Negli anni 90 Seattle non era poi così lontana da Torino: questa è l’impressione che si ha al termine della lettura dell’ultimo libro di Domenico Mungo che si è occupato in più occasioni di musica, sia sulle pagine della rivista Rumore, sia in vari racconti. Il sottotitolo di With Love è Epifanie di Kurt Cobain e di me nella Torino sociale e musicale degli anni Novanta, e rende l’idea dello sviluppo del volume: il racconto degli inizi e dell’ascesa dei Nirvana a partire dagli ultimi anni 80, con una particolare attenzione verso i concerti e le apparizioni del gruppo in Europa, con digressioni sulla scena musicale rock/punk torinese e aneddoti autobiografici sullo sfondo della trasformazione di Torino in città postindustriale. Il leader dei Nirvana viene presentato da Mungo come colui che ha resuscitato il rock che a cavallo tra i decenni 80 e 90 era se non morto, moribondo; e il suo suicidio viene accostato, per rimanere a Torino, a quello di Pavese e non alle morti del “club dei 27”. Lo stile di scrittura è scorrevole, in totale sintonia con il racconto.
Pino alla soglia dei 40 anni è in momento di grande crisi, “un vuoto cosmico “. Rimasto senza lavoro, abbandonata dalla compagna, abbandonato il percorso terapeutico intrapreso , senza amici e dipendente da alcol e marijuana. Dall’Abruzzo a Torino per lavoro e con una ferita ancora aperta lasciata dal suo primo e grande amore da cui è stato tradito.È un percorso faticoso il suo, tra momenti di lucidità razionale, che lo portano a pensare di essere forte ed in grado di superare le difficoltà soprattutto la dipendenza e momenti in cui tra i fumi dell’erba e dell’alcol si perde in solitario sgomento. Capta per caso un discorso : “ho smesso per sempre di fumare quando sono tornato dove ho cominciato la prima volta “ , e con questo pensiero che frulla nella sua testa , come un messaggio mandato a lui, si fa forza.In un percorso difficile ognuno ha i suoi tempi e la razionalità non basta. Pino se lo ripete come un mantra, “ devo cambiare a cominciare da quello che mangio “, ma continua a bere e fumare, tentando qualche goffo approccio con qualche donna, storie che non durano, sesso e non sempre, senza neanche affetto. Ha un amico con cui si confida un omino dei Lego (i mattoncini colorati) , con lui sì ,a volte se lo porta in tasca, e con lui, parte per ritornare al punto in cui ha iniziato a fumare. Amsterdam, e in quei tre giorni che trascorre lì non si fa mancare niente, pensando che sarà l’ultima volta. Tre giorni in preda ad annebbiamenti, visioni e sbandamento. Per poi fare ritorno a Torino. Un fatto di cronaca successo al suo paese d’origine ad una compagna di liceo, pare per mano dell’uomo con cui è stato tradito dalla sua prima fidanzata, minano il precario equilibrio in cui si trova. Forse anche per sanare la ferita d’amore bisogna tornare dove è iniziata? Si sente pronto e parte verso il suo paese d’origine, quello stesso dove si dice essere nato Ponzio Pilato. Lì c’è la sua famiglia e c’è Isabella la donna che non ha mai dimenticato.Isabella sembra che lo aspetti e gli porge le braccia. Pino è di nuovo preda della razionalità e dell’istinto, senza alcol e erba questa volta. Potrà un lavaggio di mani essere salvifico in una situazione che non è quella che aveva immaginato? Potrà guarire la sua ferita d’amore? Un libro che lascia spazio a riflessioni, a fare i propri conti, ad interrogarsi con quello che ci manca ( ognuno il suo) È scritto in seconda persona, come ci fosse un occhio sempre attento su Pino, un libro pieno di sorprese che a volte lasciano col fiato un po’ sospeso. Una lettura interessante e scorrevole.
I lampi illuminavano l’orizzonte con ampie fiammate gialle, ma la tempesta salvifica non si era ancora scatenata…
Krakatite, Karel Čapek, Miraggi, traduzione di Angela Alessandri, postfazione di Alessandro Catalano. Distopico, fantascientifico, profetico, soprattutto per quel che concerne i rischi e i pericoli della disumanizzazione del progresso scientifico quando troppo stretto si fa il connubio con una visione utilitaristica e intrecciata al mero profitto, il romanzo, ispiratore di due film, il primo dei quali fu definito nell’immediato secondo dopoguerra, per la precisione nel millenovecentocinquantuno, appena uscito negli USA, tre anni dopo il debutto in patria, dal New York Times anche come un’orazione stridente per la pace, che ha novantasei anni ed è più attuale che mai, dello scrittore, giornalista e drammaturgo ceco, narra la storia di un dottore che possiede la formula per il più deflagrante di tutti gli esplosivi, ma non quella per la pace o la felicità, e… Imperdibile.
Credo che tutti noi negli anni della scuola abbiamo avuto prima o poi occasione di ascoltare l’imprescindibile lezione sul finale de La coscienza di Zeno, in cui il nevrotico protagonista immagina un individuo ancora più nevrotico che inventa un ordigno esplosivo dalla potenza distruttiva inimmaginabile e un terzo individuo (forse più nevrotico degli altri due, forse tutto sommato più saggio nella misantropia radicale) che lo utilizza per polverizzare il pianeta intero. L’anno successivo alla pubblicazione del capolavoro di Svevo, Karel Čapek, figura fondamentale nella fantascienza della prima metà del novecento (Darko Suvin lo definisce addirittura “lo scrittore di fantascienza in assoluto più significativo tra le due guerre”) prende il secondo di questi personaggi e ci costruisce attorno un intero romanzo tutto giocato sulla soglia della distruzione totale.
Krakatite, tradotto per la prima volta in Italia e presentato da Miraggi in una bella edizione corredata da illustrazioni di gusto futurista che ricordano i poster Agit-Prop di Vladimir Majakovskij, è un’opera dalla forma e dai contenuti complessi. La storia di Prokop, chimico geniale e afflitto da un esaurimento nervoso cronico è un ibrido, instabile come la materia esplosiva che le dà il titolo, di romanzo picaresco, romance, fantascienza e allegoria. La scrittura oscilla tra un distacco denotativo pseudoscientifico, sperimentalismo e lirismo, faticando quasi a star dietro alle avventure senza fine del protagonista. Inventore dell’esplosivo definitivo, capace di liberare l’energia racchiusa nella materia in esplosioni devastanti, e per questo al centro di un intricato complotto internazionale, Prokop agisce in maniera spesso incomprensibile, muovendosi più che altro per spinta di violente passioni amorose che lo lasciano puntualmente in fin di vita. Non a caso, la quarta di copertina definisce Krakatite “il libro dell’amore atomico”, sottolineando come i sentimenti dell’instabile protagonista siano capaci di scatenare detonazioni non meno pericolose di quelle derivate dai prodotti chimici. C’è una probabile nota autobiografica nella centralità dei rapporti amorosi sui quali Čapek indugia ossessivamente. Come nota Alessandro Catalano nella postfazione, infatti, l’autore era all’epoca diviso tra l’amore per due donne diversissime che, unito a dei problemi di salute, gli causò una seria crisi nervosa, chiaramente ravvisabile nella follia inarrestabile del protagonista.
Ma forse né le esplosioni né l’amore sono davvero il centro della narrazione tanto surreale quanto torrenziale di Čapek. La riflessione sul potenziale distruttivo (e auto-distruttivo) dell’umanità, comprese le sue possibili declinazioni sentimentali, infatti, è sempre inserita all’interno di una ben precisa struttura sociopolitica che sembra avere un effetto decisivo sull’evoluzione della storia. Ognuna delle tappe del delirante viaggio sentimentale e chimico di Prokop include anche un ritratto compiuto delle diverse realtà sociali: quella rurale, quasi bucolica, della giovane e ingenua Anči, quella dittatoriale e soffocante della monarchia di Balttin (luogo del più travolgente e doloroso degli amori raccontati nel romanzo) e quella dell’organizzazione rivoluzionaria, dove l’afflato libertario si volge alle possibilità più oscure. In definitiva, Krakatite è un romanzo impossibile da incasellare, che pare sfuggire da tutte le parti e cambiare forma ogni volta che si cerca di etichettarlo. Una storia vulcanica come la caldera dalla quale prende il nome, caotica, che lancia uno sguardo sull’umanità sempre diviso tra la derisione cinica e la compassione dolorosa.
