Il bruciacadaveri: uno studio ceco sulla banalità del male
Repubblica Ceca, correva l’anno 1967. A pochi mesi dalla Primavera di Praga, un ironico Ladislav Fuks scriveva: “Viviamo nell’Europa del ventesimo secolo in un mondo civilizzato”. Sono passati più di cinquant’anni, e, per metterla in termini prettamente contemporanei, viviamo ancora in una società. Un clown world, a essere precisi.
Come si suol dire tra le fila dello stesso contesto che vorremmo denigrare, fa ridere, ma fa anche riflettere. Eppure, al di là del nichilismo post-ironico tanto caro alla mia generazione, esiste un’ulteriore via per fronteggiare l’assurdo della società in cui viviamo, la più simile ad un senso di rivolta prometeica: ridere in faccia con malinconia all’amara tragedia dell’esistenza, soprattutto quando, giunti sul pinnacolo della civiltà, si arriva alla meccanizzazione e alla burocratizzazione del genocidio. Ma senza mai dimenticare, sotto la facciata del riso, il senso di responsabilità civile.
Questo è esattamente ciò che fa Spalovač mrtvol, in italiano Il bruciacadaveri: dapprima romanzo di Ladislav Fuks, poi anche pellicola diretta da Juraj Herz, è una storia che regala un tipo di orrore diverso, sia per l’umorismo che reca in sé sia per la vicenda narrata. Nella letteratura sull’Olocausto, un romanzo che tratta l’argomento non soltanto dal punto di vista dei carnefici, ma addirittura con un impiego peculiare del ridicolo è qualcosa di incredibilmente innovativo, ancor più se raccontato in maniera clinica, senza condanna né approvazione da parte dell’autore, lasciando il verdetto ai lettori. Ripubblicato di recente da Miraggi Edizioni, Il bruciacadaveri riesce ad offrire sulla storia uno sguardo diverso, tagliente, raccontando con stile quasi gotico la connivenza delle masse di fronte ai totalitarismi e i processi psicologici delle propagande.
Sebbene oggi risulti difficile reperire narrativa ceca all’infuori di Hrabal, recentemente riscoperto, e del più che inflazionato Kundera, non è sempre stato così: la prima traduzione italiana di Spalovač mrtvol comparve nel 1972 grazie al lavoro di Ela e Angelo Ripellino, che importarono qui in Italia una cospicua fetta di letteratura ceca; mentre la recente pubblicazione, tradotta da Alessandro De Vito, è opera di Miraggi Edizioni nella collana Nová Vlna, incentrata per l’appunto sul recupero e sulla traduzione di capolavori dimenticati o sconosciuti della temperie sessantottina che trovava Praga come centro culturale.
Ladislav Fuks
L’autore, Ladislav Fuks, si inserisce tra le fila del fermento artistico e culturale praghese degli anni ’60. Studiò psicologia e filosofia, e una volta terminati gli studi si impose sulla scena letteraria ceca grazie al romanzo Pan Theodor Mundstock, del 1963, e la raccolta di storie brevi Mí černovlasí bratři, uscite l’anno successivo. In questi primi scritti sono riscontrabili già molte delle particolarità dell’autore: Fuks ebbe una particolare fascinazione per il macabro e l’attenzione psicologica, declinate nella sua opera col fine di accomunare la sorte degli ebrei a quella dei cechi. Pan Theodor Mundstock, infatti, accompagna il lettore nella paranoia allucinata che ghermisce il protagonista con una storia alquanto semplice: la graduale discesa di un ebreo praghese in una spirale di angoscia e terrore della deportazione, il quale finisce per per prepararsi fisicamente e psicologicamente a tale eventualità. Nel romanzo, Fuks gettò le basi dei caratteri tipici della sua poetica, dalla costruzione di un’intricata rete di simbologie anticipatrici (riscontrabili anche ne Il bruciacadaveri) alla crescente, inesorabile immedesimazione del lettore con un narratore inaffidabile, quando non già al di là della soglia della nevrosi.
Pur da gentile, Fuks diede eco al tema dell’Olocausto e dell’occupazione nazista in un’ampia fetta della sua produzione. Tuttavia, se da una parte i riflettori erano puntati principalmente sull’umiliazione e sullo sconforto delle vittime (è il caso di Mí černovlasí bratři, antologia dei tristi destini delle amicizie di un ragazzo ebreo), dall’altra Fuks si avvalse del grottesco per illustrare la componente paradossale degli eventi: fu proprio ne Il bruciacadaveri che tratteggiò uno dei ritratti più riusciti della sempre attuale banalità del male, quella che, nelle parole della postfazione di Alessandro Catalano al romanzo, è la patologia collettiva del nazismo.
Assolutamente evocativo, capace di dar vita con successo ad un non facile connubio tra suggestioni figurative e dialoghi grotteschi, lo stile di Fuks riesce a trattare tematiche pesanti, eviscerando gli aspetti più torbidi della psiche individuale e sociale e suggerendo al lettore la presenza di leitmotiv capaci di racchiudere e dischiudere l’intero universo narrativo. Strizzando l’occhio agli studi storici e sociali di Mosse, da Sessualità e nazionalismo ai sottotesti simbolici analizzati ne La nazionalizzazione delle masse, vi è un continuo parallelismo tra il deterioramento psichico dell’eroe e l’ascesa del nazismo, con insistenza particolare sulla fragile rispettabilità della vita familiare e professionale, su cui è facile glissare una volta soppesate sulla stessa bilancia dell’ambizione opportunistica. Del resto, l’intero romanzo è una feroce satira al collaborazionismo arrivista mascherato da decenza borghese, ancor più pungente e sconfortante se ne si considerano gli esiti fin troppo noti.
Il romanzo
Come abbiamo già avuto modo di accennare, la storia di Karel Kopfrkingl è una cupa parabola sui risvolti del filisteismo sotto i regimi totalitari, tradotta nella folle scalata al potere di questo ambizioso impiegato di crematorio. Ci troviamo calati nella realtà del 1938, ai tempi dell’accordo di Monaco: il partito nazista stava negoziando l’occupazione del territorio dei Sudeti, zona cruciale per la difesa del territorio cecoslovacco, con il pretesto di curare gli interessi della popolazione di lingua tedesca stanziata nell’area. I membri del partito locale cercavano quindi appoggi tra la popolazione ceca, diffondendo propaganda ariana e antisemita. Karel, il nostro protagonista, è la caricatura del tipico borghese: uomo rispettabile, padre di famiglia amorevole -e visitatore abituale di case chiuse-, fine conoscitore dell’arte (o meglio, del kitsch così ben delineato da Broch). Ma dietro a questa facciata di apparente normalità si nasconde un soggetto viscido e ambiguo, ossessionato dal proprio lavoro e dalle distorte implicazioni filosofiche che ne fa derivare.
Non è la prima volta che la letteratura dell’area mitteleuropea si destreggia fra luci e ombre della classe borghese, basti pensare alle Confessioni di Márai o all’iconoclastia dell’Austria postbellica, ma Karel ne diventa insieme archetipo e caricatura. Grazie alla sua fallace interpretazione del buddhismo tibetano, infatti, scorge nella sua mansione al crematorio una sottesa missione religiosa: quella di liberare attraverso le fiamme un individuo dal peso del corpo, rendendone più agevole la reincarnazione.
Questa apparente distanza tra il misticismo spirituale buddhista e le teorie naziste, quasi assurda per un lettore che non ha una conoscenza approfondita in materia, ha però un riscontro storico. La stessa scelta del Tibet non fu casuale: nella postfazione all’edizione del 2018, Catalano osserva un interessante dettaglio. Negli anni della dittatura nazista, il Tibet divenne –su direttive di Himmler- meta di spedizioni atte a dimostrare l’origine himalayana degli antichi ariani. Di primo acchito ciò potrebbe apparire curioso, eppure si tratta di una suggestione connotata da un profondissimo significato simbolico per l’immaginario nazista. La purezza incontaminata delle montagne e dei suoi abitanti, archetipo per eccellenza dei teutonici forti e vigorosi, venne ampiamente celebrata dal popolo e dal cinema tedeschi: nel filone di film per le masse ivi ambientati, che si potrebbero definire senza troppi sensi di colpa i cinepanettoni del terzo Reich, spiccano su tutti le pellicole di Fanck e Pabst La montagna dell’amore, La tragedia di Pizzo Palù e Tempesta sul Monte Bianco. Questo espediente narrativo fu ciò che consentì alla politica di essere investita di una missione divina, da portare a termine ad ogni costo sotto la guida di un uomo illuminato. Peraltro, varrebbe la pena notare che il testo non nomina direttamente nessun personaggio realmente esistito: per vie ufficiali è infatti il Dalai Lama a fare le veci di questo prescelto, ma la presentazione delle manie di grandezza di un individuo grottesco che ha come obiettivo la creazione di un mondo migliore attraverso credenze distorte è, com’è facilmente intuibile, l’eco di un palese richiamo alla realtà storica.
In seguito alla frequentazione con l’ex commilitone Reinke, Karel entrerà in contatto con il nazismo, cedendo alle lusinghe e ai vantaggi che il partito andava offrendogli. Al che, una volta suggerito per il ruolo di kapò, Kopfrkingl sceglie di diventare un infallibile ingranaggio della macchina di sterminio: da iniziale entusiasta della concezione buddista di “cerchio della vita”, Karel deciderà di utilizzare il suo posto al crematorio a servizio del partito, nella speranza di salvare più persone possibili risparmiando[le] dalla sofferenza. Sarà proprio questo suo zelo implacabile, applicato all’ideologia antisemita che si stava affermando nella Praga occupata, ad innescare una serie di tragici eventi che coinvolgeranno lui e la sua famiglia, nella quale non è difficile riconoscere la sorte dell’intero popolo ebraico. Questo delirio filosofico ha il suo parossismo nella visione in cui immagina di diventare il nuovo Dalai Lama: la soluzione finale è il macabro disegno a cui Karel, in quanto eletto, dovrà adempiere.
Quella che inizialmente sembra la semplice descrizione -certo, forse un po’ bizzarra- della vita di un uomo qualunque e delle sue buffe idiosincrasie fa trapelare presto la sua vera natura. Il sentimento di disagio che trapela da quest’individuo rientra a pieno titolo nella definizione dell’Unheimliche freudiano, quel perturbante nato dalla compresenza di elementi estranei e familiari, che Fuks traspone in prosa tramite la ripetizione sempre più deformata delle parole, in un telefono senza fili che precipita verso il disastro. Questa discrepanza testuale e fattuale tra quanto detto da Karel e quanto invece accade è peraltro uno degli stilemi chiave del teatro dell’assurdo, utilizzato in questo caso non per intrattenere ma per inquietare.
