anonimato fantasma fantasma. spettro spettracolare. farsi il pensiero poi ricorda. per mancanza di padre. ricordare il dolore persistente al torace. immagina impossibile. una doccia. fare la spesa. saluta la vicina il marito appena circuiti. diventa di ritornare. cucinare prendere il treno. andare dimesso. dall’ospedale non dover morire ora. peregrinare altrove telecamere stanze a pistoia via firenze rifredi. scorre sotto il cielo una vena sottile sotto la pelle. immaginarsi. più che immaginare. svegliarsi e morire.
Pagina bianca, Gianluca Garrapa, Miraggi. Originale sin dall’impaginazione, Pagina bianca di Garrapa, che collabora con molte testate, come Sul romanzo, Psychiatryonline, Puntocritico, Poetarum Silva, Nazione Indiana, L’immaginazione e Culturificio, è la raccolta di un autore che tra l’altro, evidentemente con pieno merito, si è aggiudicato riconoscimenti prestigiosi in occasione del premio Pagliarani del duemiladiciassette e due anni fa nella cornice del Celan, ed è la riuscita, intensa e policroma rappresentazione simbolica della fragilità umana che si manifesta nella reboante contraddittorietà delle tensioni in cui ogni individuo si imbatte nel corso del proprio cammino esistenziale, volto alla realizzazione. Da leggere.
Come in una pièce del teatro dell’assurdo, tutto si svolge in una sola notte, con i due protagonisti stipati in una stanza, come lo sono nelle 192 pagine del romanzo i vaniloqui del giovane e logorroico protagonista. Ragazzo che, completo grigio topo sdrucito e valigetta da manager piena di cianfrusaglie alla mano, si presenta la sera tardi a casa del padre dal quale era scappato vent’anni prima dopo avergli sottratto i risparmi dal comodino. Cerca ospitalità per la notte, prima di partire per la Cina, sostiene. Come il vecchio padre tradito (ma sarà proprio lui?), il lettore è rapito e trasportato dal turbine ciarliero del giovane che ipotizza, reinventa e trasfigura la banalità del reale che lo circonda. In libreria dal 13 ottobre I Pellicani si è guadagnato la menzione speciale Treccani 2019 come finalista al Premio Calvino.
DI LIBRI che raccontano l’immobilità abbonda la letteratura del Novecento: un tema indigesto, sembrerebbe, per la nostra contemporaneità ipercinetica, nella quale un romanzo “immobile” non può che irrompere come un ospite misterioso. E di mistero, il primo romanzo di Sergio La Chiusa, è avvolto dalla prima all’ultima pagina: i Pellicani del titolo (sottotitolo: cronaca di un’emancipazione) sono due uomini – padre e figlio, si direbbe. Una visita nel caseggiato dove il vecchio Pellicani vive come un reietto, abbandonato e solo, costringe il figlio a spogliarsi poco alla volta, e inesorabilmente, di tutte le proprie maschere: una valigetta di lavoro tenuta in mano a bella posta – dentro ci sono solo Simmenthal –, un vestito di confezione, un certo racconto di sé. Il vecchio immobile invischia il giovane, lo cattura, e lo trascina nella propria allucinata in-esistenza. Un romanzo condotto da una lingua elegante, un libro inconsueto, che lascia il sapore delle letture che mancavano.
“Solo quando s’incontra la luna viola si può rinascere“ È una favola questo romanzo, con cui un padre racconta alle sue figlie: Viola e Luna, la filosofia. Lui è un filosofo molto filosofo e poco concreto e ce la mette tutta per essere “qui e ora “ soprattutto dopo la nascita delle figlie di cui alternandosi con la compagna si prende cura. Entrambe le bimbe dormono molto poco e lui per farle addormentare racconta favole i personaggi sono filosofi che a vario modo gli si presentano nella vita quotidiana e che riconducono alla luna. Perché la luna a seconda di come la si guarda insegna sempre qualcosa.
