poi, sa che sarà sconfitto. Avere il coraggio, sapendo fin da prima che sarai sconfitto, e uscire a combattere: questo è la letteratura”. Nella sua scrittura l’impossibile prende corpo e con lui tutte le nostre paure, i pregiudizi, le imperfezioni, le passioni ed i desideri che nel mondo cosiddetto normale non siamo in grado di concepire. Il volume, corposo, composto da quasi 500 pagine, raccoglie più di 25 contributi, un’amplia bibliografia sulle opere dello scrittore cileno e di tutte le opere citate. Dopo la presentazione di Edmundo Paz Soldán e Gustavo Faverón Patriau, i contributi sono divisi in quattro sezioni: la percezione del mondo, la sua politica, la poetica e le sue altre genealogie. Difficile, se non impossibile da catalogare, Roberto Bolaño sfugge ad ogni tentativo di critica positivistica: come dimostra eloquentemente nel Discorso di Caracas (introduzione al volume come sezione Le sue parole, I) e nell’intervista inedita che chiude l’intera raccolta (sezione Le sue parole, II), l’artista cileno non ha interesse a trovare una collocazione nella storia della letteratura, non ha interesse ad essere misurato con modelli, antecedenti o correnti letterarie, ha come obiettivo esprimere ed esprimersi nel modo più diretto possibile, nel tentativo di realizzare una narrazione che parli intanto a se stesso, quindi ai suoi lettori. L’iniziativa edita da Miraggi è importante e meritoria, perché permette all’apprendista lettore di avere sottomano tutti gli strumenti utili per sapersi orientare nella “galassia Roberto Bolaño”, ma anche al lettore di culto di potersi confrontare con interpretazioni delle più svariate su quell’arte di raccontare che oggi tanto manca a molti.
L’incubo dello scienziato sulla forza della sua scoperta
Gentili lettori, è davvero portentoso come l’anno scorso un piccolo ma valoroso editore abbia avuto l’arguzia di pubblicare un libro, “dimenticato” per novantaquattro anni, in corrispondenza di un discorso mediatico focalizzato sull’influenza della scienza nella vita politica e sociale del paese, quando proprio quel libro, “Krakatite” di Karel Čapek, ha fatto della responsabilità morale dello scienziato il fulcro della narrazione. In assonanza con “I fisici” di Friedrich Dürrenmatt, che lo scrittore svizzero compose nel 1959 consacrando nell’immaginario collettivo la figura di Möbius, un fisico che aveva scoperto una formula scientifica universale capace di configurare tutte le scoperte, Čapek crea Prokop e assieme a lui un universo morale, fantasmagorico, un sogno come porta conoscitiva e creativa. Prokop è un chimico geniale che ha sintetizzato la krakatite, una polverina bianca con un enorme potenziale esplosivo reso instabile dalle onde elettromagnetiche. A partire da queste premesse, lo scrittore ceco teorizza il rapporto di responsabilità tra lo scienziato, la creazione e il suo eventuale impiego a scopi distruttivi. Krakatite, nella traduzione cristallina di Alessandro Catalano, esprime un conflitto principalmente all’interno del protagonista, costringendolo in una serie di mirabolanti avventure in cui l’elemento comico-grottesco allevia quel senso d’impotenza dell’uomo alle prese con le convenzioni e le imposizioni del potere.
Čapek soleva dire che l’arte non dovesse mai essere al servizio della forza e forse questa è la spinta più illuminante della narrazione. La completa libertà del suo protagonista, il suo affrancamento dall’ideale di gloria, di ricchezza, la sua distanza dalle logiche del potere politico. Il forte senso di giustizia sociale che permea l’umanità di Prokop gli impedisce di cedere anche quando si tratta dell’amore. Saranno tre donne, principalmente, a costituire il tessuto sentimentale della storia; tre differenti modi in cui il chimico sperimenterà la sua lacerazione, sempre pervasa da incubi freudiani che non faranno altro che offrirsi come metafora della forza inconscia insita nell’uomo e nella società. Prokop è l’essenza dell’instabile, l’esplosione rimandata, l’energia potenziale pronta a manifestarsi. Čapek ne rimanda la visionarietà nell’uso di una lingua che irrompe nel fantastico così come la realtà prende la via del racconto fiabesco pur mantenendo le sue coordinate di tangibilità. Gli stili e i generi che seppe mescolare corroborano il suo sperimentalismo. Gli elementi del romanzo d’avventura, del giallo, del melodramma creano suggestioni capaci di generare a loro volta ulteriori significazioni. «Chi pensa all’essenza suprema distoglie lo sguardo dalle persone. Tu invece le aiuterai», ed è il dialogo col Creatore, con quella forza arcaica contro cui è impossibile salvarsi.
Prokop era destinato a fare cose grandi ma le rifiutò, perché era il custode delle cose piccole, chiuse nello scrigno carnale di ogni vita.
Negli anni 90 Seattle non era poi così lontana da Torino: questa è l’impressione che si ha al termine della lettura dell’ultimo libro di Domenico Mungo che si è occupato in più occasioni di musica, sia sulle pagine della rivista Rumore, sia in vari racconti. Il sottotitolo di With Love è Epifanie di Kurt Cobain e di me nella Torino sociale e musicale degli anni Novanta, e rende l’idea dello sviluppo del volume: il racconto degli inizi e dell’ascesa dei Nirvana a partire dagli ultimi anni 80, con una particolare attenzione verso i concerti e le apparizioni del gruppo in Europa, con digressioni sulla scena musicale rock/punk torinese e aneddoti autobiografici sullo sfondo della trasformazione di Torino in città postindustriale. Il leader dei Nirvana viene presentato da Mungo come colui che ha resuscitato il rock che a cavallo tra i decenni 80 e 90 era se non morto, moribondo; e il suo suicidio viene accostato, per rimanere a Torino, a quello di Pavese e non alle morti del “club dei 27”. Lo stile di scrittura è scorrevole, in totale sintonia con il racconto.