Questo è un libro probabilmente concepito in due lingue, anche se il traduttore (Christian Abel) ha dovuto lavorarci un bel po’, c’è da credere, proprio perché Forlani vive e si esprime appunto a cavallo “tra le lingue”. Ancora: l’alternanza di versi e prosa non ne fa un prosimetro, né una raccolta con qualche poetica prosa. Piuttosto, diresti, un taccuino odeporico, per un viaggio circolare e iterativo, quello dei “penultimi”, mattinieri, SDF (senza fissa dimora), lavoratori vari costretti a prendere i primi metrò all’alba, quando appena “Paris s’éveille”, “I pendolari sui binari / I macellari cogli acciari” ecc. Oggetto integrato con foto dell’autore, a seconda delle sue quotidiane peregrinazioni di prof-pendolare domiciliato a Parigi tra due viali filosofici: “Bd Voltaire e Bd Diderot, a fondare la nazione”. Abbonato quindi alla 6 della metropolitana, direzione Montparnasse e quanto segue. I Penultimi / Pénultièmes, dunque, se qua e là usano del linguaggio misto-transnazionale in cui il poeta saltimbanco Forlani dà il meglio di sé, come nel precedente Parigi, senza passare dal via (Laterza 2013), puntano più spesso su una varietà stilistica fatta di lessico tribale (haute couture, courage, trafic ralenti, c’est l’heure c’est l’heure!…) o familiare o allusivo colto (come, a p. 65, i colori delle vocali), e della semplice malia dei nomi: Montparnasse (e il Parnaso), Ville Lumière, Louise Michel, São Tomé, la stazione Verlaine, la Normandia… in lingua originale nel testo ovviamente. Come, mettiamo: “Ora è una busta di plastica nel suo veleggiare / da un lato all’altro del viale Daumesnil, è presto, / sospinta da un attimo di vento, dalla luce sospesa / e rosa, pareva una medusa tra perduta gente, sola”. Un’osservazione di passata: né biciclette, né monopattini in questo canto di solitudine che si rifiuta a essere degli “ultimi”, o Letzten di rilkiana memoria, anzi come avrebbe detto Derrida dei «sopravvissuti» che forse noi siamo già, qui e ora. Lo sguardo è concentrato, attento a ciò che fa sul serio – e durevolmente – la condizione della “vera gente” di cui l’io poetico non si distingue mai. Senza distinzione, egli porge una sua pietas discreta, pudica, partecipe alle parole, ai “cenni”, ai “sorrisi” dei suoi simili ed è quell’attenzione che lo rende, “pezzo di questo mondo”, presente da un capo all’altro, ancorché non appaia sotto forma grammaticale, che più avanti e sempre con grande parsimonia. Una volta superate tutte le sfumature dell’alterità, che torna identica alfine. I gesti medesimi, a volte, “somigliano ad altro”, in un impersonale assoluto che mescola testi (a rose is still a rose), anonimo “penultimo” qualsiasi, tu proiettato altrove dove non c’è “nessuno di fronte”, salvo l’indifferente natura e un io comunque sia: “tranne me che gli passo accanto”. Si potrebbe invocare qui un mix dei generi, oppure la dissimulazione di un lirismo ben attivo sotto un narrare oggettivo che dà la sua unità all’opera. O infine alogica schiarita, sragionevole beltà fino all’haiku della coperta d’emergenza (di oro colato), viaggio verso una storia alquanto più lunga, fino alle vittime anonime del dramma pompeiano – regione d’origine di Francesco – per esempio: “Così mentre scendo le scale / appena illuminate dalla scritta gialla / mi chiedo quando è stato / che il vulcano ha incendiato i corpi / e ricoperto di cenere ogni grazia”. Si sarà capito ormai, le corde dello scrittore sono multiple e a volte stridenti, se non variegate, in ogni caso plurime entro un insieme coerente e regolato purché il lettore accetti di stare al gioco, in fondo dialogico e intriso di dolcezza. Come nel libro successivo Par delà la forêt. E come si vede dal foglio manoscritto riprodotto a p. 107, se lo si legge con buoni occhiali in corrispondenza del primo testo del libro (numero 5 p. 11 come incipit); mentre il testo n. 1, letto a p. 91, finiva l’opera nella prima stesura. È questa una maniera elegante di ripiegare la fine sul cominciamento, per non finire forse, secondo un’ampia figura di epanadiplosi di cui altri scrittori hanno giocato (T. S. Eliot: «La fine è là onde partiamo»), che potrebbe essere una forma di consolamento, se si vorrà fare lo sforzo di una lettura vera anche delle cose tralasciate: “Così appoggiando l’orecchio a quelle dimenticanze, / quasi ne senti le voci ed il mare”.
Come sanno i lettori di questi pollici, attraverso di essi svolgo un ruolo di indefesso sostenitore dei narratori comparsi a RicercaRE, molti dei quali sono stati anche consacrati dal riporto del Premio Strega, massimo riconoscimento nostrano. Licenziato assieme ai colleghi da Reggio Emilia, ho preteso di trasportare i Penati della nostra impresa a casa mia, a Bologna, dando luogo a RicercaBO, dove le cose nel complesso hanno funzionato abbastanza bene per la poesia, ma questa anche lungo tutto il secolo scorso non ha mai tradito un vigile spirito sperimentale pronto a rinnovarsi per li rami. Più difficili gli esiti per la narrativa, in cui il nuovo secolo non ha ancora rivelato una tendenza dominante. Ma mi sono valso largamente del responso del più audace dei molti premi nazionali per la narrativa, il Calvino, improntato a una formula originale, volto cioè ad accogliere prove inedite di narratori in erba. E il presidente attuale, Mario Ugo Marchetti, che non ringrazierò mai abbastanza per una sua generosa collaborazione, mi segnala ogni volta i casi a parer suo eminenti, meritevoli di essere messi alla prova secondo la formula della lettura per brani, sottoposti subito al responso di un manipolo di addetti ai lavori. Quasi una prova del fuoco in attesa di una pubblicazione che in genere non tarda ad avvenire. Ebbene, l’anno scorso si era presentato a questa selezione Sergio La Chiusa, nei cui confronti, anche se conosciuto attraverso esigui campioni della sua prosa, avevo manifestato un pieno consenso. Ora che il frutto si è concretato in un romanzo compiuto, I Pellicani, confermo il mio consenso, e anzi lo accresco ancor più, dichiarando che questa è opera degna di entrare nella cinquina del prossimo Strega. Oso perfino condurre un confronto con l’appaiata opera di Cavazzoni, giocando sulle opposizioni di cui si nutrono i miei duetti. Se il pur titolato, e nel complesso eccellente scrittore emiliano è imputabile di una certa bulimia, La Chiusa al contrario sarebbe tacciabile di monotonia, che però sa sostenere molto bene, aggirandosi per le stanze di uno spazio chiuso con itinerari, scoperte, sorprese tali da tenere desta la nostra attenzione. All’inizio di tutto c’è il protagonista, pronto a giocare tra la prima e la terza persona, a seconda che i fatti riportati siano collocati in un alone soggettivo o invece in una apparente oggettività. Egli va alla ricerca di un padre sconosciuto, il Pellicani cui è intitolata l’intera vicenda. Il narratore si inoltra titubante in un appartamento che trova aperto, ostentando una valigetta che gli dà una vaga aria professionale e che potrebbe funzionare da lasciapassare. In una stanza interna scopre un vecchio giacente in posizione quasi cadaverica, adagiato in un misero giaciglio, chissà mai se è il padre ricercato, ma i dati fisionomici non sembrano corrispondere, del resto la memoria delle sembianze del genitore è diventata nel figlio del tutto vaga e annebbiata. Di sicuro tra il misero vegliardo e l’intruso si sviluppa uno strano rapporto, di adesione, di comunicazione, o invece di fastidio e di ripugnanza. Questo incerto e stralunato dialogo è interrotto a intervalli regolari da una badante che viene a rigovernare l’anziano, a lavarlo, a imboccarlo, ad avvolgerlo in un pannolone che deve assorbirne le deiezioni. Il visitatore in incognito assiste a quei riti, o tenta di parteciparvi egli stesso, tra la ripugnanza e invece un’intima soddisfazione, quasi avvertisse una singolare attrazione a identificarsi con quell’essere marginale, fino a prenderne il posto. Non mancano però le perlustrazioni nelle stanze adiacenti, che comunque confermano lo squallore di quel sito dalle pareti cadenti e scrostate. Ma nonostante tanto squallore vi compaiono dei visitatori misteriosi, vestiti di irreprensibili abiti scuri, anche loro dotati di valigette molto professionali. In definitiva pure La Chiusa compie un suo omaggio a Kafka, alla pari del vicino che gli ho imposto a forza, ma senza spingersi a fondo. Comunque domina su tutto un sentore di rinchiuso, di afrori, odori, puzze che aleggiano in quell’universo che esclude vie d’uscita e di fuga, impegnando l’autore ad aguzzare l’ingegno per trovare varianti, nuovi casi, nuove combinazioni. Visto che ho fatto un riferimento al Premio Calvino, posso ricordare che da quel serbatoio è giunto a RicercaBO un altro gioiello, di Paolo Marino, poi edito da Mondadori nel 2014, e da me incluso nell’antologia dei pollici appena uscita (per Manni). Ebbene, il titolo di quel romanzo, Strategie per arredare il vuoto, è perfetto per indicare anche il laborioso itinerario cui sottostà il nostro La Chiusa, prigioniero come un insetto in una sorta di recipiente entro le cui pareti è costretto ad aggirarsi senza sosta, e senza trovare vie d’uscita.