E come se fossero semplici personaggi, racconta i suoi incontri con Socrate, Giordano Bruno, Nietzsche e Platone, attingendo dalle loro teorie per raccontare come una favola appunto le loro storie. Ad ogni problema della vita pratica corre sempre in soccorso una possibilità di soluzione di un filosofo o uno studioso perfino Jung in un momento di impasse particolare gli indica una ipotesi di svolta: “Là dove c’è il pericolo c’è la soluzione “ E lo stesso Leopardi che ai giorni nostri scopre e ama il panettone, “vita amara e noia“ “fango il mondo?”, gli offre spunti che lo allontanano da quel pessimismo cosmico in cui è stato relegato dai libri scolastici.
La luna viola è un racconto di saggezza che usa un linguaggio semplice ed ironico per affrontare temi di grande spessore. L’autore usa l’ironia e l’autoironia per descrivere la vita quotidiana della sua famiglia “un po’ strampalata“, a cominciare proprio da lui, ma che alla fine, presa con filosofia appunto non è poi così male. Potrebbe essere un consiglio, sdrammatizzare e riuscire a vedere la luna viola, è un bel modo di affrontare una vita a volte troppo razionale. È una lettura piacevole e piena di spunti di riflessione.
Bianca Bellová è un’affermata scrittrice della Repubblica Ceca il cui romanzo “Mona” è pubblicato in Italia da Miraggi Edizioni 2020 nella bella traduzione di Laura Angeloni. Una nuova collana italiana di letteratura ceca, ispirata alla “Nouvelle Vague” cinematografica degli anni della Primavera di Praga, che annovera opere, tra gli altri, di Jan Némec, Ladislav Fuks, Bohumil Harabal, Tereza Boucková. Di Bianca Bellová “Mona” è il secondo libro in edizione italiana, dopo “Il lago” del 2016, tradotto in più di venti Paesi. E che si tratti di un raffinato romanzo il lettore si accorge subito dalle prime pagine che scorrono fluide a presentare la figura minuta di Mona che chiede al bue Mun se sapesse “dei trasportatori di morti”. “Mun girò piano il muso e i suoi grandi occhi ottusi le dissero che no, dei trasportatori di morti non sapeva niente”. Immagini lievi, anche quando il racconto si mescola allo strazio e alle mutilazioni dei soldati scampati alla morte.
Perché è un ospedale, sullo sfondo della crudeltà della guerra, ad essere al centro della narrazione dell’autrice. “Il ragazzo amputato urla, Mona sa già che sarà un turno impegnativo. C’è carenza di oppiacei, bisogna centellinarli. Il medico di turno dorme e non vuole che lo si svegli a meno che non si tratti di una questione di vita o di morte”.
Un lavoro duro per tutti quando si è in prima linea. E Mona non si risparmia, si dà da fare a lenire come può le urla di dolore di Adam. Ma non è il solo. Ognuno invoca qualcosa, nel mentre lei corre da una stanza all’altra, in cerca di medicinali che scarseggiano, di morfina che non si trova, di altri malati da tranquillizzare per le ripetute allucinazioni.
Una vita affannosa anche quando ritorna a casa per svegliare il figlio Ata e mandarlo a scuola. Lui non sa “quante ferite piene di pus medicate, quanti sederi lavati, quante camicie ospedaliere sporche di vomito ha dovuto cambiare”. Ed ora in quell’inferno c’è quel giovane che soffre, che chiede di essere aiutato. Mona “gli prende la mano nei palmi, la mano è bollente e trema irrequieta”. Partitura di uno spartito che alterna lontani ricordi di famiglia, – lei con i calzettoni bianchi, la madre che indossa un vestito a fiori, il padre con i baffi sottili che la tiene per mano – al tranquillo e monotono rapporto con il marito Kamil e il distratto figlio Ata. Un intrecciarsi di sequenze che si avvicendano nella tessitura narrativa sempre con la medesima grazia di chi sa conferire arte letteraria alle parole.
A dispetto della simpatica e tenera copertina, ciò che emerge sin dalle primissime pagine nella lettura di questo libro di poesie targato Alessandra Carnaroli, edito per Miraggi edizioni, è proprio “lo stile katana”, inteso propriamente come una versificazione che affetta, si precisa, non in senso sentimentale.