Pino alla soglia dei 40 anni è in momento di grande crisi, “un vuoto cosmico “. Rimasto senza lavoro, abbandonata dalla compagna, abbandonato il percorso terapeutico intrapreso , senza amici e dipendente da alcol e marijuana. Dall’Abruzzo a Torino per lavoro e con una ferita ancora aperta lasciata dal suo primo e grande amore da cui è stato tradito.È un percorso faticoso il suo, tra momenti di lucidità razionale, che lo portano a pensare di essere forte ed in grado di superare le difficoltà soprattutto la dipendenza e momenti in cui tra i fumi dell’erba e dell’alcol si perde in solitario sgomento. Capta per caso un discorso : “ho smesso per sempre di fumare quando sono tornato dove ho cominciato la prima volta “ , e con questo pensiero che frulla nella sua testa , come un messaggio mandato a lui, si fa forza.In un percorso difficile ognuno ha i suoi tempi e la razionalità non basta. Pino se lo ripete come un mantra, “ devo cambiare a cominciare da quello che mangio “, ma continua a bere e fumare, tentando qualche goffo approccio con qualche donna, storie che non durano, sesso e non sempre, senza neanche affetto. Ha un amico con cui si confida un omino dei Lego (i mattoncini colorati) , con lui sì ,a volte se lo porta in tasca, e con lui, parte per ritornare al punto in cui ha iniziato a fumare. Amsterdam, e in quei tre giorni che trascorre lì non si fa mancare niente, pensando che sarà l’ultima volta. Tre giorni in preda ad annebbiamenti, visioni e sbandamento. Per poi fare ritorno a Torino. Un fatto di cronaca successo al suo paese d’origine ad una compagna di liceo, pare per mano dell’uomo con cui è stato tradito dalla sua prima fidanzata, minano il precario equilibrio in cui si trova. Forse anche per sanare la ferita d’amore bisogna tornare dove è iniziata? Si sente pronto e parte verso il suo paese d’origine, quello stesso dove si dice essere nato Ponzio Pilato. Lì c’è la sua famiglia e c’è Isabella la donna che non ha mai dimenticato.Isabella sembra che lo aspetti e gli porge le braccia. Pino è di nuovo preda della razionalità e dell’istinto, senza alcol e erba questa volta. Potrà un lavaggio di mani essere salvifico in una situazione che non è quella che aveva immaginato? Potrà guarire la sua ferita d’amore? Un libro che lascia spazio a riflessioni, a fare i propri conti, ad interrogarsi con quello che ci manca ( ognuno il suo) È scritto in seconda persona, come ci fosse un occhio sempre attento su Pino, un libro pieno di sorprese che a volte lasciano col fiato un po’ sospeso. Una lettura interessante e scorrevole.
I lampi illuminavano l’orizzonte con ampie fiammate gialle, ma la tempesta salvifica non si era ancora scatenata…
Krakatite, Karel Čapek, Miraggi, traduzione di Angela Alessandri, postfazione di Alessandro Catalano. Distopico, fantascientifico, profetico, soprattutto per quel che concerne i rischi e i pericoli della disumanizzazione del progresso scientifico quando troppo stretto si fa il connubio con una visione utilitaristica e intrecciata al mero profitto, il romanzo, ispiratore di due film, il primo dei quali fu definito nell’immediato secondo dopoguerra, per la precisione nel millenovecentocinquantuno, appena uscito negli USA, tre anni dopo il debutto in patria, dal New York Times anche come un’orazione stridente per la pace, che ha novantasei anni ed è più attuale che mai, dello scrittore, giornalista e drammaturgo ceco, narra la storia di un dottore che possiede la formula per il più deflagrante di tutti gli esplosivi, ma non quella per la pace o la felicità, e… Imperdibile.
Credo che tutti noi negli anni della scuola abbiamo avuto prima o poi occasione di ascoltare l’imprescindibile lezione sul finale de La coscienza di Zeno, in cui il nevrotico protagonista immagina un individuo ancora più nevrotico che inventa un ordigno esplosivo dalla potenza distruttiva inimmaginabile e un terzo individuo (forse più nevrotico degli altri due, forse tutto sommato più saggio nella misantropia radicale) che lo utilizza per polverizzare il pianeta intero. L’anno successivo alla pubblicazione del capolavoro di Svevo, Karel Čapek, figura fondamentale nella fantascienza della prima metà del novecento (Darko Suvin lo definisce addirittura “lo scrittore di fantascienza in assoluto più significativo tra le due guerre”) prende il secondo di questi personaggi e ci costruisce attorno un intero romanzo tutto giocato sulla soglia della distruzione totale.
Krakatite, tradotto per la prima volta in Italia e presentato da Miraggi in una bella edizione corredata da illustrazioni di gusto futurista che ricordano i poster Agit-Prop di Vladimir Majakovskij, è un’opera dalla forma e dai contenuti complessi. La storia di Prokop, chimico geniale e afflitto da un esaurimento nervoso cronico è un ibrido, instabile come la materia esplosiva che le dà il titolo, di romanzo picaresco, romance, fantascienza e allegoria. La scrittura oscilla tra un distacco denotativo pseudoscientifico, sperimentalismo e lirismo, faticando quasi a star dietro alle avventure senza fine del protagonista. Inventore dell’esplosivo definitivo, capace di liberare l’energia racchiusa nella materia in esplosioni devastanti, e per questo al centro di un intricato complotto internazionale, Prokop agisce in maniera spesso incomprensibile, muovendosi più che altro per spinta di violente passioni amorose che lo lasciano puntualmente in fin di vita. Non a caso, la quarta di copertina definisce Krakatite “il libro dell’amore atomico”, sottolineando come i sentimenti dell’instabile protagonista siano capaci di scatenare detonazioni non meno pericolose di quelle derivate dai prodotti chimici. C’è una probabile nota autobiografica nella centralità dei rapporti amorosi sui quali Čapek indugia ossessivamente. Come nota Alessandro Catalano nella postfazione, infatti, l’autore era all’epoca diviso tra l’amore per due donne diversissime che, unito a dei problemi di salute, gli causò una seria crisi nervosa, chiaramente ravvisabile nella follia inarrestabile del protagonista.