“La verità, vi prego, sull’amore” ha scritto W.H. Austen nel suo libro ustionato e appassionato. Ugualmente la verità sulla passione è il tema forte della silloge Cara catastrofedi Felicia Buonomo (Miraggi Edizioni, 2020, pp. 96), intensa, coraggiosa e senza censure, come sottolinea Valerio Di Benedetto nella nota conclusiva. Il pudore più grande riguarda sempre il proprio dolore, che in genere viene sottratto agli sguardi, quasi si trattasse di una colpa. Invece l’autrice appartiene alle grandi anime innocenti che, come Gaspara Stampa, si espongono dolenti per diventare paradigma, segno di pienezza e autentica forza morale, tanto da suscitare l’ammirazione di poeti adoratori del fuoco originario (Rilke, D’Annunzio). Questo amore si configura come assoluta dedizione:
“Il tuo amore dentro, / che mi vede così: / traboccante della tua pena / dentro le mie viscere.”
E con la sacrosanta ammissione: “Copulare è da sempre / il metro della mia bellezza”. Il piacere dunque è un valore perché si sposa con il bene. Un bene prono, inerme e sottomesso. La verità è che l’amore autentico, estremo diventa sempre mendicante e nella gloriosa umiltà che commuove rivela tutta la sua potenza. L’autrice inventa metafore ardite per dirlo, trasmuta le lacrime nell’albero della vita:
“Cerco il tuo cuore caduto, mentre l’albero / della pioggia mi germoglia negli occhi.”
Assume la gioia e la leggerezza, commista a tutto il resto, ma qui incorniciata nel momento più vitale e sorridente:
“Ho aperto l’armadio per fare spazio / ai tuoi sorrisi, li indosso / come abiti leggeri in primavera.”
La sorte le ha elargito un compagno alcolista, dispotico e violento.
“Mi offri in dono una favola, / ha la forma dei miei lividi.” “Sempre confonderai il sadismo e l’amore – dico, / mentre lucido le catene a cui mi costringo.” “Mi ricordi che anche il figlio di Dio / è fatto di carne che sanguina e muore.”
I segni sul collo lasciati dalle sue mani pesanti non vengono occultati nei versi che scorrono con drammatizzazione sofferta, ma pure con misurata eleganza. L’arte è armonia e qui la bellezza si espande, prendendo il cuore del lettore. Perché? Possiamo chiederci, perché restare prigioniera di qualcuno (per un periodo lungo un’eternità) che è incapace di ricambiare non tanto per malvagità calcolata, quanto per impossibilità di vedere? Perché soltanto le situazioni estreme sono verità e la verità è conoscenza:
“E la verità è sempre a posteriori.”
Dopo, certo. Anche nel mito platonico Eros, l’amore nasce dopo che Penìa Povertà, simbolo di tutta la fame del nostro infinito desiderio, si unisce con Poros Espediente che giace ubriaco e incosciente. Il vino ottunde e rende smemorati dei propri abissi. Di tanti abissi Felicia Buonomo si fa carico:
“Quando ti abbraccio non sento / l’amore che non ricevo / ma il disprezzo che non ti dono. / Ti sento precipitare nel pozzo / delle infinite possibilità per cui mi implori. / Implorare è sempre stata la tua costante. / fino a sentirsi morire.”
Conosce fino al fondo del supplizio.
“E a quelli che domandano, io rispondo: / di te mi divora / la fame non appagata.”
Da qui nasce l’ossimoro del titolo di questa raccolta poetica pregevole. La vita intera è duale, una lotta e sintesi di luce e tenebra come intuiva Eraclito. Soltanto le grandi sensibilità sanno raccoglierla nel loro abbraccio. Dopo aver compreso, e percorso un cammino di recupero di sé, l’artista si allontana dal fuoco che ha rischiato di incenerirla, ma le ha pure donato lo sguardo cosmico che è intima compartecipazione a tutte le cose, insieme alla ricchezza del verso:
“Così tu sei per me: / la sensibilità delle foglie / al tocco di un flebile vento, / il bianco del cielo che esplode / di prepotente azzurro.” “Per ricordarmi dei tuoi occhi / di prato e ortensia.”
In Felicia, come recita il suo nome, ora divenuto consapevole benedizione, innanzi tutto per se stessa, il fuoco non si spegne:
“Ti dono il mio commiato alla presenza. / E il benvenuto al mio ardore, / mio per sempre, / a me da sempre.”
C’è nei foulard delle donne in questa alba buia, nella cura dei nodi la timida traccia di un presente senza memoria alcuna della faccia e senza oblio qualcosa di simile al tenue profumo degli alberi all’uscita di casa, ai più nitidi canti degli uccelli.
Istantanee come questa compongono la silloge Penultimi/Pénultièmes di Francesco Forlani, pubblicata in edizione bilingue, con traduzione di Christian Abel, per i tipi di Miraggi (2019). Alle fotografie in versi e in prosa si alternano scatti veri e propri, inframezzati ai testi in modo da creare un contrappunto, quasi una breve eco visiva.
Chi sono i penultimi? Sono «donne delle pulizie», «manovali», «professori», ogni sorta di lavoratore costretto per lavoro a un faticoso pendolarismo; sono clochards e senza tetto, sagome che sfilano nei corridoi delle metropolitane appena aperte, silhouettes sedute o in piedi che l’io lirico scorge accanto a sé e osserva attentamente: è il suo sguardo ad animarle agli occhi del lettore, a renderle tridimensionali.
Negli allers/retours descritti, apparentemente sempre così uguali, esiste una dimensione particolare, intensamente poetica, fatta di albe e folle silenziose, di viaggi con i corpi ancora intorpiditi, in cui l’io si ritrova nitidamente, fatalmente solo con se stesso, riflesso nei volti di chi come lui fa i conti con la vita e con il giorno che incomincia.
Tale dimensione si sviluppa su un doppio binario linguistico. L’autore è infatti docente di italiano in scuole fuori Parigi: il percorso che lo conduce al lavoro è la rappresentazione concreta della perenne oscillazione in cui vive ogni expat, diviso fra lingua madre e lingua d’adozione. Diviso, ma anche arricchito: questa edizione bilingue ne è la prova tangibile e una particolare forma di pendolarismo si offre anche al lettore, che può scegliere se procedere in direzione dell’italiano o del francese, o addirittura sperimentare una fruizione sincopata, spostando lo sguardo da destra a sinistra e leggendo un verso in una lingua e uno nell’altra:
Oggi ai penultimi parevano più nitidi i canti degli uccelli avec ces variations de lumière et le changement des saisons così ad aspettare il convoglio v’erano più dei tanti en tête ou en queue selon leur destin.