Proprio come negli anni del Reich, nel romanzo coesistono due realtà parallele: quella delle parole e quella delle azioni. Un mellifluo Karel declama al mondo la propria soddisfazione familiare, l’orgoglio per i figli e l’amore per la sua Lakme, tronfio di integrità borghese, ma frequenta abitualmente i bordelli e rivolge premure non richieste alle dipendenti del crematorio. Quanto è affidabile come narratore, specialmente se inquadrato nell’ottica storica? Molto spesso le frasi vengono ripetute, rubate, riciclate o addirittura rimodellate in base alle circostanze. Un simile eroe senza personalità, Karel, un uomo così facilmente plasmabile, non può che suscitare il riso del lettore per la sua inconsistenza e per la trivialità del suo gusto spiccatamente kitsch: il mondo come ci viene presentato è una proiezione della sua individualità, nel bene e nel male, ragion per cui la logica e la consequenzialità di cui siamo passivi spettatori non rispondono a legge alcuna, se non al suo capriccio. Proprio per questo, ogni tentativo di decifrare Karel svanisce in una manciata di interpretazioni confuse e raffazzonate, dal momento che l’eroe sembra agire scevro da qualsiasi orientamento logico e morale. Eppure, se gettiamo lo sguardo al di là della patina conformista, si può notare che a non cambiare per tutto il romanzo è soltanto la sua facciata filistea ed ossequiosa: l’ipocrisia borghese è la sola a mantenersi tale nel maelstrom di ideologie e propaganda che andava trasformando la società in un distorto coacervo di connivenza e follia. Come se ciò non fosse sufficiente, sono anche la fascinazione per il macabro, la sensibilità alle lusinghe e la mancanza di autonomia a rendere Kopfrkingl un male inarrestabile e, al tempo stesso, il più comune degli uomini. Il vero orrore descritto da Fuks non è un’astratta macchina di sterminio, bensì l’uomo medio: un individuo malleabile, che esegue gli ordini con solerzia ed efficienza rinnegando la propria famiglia, le proprie tradizioni e la propria patria.
Non mancano i momenti comici, in particolar modo nelle circostanze più sconvenienti, e la sagacia di battute che nascondono un’interpretazione più macabra rende la lettura ancora più scomoda. L’efficacia della storia, in virtù dell’efficacia della comicità stessa, è tanto più forte quanto più è amara. In una vicenda così drammatica e seria, almeno stando alle premesse storiche, l’impiego di elementi grotteschi sembrerebbe addirittura inopportuno. Eppure, l’Est Europa ha da sempre fatto uso del grottesco e dell’ironia per veicolare la satira politica e ridere in faccia agli orrori della storia, caratteristica che nel Bruciacadaveri sconfina nel territorio dell’assurdo, quell’umorismo nero che Stig Dagerman, nel suo Autunno tedesco, definisce in termini splendidi “la consapevolezza di non dover soffrire in solitudine”.
È proprio grazie a questa consapevolezza storica che il processo di straniamento si fa più forte: risulta difficile sospendere l’incredulità davanti all’assurda trasformazione del personaggio di Karel, specie in una prosa congegnata come il bizzarro teatro delle figure di cera delle scene iniziali, dove l’ironia di una semplice parola fa da contraltare al risultato iperbolico e catastrofico delle azioni descritte. L’epilogo degli eventi è ben noto e anzi, fornisce ulteriori chiavi di lettura e analisi, in maggior misura proprio perché il seguito di tali avvenimenti non è esplicitato.
La scelta di un simile antieroe, per quanto discutibile, genera e nutre un sospetto costante che distanzia dalla possibilità di immedesimazione, facendo al contempo il verso allo stereotipo del freddo, integerrimo soldato teutonico. Del resto, è difficile capire, ed è naturale che lo sia. Come porsi di fronte ad un individuo che reca in sé le caratteristiche dell’uomo più comune e di ciò che è sempre stato associato al male più puro resta il grande interrogativo del Novecento, già dai fasti della cronaca del processo di Norimberga e, successivamente, del processo Eichmann, ma l’aggrapparsi al senso dato dai preconcetti non fa che distanziare dalla comprensione effettiva di un fenomeno che la collettività ha sempre voluto allontanare dal proprio vissuto e dalla propria coscienza. E se la conoscenza degli eventi storici è necessaria, altrettanto necessario è conoscere il tacito assenso dei cittadini su cui storia e società hanno spesso e volentieri glissato anche negli anni successivi.
Il film
Nel nostro immaginario collettivo, gli unici estremi a delimitare il vuoto della cinematografia dell’Europa centrale e orientale sono, da un lato, Kusturica e Tarkovskij per addetti al settore e radical chic, e dall’altro gli strascichi della recalcitranza pop nell’aprirsi a quei film cecoslovacchi in bianco e nero con i sottotitoli in tedesco. Non c’è quindi da stupirsi se della Nová Vlna in Italia si sappia ancora molto poco, sia per quanto concerne le pellicole in sé sia per l’interpretazione storica della temperie sociale di quegli anni. La liberalizzazione del clima culturale, in atto dall’inizio del 1960 alla fine della Primavera di Praga, permise la produzione di film a tematica ebraica in Cecoslovacchia. L’Olocausto, difatti, era ancora impresso a fuoco nella memoria culturale e artistica della nazione, e tali pellicole rendevano possibile la messa in scena di temi quali moralità individuale e relazione tra singolo e società, individuo e storia, discostandosi dagli ideali del Realismo Socialista. Nel fitto sottobosco di temi e tradizioni che la Nová Vlna fece fiorire nel cinema ceco e slovacco, la Shoah fu quindi un filone molto popolare che impegnò numerosi registi, guidandoli nell’esplorazione dei generi più disparati.
Tuttavia, nel 1968, anno delle riprese del film, l’Unione Sovietica invase la Cecoslovacchia, mettendo la parola fine a quel periodo così creativamente felice. Le forze occupanti, Germania nazista e Unione Sovietica, divennero quindi equivalenti nel loro modus operandi repressivo: l’iconografia del potere e del totalitarismo si prestava ad interpretazioni multiple, alludendo allo stesso modo ai crimini di guerra nazisti e al regime comunista che si era instaurato. Vi fu un interessante processo di mutamento: se prima l’identificazione del lettore doveva corrispondere all’ideologia dominante, come richiesto dai dettami del Realismo Socialista, il riflettore si spostò poi verso chi subiva i meccanismi repressivi del potere, ponendo l’accento sulla paura originata dal conflitto tra individuo e società. L’utilizzo del nazismo era un espediente narrativo atto a mettere in guardia la popolazione dalle facili lusinghe della propaganda sovietica, che avrebbe messo a dura prova l’etica individuale. Prima della Rivoluzione di velluto del 1989, ogni critica diretta al governo comunista era proibita. Come è naturale aspettarsi, numerosi film dell’area si ingegnarono per aggirare questo divieto utilizzando con intelligenza il sottotesto politico, ma le autorità sovietiche misero comunque al bando gran parte dei film della Nová Vlna, tra i quali figurava proprio Spalovač mrtvol, riabilitato in seguito dall’opinione popolare e divenendo, ad oggi, uno dei migliori film cecoslovacchi di tutti i tempi.
Certo, il film si colloca all’interno di tale filone, tuttavia l’approccio al tema da parte del regista slovacco Juraj Herz, figura liminale della Nová Vlna e sopravvissuto egli stesso ai campi di sterminio, è alquanto peculiare. Egli si presentò sempre come un outsider, affemando di “non [poter] dire di avere un senso di appartenenza alla Vlna, [di sentirsi] un tutt’uno con alcuni individui – con Jires, o Schorm, ma non con la Vlna”. Nato il 4 settembre 1934, lo stesso giorno di Jan Švankmajer, e formatosi al dipartimento dei burattini dell’AMU, l’Accademia di arti performative di Praga, Herz prese parte alla raccolta-manifesto Perličky na dně (Perline sul fondo). Spalovač mrtvol, conosciuto all’estero come The Cremator e candidato all’Oscar nel 1970 come miglior film straniero, si è col tempo guadagnato a buon diritto un posto nell’immaginario collettivo ceco, ed è, insieme a a Obchod na korze (A Shop on the High Street, di Kadár e Klos) e Démanty noci (Diamonds of the Night, di Němec), uno dei film più rappresentativi del genere, raggiungendo addirittura lo status di cult.
Presagita l’azione repressiva sovietica che sarebbe entrata in atto di lì a poco, con la conseguente limitazione della libertà espressiva per tutti gli intellettuali, Herz tentò di girare il film il più velocemente possibile. Eppure, proprio grazie allo stigma di outsider, riuscì ad assicurare la propria posizione e mantenere l’integrità artistica anche negli anni del regime comunista. I suoi film successivi sfoggiano lo stesso immaginario gotico e nichilista delle pellicole d’esordio, sempre con un occhio di riguardo allo sconforto per il genere umano, restando però nell’ambito degli adattamenti letterari, scelta che generalmente non risultava passibile di censura sotto la morsa sovietica. Tra le opere maggiormente note del suo corpus ricordiamo Lampade a olio, del 1971, tratto da un romanzo di Jaroslav Havliček, e Morgiana, dell’anno seguente, da un testo di Aleksandr Grin.
Spalovač mrtvol è spesso e volentieri descritto come uno strano ibrido tra l’amarissima commedia apocalittica del Dottor Stranamore e la spirale di follia di Repulsion, ma l’occhio di Herz è assolutamente clinico. Né lui né Fuks, con cui ha scritto la sceneggiatura a quattro mani, vogliono edulcorare l’orrore della vicenda agli occhi del lettore e dello spettatore.
La caratteristica più spiccatamente originale del film è senza dubbio il montaggio. Sin dai titoli di testa si viene messi di fronte all’utilizzo di immagini parziali, lacerate, frammentate e ricucite tra loro, sintomatiche dei tagli e delle ellissi della memoria e di una narrazione a focalizzazione interna. L’utilizzo creativo del montaggio alternato, che in sequenze veloci, quasi fulminee, alterna il punto di vista soggettivo di Kopfrkingl alla narrazione esterna, offre allo spettatore un assaggio di ciò su cui Karel sceglie di riversare la propria attenzione, che il più delle volte si sofferma su particolari sessualmente espliciti. Altre volte, invece, alla componente voyeuristica si sostituisce l’espressione diretta dei pensieri di Kopfrkingl, dischiudendo progressivamente la vertigine della sua follia. Lo spettatore è costretto a guardare la realtà come la vede Karel, e percepisce con maggiori immediatezza e potenza narrativa la sua inaffidabilità tramite la sovrapposizione immediata di immagini, come nella scena in cui la soluzione finale acquisisce il respiro solenne e grottesco del Giudizio Universale di Bosch.
Per immergere lo spettatore nella dimensione interiore di questo antieroe dissociato, il direttore della fotografia Stanislav Milota sceglie di distorcere la prospettiva attraverso un ampio utilizzo del fisheye e del grandangolo. Le stesse transizioni da scena a scena sono estremamente peculiari: da un primo piano di Karel si zooma indietro fino a rivelarne la figura intera in un ambiente diverso. In questo modo, risulta pressoché impossibile collocare le vicende in uno spazio e in un tempo precisi e consequenziali, dando ulteriore risalto alla dimensione psichica del personaggio come unico indice di affidabilità. Spalovač mrtvol non condanna e non giustifica, ma offre uno spaccato della psicosi storico-sociale attraverso l’identificazione forzata con il voyeurismo e l’egomania di Kopfrkingl. La scelta del bianco e nero, e soprattutto della composizione, è un omaggio al cinema espressionista tedesco. Tutti gli elementi, nel loro rigore, hanno una loro funzionalità caricaturale: architettura, quadri, poster, persino gli stessi volti dei personaggi. Hrusinský, l’attore protagonista, vessillo in carne e ossa dell’inquietante associazione tra volto serafico e psiche marcia, sconfina a pieno titolo nell’Unheimliche freudiano di cui sopra. Per metterla in termini lombrosiani, è praticamente impossibile non percepire lo straniamento emanato da un nazista le cui fattezze somigliano più alla definizione di Untermensch che ad un vigoroso eroe ariano. È un disegno che fa parte dell’intento paradossale della narrazione, per quanto, nella sua personale interpretazione dei fatti, Karel si ritenga un’incarnazione visibile del superuomo tedesco.