Ma forse né le esplosioni né l’amore sono davvero il centro della narrazione tanto surreale quanto torrenziale di Čapek. La riflessione sul potenziale distruttivo (e auto-distruttivo) dell’umanità, comprese le sue possibili declinazioni sentimentali, infatti, è sempre inserita all’interno di una ben precisa struttura sociopolitica che sembra avere un effetto decisivo sull’evoluzione della storia. Ognuna delle tappe del delirante viaggio sentimentale e chimico di Prokop include anche un ritratto compiuto delle diverse realtà sociali: quella rurale, quasi bucolica, della giovane e ingenua Anči, quella dittatoriale e soffocante della monarchia di Balttin (luogo del più travolgente e doloroso degli amori raccontati nel romanzo) e quella dell’organizzazione rivoluzionaria, dove l’afflato libertario si volge alle possibilità più oscure. In definitiva, Krakatite è un romanzo impossibile da incasellare, che pare sfuggire da tutte le parti e cambiare forma ogni volta che si cerca di etichettarlo. Una storia vulcanica come la caldera dalla quale prende il nome, caotica, che lancia uno sguardo sull’umanità sempre diviso tra la derisione cinica e la compassione dolorosa.
Questo è un libro probabilmente concepito in due lingue, anche se il traduttore (Christian Abel) ha dovuto lavorarci un bel po’, c’è da credere, proprio perché Forlani vive e si esprime appunto a cavallo “tra le lingue”. Ancora: l’alternanza di versi e prosa non ne fa un prosimetro, né una raccolta con qualche poetica prosa. Piuttosto, diresti, un taccuino odeporico, per un viaggio circolare e iterativo, quello dei “penultimi”, mattinieri, SDF (senza fissa dimora), lavoratori vari costretti a prendere i primi metrò all’alba, quando appena “Paris s’éveille”, “I pendolari sui binari / I macellari cogli acciari” ecc. Oggetto integrato con foto dell’autore, a seconda delle sue quotidiane peregrinazioni di prof-pendolare domiciliato a Parigi tra due viali filosofici: “Bd Voltaire e Bd Diderot, a fondare la nazione”. Abbonato quindi alla 6 della metropolitana, direzione Montparnasse e quanto segue. I Penultimi / Pénultièmes, dunque, se qua e là usano del linguaggio misto-transnazionale in cui il poeta saltimbanco Forlani dà il meglio di sé, come nel precedente Parigi, senza passare dal via (Laterza 2013), puntano più spesso su una varietà stilistica fatta di lessico tribale (haute couture, courage, trafic ralenti, c’est l’heure c’est l’heure!…) o familiare o allusivo colto (come, a p. 65, i colori delle vocali), e della semplice malia dei nomi: Montparnasse (e il Parnaso), Ville Lumière, Louise Michel, São Tomé, la stazione Verlaine, la Normandia… in lingua originale nel testo ovviamente. Come, mettiamo: “Ora è una busta di plastica nel suo veleggiare / da un lato all’altro del viale Daumesnil, è presto, / sospinta da un attimo di vento, dalla luce sospesa / e rosa, pareva una medusa tra perduta gente, sola”. Un’osservazione di passata: né biciclette, né monopattini in questo canto di solitudine che si rifiuta a essere degli “ultimi”, o Letzten di rilkiana memoria, anzi come avrebbe detto Derrida dei «sopravvissuti» che forse noi siamo già, qui e ora. Lo sguardo è concentrato, attento a ciò che fa sul serio – e durevolmente – la condizione della “vera gente” di cui l’io poetico non si distingue mai. Senza distinzione, egli porge una sua pietas discreta, pudica, partecipe alle parole, ai “cenni”, ai “sorrisi” dei suoi simili ed è quell’attenzione che lo rende, “pezzo di questo mondo”, presente da un capo all’altro, ancorché non appaia sotto forma grammaticale, che più avanti e sempre con grande parsimonia. Una volta superate tutte le sfumature dell’alterità, che torna identica alfine. I gesti medesimi, a volte, “somigliano ad altro”, in un impersonale assoluto che mescola testi (a rose is still a rose), anonimo “penultimo” qualsiasi, tu proiettato altrove dove non c’è “nessuno di fronte”, salvo l’indifferente natura e un io comunque sia: “tranne me che gli passo accanto”. Si potrebbe invocare qui un mix dei generi, oppure la dissimulazione di un lirismo ben attivo sotto un narrare oggettivo che dà la sua unità all’opera. O infine alogica schiarita, sragionevole beltà fino all’haiku della coperta d’emergenza (di oro colato), viaggio verso una storia alquanto più lunga, fino alle vittime anonime del dramma pompeiano – regione d’origine di Francesco – per esempio: “Così mentre scendo le scale / appena illuminate dalla scritta gialla / mi chiedo quando è stato / che il vulcano ha incendiato i corpi / e ricoperto di cenere ogni grazia”. Si sarà capito ormai, le corde dello scrittore sono multiple e a volte stridenti, se non variegate, in ogni caso plurime entro un insieme coerente e regolato purché il lettore accetti di stare al gioco, in fondo dialogico e intriso di dolcezza. Come nel libro successivo Par delà la forêt. E come si vede dal foglio manoscritto riprodotto a p. 107, se lo si legge con buoni occhiali in corrispondenza del primo testo del libro (numero 5 p. 11 come incipit); mentre il testo n. 1, letto a p. 91, finiva l’opera nella prima stesura. È questa una maniera elegante di ripiegare la fine sul cominciamento, per non finire forse, secondo un’ampia figura di epanadiplosi di cui altri scrittori hanno giocato (T. S. Eliot: «La fine è là onde partiamo»), che potrebbe essere una forma di consolamento, se si vorrà fare lo sforzo di una lettura vera anche delle cose tralasciate: “Così appoggiando l’orecchio a quelle dimenticanze, / quasi ne senti le voci ed il mare”.