Possibilità che di certo non saranno sfuggite all’autore, ipercreativo per natura, plurilingue per vocazione: basti guardare l’«entracte» finale, che mescola anche spagnolo e napoletano, o l’ultimo romanzo Par-delà la forêt : Mon éducation nationale, scritto in francese e apparso a giugno scorso per le edizioni Léo Scheer, in cui Forlani racconta la sua esperienza nel sistema educativo francese.
La traduzione è in sé un esercizio prossemico, una misurazione della distanza che intercorre fra sé e l’altro: qui l’alternanza fra le due lingue diventa forma e senso del pendolarismo, di questo spostamento fisico che si trasforma in un espatrio reiterato quotidianamente. Ed è il ritorno verso l’italiano, insegnato in scuole oltre i confini della regione parigina, a farsi per l’autore strumento di conoscenza dell’altrove.
In che modo il binario francese – posto graficamente a sinistra, laddove nelle edizioni bilingui sta normalmente il testo di partenza e non quello d’arrivo – potenzia le possibilità di lettura? Perfezionando occasionali rime più semplici da creare in francese che in italiano, ad esempio; inserendo in un incipit epistolare il segmento «il faut que je vous dise», che a molti richiamerà il testo di Le déserteur di Boris Vian; o trasformando un vento imprecisato in bise, fredda corrente nordorientale dalle sonorità già rimbaldiane e verlainiane:
Mes chers pénultièmes, il faut que je vous dise comment à certains endroits de la rue en cette heure il semble que la bise susurre les secrets qui sortent des portails : La Ville Lumière expose des tableaux vivants à la morsure du froid entre les grilles d’où s’échappent des bouffées de nuages blancs.
Cari penultimi vi devo raccontare di come per tratti di strada a quest’ora che perfino il vento pare sussurrare cose dai portoni delle case la Ville Lumière espone dei tableaux vivants nella morsa del freddo e tra le grate che sbuffano nuvole di fumo bianco.
La sagoma di Rimbaud fa capolino a più riprese in questa raccolta, come l’angelo «in mano a un barbiere» dell’Orazione della sera, certo più provocatoria, ma non lontanissima dall’«orazione/alle stelle ormai scappate via» dei matti raccontati da Forlani; difatti ecco apparire, nel componimento immediatamente successivo, le celebri voyelles, sparpagliate su un muro di Parigi.
I matti vanno a infoltire le schiere dei penultimi, coloro che, come chiarisce Biagio Cepollaro nella nota critica, «possono ancora concepire la speranza del cambiamento». È a loro che il volume è esplicitamente dedicato nell’ultimo “interstizio”, «perché fino a quando ci saranno i penultimi questo vorrà dire che c’è ancora margine per l’umanità, che non siamo giunti alla fine del viaggio, al termine della notte», scrive l’autore. In questa riflessione ampia, stratificata, in cui il discorso di casta più che di classe riveste certo un ruolo fondamentale – sottolinea ancora Cepollaro -, si fanno strada in modo sotterraneo venature squisitamente autobiografiche, considerazioni maturate nel riflesso di un finestrino, come in uno dei più bei frammenti in prosa del volume:
Nelle storie d’amore ho a volte come l’impressione che tutta la propria storia, le proprie storie d’amore, non siano altro che il tentativo di forgiare le armi che in quella prima grande storia avrebbero potuto salvarci dalla disfatta. E accade che anno dopo anno tanto più l’esperienza accresce la consapevolezza della propria invincibilità quanto più si sa con estrema lucidità che non ci sarà mai più nessun nemico ad affrontarci in campo aperto.
Molteplici possibili letture si offrono a chi si accosta ai Penultimi, figure-chiave del contemporaneo, esseri angelicati atti a provocare quel risveglio necessario auspicato dall’autore in chiusura di volume.
Accade talvolta ai penultimi nel dormiveglia di intravedere cose, smettere di ragionare e lasciarsi portare dalle cose stesse per strade impraticate e smesse. Ora è una busta di plastica nel suo veleggiare da un lato all’altro del viale Daumesnil, è presto, sospinta da un attimo di vento, dalla luce sospesa e rosa, pareva una medusa tra perduta gente, sola, assistere come me discreto, al florilegio di luci verdi e rosse, e gialle intermittenti a tratti sull’asfalto del crocevia e impartivano ordini come marescialli d’antan a un’armata di disertori, a soldatesche assenti. Nei comandi di luce dei semafori piegati ad arco sulle strade vuote risuonavano i principi e la carta dei diritti umani urlati a una città deserta.
Se esiste l’opinione che vede la poesia come espressione immediata e anarchica dell’impulso, del sentimento o, dal lato opposto, come codice avulso dall’esperienza comune, geroglifico di un mondo precluso a molti, un libro comeCara catastrofe le fa incrinare entrambe. Nella sua opera prima (per quanto concerne la poesia, essendo giornalista) Felicia Buonomo affronta un tema di scottante attualità ed un grumo di dolore pulsante, l’esperienza dolorosa del rapporto d’amore disfunzionale, asimmetrico, connotato di violenza. Lo fa con strumenti precisi, mai banali, quasi “chirurgici”, sia nell’aprire e mostrare le ferite che queste relazioni producono, sia, a livello formale, nel ricorrere ad una lingua aderente al suo oggetto, ma al tempo stesso evocativa, non meramente mimetica.
Il fenomeno è presente, in modo sempre più drammatico, nella vita di molti e nella cronaca quotidiana, e a questa urgenza di verità e di denuncia l’autrice non si sottrae. Potremmo anzi dire che va oltre: nell’opera il tema assurge a paradigma dell’incomunicabilità o della distorta comunicazione di un’umanità fragile, spingendo il livello della riflessione ad un orizzonte più generale: “Aggrappata ai fragili rami delle mie paure, nelle intemperie del tuo vento, ti guardo oltre il fiume. Ci separano secoli di distanze, poggiati su una bilancia traboccante di tristezza”.
Ogni incontro che facciamo nel corso della vita racchiude infinite potenzialità: l’altro, come dice Natalia Ginzburg nel racconto I rapporti umani (da Le piccole virtù), “possiede una infinità facoltà di farci tutto il male e tutto il bene”. Il momento in cui si decide la direzione che quell’incontro intraprenderà non è unico e fulmineo, ma la sommatoria di situazioni che ci rendono quelli che siamo. Ed è cruciale, per ogni relazione umana: “Il mio errore è stato credere a una mano che si congiunge all’altra in preghiera supplicando l’amore, il mio. Il mio errore è stato credere all’uomo”.
La materia della poesia scaturisce dall’acquisizione, da parte dell’autrice, di molte testimonianze, in varie parti del mondo. Vissuti complessi a cui lei dà voce, con un alto grado di empatia, ma anche con la lucidità di chi sa scandagliare, senza sconti e senza perifrasi, le pieghe della psiche e i suoi movimenti talvolta contraddittori, come indica la scelta del titolo e l’appellativo ossimorico di “cara catastrofe”, attribuito a quel rapporto che è gabbia e palliativo insieme, schiavitù e sicurezza.
L’autrice ci conduce così nella sofferta via crucis di un rapporto che si trasforma in violenza, dipingendone i sintomi sul corpo di chi ama: “Ti ho trovato nelle pieghe delle mie clavicole, / parte visibile di un corpo smunto dalla tristezza. / Ero stesa sulle mie paure, /con gli occhi aperti al dolore / e le braccia molli della resa”. Sono segni descritti nella loro evidenza visiva, ma che rimandano ad una dimensione più profonda: “Non è il tocco livido a fare male,/ ma il ricordo del suo alone. / Dormiamo insieme ogni notte, / ma è nella crepa che dovrai recuperarmi. / Fai piano, che anche la luce è dolore, /dopo la culla di un buio così violento”. Le parole si fanno sempre più taglienti e se ne avverte tutto il peso: “Ho un battito di polso fragile / per ogni percossa taciuta”.
La stessa lucidità ispira la descrizione di chi perpetra la violenza: “Anche l’ultima volta che mi hai amata avevi gli occhi rossi della rabbia e le mani forti che premevano sulla carne debole. Ho pronunciato il tuo nome per dirti addio con l’afonia della paura, lo sguardo di un cervo abbagliato dai fari. I segni rossi sul collo sono l’ultimo ricordo che ho di me”.