Estremamente funzionale è anche l’utilizzo delle scenografie, che gradualmente, con il procedere della narrazione, vengono inquadrate sempre più secondo i canoni dell’estetica totalitaria, con la sua preferenza per il rigoroso e il monumentale. Il lugubre crematorio, nelle prime scene abbozzato appena, acquisisce la corporeità ieratica dei monumenti nazionalisti tedeschi, con le loro geometrie classiche e pulite che miravano a ricreare il senso più puro del sacro a partire dai modelli greci. Ed è proprio così che la definizione di tempio della morte datogli da Karel varca i confini dell’ironia per lasciare spazio soltanto ad una crudissima inquietudine. Se, seguendo quest’ottica, l’Olocausto è quasi un’allucinazione, un capriccio delle velleità carrieristiche di Kopfrkingl, è purtroppo l’unico elemento al quale gli spettatori possono collegare la realtà dei fatti, e vale la pena osservare che il crematorio è il solo ambiente, all’interno della narrazione, a fornire uno spiraglio di inquadramento storico e politico.
Risulta difficile credere che il pessimismo decadente di questa danza macabra, pungente e feroce critica al vetriolo nei confronti di qualsiasi ideologia totalitaria, abbia ottenuto l’approvazione delle autorità comuniste (Herz stesso, peraltro, si astenne dal nominare esplicitamente il nazismo nei discorsi di Reinke, riferendosi semplicemente ad un generico “Partito” lasciando ambigua l’interpretazione). Eppure la sceneggiatura brillante, la messa in scena grottesca e disorientante che strizza l’occhio all’Espressionismo tedesco, l’interpretazione convincente e fenomenale di Hrusínský nel ruolo del viscido protagonista e la splendida colonna sonora che accompagna la vicenda ai confini del perturbante rendono Spalovač mrtvol una perla rara, che unisce magistralmente l’estetica dell’eccesso camp ad uno stile morboso e sublime.
Uno di noi è l’ultimo libro di Daniele Zito, pubblicato da Miraggi Edizioni nella sua collana Scafiblù, ricca di titoli e autori interessanti (qui avevamo recensito Pontescuro di Luca Ragagnin). Un romanzo in versi, crudo, che si caratterizza per la molteplicità delle voci e per un sapiente dosaggio di crudeltà e risentimento.
Il libro Uno di noi, di Daniele Zito e pubblicato da Miraggi editore alla fine del 2019 è un testo prevalentemente uditivo, intessuto da una molteplicità di voci concorrenti, ma non antagoniste, che dicono e si dicono dialogando – ma più spesso assumono, queste voci, la forma di soliloqui – attorno a un unico tema, un fatto di cronaca, un’azione cruenta la cui tragicità è pari soltanto alla vacua stupidità che la origina. Quale sia questo fatto – da intendersi come azione ponderata e volontaria – riassume gran parte della storia, coagulando quindi il proprium di questo romanzo in versi attorno al discorso: quattro persone, quattro maschi, quattro amici, quattro padri, quattro mariti, decidono di dare alla fiamme una baraccopoli non prevedendo che ci possa essere qualcuno incapace di sottrarsi alla potenza devastatrice del fuoco e che dunque abbia in sorte di soccombere, non subito, lentamente, agonizzando, in ospedale. Una bambina. Una bambina disabile. Una bambina disabile che sarebbe potuta essere la figlia di.
Romanzo in versi, dicevo, costruito in modo da alludere, pur con le dovute cautele, alla tragedia classica: la divisione in cinque macro strutture, la presenza del coro e del suo corifeo, la possibilità di individuare delle scene drammatiche precise e dei personaggi altrettanto definiti. Ma – a differenza di una tragedia, e non è poca cosa anzi, è motivo di massimo interesse del romanzo – in questo dramma non c’è alcun intreccio da sciogliere, essendo come detto sopra l’azione autosufficiente e autoesplicativa, episodio di male assoluto e autentico. La finzione appartiene al discorso, non alla storia: è nelle voci, nelle motivazioni, nello stupore, nella trama di apparenti connessioni causali e temporali e spaziali. Il male che alligna nel discorso è un male fittizio; viceversa, quello della storia è reale, eternamente alluso, ripetitivo. Dice bene Simone Weil:
Nulla più del bene è bello, meraviglioso, perpetuamente nuovo, perpetuamente sorprendente, carico di una dolce e continua ebbrezza. Nulla più del male è desertico, triste, monotono, fastidioso. Tali sono il male e il bene autentici[1].
Spesso al lettore capita di essere scosso da una sorta di scivolamento testuale: è quando viene preso dallo straniamento che una voce diversa genera scostandosi dalla monotonia diffusa:
dobbiamo riprenderci
ciò che è nostro
nostre sono le strade
nostri i confini
nostri i cieli
sopra gli aquiloni
nostro è il suolo
nostri i fiumi
nostre le acque
nostre le nuvole
sopra i covoni
ce l’avrei io, una bella soluzione
facile facile: le ruspe
cari miei, le ruspe!
e dove le ruspe non arrivano
le fiamme, i lapilli, la cenere
Laddove lo straniamento è dato dalle due strofe centrali, che hanno da un lato l’andamento di una allegra filastrocca e dall’altro la carica immaginifica delle figurazioni poetiche, e che sono incorniciate da due altre di tenore normalmente discorsivo, di tono rabbioso, di contenuto popolarmente malvagio. Esempi di questa soluzione che ne sarebbero numerosi, disseminati lungo tutto il testo.
Parallelamente, ciò che vale la pena sottolineare è la disseminazione dei punti di vista, ottenuta da una moltiplicazione difficilmente arginabile delle voci e che origina quel primato uditivo di cui dicevo in apertura. Non è tanto in atto una dissoluzione della possibilità di una verità unica sul fatto; non è in discussione, non importa, non c’entra. È piuttosto in gioco la tensione che si crea in questo indefinibile campo d’azione delle onde sonore generato dai lamenti, dai canti, dai suoni, dalle voci, appunto. È questo accumularsi di rumore a farsi reale protagonista della storia e della realtà contemporanea cui la storia appartiene.
Questa disseminazione è prevalente nel secondo movimento (Secondo fiume) dove si alternano le testimonianze di vari personaggi diversamente coinvolti, ma la si può riscontrare lungo tutto il romanzo che allora è, nel suo svolgimento, un lento dipanarsi dell’assunzione implicita del titolo: uno di noi è sì uno dei quattro, anche protagonista di questo racconto (e quindi: uno di noi quattro), ma è altresì uno di noi tutti, uno qualsiasi, un tale: un uno, un nessuno, un centomila.
Nel generale disimpegno (addirittura tre dei quattro non sono nemmeno chiamati in causa, di loro e di ciò che pensano – se ne pensano – nulla viene detto) il fatto scolora, la sofferenza e il lamento vengono riassorbiti, la vita continua. E se uno dei quattro ha a che fare col proprio pentimento, con il senso di colpa, il bisogno di vedere un po’ di giustizia spetta, programmaticamente, a Un illuso: ma è una comparsa veloce, effimera, anch’essa preda della irrefrenabile voracità del masso di Sisifo che non può non rotolare lungo il piano inclinato della sconfitta trionfante.
il pomeriggio va spegnendosi
senza troppo violenza
un colore alla volta
un respiro dopo l’altro
vorrei andarmene anch’io
ma qualcosa mi obbliga
a restare
che siano gli occhi di quel padre?
o forse i miei
mi capita spesso di notarli
mi fissano dagli specchi
dalle vetrine
non fanno molto altro
si limitano a guardare
bisogna, proprio
passarselo di mano in mano
lo sguardo, e stare attenti
che non cada
che non vada in pezzi
Perché al fondo della questione, laddove la parola è chiacchiera, il suono è rumore, l’Io diventa si, anche la tragedia si fa impossibile, nulla la catarsi, e la maschera si dissocia definitivamente dalla persona.
Allora davvero nessun dio, nemmeno ex machina, ci può salvare.
Daniele Zito, Uno di noi
[1] Simone Weil, Morale e letteratura, in La persona e il sacro, Trad. di Maria Concetta Sala, Adelphi, Milano 2012
Lo scrittore Marco Giacosa, autore de Il pranzo di nozze di Renzo e Lucia, Miraggi, 2017, il saggio L’Italia dei sindaci add, 2015, la serie DisasterChef , Miraggi, 2014, e la raccolta di racconti L’occhio della mucca, MarcoValerio, 2014, ritorna in libreria sempre per la casa editrice piemontese Miraggi, con un memoir dedicato a suo padre, una storia di paesi e di colline, e a suo nonno con il quale ha vissuto l’infanzia in campagna giocando con gli animali, studiando i nidi delle formiche e cercando il muschio.
Marco Giacosa ripercorre i sentieri dei suoi ricordi nelle Langhe Inquiete, una biografia dedicata alla sua famiglia, ai suoi affetti, tra partite di pallone, i primi amori, ma soprattutto ripercorrendo la vita dei suoi genitori, il padre veterinario che ha sempre mantenuto i suoi principi onesti della professione, non si è mai arricchito a spese degli indifesi nella lotta del potere, e Marco si scopre essere identico a lui “perché sono come te, perché io me ne frego se i professionisti come te si sono arricchiti e tu no. Piango come un bovino perché ti sei sentito di questo colpevolmente incapace, io che invece per questo ti ho amato, padre.”
Un passaggio delicato, profondamente intenso che racchiude la storia di un uomo che curava anche i cani dei sinti piemontesi, senza alcuna remora, senza alcun pregiudizio.
Nei suoi racconti di bambino che diventano sempre più maturi, il rapporto genitoriale che assume spesso – come in qualsiasi famiglia – i tratti della conflittualità e della ribellione, ma sempre con pacatezza e condivisione. Sono frammenti, ritagli di immagine di un passato vissuto in una cultura che ostenta una pervicace devozione religiosa, ma anche l’impronta di un luogo ancora intimidito dalle superstizioni dove si narra del canto della civetta, un canto che agli occhi di un bambino può incutere paura, la paura della morte.
“Sei una roccia che si sbriciola, occhi dolcissimi che guardano lontano, seppure l’infinito sia ora il corridoio, sei bellissima perché il male non riesce a spegnere il tuo sguardo. Quando sorridi incanti.”
In queste bellissime parole, Marco affida il ricordo della sua amata madre, della sua malattia e del suo lavoro alla Ferrero e di come siano cambiati i tempi, da una piccola comunità di lavoratori, alle grandi realtà moderne.
“Reinventarsi è la parola che accompagna delocalizzazione. Per una persona che in un posto si reinventa, ce n’è una che altrove migliora la qualità della vita.”
Una realtà – oggi – ben diversa da quella degli anni settanta, che si affacciava al nuovo decennio, cosa sia meglio o peggio rispetto ad allora non è facile a dirsi, resta sempre e comunque la memoria di un vissuto cementato nel profondo e di una idea di casa mai abbandonata sempre e comunque viva nel ricordo
Sono flashback di langhe, si inquieta, perché racchiudono una inquietudine interiore, ma anche forse il ritratto di un luogo in bianco e nero che narra le storie dei suoi protagonisti, e di un bambino che giocava a pallone elastico.