Non si parla di un’opera infatuata della cultura proveniente dal Paese del Sol Levante e pregna di esotismo, almeno non per quanto riguarda le tematiche tradizionaliste o la cultura tecnologica che ha reso il Giappone appetibile al gusto occidentale. Quella che ci viene presentato da Alessandra Carnaroli è una poesia dal taglio (perdonate il gioco di parole) tagliente, più vicina alle suggestioni della letteratura e del cinema pulp che alla rappresentazione di spietata bellezza tipica della cultura nipponica.
Nell’epoca globale le forme si svuotano di significato, la tradizione perde ulteriori colpi e il parodiare sa essere un’arma di rappresentazione dell’attualità tremendamente efficace, spesso in modo paradossale ben più credibile di forme che amano definirsi serie, dunque in controtendenza a ciò che il Sommo Poeta dichiarava in uno dei suoi celebri Canti: «Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza». Niente di nuovo su questo, sono ormai secoli di messa in discussione della tradizione in poesia, di rappresentazione del brutto che diventa sublime: lo hanno fatto I Fiori del Male di Baudelaire o l’Impeto incendiario del Palazzeschi futurista, eppure Alessandra Carnaroli mette in atto un’operazione intelligente a cui va dato interesse per l’allusione formale (e quindi non un vero e proprio rimaneggiare) e la freschezza sostanziale dei versi.
Partiamo dalla prima sezione del libro, Carico e scarico, in cui la forma si fa brevissima, tanto essenziale quanto sferzante. Il verso scarno non perde quasi mai efficacia e fa della propria immediatezza un formidabile punto di forza: difficile non richiamare alla mente quelle forme che hanno fatto la fortuna della poesia giapponese, come l’haiku o il tanka, ma qui non c’è bellezza né sublime, non c’è stagione né elemento naturale, soltanto la dura realtà di una prostituta nigeriana costretta a fare la vita di strada in Italia.
26 d’inverno accendiamo un fuoco vicino la strada
urlano vi prende fuoco il culo allora rispondiamo vieni a buttare liquido seminale
30
sei fortunata da essere in italia se restavi in nigeria avevi la polio
qui mi trombano sul sedile di una polo
42 metti il preservativo hai famiglia
non lo faccio per te ma per mia moglie incinta
non voglio attaccarle la tua faccia da banana
fargli venire un figlio con una voglia strana
In queste poche “gocce” (ce ne sono ben 127) si scorge uno spiccato e giocoso gusto per la critica diretta alla società italiana, a un maschilismo soffocante e a un sistema di dominio che impedisce il cambiamento della propria condizione di vita, questione che vale per la classe media e che, con maggiore drammaticità, si riflette nei riguardi degli individui ai margini. Nei versi domina un certo sarcasmo che si lascia accompagnare dalla leggerezza pur dissacrando le parvenze: così l’amore a pagamento abbraccia una miseria collettiva in cui l’affermazione personale è strumento di desiderio imprescindibile e irrinunciabile sia per poveri sia per chi gli insoddisfatti dalla vita. Un ritratto non proprio lusinghiero che punta il dito contro l’ipocrisia di tante persone, coloro che amano l’oggetto del disprezzo, a patto di poterlo a possedere. Non c’è spazio per i sentimenti, l’io poetante saggiamente immedesimato non fa del vittimismo: la sua è un’operazione verità focalizzata sul reale senza peli sulla lingua, che in poesia è sempre un grande rischio in quanto il linguaggio e la forma sono tutto. Nonostante tutto, forte di questa ragione e con un incedere diretto e volutamente sghembo, si conquista la fiducia e la simpatia del lettore.