Ciò che viene subìto diventa marchio che segna a fuoco e attorno a cui si struttura l’identità di chi lo ha vissuto, in un giogo-circolo vizioso difficile da spezzare: “sempre confonderai il sadismo e l’amore / – dico, mentre lucido le catene a cui mi costringo”. E’ scattata la dipendenza, l’impossibilità di pensarsi in una dimensione diversa: ”E ora che nemmeno l’idea di te mi fa compagnia / mi sento orfana di desideri che non ho”. La violenza si consuma nel silenzio di case che non comunicano, di una società sorda, anestetizzata: ”I vicini di casa hanno sentito il mio dolore / e – come tutti – lo hanno ignorato. / Non so nulla delle pareti delle loro case”.
Spezzare le catene, però, non solo è possibile, ma salvifico. La voce che parla in questi versi ci fa intuire un percorso di aiuto, una persona che tende una mano, nonostante la ritrosia della vittima: ”Ho detto a Jessica / che quel test di valutazione del rischio ha una falla. / E che il modo in cui accarezzo / il mio martirio / è la prova dell’errore. / Non si può portare una donna fuori dalla sua colpa”. Il primo passo è prendere coscienza, guardarsi dentro e vedere anche lati di se stessi che il dolore rivela: “Il mio sguardo su di te era un punto di sutura, / su ferite che non sapevo di avere. / Che fanno male, ora”.
Recidere il legame significa dare un nome alle cose e indossare abiti nuovi, sotto una carne che non dimenticherà le sue ferite: “Indosserò / un abito di ferro colorato, / lacrime di ruggine / e carezze solide, / per svanire nel miraggio / che ci tiene stretti / a una falsa idea di felicità”.
Alcune poesie
Da quando ti ho incontrato
la mia vita
procede per sottrazione.
Mi hai portato via
l’amore per l’amore,
la fiducia verso la parola,
la complicità di un abbraccio.
E anche questi immeritati versi
aggiungono alla tua vita
la bellezza di cui mi privi.
Ora mi vendo a buon mercato
nella piazza della tua rivoluzione.
Mi conto come unica ferita.
*
Oggi ho preso ad amarmi come fai tu:
con la ferocia del disgusto
come un insulto figlio dell’alterazione
un cucciolo rinnegato
il difetto gettato dalla rupe.
Nei secoli dei secoli. Amen.
*
Mi domandi cosa sia la colpa,
se non questo incedere verso l’abisso
delle cose certe e ignorate.
Hai lo sguardo di chi vince la guerra
del dominio interiore,
io di chi partorisce invidia di viscere.
Mi stendo sul letto della sconfitta,
guardo il soffitto delle parole scritte per te.
Mi dici che alzare gli occhi al cielo,
movimento di collo, diventa peso di spalle.
Non è la stessa direzione quella che conta, per te.
*
Mi sei venuto dentro per rendere
gravida la mia dipendenza. Perché la paura
diventi figlia del nostro amore.
La porto in grembo
con la colpa di una madre degenere,
che mantiene in vita la sua creatura
nutrendosi delle tue bastonate,
che mi fanno il male che merito.
*
Ti devo il tormento di una tempesta,
una rosa inchiodata al muro,
il tintinnare di parole taglienti,
la solitudine della mia tristezza mentre ti guardo
e ti domando della bellezza dei fiori.
Vorrei sapere dove cercarti
quando un giorno prenderò quel treno
per non tornare.
Tre domande a Felicia Buonomo
D: L’equilibrio dei toni e delle scelte lessicali, nella tua poesia, quasi contrasta con l’incandescenza dei temi. Quali riflessioni e quali scelte hai fatto, dal punto di vista linguistico, durante la scrittura?
R: Proprio per l’incandescenza dei temi che ho deciso di affrontare in versi in questo mio lavoro poetico, ho voluto ancora più concentrarmi sull’essenza delle cose, come ci ricorda Marina Cvetaeva – che ha contribuito fortemente alla mia formazione letteraria. La poetessa russa sosteneva: «Come posso io poeta, persona dell’essenza delle cose, farmi sedurre dalla forma? Io sono sedotta dall’essenza, la forma arriverà e arriva. Io sono sedotta dall’essenza e poi incarno. Ecco il poeta». E la forma di fatti arriva, ma senza incanalarsi nella dicotomia serrata tra significato e significante. La poesia che amo è la parola che ti aspetti, che evita di girare intorno. Ma – come dicevamo – non si è solo poeti, la poesia la si fa. Come scrive la poetessa Isabella Leardini in “Domare il drago” il lavoro che fanno i poeti è di «scegliere un’immagine e non un’altra, rinunciare a una parola perché un’altra abbia più peso». Il movimento, il ritmo linguistico di questo mio tentativo di poesia segue questa sequenza: essenza-immagine (poetica)-parola-scelta/sostituzione. Scegliere parole, in parte anche abusate, come “tristezza”, “dolore”, “tormento”, “massacro” all’interno dei miei testi rappresenta una scelta di precisione rispetto ai temi affrontati, che ruotano intorno alla semantica dei sentimenti di colpa e punizione, in quel rapporto vittima-carnefice che tento di narrare al lettore. Non potrei mai usare, in poesia, parole che “normalmente” non userei, sarebbe violare la mia scelta di onestà. Il lettore attento lo percepisce quando sei stato disonesto.
D: Quanto della tua esperienza di giornalista è confluito nella stesura di questo lavoro?
R:La mia esperienza di giornalista è stata il punto di partenza. Nella seconda sezione della raccolta, in particolare, vesto i panni della testimone, traslando in versi alcuni universi di violenza e dolore di donne che ho incontrato, in alcuni casi direttamente, altri per interposta persona, nella mia professione di giornalista. Mischiando personalismi rispetto al modo in cui si può entrare, empaticamente, in contatto con alcuni moti interiori. Ho da sempre un’ossessione tematica, ovvero i rapporti umani disfunzionali, fatti di mancanza di cura, malattia, disperazione, solitudine. Nella mia professione di giornalista, anche narrativa, racconto storie, entro nella vita delle persone. L’Altro è un concetto fondante per me. È per questo che lo “racconto”.
D: Perché questo titolo?
R: “Cara catastrofe” è il titolo di una canzone di Vasco Brondi, artista musicale che amo molto (e che cito anche in esergo). Credo che incarni in pieno l’universo emotivo che tento di raccontare con questi versi: una catastrofe che arriva improvvisa, improvvisa perché nasce da un’idea di perfezione a cui il carnefice ci abitua nella fase iniziale del rapporto, e che finisce col diventarci indispensabile, cara, anche quando la perfezione diventa violenza e abuso emotivo e/o fisico. La “contropartita” della violenza è la dipendenza affettiva, in molto casi. Non capire quanto alla persona abusata possa diventare cara questa catastrofe, significa giudicarla. Non a caso ho dedicato molti dei miei versi al concetto della colpa, sentimento provato non dal carnefice ma dalla vittima. Comprendere quanto cara arrivi a diventare la catastrofe di una violenza spero posso aiutare a superare uno dei tanti stereotipi che ruotano attorno a questo macro-tema.
In uno stato che non trova coordinate reali, in un tempo indeterminato della seconda metà del Novecento, una dittatura di stampo religioso sta prendendo sempre più piede. La piccola Mona racconta al suo bue Mun dei morti inquieti che cadono lontano da casa. A salvarli ci sono i trasportatori, che con la loro magia conducono i cadaveri ai villaggi cui appartengono. La stessa storia Mona adulta, ormai donna matura, la racconterà nell’ospedale in cui presta servizio come infermiera a un suo paziente, Adam, un ragazzo tornato da poco dalla guerra con un’infezione che i medici cercano di fermare amputandogli sempre più una gamba. Bianca Bellová sviluppa nella sua scrittura evocativa e densa un romanzo che si dirama in tre linee narrative: la cornice dell’ospedale e i ricordi di Mona e del giovane soldato. Mona racconta il suo passato, Adam sogna il proprio e, in questo scavo nel tempo, i due personaggi si innamorano. Mona è un romanzo breve e potentissimo che ci ricorda che la letteratura è prima di tutto magia che salva le anime inquiete. La sua autrice, Bianca Bellová, è una tra le più importanti scrittrici della narrativa ceca contemporanea, vincitrice con il suo romanzo precedente, Il lago, del Premio Unione Europea per la Letteratura e di quello nazionale Magnesia Litera. In Italia è pubblicata da Miraggi, per la collana NovaVlná, nella splendida traduzione di Laura Angeloni.