“Sciolgo la barca e ti faccio salire, il mare si calma, ti sospingo via, lontana, è ora che il male vada, che rimanga tutto ciò che sei libera dal male, dalla morte, è ora che tu vada, ti faccio morire, mamma, è il più bel regalo che possiamo farci.”
Scongiurare la fine. Vita estetica e parola etica in Roberto Bolaño
E nonostante tutto, le parole praticavano più l’arte di nascondere che l’arte di svelare. O forse svelavano qualcosa. Che cosa?, le confesso che non lo so.
Roberto Bolaño, 2666
I. Uno scrittore di transizione
Roberto Bolaño è ormai universalmente riconosciuto come uno dei massimi scrittori della narrativa contemporanea mondiale. Negli ultimi trent’anni la scena letteraria internazionale ha visto crescere esponenzialmente la fama dello scrittore cileno che si è imposto come pilastro della letteratura globale del XXI secolo. Infatti, pur avendo vissuto nel nuovo millennio per poco più di tre anni (muore nel 2003, poco più che cinquantenne, per insufficienza epatica mentre era in attesa per un trapianto di fegato), Bolaño continua ad influenzare prepotentemente l’immaginario dei lettori e degli scrittori dei giorni nostri. Quest’influenza negli anni ha assunto la forma di una vera e propria mitografia para-istituzionale: stencil, murales, volumi celebrativi, foto e interviste inedite, hanno iniziato a proliferare dopo la sua morte, alimentando l’immaginario etico ed estetico che già lo scrittore aveva contribuito a fondare e che, forse troppo spesso, ha deformato molti aspetti delle implicazioni esegetiche delle sue opere. Quando la mitografia popolare, infatti, si istituzionalizza, diventa allora banalizzabile e il senso ne viene distorto. Di conseguenza, per compiere una lucida analisi del corpus letterario di questo autore, imprescindibile per la comprensione della letteratura di fine millennio (e dell’inizio di quello successivo), bisogna incrinare il più possibile la stratificazione mitografica che lo avvolge e confrontarsi con gli aspetti più nudi dei suoi testi; ovviamente, fin quando ciò è possibile, fin quando cioè, mitologia etica e creazione estetica non risultino totalmente indissolubili all’interno della riflessione poetica. Probabilmente, per iniziare a parlare dell’opera di Bolaño, si può considerare l’operazione che Raffaele Donnarumma compie nel suo studio intitolato Ipermodernità, con la quale colloca il cileno, insieme a David Foster Wallace, in una «zona di transito»[1] che segna il passaggio dalle modalità artistiche postmoderne ormai in esaurimento, alle tendenze del nuovo millennio. In effetti, il ruolo di “scrittore di transizione” ben si addice a descrivere la valenza culturale di Bolaño, soprattutto se si considera, da un lato, la robusta tendenza alla derealizzazione e all’utilizzo di quelle che Donnarumma chiama «strategie di irrisione del senso»[2] e, dall’altro, l’inesauribile necessità di sperimentazione narrativa, tramite la quale Bolaño ha cercato di innovare la duratura lezione dei grandi maestri sudamericani, Borges e Cortázar, non individuando però il principio ordinatore dei sui testi nella costruzione di vorticosi universi labirintici, volti alla testualizzazione del mondo circostante, bensì nell’indagine ostinata della realtà, nonostante l’ormai evidente impossibilità di sintesi. Nel solco tracciato da questa prospettiva, lo scopo di questo saggio è, quindi, quello di soffermarsi sulla funzione traghettatrice svolta da Bolaño, rapportandone la produzione all’ambiente socio-culturale di fine secolo, saturato da un senso di esaurimento imminente, cercando di individuare quale ruolo può occupare la letteratura nella percezione del mondo di uno scrittore che si sente ai confini ultimi della storia, e mostrare che proprio l’esercizio della letteratura risulta essere il mezzo per saltare il vuoto della fine e proiettarsi verso ciò che c’è dopo.
II. Fine della storia, postdittatura e letteratura dell’apocalisse
Della fine, del fatto che qualcosa si sta gradualmente esaurendo, nell’esperienza letteraria di Bolaño si può parlare in diversi modi. Il primo, e più immediato, è la sua biografia. Infatti, pur essendo stato principalmente un poeta per gran parte della sua vita (dell’avanguardia infrarealista della metà degli anni Settanta, alle poesie della permanenza catalana scritte tra gli anni Ottanta e il 1998, confluite nella raccolta I cani romantici, che rappresentano una vera e propria fucina di temi e spunti per I detective selvaggi) Bolaño si è imposto al pubblico e alla critica per la sua produzione narrativa, la quale ha occupato unicamente gli ultimi dieci anni della sua vita. Questo dato è indicativo poiché ci costringe a priori a tenere in conto che, il Bolaño che più ha influito sul panorama culturale è un uomo malato (la cirrosi epatica gli era stata diagnosticata nel 1992), che ha ormai familiarizzato con l’idea che la sua vita stia per concludersi. Ciò, quindi, ci permette di compiere alcune considerazioni riguardo le opere che occuparono gli ultimi anni della sua vita, rilevando l’aura da messaggio definitivo ma intrinsecamente incompleto che le attraversa, o ad esempio, interpretando catarticamente l’uscita di scena di Arturo Belano, alter ego ricorrente dell’autore, alla fine della seconda sezione de I detective selvaggi. Ma di certo più interessante è discutere del contesto storico che partorisce le due opere che caleranno il sipario sulla sua carriera letteraria, nonché sulla sua vita. In questo senso non si può ignorare il dittico “fine del secolo/fine della dittatura” che percorre e sottende tutta la produzione di Bolaño. Per il primo termine del sistema, bisogna considerare che il crepuscolo del secolo che sta finendo getta gli ultimi raggi di luce su un intero millennio di storia umana: Fukuyama teorizza la fine della storia, il raggiungimento del culmine della società umana, del suo assetto politico-sociale, un limite invalicabile oltre il quale non si può più andare, un limite che significa esaurimento o regressione. Nonostante questo mito sia stato prontamente smentito dal corso degli eventi (probabilmente anche prima del fatidico 11 Settembre), difficilmente può essere trascurato in un bilancio generale del periodo storico e della consapevolezza generalizzata della necessità di confrontarsi con la fine di un’era. Per parlare del secondo, bisogna ricordare che nel 1990 termina il regime dittatoriale di Pinochet in Cile, ponendo il problema di una riflessione approfondita sulla memoria e sulla narrazione di un periodo storico che ha sfigurato un paese e milioni di esistenze. Il connubio di questi due aspetti genera un clima culturale di diffusa malinconia che, secondo una dinamica tratteggiata da Paula Aguilar, diventa una posizione intellettuale, presentandosi «come possibilità estetica incarnata nella percezione disincantata di congetture storiche e racconti della storia, come visione del mondo segnata dalle cadute di fine secolo/fine dittatura»[3], dalla quale deriva inesorabilmente «il rovescio di una letteratura ottimista dalle tonalità eroiche, […] una narrativa di fine secolo attraversata dal fallimento delle grandi narrazioni: il notturno, la malinconia e il crepuscolo come simboli del presente»[4]. Allora, è solo davanti alla fine della società, alla dissoluzione di ogni sistema socio-politico in un vortice di violenza e malinconia, che possiamo spiegarci perché Edmundo Paz Soldán parla di «letteratura e apocalisse»[5], ponendo l’attenzione sull’apocalisse culturale che sottende l’opera di Bolaño, il cui esito più immediato è l’articolazione di un mondo scosso da una sorta di violenza congenita, come se questa fosse stata l’unica cosa in grado di resistere alla disgregazione della realtà. Simulacro della marcescenza del mondo, può essere considerata la città di Santa Teresa, luogo simbolicamente importante de I detective selvaggi e perno intorno alla quale ruota tutta la struttura di 2666. Le cinque parti indipendenti che compongono l’enorme romanzo, infatti, vedono ruotare una serie di personaggi di varia natura – poliziotti, giornalisti, critici letterari, intellettuali, operai e prostitute – intorno a due assi fondamentali: la ricerca di uno sfuggente scrittore tedesco conosciuto con il nome d’arte di Benno von Arcimboldi, considerato come uno dei più grandi geni letterari del Novecento e l’assassinio seriale di oltre duecento donne nel corso degli anni Novanta nella città di Santa Teresa, luogo nel quale tutte le storie andranno a congiungersi. Posta in un luogo simbolico, come il confine tra Stati Uniti e Messico, nel quale avviene una brusca transizione, nel giro di pochi chilometri, tra primo e terzo mondo, evidenziando lo squilibrio costante della realtà che si cerca di rappresentare, e delineandosi come una sorta di spazio selvaggio nel quale non vige alcuna legge morale, Santa Teresa è completamente in balia di quella parte d’umanità spregevole il cui «modo di concepire il mondo è la morte della società contemporanea»[6], ma che sembra effettivamente l’unica rimasta. Un tipo di umanità che decreta la «sconfitta della legge, della civiltà»[7] – dal momento che «l’impossibilità di sottrarsi ai pregiudizi sessisti e razzisti ha una relazione diretta con l’impossibilità di risolvere i crimini»[8] – diventando, di conseguenza, lo sbocco ideologico di tutto il XX secolo. Ciò è lampante in alcune pagine perturbanti della quarta sezione dell’opera (La parte dei delitti), come quella nella quale un manipolo di poliziotti si raduna in una tavola calda per la colazione dopo una notte di indagini, intrattenendosi con una lunga serie di barzellette sessiste (enumerate in modo quasi cinico dall’autore per provocare un forte senso di disgusto), o come quella che descrive la violenza di gruppo che, ancora una volta, dei poliziotti compiono nei confronti di alcune prostitute arrestate: distinguere i poliziotti dagli assassini, la legge dal crimine, il bene dal male, non è più possibile:
Nelle altre celle i poliziotti stavano violentando le puttane della Riviera. Ciao, Lalito, disse Epifanio, ti unisci alla baldoria? No disse Lalo Cura, e tu? Nemmeno io disse Epifanio. Quando si stancarono di guardare uscirono tutti e due a prendere il fresco in strada. Cos’hanno fatto quelle puttane, chiese Lalo. Sembra che abbiano liquidato una compagna, disse Epifanio. Lalo rimase in silenzio. La brezza che soffiava a quell’ora per le strade di Santa Teresa era davvero fresca. La luna, piena di cicatrici, splendeva ancora nel cielo.[9]
Quello che vede e rappresenta Bolaño, quindi, è un mondo polimorfo, di confini sfumati e indistinzioni. Un mondo che, sulla soglia della fine, vede le sue certezze disperdersi in un vortice di significati inafferrabili e sensi discordanti.
III. Vita artistica e detective
Interrogandoci riguardo la funzione effettiva che Bolaño attribuisce alla letteratura (e alla scrittura), è utile partire da uno spunto critico che permette di compiere alcune considerazioni interessanti. Rodrigo Fresán, in un saggio intitolato Il samurai romantico, riporta un passaggio di un’intervista in cui Bolaño espone la sua visione della letteratura con una delle iperboliche metafore che gli sono proprie.