Come sanno i lettori di questi pollici, attraverso di essi svolgo un ruolo di indefesso sostenitore dei narratori comparsi a RicercaRE, molti dei quali sono stati anche consacrati dal riporto del Premio Strega, massimo riconoscimento nostrano. Licenziato assieme ai colleghi da Reggio Emilia, ho preteso di trasportare i Penati della nostra impresa a casa mia, a Bologna, dando luogo a RicercaBO, dove le cose nel complesso hanno funzionato abbastanza bene per la poesia, ma questa anche lungo tutto il secolo scorso non ha mai tradito un vigile spirito sperimentale pronto a rinnovarsi per li rami. Più difficili gli esiti per la narrativa, in cui il nuovo secolo non ha ancora rivelato una tendenza dominante. Ma mi sono valso largamente del responso del più audace dei molti premi nazionali per la narrativa, il Calvino, improntato a una formula originale, volto cioè ad accogliere prove inedite di narratori in erba. E il presidente attuale, Mario Ugo Marchetti, che non ringrazierò mai abbastanza per una sua generosa collaborazione, mi segnala ogni volta i casi a parer suo eminenti, meritevoli di essere messi alla prova secondo la formula della lettura per brani, sottoposti subito al responso di un manipolo di addetti ai lavori. Quasi una prova del fuoco in attesa di una pubblicazione che in genere non tarda ad avvenire. Ebbene, l’anno scorso si era presentato a questa selezione Sergio La Chiusa, nei cui confronti, anche se conosciuto attraverso esigui campioni della sua prosa, avevo manifestato un pieno consenso. Ora che il frutto si è concretato in un romanzo compiuto, I Pellicani, confermo il mio consenso, e anzi lo accresco ancor più, dichiarando che questa è opera degna di entrare nella cinquina del prossimo Strega. Oso perfino condurre un confronto con l’appaiata opera di Cavazzoni, giocando sulle opposizioni di cui si nutrono i miei duetti. Se il pur titolato, e nel complesso eccellente scrittore emiliano è imputabile di una certa bulimia, La Chiusa al contrario sarebbe tacciabile di monotonia, che però sa sostenere molto bene, aggirandosi per le stanze di uno spazio chiuso con itinerari, scoperte, sorprese tali da tenere desta la nostra attenzione. All’inizio di tutto c’è il protagonista, pronto a giocare tra la prima e la terza persona, a seconda che i fatti riportati siano collocati in un alone soggettivo o invece in una apparente oggettività. Egli va alla ricerca di un padre sconosciuto, il Pellicani cui è intitolata l’intera vicenda. Il narratore si inoltra titubante in un appartamento che trova aperto, ostentando una valigetta che gli dà una vaga aria professionale e che potrebbe funzionare da lasciapassare. In una stanza interna scopre un vecchio giacente in posizione quasi cadaverica, adagiato in un misero giaciglio, chissà mai se è il padre ricercato, ma i dati fisionomici non sembrano corrispondere, del resto la memoria delle sembianze del genitore è diventata nel figlio del tutto vaga e annebbiata. Di sicuro tra il misero vegliardo e l’intruso si sviluppa uno strano rapporto, di adesione, di comunicazione, o invece di fastidio e di ripugnanza. Questo incerto e stralunato dialogo è interrotto a intervalli regolari da una badante che viene a rigovernare l’anziano, a lavarlo, a imboccarlo, ad avvolgerlo in un pannolone che deve assorbirne le deiezioni. Il visitatore in incognito assiste a quei riti, o tenta di parteciparvi egli stesso, tra la ripugnanza e invece un’intima soddisfazione, quasi avvertisse una singolare attrazione a identificarsi con quell’essere marginale, fino a prenderne il posto. Non mancano però le perlustrazioni nelle stanze adiacenti, che comunque confermano lo squallore di quel sito dalle pareti cadenti e scrostate. Ma nonostante tanto squallore vi compaiono dei visitatori misteriosi, vestiti di irreprensibili abiti scuri, anche loro dotati di valigette molto professionali. In definitiva pure La Chiusa compie un suo omaggio a Kafka, alla pari del vicino che gli ho imposto a forza, ma senza spingersi a fondo. Comunque domina su tutto un sentore di rinchiuso, di afrori, odori, puzze che aleggiano in quell’universo che esclude vie d’uscita e di fuga, impegnando l’autore ad aguzzare l’ingegno per trovare varianti, nuovi casi, nuove combinazioni. Visto che ho fatto un riferimento al Premio Calvino, posso ricordare che da quel serbatoio è giunto a RicercaBO un altro gioiello, di Paolo Marino, poi edito da Mondadori nel 2014, e da me incluso nell’antologia dei pollici appena uscita (per Manni). Ebbene, il titolo di quel romanzo, Strategie per arredare il vuoto, è perfetto per indicare anche il laborioso itinerario cui sottostà il nostro La Chiusa, prigioniero come un insetto in una sorta di recipiente entro le cui pareti è costretto ad aggirarsi senza sosta, e senza trovare vie d’uscita.