“Vit(amor)te” è una raccolta di poesie di Valeria Bianchi Mian, illustrata con le carte degli arcani maggiori (in versione monocromatica) disegnate dall’autrice stessa, edita da Miraggi Edizioni nel 2020. Il mazzo di carte a colori è disponibile a parte.
Psicologa e psicoterapeuta junghiana nonché autrice poliedrica e appassionata, Valeria Bianchi Mian nella sua raccolta “Vit(amor)te” coniuga poesia e illustrazione.
La realtà terrena dell’esistenza nel suo svolgersi si sposa con l’astrazione simbolica degli arcani maggiori dei tarocchi, che regalano sfaccettate possibilità di interpretazione.
“[…] Stiamo qui nel mosaico
stabile instabile
nel puzzle d’erranza
in errore di base
ché prima di conoscerci
abbiamo scoperto l’uno
nell’altra la polpa
sotto gli aculei del riccio
ma non ci siamo divorati.”
(‘Finché morte’ da IL CARRO)
Una poesia alchemica che si trasforma, attraversa tutti i colori, tutti i mondi, tutte le vite possibili, tutti gli incontri passati e quelli futuri, forse soltanto immaginati. Ma non è detto.
Figure del mito intrecciano danze con le multiformi parti del sé, si scambiano i ruoli, si nascondono per riapparire diverse, eppure sono sempre uguali. Ma non è detto.
“[…] Sapevo di andare a morire
dopo il primo fiore.
Un figlio, e via.
Scopro con particolare orrore
e assurdo piacere
che al sale
si accompagna l’acqua
che la maturità
non è un esame.
È senso della terra. […]”
(‘Agave’ da LA FORZA)
Gli arcani si rivelano nel mutamento: il cerchio della vita che nasce e passa attraverso l’amore – l’unica possibilità di dare un senso alla presenza – per tornare alla morte, eterno ciclo continuo, breve attimo privo di consolazione, spazio rubato al Tempo.
Tra i versi sono incastonate ad arte alcune citazioni da poemi classici e letture altre, che scrivono una storia parallela di profonda conoscenza e talvolta strappano un sorriso per la fine arguzia e la blanda irriverenza.
“Mando avanti me
le zone fertili
dell’animo umano
un giardino, la cura
la cultura delle stagioni.
L’attesa, l’intesa
la pretesa (non funziona
mai abbastanza).
La stanza al centro
le vie, i percorsi
i sentieri, i sentimenti.
La lista della spesa
l’essere qui e ora
nell’ora quotidiana:
il mio corpo quaderno
per lo spirito penna.”
(‘Mandala’ da IL MONDO)
Valeria Bianchi Mian pesca a piene mani dall’inconscio, indaga con audacia l’umano sentire, ci sorprende mettendo a nudo e a fuoco gli innumerevoli stati dell’essere.
Abile giocoliera di parole, la poeta ci conduce tra i versi del suo cerchio infinito vita-amore-morte accompagnata da Kitsune, la saggia volpe rossa ritratta nell’arcano della Forza.
Qui niente è impossibile, tutto è memoria e rigenerazione, ma bisogna porre attenzione, come scrive l’autrice nell’introduzione al libro: “Verso Dove, / fino a Quando”.
Sinossi
Quarantaquattro poesie per ventidue originalissimi arcani maggiori: parole e immagini come gemelle in danza. Scrivere e illustrare poesie è per l’autrice un operare quotidiano, attività ormai consolidata di sperimentazione e strumento nel suo lavoro di psicoterapeuta. Dopo le poesie e le filastrocche del libro “Favolesvelte” (Golem Edizioni, 2015), Valeria Bianchi Mian ha pubblicato racconti, ha curato e illustrato un’antologia sul tema della ‘dimora’, ha scritto e fatto nascere il suo primo romanzo (“Non è colpa mia”, Golem Edizioni, 2017), ha partecipato alla stesura di tre saggi di psicologia in collaborazione con altri colleghi. In questa silloge raccoglie le poesie giovanili e quelle scritte tra il 2014 e il 2019; le fa procedere insieme alle figure dei tarocchi. È una Totentanz che passa dalla nigredo, l’Opera al Nero, e punta alla rinascita, è un cerchio di versi che si fa spirale attraverso i disegni. Il filo conduttore di “Vit(amor)te” è l’idea della natura viva: è una bozza di verde, lo spunto generativo, il germoglio rigoglioso o la foglia secca, il respiro della terra sopra la quale camminiamo, natura che matura nella nostra psiche. La storia del diventar se stessi comincia dal Matto incompiuto, un germe, il seme ritrovato; lo sviluppo per concludere con il ricominciar da capo.
“Il miglior romanzo italiano dell’ultimo decennio”
Con il romanzo “I Pellicani – Cronaca di un’emancipazione”, pubblicato da Miraggi edizioni, collana Scafiblù, il 14 ottobre 2020, Sergio La Chiusa ha raccolto in due mesi un’attenzione critica sul web (Italo Testa su “Le parole e le cose”, Giorgio Mascitelli su “Nazione indiana”, Angelo Di Liberto su “Modus Legendi”) e sulla carta stampata (Gennaro Serio su “Il venerdì” de “La Repubblica”, Alessandro Beretta su “La Lettura” del “Corriere della Sera”, Andrea Inglese su “Alias” de “Il Manifesto”) che merita di essere approfondita.
Non sono un critico letterario, pertanto la presente non costituisce una vera e propria recensione del romanzo: è un tentativo di analisi del testo, condotto secondo il mio punto di vista di lettore e scrittore, volto a sviscerare le peculiarità letterarie che fanno di “I Pellicani” un unicum nell’odierno panorama editoriale italiano.
L’incipit del romanzo ci pone di fronte al protagonista-narratore Pellicani che, dopo vent’anni di assenza, con una scusa banale va a trovare il padre ottantenne, inquilino di un caseggiato in rovina dove tutte le porte sono aperte. Fin dalle prime righe, la narrazione – che dividerei in tre parti – del giovane Pellicani ci invade con il mood pervasivo di una ubiquitaria minaccia incombente (“Arrivavo a sospettare che qualcuno mi stesse seguendo su per le scale: chi?”) che induce il lettore ad abbandonare le coordinate del senso di realtà per immergersi in un microcosmo al confine tra il verosimile e il surreale, un mondo quanto meno improbabile: quello del palazzo e soprattutto dell’appartamento del vecchio Pellicani.
Il romanzo, insomma, affonda le sue radici dentro un terreno ormai disabitato, estraneo alle logiche di mercato attuali, che prende le mosse dal Kafka de “Il Processo” per l’atteggiamento paranoico del protagonista, secondo il quale tutto è sospetto (“Anche la luce accesa tutto sommato era sospetta”), e dal Canetti di “Autodafé” per la logica paradossale da cui scaturisce la vena umoristica.
La cifra stilistica di La Chiusa, che rende il romanzo tutt’altro che epigonico delle opere succitate, risiede nella straordinaria affabulazione in prima persona, basata sull’ossessivo affastellarsi di domande per lo più insensate che il giovane Pellicani rivolge a se stesso con l’obiettivo di scorgere “l’ombra del raggiro” di cui sarebbe vittima. Ne risulta un lungo monologo interiore scorrevole e coinvolgente, che sembra recitato ad alta voce, del quale i capitoli scandiscono i cambi di scena. Il testo è costituito da un unico flusso narrativo, quasi fosse un lungo racconto (una parabola al contrario alla Gombrowicz?) o un’opera teatrale per attore protagonista (un soliloquio riconducibile a Samuel Beckett?): è la sua mole (186 pagine fitte) a determinarne la forma romanzesca.
Dopo essere entrato nel palazzo, il protagonista, di cui non sappiamo nulla oltre all’attitudine a rubare (ha rubato i soldi del padre prima di andarsene di casa e degli articoli di cancelleria dalla ditta che l’ha appena licenziato), afferma di essere “un individuo indipendente, e anzi metto l’indipendenza sopra ogni altro valore”. Considerato che, oltrepassata la soglia di casa del suo (presunto) padre, una delle sue prime azioni è mettersi nella valigetta molte scatolette di carne Simmenthal destinate al vecchio Pellicani, potremmo pensare che il suo concetto di indipendenza sia assimilabile al parassitismo tuttavia, come avremo modo di vedere più avanti, il protagonista nutre ambizioni più elevate.