La letteratura somiglia molto alla lotta dei samurai, ma un samurai non combatte contro un altro samurai: combatte contro un mostro. Generalmente, poi, sa che sarà sconfitto. Avere il coraggio, sapendo fin da prima che sarai sconfitto, e uscire a combattere: questa è letteratura.[10]
Successivamente Fresán riflette su questa citazione:
l’opera di Bolaño […] è una di quelle che meglio obbliga […] a una quasi irrefrenabile necessità di leggere, scrivere e intendere questo lavoro come un estremo combattimento, un viaggio definitivo, un’avventura dalla quale non c’è ritorno, perché termina solo quando si esala l’ultimo respiro e si annota l’ultima parola.[11]
A questo punto bisogna considerare che, per quanto i due passi siano contaminati dall’aura mitica creatasi intorno alla figura di Bolaño, o che comunque offrano una visione poetica della scrittura all’estremo dell’autore, oltrepassando la coltre di mitografia è possibile evidenziare un dato sensibile: l’inscindibilità della componente etica da quella estetica in un’analisi della letteratura del cileno. Istituire un rapporto dialogico fra queste due istanze, capire come lavorano e come interagiscono è, infatti, la chiave per svelare i significati più profondi dell’operazione poetica di Bolaño e comprenderne gli aspetti più moderni. Dall’opera di Bolaño, emerge prepotentemente l’idea che l’arte estendendosi, estremizzandosi, inglobando qualsiasi cosa e connotandosi come unico motore della vita dei personaggi, paradossalmente perda qualsiasi autoreferenzialità: diventa un modo di stare al mondo e processare la realtà. La vita viene concepita principalmente come “vita artistica”, intesa non come chiusura estetica esclusiva, alla maniera del dandy o dell’esteta, bensì come via per aprire un’indagine sul mondo del più ampio raggio possibile. Bolaño nei suoi scritti parla di arte, ma soprattutto di letteratura, ricercando l’essenza del reale per interpretarlo e, difatti, non è possibile limitare le lunghe digressioni di natura quasi saggistica, strabordanti di nomi di opere e autori di qualsiasi provenienza geografica o culturale, ad un mero gioco di specchi, ma parlare di letteratura diventa un modo per parlare di esseri umani. Basti pensare a due passi chiarificatori de I detective selvaggi. Nel primo, l’eccentrico poeta omosessuale Ernesto San Epifanio riscrive un canone poetico transnazionale nel quale confluiscono anche diversi poeti italiani (Pavese, Sanguineti, Leopardi, Montale, per citarne alcuni), usando categorie molto peculiari che, evidentemente, valicano il semplice giudizio estetico per ricercare significati di altra matrice.
Nell’immenso oceano della poesia distingueva varie correnti: frocioni, froci, frocetti, checche, culi, finocchi, efebi e narcisi. Le due correnti maggiori, tuttavia, erano quelle dei frocioni e dei froci. Walt Whitman, per esempio, era un poeta frocione. Pablo Neruda, un poeta frocio. William Blake era, senz’ombra di dubbio, un frocione, e Octavio Paz un frocio. Borges era un efebo, cioè poteva diventare all’improvviso frocione e all’improvviso rivelarsi semplicemente asessuale.[12]
Nel secondo, Bolaño dedica un intero capitolo della sezione mediana dell’opera (nella quale vengono raccolte quasi cinquecento pagine di testimonianze fittizie che ricostruiscono asistematicamente la vita dei due protagonisti, Arturo Belano e Ulises Lima) alla voce di un manipolo di scrittori, esponenti di diverse correnti, presenti alla Fiera del libro di Madrid del 1994, riflettendo sullo stato di asservimento alle regole del mercato della letteratura e degli intellettuali del tempo: in uno scenario del genere, anche il poeta Pelayo Barrendoain, affetto da diversi disturbi psichici, riflette sul fatto che sia la sua stessa malattia a dargli successo e guadagno, poiché è ciò che attira i suoi lettori, «quelli a pezzi, quelli massacrati»[13] e alimentati dalla sua follia. Bolaño quindi, parla molto spesso di letteratura, ma soprattutto di vita letteraria. Nelle sue opere assistiamo ad un proliferare di personaggi artisti, spesso posti ai limiti della società, che come modo di vivere conoscono soltanto la vita artistica. Inseguendo l’arte, inseguendo quel sogno che l’autore esplica nella poesia I cani romantici[14], che apre la raccolta omonima, essi fanno esperienza del mondo, indagano e riflettono su dinamiche che trascendono l’ambito artistico. I due protagonisti de I detective selvaggi si mettono in viaggio per le aride strade del deserto del Sonora alla ricerca della fantomatica Cesárea Tinajero, poetessa fondatrice del movimento realvisceralista, di cui i due si proclamano nuovi pionieri. Quando la trovano ne causano la morte e rimangono condannati a vagare per il resto delle loro vite orfani di un riferimento, poetico ed etico, e di un sogno. Infatti con la morte di Cesárea (posta nell’ultima sezione, cronologicamente precedente alla seconda, come chiave di lettura finale di tutto ciò che verrà dopo), ma più probabilmente con la visione dell’oceano di solitudine e rimpianti in cui si è arenata la rivoluzione che essa ha tentato, svanisce anche l’utopia poetica che avevano costruito. La morte della poetessa sarà l’evento che darà il via al lungo vagabondare dei due realvisceralisti, che continueranno a inseguire per anni qualcosa che sanno non esistere, consapevoli della vanità della loro ricerca. Sulla falsa riga di Arturo Belano e Ulises Lima, i quattro critici protagonisti de La parte dei critici, prima sezione di 2666, dedicano tutta la loro carriera accademica, ma anche tutta la loro vita, allo studio della produzione di Benno von Arcimboldi. Per caso, grazie alle informazioni di uno studente messicano, riescono a capire che lo scrittore si trova proprio a Santa Teresa e, tre di loro, decidono di intraprendere un viaggio alla volta del paese centroamericano. Dopo svariati mesi di permanenza, in cui la ricerca infruttuosa della sfuggente personalità di Arcimboldi passa in secondo piano, sopraffatta dal vortice di esperienze in cui vengono avviluppati i protagonisti, una di loro, Liz Norton, decide di andare via, capendo di essere innamorata del critico rimasto a casa, Piero Morini, e i due reduci, Pellettier e Espinoza, in procinto di ripartire per l’Europa, si fermano davanti alla consapevolezza del fallimento della loro ricerca; ci sono andati vicino, non ci andranno mai più vicino, e questo deve bastargli. «Arcimboldi è qua», disse Pellettier, «e noi siamo qua, e non gli arriveremo mai più vicino di così»[15]. Proprio come Lima e Belano, i due critici devono arrendersi davanti all’insolvenza (o alla riuscita misera) della loro inchiesta, la quale non li vedrà mai arrivare al raggiungimento della verità. In quest’ottica, assume allora un ruolo rilevante la costruzione da detective story che hanno i testi di Bolaño, i quali ruotano spesso intorno ad un enigma da risolvere, facendo emergere la figura tutta concettuale del detective, poiché quasi sempre a rivestirla sono dei letterati. Il detective, colui che ricerca e indaga sulla verità in una realtà che assume dei connotati sempre più opachi, si sovrappone all’artista (secondo una dinamica non completamente nuova, tanto che volendo è possibile riscontrarne un archetipo addirittura nel componimento di Baudelaire Una martire, nel quale il poeta descrive una sorta di scena del crimine, metaforizzando la degenerazione della nuova realtà di cui egli è testimone). Da elemento unificante, nei meccanismi del giallo classico, il detective diventa colui che assiste alla dissoluzione e ne prende atto, l’enigma del suo tempo non può essere risolto, tutto ciò che rimane è lo sforzo dell’indagine; ed è significativo che a compierlo siano proprio degli intellettuali, molto spesso proprio degli scrittori.
IV. La parola per quello che viene dopo
Avviandoci verso la conclusione, è interessante notare che la ricaduta formale di questo sostrato morale volto all’indagine perenne del mondo, prenda corpo nella produzione di quelli che potremmo definire veri e propri romanzi-fiume, delle macchine narrative rizomatiche che si protraggono per svariate centinaia di pagine, capaci di inglobare una quantità impressionante di materiali e modalità narrative. Le creature di Bolaño, infatti, sono scandite da un’incessante necessità di ricerca che si esplica nella costante tendenza alla digressione. Come suggerisce Carlo Tirinanzi De Medici,
in questi romanzi la lunghezza è un elemento essenziale per permettere di rappresentare il mondo in cui ci muoviamo: un mondo enorme e dispersivo, entro cui i personaggi si perdono, in cui le storie si moltiplicano e s’intrecciano secondo un principio di pluralità e coesistenza sincrona.[16]
Di conseguenza, stride ma non risulta inadeguato passare, nel giro di poche pagine, dalla descrizione cronachistica di decine di omicidi ai consigli per una sana alimentazione impartiti da una cartomante in un programma televisivo, o da paragrafi dominati dalle informazioni riguardanti Animali e piante del litorale europeo (il primo libro mai letto da Arcimboldi), alla descrizione della seconda guerra mondiale. Veri e propri disegni geometrici che tentano di ordinare il canone filosofico europeo o riflessioni riguardanti i ready made di Duchamp (entrambi in La parte di Amalfitano), convivono con inserti metanarrativi e lunghe narrazioni che si incastrano all’interno dell’esoscheletro principale, come quella riguardante lo scrittore fittizio Boris Ansky. Massimalisticamente, la scrittura di Bolaño tende a saturare l’orizzonte del lettore con la parola, l’unico strumento adattato a scandagliare le pieghe della realtà. La parola consente l’esplorazione di un mondo ormai disorganico, quindi non stupisce che il soggetto della rappresentazione risulti ineluttabilmente deformato. I personaggi, soprattutto quelli di 2666, vivono una realtà costantemente esposta al rischio di rarefarsi, in cui si aprono sistematicamente squarci onirici che sembrano trascenderla. I connotati si deturpano, le azioni si estremizzano (come quella del pittore Edwin Johns, che si amputa la mano con cui dipinge e la pone sulla sua ultima opera per raggiungere gloria e denaro) e nel reale si formano spazi di illogicità pura, basti pensare alla voce con cui Amalfitano dialoga per gran parte della sezione dedicatagli, o ai sogni e alle visioni che assalgono tanti altri personaggi. Come nota, infatti, Peter Elmore, il realismo di Bolaño si muove «su un piano che non è meramente empirico, ma anche simbolico e psichico»[17] e di conseguenza «il mostruoso non è una deformazione soggettiva del reale, ma la sua forma più arcana e terribile»[18]. Testualizzare il mondo allora, non è più, alla maniera postmoderna, un meccanismo deformante concepito intrinsecamente alla rappresentazione, volto alla creazione di strutture labirintiche che esauriscono in loro stesse il proprio senso, ma è rappresentazione pura: presa di coscienza di una realtà polimorfa sino alla radice. Dunque, è quest’indagine ostinata, al cui servizio pone tutta la sua opera, ad essere l’aspetto più significativo nell’ambito di una proiezione dell’esperienza letteraria di Bolaño verso il terzo millennio, «è in questa ricerca incessante, vana e necessaria che sta il vero senso della sua modernità»[19]. La valenza culturale di Bolaño, in conclusione, sta nell’essersi riuscito a confrontare con la dissoluzione di una realtà ormai impossibile da circoscrivere, non approdando a conclusioni nichiliste, ma anzi, trovando nello sforzo di sintetizzare ciò che è ormai definitivamente franto, una via da percorrere, un modo di esplorare l’apocalisse nel tentativo stesso di scongiurarla.