“La verità, vi prego, sull’amore” ha scritto W.H. Austen nel suo libro ustionato e appassionato. Ugualmente la verità sulla passione è il tema forte della silloge Cara catastrofedi Felicia Buonomo (Miraggi Edizioni, 2020, pp. 96), intensa, coraggiosa e senza censure, come sottolinea Valerio Di Benedetto nella nota conclusiva. Il pudore più grande riguarda sempre il proprio dolore, che in genere viene sottratto agli sguardi, quasi si trattasse di una colpa. Invece l’autrice appartiene alle grandi anime innocenti che, come Gaspara Stampa, si espongono dolenti per diventare paradigma, segno di pienezza e autentica forza morale, tanto da suscitare l’ammirazione di poeti adoratori del fuoco originario (Rilke, D’Annunzio). Questo amore si configura come assoluta dedizione:
“Il tuo amore dentro, / che mi vede così: / traboccante della tua pena / dentro le mie viscere.”
E con la sacrosanta ammissione: “Copulare è da sempre / il metro della mia bellezza”. Il piacere dunque è un valore perché si sposa con il bene. Un bene prono, inerme e sottomesso. La verità è che l’amore autentico, estremo diventa sempre mendicante e nella gloriosa umiltà che commuove rivela tutta la sua potenza. L’autrice inventa metafore ardite per dirlo, trasmuta le lacrime nell’albero della vita:
“Cerco il tuo cuore caduto, mentre l’albero / della pioggia mi germoglia negli occhi.”
Assume la gioia e la leggerezza, commista a tutto il resto, ma qui incorniciata nel momento più vitale e sorridente:
“Ho aperto l’armadio per fare spazio / ai tuoi sorrisi, li indosso / come abiti leggeri in primavera.”
La sorte le ha elargito un compagno alcolista, dispotico e violento.
“Mi offri in dono una favola, / ha la forma dei miei lividi.” “Sempre confonderai il sadismo e l’amore – dico, / mentre lucido le catene a cui mi costringo.” “Mi ricordi che anche il figlio di Dio / è fatto di carne che sanguina e muore.”
I segni sul collo lasciati dalle sue mani pesanti non vengono occultati nei versi che scorrono con drammatizzazione sofferta, ma pure con misurata eleganza. L’arte è armonia e qui la bellezza si espande, prendendo il cuore del lettore. Perché? Possiamo chiederci, perché restare prigioniera di qualcuno (per un periodo lungo un’eternità) che è incapace di ricambiare non tanto per malvagità calcolata, quanto per impossibilità di vedere? Perché soltanto le situazioni estreme sono verità e la verità è conoscenza:
“E la verità è sempre a posteriori.”
Dopo, certo. Anche nel mito platonico Eros, l’amore nasce dopo che Penìa Povertà, simbolo di tutta la fame del nostro infinito desiderio, si unisce con Poros Espediente che giace ubriaco e incosciente. Il vino ottunde e rende smemorati dei propri abissi. Di tanti abissi Felicia Buonomo si fa carico:
“Quando ti abbraccio non sento / l’amore che non ricevo / ma il disprezzo che non ti dono. / Ti sento precipitare nel pozzo / delle infinite possibilità per cui mi implori. / Implorare è sempre stata la tua costante. / fino a sentirsi morire.”
Conosce fino al fondo del supplizio.
“E a quelli che domandano, io rispondo: / di te mi divora / la fame non appagata.”
Da qui nasce l’ossimoro del titolo di questa raccolta poetica pregevole. La vita intera è duale, una lotta e sintesi di luce e tenebra come intuiva Eraclito. Soltanto le grandi sensibilità sanno raccoglierla nel loro abbraccio. Dopo aver compreso, e percorso un cammino di recupero di sé, l’artista si allontana dal fuoco che ha rischiato di incenerirla, ma le ha pure donato lo sguardo cosmico che è intima compartecipazione a tutte le cose, insieme alla ricchezza del verso:
“Così tu sei per me: / la sensibilità delle foglie / al tocco di un flebile vento, / il bianco del cielo che esplode / di prepotente azzurro.” “Per ricordarmi dei tuoi occhi / di prato e ortensia.”
In Felicia, come recita il suo nome, ora divenuto consapevole benedizione, innanzi tutto per se stessa, il fuoco non si spegne:
“Ti dono il mio commiato alla presenza. / E il benvenuto al mio ardore, / mio per sempre, / a me da sempre.”
C’è nei foulard delle donne in questa alba buia, nella cura dei nodi la timida traccia di un presente senza memoria alcuna della faccia e senza oblio qualcosa di simile al tenue profumo degli alberi all’uscita di casa, ai più nitidi canti degli uccelli.
Istantanee come questa compongono la silloge Penultimi/Pénultièmes di Francesco Forlani, pubblicata in edizione bilingue, con traduzione di Christian Abel, per i tipi di Miraggi (2019). Alle fotografie in versi e in prosa si alternano scatti veri e propri, inframezzati ai testi in modo da creare un contrappunto, quasi una breve eco visiva.
Chi sono i penultimi? Sono «donne delle pulizie», «manovali», «professori», ogni sorta di lavoratore costretto per lavoro a un faticoso pendolarismo; sono clochards e senza tetto, sagome che sfilano nei corridoi delle metropolitane appena aperte, silhouettes sedute o in piedi che l’io lirico scorge accanto a sé e osserva attentamente: è il suo sguardo ad animarle agli occhi del lettore, a renderle tridimensionali.
Negli allers/retours descritti, apparentemente sempre così uguali, esiste una dimensione particolare, intensamente poetica, fatta di albe e folle silenziose, di viaggi con i corpi ancora intorpiditi, in cui l’io si ritrova nitidamente, fatalmente solo con se stesso, riflesso nei volti di chi come lui fa i conti con la vita e con il giorno che incomincia.