Nell’importante capitolo II, La Chiusa descrive il microcosmo entro cui sviluppa tutta l’opera (se si eccettuano alcune escursioni in altre zone del palazzo): l’appartamento del vecchio Pellicani, che il protagonista non riconosce come padre (“Non era lui! Non poteva trattarsi di mio padre! Doveva esserci un altro. Un irregolare magari. Uno che si era insediato in maniera illecita nell’appartamento”) nonostante abiti nella casa paterna, abbia lo stesso cognome sullo stipite della porta e porti il naso appuntito da pellicano – proprio come lui. Questa dimora viene tratteggiata come un campo di battaglia dove regna il labirintico disordine tipico dei romanzi di Kafka: vi sono panni appesi su lunghe corde di stendibiancheria posti nel passaggio tra la zona giorno e notte, la camera da letto con televisore sempre acceso del vecchio Pellicani, la cucina, e infine una camera da letto (probabilmente dove il protagonista ha vissuto da bambino) cosparsa di peluche, nella quale svetta un manichino di Pinocchio appoggiato sulla libreria. La differenza principale, a livello ideologico, tra Kafka e La Chiusa è che il K. de “Il processo” (o de “Il castello”) deve realmente affrontare una realtà avversa, piena di pericoli o insidie, mentre Pellicani si muove in un universo che, per quanto strampalato, non riserva alcuna minaccia: è la mente del protagonista a tessere, con incessante sforzo, la ragnatela di un presunto raggiro (“Diffidare delle apparenze! Diffidare! […] A furia di diffidare però mi venne il sospetto che costui non solo non era mio padre, ma nemmeno si chiamava Pellicani). In realtà, se esiste un pericolo, La Chiusa lo colloca nel mondo esterno al caseggiato in rovina, dominato dalle leggi del mercato, verso cui Pellicani si mostra ambivalente: da un lato si vanta della sua valigetta, simbolo dell’uomo di affari che prende regolarmente l’aereo (un “frequent flyer” della “business class”) per andare in Cina (“Ho fatto carriera, modestamente”), dall’altro si ritrae ostentando una ostinata volontà di sottrarsi al consumismo.
Nei capitoli III e IV il lettore si rende conto che l’autore intende scavare in profondità nell’universo da lui creato con il filtro delle turbe mentali di Pellicani, che di fatto sono le vere artefici della storia narrata – fino a legittimare, più avanti, l’interpretazione secondo cui abbiamo assistito, dall’inizio alla fine, a una fantasia del protagonista: “La mia situazione mi sembrava così irreale che sospettai di essermi inventato tutto. Pellicani non esisteva. Pellicani era una mia invenzione.”
La tecnica narrativa è estremamente raffinata: da un lato sfoggia un lessico preciso, vasto e talvolta forbito, dall’altro alterna vocaboli altisonanti con parole gergali (“minchione”), colloquiali, combinate con varie iterazioni e tic linguistici del protagonista (abbondano gli “insomma” e i “tutto sommato”), dimodoché tutto si può dire tranne che la scrittura sia virtuosistica. La lingua di La Chiusa, per quanto fortemente caratterizzata, è strettamente funzionale alla narrazione ovvero è priva di qualsiasi compiacimento narcisistico o accademico (a differenza di alcuni scrittori italiani osannati da certi critici letterari). Il lettore viene invitato, persuaso e infine conquistato dall’arte affabulatoria dell’autore, che lo costringe a entrare nel suo mondo paradossale e ad accettarne la logica contraddittoria, con il risultato di accattivarselo facendolo sorridere. La storia narrata, in sé e per sé, è alquanto scarna e a tutti gli effetti irreale ma acquista significati simbolici degni di una parabola grazie alla forma linguistica che la modella.
Parti fondamentali della scrittura, ovvero della narrazione di Pellicani figlio, sono le ripetizioni, l’abbondanza di aggettivi e il succedersi logorante di domande, frutto per lo più di fobie (riconducibili a manie di persecuzione), che mettono in discussione l’esistenza stessa del reale, ma l’abilità dell’autore risiede nell’equilibrio con il quale alterna domande illogiche – da psicotico, in buona sostanza – a domande sensate, che portano il lettore a considerare Pellicani ancora in grado di connettersi con la realtà, per quanto a intermittenza – insomma, a ritenerlo un caso borderline. Per esempio, nel capitolo IV, dopo aver constatato che il vecchio Pellicani non si alza dal letto ed è assistito ogni giorno da una badante che gli cambia il pannolone e lo imbocca con il cucchiaio del minestra, il protagonista prima si pone le solite farneticanti domande (“Chi era veramente Pellicani? Cosa nascondeva dietro quel suo aspetto da svanito? Mi ingannavo sul suo conto? Possibile che non celasse nulla?”), poi prende in considerazione tre risposte, che chiama le “tre vie”: la via del “renitente”, la via dell’“impostore” e la via del “rimbambito”. La terza risposta, che è palesemente la più aderente alla realtà che il protagonista stesso descrive (o inventa?), dimostra che Pellicani figlio non ha ancora perso il contatto con la realtà. E tuttavia, al barlume di lucidità che sopravvive nel protagonista non viene in soccorso la logica, per cui assistiamo a una serie di scene spassose, come quella in cui, pur riconoscendo che il vecchio è un “paralitico”, Pellicani si dispera perché “Non si schiodava dalla sua posizione di paralitico nemmeno per risalire sul letto”.
Il capitolo V chiude la prima parte del libro – dedicata alla descrizione della casa in cui vive il “paralitico” – con uno dei picchi dell’opera: l’intrusione in casa Pellicani del mondo esterno, ossia di due “competenti” che cercano di convincere il vecchio a firmare un contratto per sloggiare dall’appartamento, in modo che il caseggiato possa essere demolito, essendo lui l’ultimo inquilino rimasto. La scena che ha luogo con i “competenti” è memorabile per la sua eccezionale valenza comica, risultando degna di alcuni esilaranti passaggi dell’“Autodafé” di Canetti. La scrittura, in questo caso, agisce per estensione, ampliando con nuovi personaggi, vale a dire nuove istanze minacciose che penetrano nel microcosmo, l’ambientazione e la trama del testo che, così reimpostato, si presta a essere la sceneggiatura di un film fantastico (“Ma non ci trovavamo in un film, casomai in un romanzo”). A me ha ricordato “Brazil” di Terry Gilliam, in particolare i momenti in cui i due tecnici del Central Service (uno è interpretato da Bob Hoskins) entrano in casa del protagonista (un timido Jonathan Price) per sostituire un tubo difettoso, con risultati disastrosi.
Nella seconda parte del libro (capitoli VI-X) ha luogo l’emancipazione del vecchio Pellicani, poi estesa al narratore stesso. Il protagonista constata che “Nessun segreto interesse per l’indipendenza sembrava animarlo”, e questo a causa del fatto che “Nettato, imborotalcato, imbacuccato nelle coperte, la tv sintonizzata sui cartoni animati, Pellicani aveva tutta l’aria di un uomo sereno, realizzato, irrecuperabile,” “inebetito dai lussi e dalla vita comoda […] Tutto cospirava contro l’indipendenza del vecchio.”
Il giovane Pellicani continua a oscillare nell’inquadrare il vecchio: a volte lo chiama paralitico (o rimbambito), altre volte lo considera un ribelle, un renitente o perfino un sovversivo. Essendo il suo scopo l’indipendenza, Pellicani si sente investito della missione di togliere il vecchio dalle grinfie dell’“avida indole assistenzialista” della badante, i cui simboli consumisti sono i marchi della carne Simmenthal, dei biscotti Plasmon e dei supermercati dell’Esselunga. La “cronaca di un’emancipazione”, sottotitolo del libro, va intesa come “emancipazione dalle necessità del consumo” e da ogni forma di “assistenza” e “aiuti umanitari”. La valenza simbolica del linguaggio economicista adoperato da La Chiusa delinea, con questa cronaca, una parabola allegorica sui “concetti di austerità e decrescita felice”.