Raffaele Donnarumma, Ipermodernità, Bologna, il Mulino, 2014, p. 109. ↑
Paula Aguilar, «Povera memoria la mia». Letteratura e malinconia nel contesto della postdittatura cilena, in Bolaño selvaggio, a cura di Edmundo Paz Soldán e Gustavo Faverón Patriau, traduzioni di Marino Magliani e Giovanni Agnoloni, Torino, Miraggi, 2019, p. 105. ↑
Riporto qui i versi più significativi ai fini della presente trattazione: «A quel tempo avevo vent’anni | ed ero pazzo. | Avevo perso un paese | ma guadagnato un sogno». (Id., I cani romantici, traduzione di I. Carmignani, Roma, SUR, 2018, p. 7). ↑
Carlo Tirinanzi De Medici, Mondo epico e mondo romanzesco nel sistema narrativo contemporaneo, in L’epica dopo il moderno (1945 – 2015), a cura di Francesco de Cristofaro, Pisa, Pacini, 2017, p. 64. ↑
Peter Elmore, 2666: l’autorialità al tempo limite, in Bolaño selvaggio, cit., p. 232. ↑
Nella vita spesso le cose non succedono a caso. Louis, il protagonista del romanzo, per dare una svolta alla sua vita sofferente si trasferisce a New York nel quartiere di Lower East Side. Prende in affitto un appuntamento in un condominio, di proprietà del “ boss “ del quartiere, tipo losco. Louis è un’anima solitaria e in pena, affonda nell’alcol la sua fatica di vivere, motivo per cui è stato lasciato dal suo grande amore. Man mano che conosce alcuni condomini: la trapezista, che si presenta alla sua porta per conoscerlo, la donna ferma all’ascensore, il pittore. Tutte persone con le quali con grande fatica proverà a fare conoscenza, perché tutti hanno voglia di parlare. Si rende conto che quello è un condominio di anime solitarie, come lui, per i motivi più diversi.
Il palazzo di fronte al suo, chiamato Paradiso, dello stesso proprietario del condominio, è una sorta di centro di divertimento le cui luci riflettono nella sua stanza. Lì c’è sempre caos ed è pieno di gente, ci lavora come cameriera la signora dell’ascensore. Louis pur volendo evitarlo ci finisce, si perde in quel labirinto di piani ed anche in questo posto dove tutto brilla, riesce ad incontrare altre anime solitarie e perse, che lavorano alla mercé del boss.
Li attrae tutti Louis pur non volendolo. E sono incontri di bevute, grandi bevute, durante le quali racconta le storie più incredibili, di cui non ricorderà più nulla. Sì intratterrà con le due coinquiline per poi pentirsene subito e scappare, non vuole legami, si farà coinvolgere dalle storie dei solitari che incontra ma mai fino in fondo. Sembra che ognuno che incontri sia lo specchio di se stesso, quello da cui fugge. Sono i fumi dell’alcol a portarlo via e a farsi cacciare via.
E quando è sobrio fatica a capire se quello che è successo è realtà o sono gli scherzi della mente. Fino a fargli dire “questo palazzo e quello di fronte, sono un’impalcatura, una finzione, qualcosa di costruito da un romanziere in crisi di identità.” È con i suoi fantasmi che Louis deve fare i conti , farci pace.
Aaron Klopstein, nato all’inizio del 1900, l’autore del romanzo, potrebbe essere Louis. È stato uno scrittore di grande talento, pur non avendo mai raggiunto la fama. Amico di R Chandler, Hemingway, John Houston , Hedda Hopper. Ed è grazie al ritrovamento del profilo di Klopstein, dell’amica H. Hopper che si hanno notizie più dettagliate dello scrittore. L’introduzione del libro è proprio quello che ha scritto l’amica che gli rende trasparenza e giustizia, quella che non ha avuto durante la sua vita.
È interessante leggere di questo scrittore che prima di scrivere recitava i suoi romanzi, tanto che litigò con Hemingway perché scrisse un racconto che aveva sentito recitato da lui e fatto suo. E come Louis, protagonista del I perdenti, Aaron era un grande bevitore, spesso in profanda prostrazione. Geniale, molto, ma tormentato. Tanto da non riuscire mai a raggiungere la notorietà che gli spettava. Scriveva racconti per mantenersi usando pseudonimi. I suoi romanzi furono scoperti dal suo amico e grande ammiratore R.Chandler, usciti in poche copie. Fu completamente dimenticato nel dopoguerra ed i suoi libri diventati cimeli per collezionisti. Una bella scoperta questo libro pubblicato da Miraggi, è un romanzo molto profondo, molto interessante, dove davvero la fantasia del raccontare scrivendo è di una ricchezza particolare.
È una bella lettura, scorrevole, tra personaggi in cui è facile entrare in empatia, i perdenti, ma i più profondi.
Nullatenente aizza il padre paralitico: esperimento umoristico a porte chiuse
La violazione della verosimiglianza, in ambito narrativo, è considerata oggi una duplice offesa, che si perdona a pochissimi e gallonati scrittori, di preferenza già morti. È un’offesa nei confronti di un intreccio ben costruito, che non malmena le attese del lettore, e lo è ancor più nei confronti di quel vero, o di quel reale allo «stato puro», che una certa narrativa insegue tenacemente, utilizzando le vie della cronaca nera, della storia con molte maiuscole o dell’esplorazione dell’io, che l’autofiction fornisce di contorni molto elastici. Sergio La Chiusa, nel suo romanzo d’esordio i Pellicanicronaca di un’emancipazione (Miraggi edizioni, pp. 190, € 17,00), si colloca con disinvoltura proprio sul terreno poco frequentato dell’inverosimiglianza. Il suo narratore non solo è poco affidabile, ma necessiterebbe di un’urgente perizia psichiatrica. A ogni pagina, invece di portarci diligentemente al cuore della realtà, per dare senso a qualche fenomeno storico o sociale di pubblico interesse, ci spinge in una zona marginale, dove non accade nulla di rilevante, salvo il suo forsennato elucubrare. A ben vedere, cose turpi, oltreché grottesche e ridicole, accadono nel romanzo di La Chiusa, ma esse emergono in seguito a quella spoliazione radicale dell’ambientazione sociologica e dei meccanismi psicologici ordinari, che ricordano gli esperimenti beckettiani della prima Trilogia. E in fondo i Pellicani può essere letto come un esperimento anomalo, che mette a confronto, in un huis clos claustrofobico, la coscienza risentita e velleitaria di un figlio con l’ebetudine di un padre paralitico.
Pellicani figlio, sconfitto sul piano sociale e professionale, decide di tornare dal padre che non vedeva da anni. Ritrova l’appartamento, ma in un palazzo spopolato e in rovina. Dentro ci vive effettivamente un vecchio, con il nasone simile a quello paterno, ma vegeta su di un letto in condizioni deplorevoli, incapace di comunicare, di nutrirsi e di espletare le più elementari funzioni fisiologiche. Una signora se ne occupa, venendo regolarmente a lavarlo e imboccarlo. È a questo punto che il sottotitolo acquista tutta la sua importanza. Pellicani figlio si mette in testa di riscattare la propria inadeguatezza, trasformando il vecchio paralitico in un ribelle, che sia in grado (in vece sua) di fronteggiare l’orrido sistema produttivistico. Emerge in questa situazione non solo il carattere umoristico del romanzo, ma anche il suo fondo satirico: il volontarismo del logos – nel duplice senso di «raziocinare» e «discorrere» – si scontra con la placida e tetragona resistenza del bíos. Questo limite, però, non è accettato e compreso dal giovane Pellicani, che rivela così di aver introiettato proprio gli imperativi sociali contro cui pretende di battersi. «Ma sostanzialmente il materiale era di prima scelta. Bisognava lavorarci un po’. Si trattava in definitiva di rianimarlo, rimetterlo in movimento perché potesse ribellarsi in maniera completa e credibile». Nonostante se ne vada in giro in completo grigio topo con valigetta da manager, Pellicani figlio è un nullatenente. Ha tentato di mettersi al passo con «la smania di rinnovamento», ma invano. Possiede un’unica cosa soltanto, un’anticaglia del secolo passato: la propria coscienza, che non è poi nient’altro che un potente dispositivo d’inghiottimento e trasfigurazione della realtà. Giulio Mozzi, nella quarta di copertina, la definisce «un’infernale chiacchiera», sottolineando come il piacere della lettura nasca dalla maestria stilistica con la quale l’autore ci conduce nei meandri a un tempo foschi e carnevaleschi di questa parola.
La Chiusa potrebbe sottoscrivere la dichiarazione di poetica di Robert Pinget, altro umorista e guastatore della verosimiglianza. Nella sua postfazione a Le libera (1984) scriveva: «Non m’interessa tutto ciò che si può dire o significare, ma la maniera di dire». La Chiusa, attraverso l’eloquenza sballata del suo personaggio, ci ha restituito un tono, che appartiene precisamente alla nostra epoca: è il tono del risentimento impotente contro l’organizzazione sociale, quel tono che ritroviamo spesso in quelle vittime che, da un momento all’altro, possono trasformarsi in carnefici.
Fiumi di parole per i “Pellicani” riuscita commedia dell’assurdo
Un allucinato avvincente romanzo quello de “i Pellicani” di Sergio La Chiusa, edito da Miraggi e finalista al Premio Italo Calvino 2020. Il protagonista, Pellicani, un quarantenne – vestito grigio un po’ sdrucito, valigetta e portamento da uomo d’affari – ritorna vent’anni dopo nel quartiere dove si trova la casa del padre ottantenne. Nulla è come prima. A resistere alla furia speculativa della riqualificazione urbanistica è rimasto lo scheletro solitario dell’unico immobile disabitato. Solo in alto filtra da sotto la porta una flebile luce. È lì che avanza, tra rovine e oscurità, trovando alla fine disteso sul letto il padre, un vecchio rottame rinsecchito che se ne sta muto in balia di una donna che l’accudisce e di un televisore acceso sui cartoni animati.
Inizia da qui l’estraniante discorrere del protagonista sulla tirannia esercitata in privato dal padre, la sua furbizia, i possibili pensieri nel rivederlo dopo tanto tempo, assieme ai tentativi di accreditarsi agli occhi del padre come persona socialmente arrivata e abituata ai viaggi. Per darsi un tono ed essere credibile ostenta in continuazione la valigetta, con il ripetere che è di passaggio e di dover ripartire subito per la Cina. Uno scorrere torrentizio di considerazioni, riflessioni, sospetti, illazioni, accompagnati da ombre sullo sfondo di pareti scolorite, pianerottoli bui, appartamenti vuoti. Il tutto reso con immaginifica capacità narrativa dall’autore. Molteplici i registri stilistici: l’ironico, il comico, il sarcastico, il tragico-comico, il sentimentale, il cinico. Maschere che si rincorrono e si sovrappongono, nella rappresentazione del Pellicani padre, indicato come “il paralitico”, “l’imbecille”, “il furfante”, “il renitente”, rispetto al Pellicani figlio, proteso all’azione, al movimento, “verso l’anarchia della gioventù”.
In un originale gioco di specchi l’autore mette in scena il rifrangersi del protagonista nel dare corpo, immagine e parola agli altri pochi attori e al padre che, ad eccezione di qualche movimento di mani e di labbra, rimane indifferente a tutte le provocazioni. Un silenzio che gli appare un abbandono ozioso del vecchio e che suscita contraddittorie interpretazioni che finiscono per metterlo in crisi. Una riuscita commedia dell’assurdo, tra Pirandello, Kafka e Ionesco, malgrado qualche ripetuta critica alla società di mercato. E la vecchiaia come scarto o come furbesca ricerca di protezione. Una narrazione che sfuma nel sogno, nell’irreale, perfino nell’estraniamento del protagonista che finisce per non riconoscersi, indicandosi in terza persona.