Tale dimensione si sviluppa su un doppio binario linguistico. L’autore è infatti docente di italiano in scuole fuori Parigi: il percorso che lo conduce al lavoro è la rappresentazione concreta della perenne oscillazione in cui vive ogni expat, diviso fra lingua madre e lingua d’adozione. Diviso, ma anche arricchito: questa edizione bilingue ne è la prova tangibile e una particolare forma di pendolarismo si offre anche al lettore, che può scegliere se procedere in direzione dell’italiano o del francese, o addirittura sperimentare una fruizione sincopata, spostando lo sguardo da destra a sinistra e leggendo un verso in una lingua e uno nell’altra:
Oggi ai penultimi parevano più nitidi i canti degli uccelli avec ces variations de lumière et le changement des saisons così ad aspettare il convoglio v’erano più dei tanti en tête ou en queue selon leur destin.
Possibilità che di certo non saranno sfuggite all’autore, ipercreativo per natura, plurilingue per vocazione: basti guardare l’«entracte» finale, che mescola anche spagnolo e napoletano, o l’ultimo romanzo Par-delà la forêt : Mon éducation nationale, scritto in francese e apparso a giugno scorso per le edizioni Léo Scheer, in cui Forlani racconta la sua esperienza nel sistema educativo francese.
La traduzione è in sé un esercizio prossemico, una misurazione della distanza che intercorre fra sé e l’altro: qui l’alternanza fra le due lingue diventa forma e senso del pendolarismo, di questo spostamento fisico che si trasforma in un espatrio reiterato quotidianamente. Ed è il ritorno verso l’italiano, insegnato in scuole oltre i confini della regione parigina, a farsi per l’autore strumento di conoscenza dell’altrove.
In che modo il binario francese – posto graficamente a sinistra, laddove nelle edizioni bilingui sta normalmente il testo di partenza e non quello d’arrivo – potenzia le possibilità di lettura? Perfezionando occasionali rime più semplici da creare in francese che in italiano, ad esempio; inserendo in un incipit epistolare il segmento «il faut que je vous dise», che a molti richiamerà il testo di Le déserteur di Boris Vian; o trasformando un vento imprecisato in bise, fredda corrente nordorientale dalle sonorità già rimbaldiane e verlainiane:
Mes chers pénultièmes, il faut que je vous dise comment à certains endroits de la rue en cette heure il semble que la bise susurre les secrets qui sortent des portails : La Ville Lumière expose des tableaux vivants à la morsure du froid entre les grilles d’où s’échappent des bouffées de nuages blancs.
Cari penultimi vi devo raccontare di come per tratti di strada a quest’ora che perfino il vento pare sussurrare cose dai portoni delle case la Ville Lumière espone dei tableaux vivants nella morsa del freddo e tra le grate che sbuffano nuvole di fumo bianco.
La sagoma di Rimbaud fa capolino a più riprese in questa raccolta, come l’angelo «in mano a un barbiere» dell’Orazione della sera, certo più provocatoria, ma non lontanissima dall’«orazione/alle stelle ormai scappate via» dei matti raccontati da Forlani; difatti ecco apparire, nel componimento immediatamente successivo, le celebri voyelles, sparpagliate su un muro di Parigi.
I matti vanno a infoltire le schiere dei penultimi, coloro che, come chiarisce Biagio Cepollaro nella nota critica, «possono ancora concepire la speranza del cambiamento». È a loro che il volume è esplicitamente dedicato nell’ultimo “interstizio”, «perché fino a quando ci saranno i penultimi questo vorrà dire che c’è ancora margine per l’umanità, che non siamo giunti alla fine del viaggio, al termine della notte», scrive l’autore. In questa riflessione ampia, stratificata, in cui il discorso di casta più che di classe riveste certo un ruolo fondamentale – sottolinea ancora Cepollaro -, si fanno strada in modo sotterraneo venature squisitamente autobiografiche, considerazioni maturate nel riflesso di un finestrino, come in uno dei più bei frammenti in prosa del volume:
Nelle storie d’amore ho a volte come l’impressione che tutta la propria storia, le proprie storie d’amore, non siano altro che il tentativo di forgiare le armi che in quella prima grande storia avrebbero potuto salvarci dalla disfatta. E accade che anno dopo anno tanto più l’esperienza accresce la consapevolezza della propria invincibilità quanto più si sa con estrema lucidità che non ci sarà mai più nessun nemico ad affrontarci in campo aperto.
Molteplici possibili letture si offrono a chi si accosta ai Penultimi, figure-chiave del contemporaneo, esseri angelicati atti a provocare quel risveglio necessario auspicato dall’autore in chiusura di volume.
Accade talvolta ai penultimi nel dormiveglia di intravedere cose, smettere di ragionare e lasciarsi portare dalle cose stesse per strade impraticate e smesse. Ora è una busta di plastica nel suo veleggiare da un lato all’altro del viale Daumesnil, è presto, sospinta da un attimo di vento, dalla luce sospesa e rosa, pareva una medusa tra perduta gente, sola, assistere come me discreto, al florilegio di luci verdi e rosse, e gialle intermittenti a tratti sull’asfalto del crocevia e impartivano ordini come marescialli d’antan a un’armata di disertori, a soldatesche assenti. Nei comandi di luce dei semafori piegati ad arco sulle strade vuote risuonavano i principi e la carta dei diritti umani urlati a una città deserta.
Se esiste l’opinione che vede la poesia come espressione immediata e anarchica dell’impulso, del sentimento o, dal lato opposto, come codice avulso dall’esperienza comune, geroglifico di un mondo precluso a molti, un libro comeCara catastrofe le fa incrinare entrambe. Nella sua opera prima (per quanto concerne la poesia, essendo giornalista) Felicia Buonomo affronta un tema di scottante attualità ed un grumo di dolore pulsante, l’esperienza dolorosa del rapporto d’amore disfunzionale, asimmetrico, connotato di violenza. Lo fa con strumenti precisi, mai banali, quasi “chirurgici”, sia nell’aprire e mostrare le ferite che queste relazioni producono, sia, a livello formale, nel ricorrere ad una lingua aderente al suo oggetto, ma al tempo stesso evocativa, non meramente mimetica.