La seconda sezione, “Murini / Inserisci un emoji”, mette in campo altri elementi linguistici e stilistici che si lasciano apprezzare. Innanzitutto vi è l’emulazione di un linguaggio approssimativo tipico dei social network che quotidianamente alimenta lo stucchevole flood di pressappochismo spicciolo o, nella peggiore delle ipotesi, veterocomplottismo in salsa negazionista. Lo scenario su cui si muove la poesia di Alessandra Carnaroli resta sempre la critica alla società, ma stavolta l’io poetante non è vittima, bensì vittimista. I componimenti, inoltre, presentano un elemento espressivo probabilmente inedito e decisamente originale: la descrizione degli emoji, inseriti in alcuni versi, quasi come a voler ridicolizzare ulteriormente il contenuto del testo. Vediamone un esempio:
verranno quando invecchiamo a toglierci i figli che si ammalano
o amputati / due facce spaventate
come guardie zoofile sulla panda verde con i cani alla catena i nostri figli tolti dalla cuccia
per due pulci sulla schiena / grrr gatto orso coniglio iena
L’espediente del corsivo è godibile alla lettura non solo in senso descrittivo e parodistico, ma soprattutto sonoro (arrabbiata che fa da eco a stato e legalizzato, oppure iena che richiama catena e schiena). Si noti, inoltre, anche un gusto stilistico che nella rapidità trova i propri inceppamenti, tipici di quei contenuti poco ponderati, di pancia, tirati fino al punto di toccare anche questioni insensate. Eppure questo approccio si rivela vincente e dà valore ai versi di Poesie con katana, un lavoro ben calibrato, leggero sì, ma ben curato. Di certo non esprimerà un alto valore morale, ma gli è congeniale uno sguardo peculiare circa il ruolo della poesia civile oggi, nuda e senza retorica.
la vita dei deboli non ha valore / sigh sigh
si salvano solo gli immigrati dai barconi
scambieranno i bambini italiani con i cinesi copiati / alieno alieno
diventeranno un serbatoio di organi da trapiantare per il mercato orientale / lacrima lacrima faccina triste occhi cuore spezzato orecchio naso
Miraggi Edizioni arricchisce la collana Novavlna con La teoria della stranezza di Pavla Horáková, solo all’apparenza leggero, che ha la forma di una narrazione che scorre fresca e con la giusta dose di ironia.
In realtà, tra le pagine si attraversa la città di Praga e ci sofferma sulla sua storia recente, invogliati dalle riflessioni di Ada, la protagonista, che di fronte agli edifici, ai parchi, ai quartieri, ne coglie i tratti risultanti dagli avvenimenti.
Sono passati appena centocinquant’anni da quando, proprio qui, i condannati sottoposti a tortura morivano di scorbuto, settant’anni da quando dal cielo cadevano le bombe, appena trent’anni da quando Havel veniva pedinato, proprio su queta strada.
Ada è una ricercatrice in Antropologia, il suo sguardo sul mondo allarga l’applicazione del metodo scientifico di ricerca al quotidiano, dando luogo a prospettive inaspettate anche ad una semplice passeggiata nel parco:
In anni di osservazione ho capito una cosa. I barboni sono per la maggior parte dotati di una chioma foltissima. È evidente. Ho preso in esame talmente tanti esemplari che posso escludere qualsiasi pregiudizio o errore. I pelati sono meno dell’un per cento. Ma cose dedurne? Le dure condizioni di vita preservano in qualche modo dalla perdita dei capelli? Si tratta di una sorta di irsutismo secondario attribuibile alla vita all’aperto? O c’è una qualche relazione tra il gene della folta chioma e l’incapacità di adattamento alle regole sociali?
Da queste riflessioni disseminate per il romanzo, frequenti nei pensieri di Ada, si compone il quadro più affascinante di questa teoria: la possibilità che l’apparente caos sia il risultato di una catena di cause e conseguenze scientificamente tracciabile. E di come, all’opposto, la realtà dimostri che una catena di cause e conseguenze tracciabili può comunque dare luogo ad eventi totalmente inaspettati. Arrivando a far aderire questa stranezza anche alla Storia.
I copricapi si trascinano dietro una vera carica esplosiva. […]
Pare che non sia un caso che nella civiltà occidentale le guerre siano passate di moda proprionel periodo in cui gli uomini hanno deposto i cappelli e le donne hanno smesso di annodarsi foulard e indossare gli articoli creati dalle modiste. Come se coprire la testa causi un onnubilamento della mente, forse blocca i chackra principali, impedendo l’uso del buonsenso.