Il romanzo i Pellicani di La Chiusa è un’opera prima dell’indubbio valore, come dimostra anche la segnalazione al Premio Calvino 2019. Altresì è un testo di non facile catalogazione, in quanto romanzo certamente rischioso per le sue scelte normative e fuori canone. Per farcene un’idea possiamo partire da una semplice e preliminare ispezione grafica.
Il libro è diviso in capitoli, segnalati da una numerazione in caratteri romani progressiva, ma a colpire è in primo luogo il pieno di queste pagine, pochissimi gli a capo, la narrazione pare organizzarsi in spazi metrici a forma di rettangoli in cui le parole si susseguono, non si trovano stacchi o segni dialogici o interventi di mimesi del parlato. Le frasi si susseguono le une dietro le altre, queste producono paragrafi e infine capitoli.
Ci si aspetta, quindi, alla lettura un romanzo, in cui la verbosità e l’onnipresenza di chi parla siano centrali, anzi onnicomprensive. La storia del romanzo è appunto il temporaneo ritorno a casa di un figlio, che chiameremo “giovane”, dopo 20 anni di assenza. Un lasso di tempo enorme, che però il giovane, non più tanto giovane a dire il vero, pare non aver vissuto e così torna nella sua vecchia dimora, pensando che tutto sia rimasto intatto. Al di là di una sostanziale rassomiglianza del quartiere, che lo accoglie, l’uomo, vestito in maniera trasandata e con una lisa valigetta 24 ore, simbolo di un lavoro che fu, trova il caseggiato dove ha vissuto in fase di decadimento e fatiscenza; nonostante questo si ostina a pensare che tutto sia come prima e prende le scale per raggiungere la casa del padre: trova il campanello “Pellicani”, il suo cognome, e entra. Nell’alloggio, che è irrimediabilmente il suo anche se più disordinato e dismesso, vive un uomo di circa 80 anni, un vecchio come lo definisce il protagonista, che assomiglia a suo padre, ma che non può essere lui, anche se il naso è proprio quello del vecchio Pellicani. Il romanzo è quindi la cronaca di questa convivenza tra il giovane e il vecchio all’interno dell’appartamento dei Pellicani.
Il testo si svolge quasi completamente all’interno delle mura dell’appartamento, così da giustificare proprio la struttura chiusa e asfittica dell’impaginazione del testo, non ci sono esterni, aperture di squarci, se non brevissimi, che indicano come il romanzo si risolva sostanzialmente in un lungo monologo del giovane. Il romanzo infatti è scritto in prima persona, una prima persona attraverso cui passa l’intera narrazione: lo stile e la scrittura sono notevoli, un vero pezzo di bravura e virtuosismo, soprattutto perché l’autore riesce a instillare in chi legge una sorta di sotterranea sfiducia nel narratore, e nel modo in cui racconta ciò che vede. Questa rottura del patto, ogni narrazione in prima persona prevede una tensione testimoniale a dire la verità, dà il colorito comico grottesco al romanzo, una sorta di sentimento del contrario, omaggio a Pirandello, che lo stesso La Chiusa cita indirettamente quanto appunto carica il naso del vecchio di tutta la possibile identità tra “padre” Pellicani e “vecchio” Pellicani. Nello stesso tempo la verbosità del romanzo in alcuni punti è anche il suo punto debole, questa logorrea dell’Io chiuso in se stesso avrebbe potuto essere gestita con più forza se l’Io narrante avesse accettato il dialogo con gli altri personaggi del romanzo che esistono solo in funzione della sua narrazione. Ciò detto i Pellicani è un ottimo esordio di un autore che speriamo presto di rileggere con la sua nuova opera.
Un filo fatto di attrazione e compassione sembra legare Francesco Forlani alla metropoli e alle sue dimenticanze, sentimenti che l’autore indaga nel pieno della loro ambivalenza e complessità, attraverso le diverse angolazioni che assume nel suo quotidiano e silenzioso osservare. Se a ogni diversa traiettoria di sguardo corrispondono pari reazioni e sentimenti, Forlani in Penultimisi fa ricettacolo e interprete di un vasto e stratificato sentire.
Penultimi di Francesco Forlani (Miraggi edizioni, acquista) si presenta al lettore come un libello prezioso, una miniatura di grazia estremamente curata nei minimi dettagli. La pubblicazione raccoglie brevi e compiuti momenti narrativi in edizione bilingue: l’originale in francese con striature napoletane a opera dell’autore campano e parigino di adozione, affiancato dalla traduzione in italiano di Christian Abel. I testi di rigorosa brevità – poesie, haiku, pagine di diario strappate, prose poetiche, interstizi – sono intervallati da fotografie in bianco e nero, scatti sbilenchi e accidentali di uno smartphone agli angoli di Parigi. La lingua scelta da Forlani è alta, ricercata ma non per questo meno multiculturale o metropolitana, poiché sa combinare tra loro linguaggi diversi e convogliarli in un andamento lirico coeso, creando così una lingua poetica che trasfigura ed eleva a oggetto poetico anche la materia di cui parla, i Penultimi, al punto da rendere il monte Parnàso, sacro ad Apollo e da cui per tradizione mitica sgorga una fonte sacra alle Muse, il «regno di déi penultimi».
I Penultimi, presenze silenziose che persistono lungo i margini, «tre boccioli di rosa sulla piattaforma, in pieno \ inverno \ di piena neve», sono coloro che appartengono alla dimenticanza, dimenticati dagli altri e dimentichi di sé, «senza memoria alcuna della faccia». Sono coloro che a bordo di un vagone di treno in ritardo mattutino non vengono chiamati dai datori di lavoro, perché nessuno si è accorto della loro presenza «oltre l’assenza». Sono un intatto «specchietto \ da bagno sul marciapiede» destinato allo sgombero, che in silenzio assiste ai nostri ignari passi, sono «due amici sulla strada coricati» o «due amanti sopra un materasso». In relazione ai Penultimi, Forlani si fa cantore del rimosso, essendo insieme spettatore e protagonista, come lo dimostra il repentino passaggio alla prima persona plurale del componimento 25.:«Come penultimi oggi eravamo tanti», per chiudersi «Così ci diamo al mondo anche noi». Allora la runner che corre tra le vie asfaltate è cantata subito dopo i «commessi viaggiatori» e il signore che «a prima vista pare normale» «se non avesse per calze delle buste \ di plastica che dall’orlo sbuffano».
Trovare univocità di messaggio o di sguardo in Penultimi non è possibile né auspicabile: Francesco Forlani in queste brevi opere finite accoglie il lettore al suo fianco e gli mostra quello che lui vede, e soprattutto come lo vede, ogni giorno. Dalla lettura di Penultimi non bisogna aspettarsi una partenza e un approdo, precisi interrogativi e lucide soluzioni, pena la delusione e l’incomprensione; quello che ci richiede il libro è più semplice: un affido viandante e flaneuristico.
Penultimi sfugge dunque all’univocità, come ne sfugge la realtà che è suscettibile allo sguardo, e quello che si vede oggi, non sarà ciò che ritroviamo domani: una questione di prospettive. Ci sono pieghe dei nostri paesaggi quotidiani che rimuoviamo alla vista, svaniscono dalla nostra realtà oggettiva, con l’eventualità che passi una vita intera senza che si riesca, o semplicemente si possa, vedere quello che si accumula ai lati delle nostre orbite. Ed è qui che interviene la letteratura, e in questo particolar caso la lettura di Penultimi, per togliere il velo e indirizzare fasci di luce su dettagli sfocati. Anche al saper guardare serve un certo esercizio, e alla questione di prospettiva si unisce anche una questione di attenzione:
Ho pensato a tutte quelle volte che mi è capitato di percorrere una spiaggia a sera deserta, fuori stagione, un campo di calcio dimesso, un luogo qualunque abitato dalla compresenza di quello che era in un tempo prima nel pieno e di quello che appariva ora nel dopo.
Francesco Forlani dimostra in questi componimenti due o tre grandi doti di narratore, l’attenzione di osservanza e un senso compassionevole, scevro di patetismi, che ci riporta d’un tratto, oltre la geografia e alla temporalità, al sentimento corale che riempie le vie di Conversazione in Sicilia.
«Basta un sorriso, davvero poca cosa, al penultimo \ incrociato o seduto a una fermata o nel clic-clac \ dei portali dei convogli», riflette Forlani nel suo vagabondaggio crepuscolare casa-lavoro. Di fronte al riconoscimento di esistenze penultime, nasce nell’autore un sentimento collettivo, che accosta all’estraneità la compartecipazione ma anche la gratitudine. In particolare quest’ultima si presenta come una predisposizione peculiare e interessante, che riconosce al penultimo la sua funzione precisa e importante in una metropoli alienante che si sta facendo sempre più desertica: «Fino a quando ci saranno i penultimi questo vorrà dire che c’è ancora margine per l’umanità, che non siamo giunti alla fine del viaggio, al termine della notte».
In linea con la materia poetica è la scelta dell’ambientazione che fa da cornice ai componimenti. Ogni frangente è ambientato ai margini del giorno in un perenne paesaggio crepuscolare, dall’«alba buia» che si confonde con la «fine del giorno», immersi in un «istante di luce sospeso» che si tinge di «pastello, in un virato seppia» e toglie il colore della differenze che fa la luce del giorno. I luoghi sono i treni, i vagoni vuoti o affollati della metrò, le strade stanche alla fine della giornata, quando capita di incontrare e prestare maggiore attenzione ai penultimi: «Lei dormiva sottocoperta e lui periscopiava il mare d’asfalto come un naufrago perlustra le distese d’acqua in attesa di aiuto».
Libro dalla natura composita, nella forma e nella sostanza, le ultime pagine di Penultimisi allontanano dall’impressione narrativa e si dipanano in una prosa di più ampio respiro, ma che non tralascia l’enigmaticità lirica, in cui trova spazio l’interrogativo – «Quando è cominciato tutto questo?» – e la riflessione ragionata:
Ammettere che la pietra gettata ha scalfito il tratto, ridotto il camminamento, costretto a levare i ponti e ficcato la mente nello specchio d’acqua putrida del fossato che ci separa e unisce a loro dal lembo a lembo delle forze schierate in campo.
Nonostante Forlani ponga lo sguardo diretto sulle atrocità del presente e ne riconosca l’inumanità, «perché inumano non è immaginare la morte ma immaginarsela trascinando con sé altri destini che non ci appartengono», persiste fino in fondo il sentimento di compassione, gratitudine e vitale fiducia nel genere umano che tiene insieme un libro multiforme e irrimediabilmente romantico:
Basta il pensiero di queste cose e quelle a far sollevare lo sguardo, a osservare meglio di fuori sporgerti per scoprire che quelli che sembrano i tratti ingrugnati del nemico sono solo il riflesso del tuo stesso volto nell’acquitrino di cinta e che un solo rimedio al fronte interno vale a quel punto, liberare il portale, calare il ponte, issarsi a riveder le stelle e respirare forte e dire: vita, ehi vita mia, urlare: grazie.