Il fenomeno è presente, in modo sempre più drammatico, nella vita di molti e nella cronaca quotidiana, e a questa urgenza di verità e di denuncia l’autrice non si sottrae. Potremmo anzi dire che va oltre: nell’opera il tema assurge a paradigma dell’incomunicabilità o della distorta comunicazione di un’umanità fragile, spingendo il livello della riflessione ad un orizzonte più generale: “Aggrappata ai fragili rami delle mie paure, nelle intemperie del tuo vento, ti guardo oltre il fiume. Ci separano secoli di distanze, poggiati su una bilancia traboccante di tristezza”.
Ogni incontro che facciamo nel corso della vita racchiude infinite potenzialità: l’altro, come dice Natalia Ginzburg nel racconto I rapporti umani (da Le piccole virtù), “possiede una infinità facoltà di farci tutto il male e tutto il bene”. Il momento in cui si decide la direzione che quell’incontro intraprenderà non è unico e fulmineo, ma la sommatoria di situazioni che ci rendono quelli che siamo. Ed è cruciale, per ogni relazione umana: “Il mio errore è stato credere a una mano che si congiunge all’altra in preghiera supplicando l’amore, il mio. Il mio errore è stato credere all’uomo”.
La materia della poesia scaturisce dall’acquisizione, da parte dell’autrice, di molte testimonianze, in varie parti del mondo. Vissuti complessi a cui lei dà voce, con un alto grado di empatia, ma anche con la lucidità di chi sa scandagliare, senza sconti e senza perifrasi, le pieghe della psiche e i suoi movimenti talvolta contraddittori, come indica la scelta del titolo e l’appellativo ossimorico di “cara catastrofe”, attribuito a quel rapporto che è gabbia e palliativo insieme, schiavitù e sicurezza.
L’autrice ci conduce così nella sofferta via crucis di un rapporto che si trasforma in violenza, dipingendone i sintomi sul corpo di chi ama: “Ti ho trovato nelle pieghe delle mie clavicole, / parte visibile di un corpo smunto dalla tristezza. / Ero stesa sulle mie paure, /con gli occhi aperti al dolore / e le braccia molli della resa”. Sono segni descritti nella loro evidenza visiva, ma che rimandano ad una dimensione più profonda: “Non è il tocco livido a fare male,/ ma il ricordo del suo alone. / Dormiamo insieme ogni notte, / ma è nella crepa che dovrai recuperarmi. / Fai piano, che anche la luce è dolore, /dopo la culla di un buio così violento”. Le parole si fanno sempre più taglienti e se ne avverte tutto il peso: “Ho un battito di polso fragile / per ogni percossa taciuta”.
La stessa lucidità ispira la descrizione di chi perpetra la violenza: “Anche l’ultima volta che mi hai amata avevi gli occhi rossi della rabbia e le mani forti che premevano sulla carne debole. Ho pronunciato il tuo nome per dirti addio con l’afonia della paura, lo sguardo di un cervo abbagliato dai fari. I segni rossi sul collo sono l’ultimo ricordo che ho di me”.
Ciò che viene subìto diventa marchio che segna a fuoco e attorno a cui si struttura l’identità di chi lo ha vissuto, in un giogo-circolo vizioso difficile da spezzare: “sempre confonderai il sadismo e l’amore / – dico, mentre lucido le catene a cui mi costringo”. E’ scattata la dipendenza, l’impossibilità di pensarsi in una dimensione diversa: ”E ora che nemmeno l’idea di te mi fa compagnia / mi sento orfana di desideri che non ho”. La violenza si consuma nel silenzio di case che non comunicano, di una società sorda, anestetizzata: ”I vicini di casa hanno sentito il mio dolore / e – come tutti – lo hanno ignorato. / Non so nulla delle pareti delle loro case”.
Spezzare le catene, però, non solo è possibile, ma salvifico. La voce che parla in questi versi ci fa intuire un percorso di aiuto, una persona che tende una mano, nonostante la ritrosia della vittima: ”Ho detto a Jessica / che quel test di valutazione del rischio ha una falla. / E che il modo in cui accarezzo / il mio martirio / è la prova dell’errore. / Non si può portare una donna fuori dalla sua colpa”. Il primo passo è prendere coscienza, guardarsi dentro e vedere anche lati di se stessi che il dolore rivela: “Il mio sguardo su di te era un punto di sutura, / su ferite che non sapevo di avere. / Che fanno male, ora”.
Recidere il legame significa dare un nome alle cose e indossare abiti nuovi, sotto una carne che non dimenticherà le sue ferite: “Indosserò / un abito di ferro colorato, / lacrime di ruggine / e carezze solide, / per svanire nel miraggio / che ci tiene stretti / a una falsa idea di felicità”.
Alcune poesie
Da quando ti ho incontrato
la mia vita
procede per sottrazione.
Mi hai portato via
l’amore per l’amore,
la fiducia verso la parola,
la complicità di un abbraccio.
E anche questi immeritati versi
aggiungono alla tua vita
la bellezza di cui mi privi.
Ora mi vendo a buon mercato
nella piazza della tua rivoluzione.
Mi conto come unica ferita.
*
Oggi ho preso ad amarmi come fai tu:
con la ferocia del disgusto
come un insulto figlio dell’alterazione
un cucciolo rinnegato
il difetto gettato dalla rupe.
Nei secoli dei secoli. Amen.
*
Mi domandi cosa sia la colpa,
se non questo incedere verso l’abisso
delle cose certe e ignorate.
Hai lo sguardo di chi vince la guerra
del dominio interiore,
io di chi partorisce invidia di viscere.
Mi stendo sul letto della sconfitta,
guardo il soffitto delle parole scritte per te.
Mi dici che alzare gli occhi al cielo,
movimento di collo, diventa peso di spalle.