La stranezza, appunto, l’imprevedibile corso di una vita, che sembra però prevedibile a posteriori, seguendo le tracce al contrario, sapendole forse intercettare nel momento presente, eppure, l’esistenza dimostra che ogni vita rimane così, imprevedibile.
Ada osserva che forse anche i miracoli o i fatti soprannaturali, inspiegabili, sono solo eventi di cui non riusciamo a trovare le tracce a ritroso, per ora.
Ciononostante, ciò che rende la vita degna è proprio questa sua stranezza e il fatto che raramente ci fermiamo ad individuare gli anelli di quella catena che formano il percorso alle nostre spalle, e che già indicano, forse, il percorso che abbiamo davanti.
VIT[AMOR]TE è un libro di Valeria Bianchi Mian edito da Miraggi nel 2020.
Non vi aspettate un’interpretazione classica dei tarocchi, qui troverete percorsi, spunti, viaggi onirici in versi fatti di ricordi, parole, pensieri ritrovati in fondo ad un cassetto.
Valeria Bianchi Mian scrive in prosa e in poesia. Ama comporre e scomporre, giocare con i sensi e le consuetudini per poi destrutturare, arrivare a iperbole di pensiero nuovo, visioni di luci laterali, di nuove ombre, nuove spinte, nuovi percorsi nell’anima.
Psicologa junghiana ha esperienza di sedute, laboratori e altre realizzazioni dove cultura, psicologia, arte e teatro si incontrano. Al suo attivo diversi testi. Scrittrice poliedrica dalla personalità eclettica, veste i panni di narratrice, esperta, poetessa, pirata di cuore agitato, strega rivelatrice. Lo fa in mille modi, restando sempre se stessa.
Vit[amor]te racconta della potenza evocatrice delle immagini e di come queste vengano assunte nella simbologia popolare e individuale, diventando archetipo, riferimento, suggerimento, impulso.
I tarocchi per lei sono “bussola onirica e poetica”, dalle sfumature stratificate nella storia, a cui si aggiungono le altre sfumature personali, soggettive, interpretazioni legate al vissuto, alla valigia esperienziale di chi le guarda e le fruisce. Lei, quando conduce gruppi e laboratori espressivi dice di utilizzare “volentieri le carte e nella pratica immaginale questo strumento offre grandi possibilità creative” ed evocative, aggiungere io. Dunque, grazie ai tarocchi si arriva a “narrare fiaba in gruppo, interpretare storie corali e poesia”. Perché da lì si trae spunto per far volare l’anima, lasciandole parole libere.
Le figure dei tarocchi di Vit[amor]te – vi invito a notare anche il gioco di parole scomposte e ricomposte nel titolo, gioco che l’autrice mette da sempre in campo per divertirsi e ritrovare nuovi significati, nuove narrazioni – sono stati realizzati da Valeria Bianchi Mian.
Essi diventano il fulcro espressivo fatto di tracce, segni, colori. Immagini dunque capaci di indagare nell’inconscio e riportarci simbolismi repressi, nascosti, dimenticati, accantonati a forza. Vit[amor]te è un’opera completa che torna e riparte tra versi in poesia e percorsi introspettivi nella coscienza, tra eros, sogni, realtà, inganno.
Sinossi
Quarantaquattro poesie per ventidue originalissimi arcani maggiori: parole e immagini come gemelle in danza.
Scrivere e illustrare poesie è per l’autrice un operare quotidiano, attività ormai consolidata di sperimentazione e strumento nel suo lavoro di psicoterapeuta.