Libri, dall’Argentina arriva una sfida avvincente: ‘La pianura degli scherzi’
“Muoveva all’attacco, prendeva fiato; apriva le gambe e la fessura vaginale si dilatava formando un cerchio che lasciava affiorare un uovo piuttosto appuntito, che era la testa del bambino. Dopo ogni spinta sembrava che la testa sarebbe uscita: minacciava, ma non usciva; arretrava come il rinculo di un fucile, il che per la partoriente significava il rinnovo centuplicato di ogni dolore. Allora, il Folle Rodríguez, nudo, con la terribile frusta attorno alla vita – il Folle Rodríguez, padre di quello sgorbio infingardo, precisiamo – piantava i suoi gomiti nel ventre della donna facendo sempre più forza. Eppure, Carla Greta Terón non partoriva. Ed era evidente che ogniqualvolta quello sgorbio attuava la sua agile ritirata, lacerava – in definitiva – le dolci viscere materne, la dolce pancia che lo conteneva, che non riusciva a vomitarlo. Veniva a crearsi una nuova lacerazione nel suo otre“.
Uscito per Miraggi Edizioni nella collana Tamizdat (progetto curato in collaborazione con Francesco Forlani e Francesco Ruggiero, che raccoglie traduzioni di autori di alta qualità letteraria che difficilmente arriverebbero al lettore italiano del mercato editoriale mainstream), La pianura degli scherzi, dell’argentino Osvaldo Lamborghini (a cura di Vincenzo Barca e Carlo Alberto Montalto) è un testo (o meglio, una sequenza di testi da capogiro) complesso, a tratti difficile. Una sfida avvincente per un lettore. Un gioco infinito di nomi e parole, un linguaggio che passa dal formale all’informale con una naturalezza spiazzante, un registro gergale e un registro aulico che si ritrovano a battagliare, a lusingarsi l’un l’altro.
Ne La pianura degli scherzi convivono le innumerevoli influenze stilistiche che hanno formato lo stile originale e unico di Lamborghini, uno stile che sembra rifiutare la linearità della prosa tradizionale, e che trasforma la psicoanalisi freudiana, il post-strutturalismo di Lacan e il libertinismo del marchese de Sade in qualcosa di nuovo, gaudente, viscerale. Uno stile che assorbe il lettore. Leggendolo, tre autori mi sono venuti in mente, con le enormi e sostanziali differenze narrative e lessicologiche che li dividono, ma accomunati dallo stesso coraggio di arrogarsi il diritto di essere se stessi: Pedro Lemebel, Severo Sarduy e Louis-Ferdinand Céline.
“Perché il godimento era ormai stato decretato lì, per decreto, in quei pantaloncini sorretti da una sola bretella di un cencio grigio, lercio e sfilacciato. Esteban gliela strappò e restarono all’aria le natiche senza mutande amaramente malnutrite del bambino proletario. Il godimento era lì, ormai decretato, ed Esteban, Esteban con una sola manata strappò la lurida bretella. Ma fu Gustavo a gettarglisi addosso per primo, il primo ad avventarsi sul corpicino di Storpiani! Gustavo, che sarebbe poi stato il nostro leader nell’età matura, in tutti questi anni di fallita, storpia passione: lui per primo conficcò il vetro triangolare lì dove cominciava lo spacco del culo di Storpiani! e ne prolungò il taglio naturale. Schizzi di sangue si sparsero in ogni direzione, illuminati dal sole, e il buco dell’ano si inumidì senza fatica come per facilitare l’atto che preparavamo. E fu Gustavo, Gustavo a trafiggerlo per primo col suo fallo, enorme per la sua età, troppo affilato per l’amore“.
L’opera di Osvaldo Lamborghini non è facilmente raggruppabile in categorie generiche, poiché abbraccia e combina elementi di poesia, prosa e teatro. Figura radicale e a tratti clandestina nell’Argentina peronista e post-peronista, una delle anime delle avanguardie del Paese sudamericano prima che il regime militare devastasse un intero tessuto culturale e sociale e facesse diventare di gran moda i voli di sola andata sul Rio della Plata e sull’Oceano Atlantico, Lamborghini con il suo neobarocco per il volgo, le sue eccentricità linguistiche, le sue divertenti trovate, il ritmo forsennato delle sue parole è senza dubbio uno scrittore da scoprire, e La pianura degli scherzi un’opera che va senz’altro letta.
“In sospeso, il prezzo del pane. In sospeso, la quotazione del miele delle api del Libano, che non libano più. «Riso con latte? Vogliamo tornare a Treblinka!». Ai palestinesi manca qualcosa, è il Dottor Mengele che manca ai palestinesi? È terribile il dolore di (questo) amore. È terribile il fallimento di un’arte amata, per esempio questa. Ma niente di equiparabile all’espulsione dal partito. La porta si chiude, camminare, giungere fino all’angolo. E fino all’angolo si giunge, fino a quest’angolo. Punto: divieto, il semaforo rosso, di un rosso vivo, un fuoco che estrarrebbe nei dal nulla. Ogni neo sarebbe un nuovo principio (solare). In quest’angolo si mozzica il filtro della sigaretta. Una poltrona in un cinema: la guerra. La Germania intera si mobilita. È formidabile. L’Argentina (Argentina, Argentina!) specula sulla caduta dell’impero britannico. La Polonia schiacciata, così è la vita. Silenzio. Silenzio nell’oscurità, oscurità nel silenzio, una mano indifferente (…) I cingoli dei carrarmati e la lampo del pantalone lottano contro ostacoli simili, imprevedibili monticelli, fossi. Ma comunque: comunque. Qui il pene eretto, lì la svastica che sormonta l’Arco di Trionfo (di catrame). Lo stesso grido di ricchioni percorre tutto il pianeta. Stiamo trapiantando organi. Le Malvine nel cuore di Buenos Aires. Nel chilometro Zero. Il debito esterno in un bosco pietrificato“.
L’ora e il luogo nei quali tendenzialmente finisco i libri della Miraggi appartengono alle ore post-tramonto. Notte, silenzio, solitudine. Il libro che vedete in foto è un’anteprima che abbiamo avuto l’onore di leggere è che usciva un mesto dopo. Un tuffo nella mente umana, là dove sogno e realtà spesso si mischiano generando un caleidoscopio di immagini, suoni, flussi di coscienza. Un omaggio all’investigazione shakespiriana dell’animo umano.
Scritto con grande sapienza linguistica ci offre varie esperienze: divertimento, curiosità, inquietudine, paura. Tanto che una volta finito non sai se ciò di cui stavi ridendo ignaro non fosse che il preambolo ad un delirio di follia, o se tutto ciò di cui avevi tanto temuto non fosse in realtà un’artificiosa ed innocua nuvola di oblio. Non vedo l’ora di farmelo raccontare dall’autore in carne ed ossa.
Poi mi succede che a due mesi di distanza dalla lettura di questo splendido romanzo ho ancora un sacco di immagini e sensazioni attaccate alla corteccia. Un labirinto fisico e mentale in cui vedo muoversi il giovane Pellicani. Quando un libro ti lascia per tanto tempo sensazioni così vivide è perché ha smosso il tuo inferno e questa è un’arte che di solito è appannaggio dei grandi classici. Vi invito ad infilarvi nelle oscure stanze creato da La Chiusa. Ne uscirete diversi!
Penso da sempre che quel momento più o meno lungo nel quale con garbo si passa dal sonno alla veglia, di prima mattina, dopo una nottata di riposo, quello in cui ti galleggiano in giro per la mente pensieri ed immagini che stanno lì a metà tra sogno e realtà, ecco, quello ho sempre pensato sia l’attimo in cui ciascuno di noi crea, riassembla, elabora il lato più intimo e vero di sé. Lì, proprio in quei brevi istanti, trascorsi in una sorta di terra di mezzo in cui le immagini fugaci dei sogni appena fatti e quelle delle giornate reali, siano esse ricordi o proiezioni di un futuro prossimo, si fondono in una mistura che ha qualcosa di magico, di quella magia di cui è fatto il nostro strato più sottile, quello composto di anima e mente, quello scevro del plumbeo raziocinio che ci tiene pericolosamente legati ai paradigmi della vita contemporanea, proprio lì noi costruiamo ciò che siamo, proprio lì è installata la nostra capacità di creare. Non so fino a che punto un essere umano possa, anche con l’esercizio, rimanere in quella dimensione a lungo proprio perché essa non appartiene alla sfera di ciò che dipende dalla volontà ma a quella degli eventi che semplicemente accadono. Una cosa, però, mi pare innegabile: per dote di nascita o per allenamento Klopstein aveva imparato a rimanerci in quello stato. Aveva imparato a viverci nel continuo. Non so se per semplice merito o demerito dell’alcool, oppure, più probabilmente per una sua peculiare capacità di contattare quella dimensione che per comodità siamo abituati a definire onirica. Io temo, in realtà, la si definisca onirica più per paura di entrare in contatto con se stessi, più per poter evitare di ammettere che in quello spazio ciascuno di noi è ciò che è, con tutte le proprie debolezze, i propri limiti, col proprio passato non necessariamente risolto, coi propri desideri, forse non sempre così riconoscibili, più per prenderne le distanze da tutto ciò che per altro. I Perdenti, a mio parere, si gioca tutto in quella dimensione. E infatti, non a caso, i personaggi del romanzo usano molto la vista, l’udito, l’olfatto ma molto meno il tatto. Louis Berenstein mette in scena figure eccezionali, con caratteri così potentemente descritti da diventare tridimensionali. Essi però si annusano, si guardano, si scrutano, si sfiorano ma non si toccano a meno di non essere fantasmi. Allora si, essi abbracciano, stringono e trasmetto calore. Nelle descrizioni che il narratore disegna c’è spesso fumo, ci sono aloni di luce rosa, verde, azzurro, ci sono voci, musica, corridoi bui ed elefanti dipinti su tela stando ad una finestra di Orchard Street ma la dimensione del tatto scompare quasi del tutto, tranne laddove, mentre un piccolo gruppo di formiche trasporta una enorme briciola di pane in un qualche anfratto e ricompare….senza la bara, le dita di Louis sfiorano e fanno rotolare e poi ruzzolare nella tromba delle scale….la morte.
Coerentemente con questa caratteristica del romanzo, nella prefazione di Hedda Hopper si legge che Aaron Klopstein fu un assoluto cultore della tradizione orale. Non scriveva, narrava e basta. Componeva nella propria mente anche un romanzo intero per poi, semplicemente raccontarlo. A braccio, perché la scrittura non è che l’ultimo gesto per uno scrittore e non il più importante. Quasi a voler affermare che ciò che si tocca non è infine l’essenza. Essa sta altrove.I Perdenti è disseminato di numerosissime metafore delle questioni che attengono ai dilemmi, agli irrisolti della vita umana: inferno, paradiso, amore, amicizia, solitudine, passato presente, molte di esse incarnate da personaggi letterari, più o meno celati, di indubbia fama. Ancora Hedda Hopper ci svela che Klopstein era un patito di ascensori e dei loro meccanismi di funzionamento, dei loro ingranaggi ed era affascinato dalla loro capacità di portare gli utilizzatori in alto. Una attrazione per metà verso le cose razionali e per metà verso ciò che sta in alto o verso la visione che dall’alto è possibile avere delle cose.”Louis restò per un attimo in strada, quasi che tornare nel proprio appartamento lo spaventasse ancora di più che rimanere al Paradiso”.Una provocazione: e se Thodd Phillips con il suo Joker fosse stato influenzato da Aaron Klopstein? Buona lettura.
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