Non è la stessa direzione quella che conta, per te.
*
Mi sei venuto dentro per rendere
gravida la mia dipendenza. Perché la paura
diventi figlia del nostro amore.
La porto in grembo
con la colpa di una madre degenere,
che mantiene in vita la sua creatura
nutrendosi delle tue bastonate,
che mi fanno il male che merito.
*
Ti devo il tormento di una tempesta,
una rosa inchiodata al muro,
il tintinnare di parole taglienti,
la solitudine della mia tristezza mentre ti guardo
e ti domando della bellezza dei fiori.
Vorrei sapere dove cercarti
quando un giorno prenderò quel treno
per non tornare.
Tre domande a Felicia Buonomo
D: L’equilibrio dei toni e delle scelte lessicali, nella tua poesia, quasi contrasta con l’incandescenza dei temi. Quali riflessioni e quali scelte hai fatto, dal punto di vista linguistico, durante la scrittura?
R: Proprio per l’incandescenza dei temi che ho deciso di affrontare in versi in questo mio lavoro poetico, ho voluto ancora più concentrarmi sull’essenza delle cose, come ci ricorda Marina Cvetaeva – che ha contribuito fortemente alla mia formazione letteraria. La poetessa russa sosteneva: «Come posso io poeta, persona dell’essenza delle cose, farmi sedurre dalla forma? Io sono sedotta dall’essenza, la forma arriverà e arriva. Io sono sedotta dall’essenza e poi incarno. Ecco il poeta». E la forma di fatti arriva, ma senza incanalarsi nella dicotomia serrata tra significato e significante. La poesia che amo è la parola che ti aspetti, che evita di girare intorno. Ma – come dicevamo – non si è solo poeti, la poesia la si fa. Come scrive la poetessa Isabella Leardini in “Domare il drago” il lavoro che fanno i poeti è di «scegliere un’immagine e non un’altra, rinunciare a una parola perché un’altra abbia più peso». Il movimento, il ritmo linguistico di questo mio tentativo di poesia segue questa sequenza: essenza-immagine (poetica)-parola-scelta/sostituzione. Scegliere parole, in parte anche abusate, come “tristezza”, “dolore”, “tormento”, “massacro” all’interno dei miei testi rappresenta una scelta di precisione rispetto ai temi affrontati, che ruotano intorno alla semantica dei sentimenti di colpa e punizione, in quel rapporto vittima-carnefice che tento di narrare al lettore. Non potrei mai usare, in poesia, parole che “normalmente” non userei, sarebbe violare la mia scelta di onestà. Il lettore attento lo percepisce quando sei stato disonesto.
D: Quanto della tua esperienza di giornalista è confluito nella stesura di questo lavoro?
R:La mia esperienza di giornalista è stata il punto di partenza. Nella seconda sezione della raccolta, in particolare, vesto i panni della testimone, traslando in versi alcuni universi di violenza e dolore di donne che ho incontrato, in alcuni casi direttamente, altri per interposta persona, nella mia professione di giornalista. Mischiando personalismi rispetto al modo in cui si può entrare, empaticamente, in contatto con alcuni moti interiori. Ho da sempre un’ossessione tematica, ovvero i rapporti umani disfunzionali, fatti di mancanza di cura, malattia, disperazione, solitudine. Nella mia professione di giornalista, anche narrativa, racconto storie, entro nella vita delle persone. L’Altro è un concetto fondante per me. È per questo che lo “racconto”.
D: Perché questo titolo?
R: “Cara catastrofe” è il titolo di una canzone di Vasco Brondi, artista musicale che amo molto (e che cito anche in esergo). Credo che incarni in pieno l’universo emotivo che tento di raccontare con questi versi: una catastrofe che arriva improvvisa, improvvisa perché nasce da un’idea di perfezione a cui il carnefice ci abitua nella fase iniziale del rapporto, e che finisce col diventarci indispensabile, cara, anche quando la perfezione diventa violenza e abuso emotivo e/o fisico. La “contropartita” della violenza è la dipendenza affettiva, in molto casi. Non capire quanto alla persona abusata possa diventare cara questa catastrofe, significa giudicarla. Non a caso ho dedicato molti dei miei versi al concetto della colpa, sentimento provato non dal carnefice ma dalla vittima. Comprendere quanto cara arrivi a diventare la catastrofe di una violenza spero posso aiutare a superare uno dei tanti stereotipi che ruotano attorno a questo macro-tema.
In uno stato che non trova coordinate reali, in un tempo indeterminato della seconda metà del Novecento, una dittatura di stampo religioso sta prendendo sempre più piede. La piccola Mona racconta al suo bue Mun dei morti inquieti che cadono lontano da casa. A salvarli ci sono i trasportatori, che con la loro magia conducono i cadaveri ai villaggi cui appartengono. La stessa storia Mona adulta, ormai donna matura, la racconterà nell’ospedale in cui presta servizio come infermiera a un suo paziente, Adam, un ragazzo tornato da poco dalla guerra con un’infezione che i medici cercano di fermare amputandogli sempre più una gamba. Bianca Bellová sviluppa nella sua scrittura evocativa e densa un romanzo che si dirama in tre linee narrative: la cornice dell’ospedale e i ricordi di Mona e del giovane soldato. Mona racconta il suo passato, Adam sogna il proprio e, in questo scavo nel tempo, i due personaggi si innamorano. Mona è un romanzo breve e potentissimo che ci ricorda che la letteratura è prima di tutto magia che salva le anime inquiete. La sua autrice, Bianca Bellová, è una tra le più importanti scrittrici della narrativa ceca contemporanea, vincitrice con il suo romanzo precedente, Il lago, del Premio Unione Europea per la Letteratura e di quello nazionale Magnesia Litera. In Italia è pubblicata da Miraggi, per la collana NovaVlná, nella splendida traduzione di Laura Angeloni.
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