Pellicani è talmente posseduto dal suo scopo che non si dà tregua, rimugina su ogni piccolo dettaglio e non sta mai fermo, quasi si trovasse in un moto perpetuo con il pensiero e con il corpo, moto che solo accidentalmente viene fermato, dopo una strenua resistenza, dalle esigenze fisiche della nutrizione (“Persino il cibo, anche il più onesto, il pane secco, mettiamo, incoraggiava perniciose forme di dipendenza, e bisognava quindi assumerne con moderazione”) e del sonno (“Anche se io ero contrario al sonno, bisognava riconoscere che in certe circostanze restava l’unica via praticabile”). Il concetto di indipendenza a cui aspira il protagonista, pertanto, è una sorta di autarchia, vale a dire autosufficienza dal punto di vista economico, corporale e spirituale. Pellicani non vuole spendere una lira né approvvigionarsi di alcun bene necessario, il suo scopo è il totale svincolamento da ogni forma di bisogno in nome di un ideale che lo pone al di sopra della volgare realtà, conferendogli un senso di superiorità morale: “Mi vedevo nell’atto di mettermi in coda [al supermercato] con il carrello, come tutti, convinto delle mie scelte convenienti […] e mi sentivo già perduto, ricaduto nella mediocrità.”
Il capitolo X mostra come l’allucinazione delirante prenda il sopravvento: il protagonista si vede rimpicciolito allo specchio, e resta turbato dalla comparsa dell’“immagine improvvisa di quel tizio semisconosciuto.” Questa parte testimonia l’interesse dell’autore per il punto di vista corporale della storia, poco evidenziato nelle recensioni finora pervenute. La magrezza del giovane trova un’analogia con le “coscettine ossute e spelacchiate” del vecchio Pellicani, lo “scimunito” con cui il protagonista condivide lo stesso naso. L’aspetto corporale dell’emancipazione prevede un rimpicciolimento dovuto a “ragioni strategiche: per sottrarmi al controllo.” Pellicani figlio persegue coerentemente il suo obiettivo, ossia il sottrarsi dalle “leggi del mercato”, ma si riserva con spavalderia la possibilità di rimettersi in gioco quando e come vuole: “Se mi va esco! Torno nel mondo.”
La prospettiva corporale che si palesa nel capitolo X lascia spazio, nell’ultima parte del libro, al capolavoro del romanzo, il capitolo XI, nel quale l’autore mostra la sua ambizione. Come già successo nel capitolo V, La Chiusa torna ad agire a livello estensivo, articolando un capitolo che amplia le mire letterarie dell’opera e aggiunge un nuovo livello alla già abbondante stratificazione simbolica della narrazione. Il giovane Pellicani si specchia in un televisore e, vedendosi, si sdoppia, sentendosi al contempo il regista che dirige e l’attore che recita nello schermo televisivo nientemeno che l’Amleto di Shakespeare, personaggio emblematico della doppiezza, della crisi d’identità – che nell’opera assume la veste di un Amleto uscito da un master della Bocconi. Compiaciuto di questa immagine, il protagonista trova un terzo alter ego: oltre che regista e attore, vede se stesso come spettatore della storia che sta recitando e dirigendo, e inizia a parlare di sé in terza persona.
Fino al capitolo X la narrazione è proseguita in modo ineccepibile. Se si eccettuano poche e mirate frasi contenenti vocaboli dell’attuale era digitale, il romanzo avrebbe potuto essere stato scritto cent’anni fa. Ma con il capitolo XI ci troviamo nel pieno di un romanzo post-moderno metaletterario. A mio parere, La Chiusa decide di correre un rischio aumentando il potere creativo del suo protagonista-narratore, poiché accredita a Pellicani una cultura letteraria e una immaginazione elevate, che potrebbero apparire poco consone al cialtrone che abbiamo visto all’opera fino a questo punto. Qualche critico letterario potrebbe non gradire questo iato, che determina una cesura rispetto al tono della narrazione precedente. Per quanto mi riguarda, la scelta di mutare la natura del narratore dal solo Pellicani al tandem Pellicani-La Chiusa, che vediamo intento a discettare sull’uso della terza o della prima persona, è geniale. (Con un attento studio del testo si può notare come l’autore abbia anticipato la natura metaletteraria del romanzo fin dall’inizio del secondo capitolo, quando scrive: “Tutto sommato ero stato io a creare il personaggio con la valigetta e come l’avevo creato potevo comodamente cancellarlo appena la sua vista m’avesse stancato”).
Una volta arrivato alla lettura del capitolo XII, il lettore potrebbe chiedersi (io, quanto meno, l’ho fatto) cosa avrà escogitato l’autore per narrare un finale all’altezza di un capitolo esaltante e definitivo come l’undicesimo, il quale, fosse stata la conclusione del romanzo, avrebbe permesso di terminare l’opera con una trasfigurazione teatrale di alto valore letterario. Insomma, il sottoscritto – in veste forse più da scrittore che da lettore – riteneva impervio ripetere nelle ultime pagine il climax raggiunto nel capitolo XI, perciò temeva un finale contraddistinto da un calando della tensione narrativa.
La mia paura si è rivelata, “tutto sommato”, infondata. Per quanto sia vero che gli ultimi capitoli non raggiungono i vertici dell’XI, l’autore è riuscito a concepire un epilogo degnissimo, evitando di scadere in una serie di trappole che, a quel punto, gli si ergevano innanzi come allettanti tentazioni. Nei restanti quattro capitoli, La Chiusa porta alle estreme conseguenze la logica che muove Pellicani figlio, distillando un finale lento, scandito da tre capitoli brevi, che proseguono con un’inerzia insistita verso l’inesorabile (o inaspettato?) approdo dell’“emancipazione” sua e del vecchio paralitico, e da un ultimo capitolo dove si condensa il sugo della storia. La lettura di questa irriducibile, intransigente chiusa può costare un certo sforzo al lettore: si tratta, a mio avviso, di una scelta anti-commerciale (ma d’altronde cosa c’è di commerciale in questo romanzo, oltre alla scorrevolezza della narrazione?) dovuta al rigore stilistico dell’autore.
L’ultimo capitolo si gioca a bocce ferme. La storia è a tutti gli effetti compiuta, e il protagonista-narratore è alle prese con il dare un senso al suo comportamento, operazione che si estende alla sua intera esistenza e alla legittimità stessa della realtà che l’ha prodotto (o che ha prodotto?). Anche questo capitolo mi è parso alquanto difficile da scrivere, irto di pericoli: l’autore poteva scadere nel predicozzo patetico all’americana oppure nel surrealismo più marcato, o ancora poteva formulare un giudizio sull’aspetto sociale della parabola narrata – che in qualsiasi caso si sarebbe rivelato pretenzioso. La Chiusa ha affrontato queste insidie lasciando prevalere, di nuovo, la coerenza stilistica, ossia la verbosità del giovane Pellicani, il suo sproloquio ormai giunto ai confini del parossismo isterico, e nel mentre ha disseminato la sua affabulazione con alcuni pensieri su se stesso, sul vecchio Pellicani e sulla società consumista che si sarebbero adattati bene a un racconto di miglior realismo, ma che all’interno della narrazione bislacca del protagonista producono l’effetto di rafforzare la logica paradossale della storia, con il risultato di lasciare il lettore punto e a capo, con una manciata di polvere in mano.
A mio parere, con “I Pellicani”, Sergio La Chiusa ci consegna un esordio memorabile, meravigliosamente avulso dalle logiche commerciali del mondo letterario italiano. L’autore riesce nella rimarchevole impresa di scrivere un romanzo ambientato in un mondo irreale – ma verosimile – senza l’uso di nomi propri di persona e senza darci la certezza di aver assistito al dipanarsi di una storia realmente accaduta. Perviene a questo risultato padroneggiando con estrosità e maestria ogni palese e recondita possibilità insita nella narrazione in prima persona, che ha sfruttato per creare un microcosmo inedito, frutto dell’invenzione letteraria.
La Chiusa ci restituisce una visione alta di letteratura, non ancillare alla cronaca, alla storia o alla biografia: una concezione mitopoietica, creatrice di mondi inesplorati e al contempo riflessi nel presente, forse desueta, forse all’avanguardia rispetto al panorama letterario attuale, di certo erede della migliore tradizione mitteleuropea novecentesca, e lo fa scrivendo un piccolo ed eccentrico capolavoro narrativo e stilistico.
Per quanto mi riguarda, “I Pellicani” è, tra i libri che ho letto, il miglior romanzo italiano dell’ultimo decennio.
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