Dopo le poesie e le filastrocche del libro “Favolesvelte” (Golem Edizioni, 2015), Valeria Bianchi Mian ha pubblicato racconti, ha curato e illustrato un’antologia sul tema della ‘dimora’, ha scritto e fatto nascere il suo primo romanzo (“Non è colpa mia”, Golem Edizioni, 2017), ha partecipato alla stesura di tre saggi di psicologia in collaborazione con altri colleghi. In questa silloge raccoglie le poesie giovanili e quelle scritte tra il 2014 e il 2019; le fa procedere insieme alle figure dei tarocchi. È una Totentanz che passa dalla nigredo, l’Opera al Nero, e punta alla rinascita, è un cerchio di versi che si fa spirale attraverso i disegni.
Il filo conduttore di Vit(amor)te è l’idea della natura viva: è una bozza di verde, lo spunto generativo, il germoglio rigoglioso o la foglia secca, il respiro della terra sopra la quale camminiamo, natura che matura nella nostra psiche.
La storia del diventar se stessi comincia dal Matto incompiuto, un germe, il seme ritrovato; lo sviluppo per concludere con il ricominciar da capo.
È indubbio che la letteratura ceca contemporanea goda di ottima salute. Ne siamo informati grazie al meritevole lavoro della casa editrice Miraggi che ha pubblicato e pubblica testi di grande valore. E, sempre grazie a Miraggi, sappiamo che, nella letteratura ceca, gode di ottima salute anche la scrittura al femminile. Basti qui citare i libri di autrici ceche usciti negli ultimi anni per la casa editrice torinese: “Il lago” (2018) e “Mona” (2020) di Bianca Bellovà; “La corsa indiana” (2017) di Tereza Bouckovà; “Bata nella giungla” (2020) di Markéta Pilàtova.
Infine “La teoria della stranezza” (2020) di Pavla Horàkovà che prenderò, qui, in esame, tradotto da Laura Angeloni, una delle migliori traduttrici dal ceco che abbiamo in Italia.
Pavla Horàkovà è scrittrice, traduttrice, giornalista letteraria e radiofonica. Ha pubblicato una trilogia poliziesca per ragazzi; per quattro anni (dal 2014 al 2018) ha lavorato a un progetto radiofonico che ha avuto come soggetto l’esperienza dei soldati cechi al fronte durante la prima guerra mondiale, progetto da cui sono nati due libri; nel 2018 ha pubblicato la novella “Johana” insieme a Alena Scheinostovà e Zuzana Dostàlovà. Nel 2019, proprio con “La teoria della stranezza” ha vinto il prestigioso premio letterario Magnesia Litera.
Ma di cosa parla “La teoria della stranezza”? Forse è un frusto gioco di parole dire che “La teoria della stranezza” è un libro strano. Comunque non è solo un libro strano. È, soprattutto, un libro molto bello, coinvolgente, che ci induce a riflettere sui limiti della nostra razionalità.
Ada, la narratrice, è una ricercatrice dell’Istituto di Antropologia Interdisciplinare impegnata in una “strana” ricerca che ha per titolo: “La percezione soggettiva della compatibilità visiva reciproca”. Inoltre è impegnata nell’indagine sulla misteriosa scomparsa del figlio della sua collega Valerie Hauserovà, Kaspar Hauser. È durante questa ricerca che Ada si imbatte in strani fenomeni, in strani eventi che sembrano tutti connessi tra loro e che le fanno concepire una teoria che chiamerà “teoria della stranezza”. In questa sua ricerca Ada utilizzerà la fisica quantistica, la teoria olografica dell’Universo, si interrogherà sul paradosso dei gatti di Schrodinger.
Come si può capire da queste note sulla trama, la fisica quantistica assume un ruolo centrale nel libro. Possiamo allora domandarci, per allargare il discorso, come mai in questo periodo storico escano tanto romanzi che hanno come centro la fisica quantistica e escano tanti libri di divulgazione su di essa. Forse, dopo tanti strumenti teorici che abbiamo utilizzato per decifrare il mondo in cui abitiamo e che si sono rivelati inadeguati, come per fare un esempio, una certa vulgata marxista, siamo alla ricerca di un teoria che ci spieghi il funzionamento dell’universo. Abbiamo l’illusione che la fisica quantistica sia il grimaldello che ci serve allo scopo. Basterebbe, però, leggere i bellissimi libri di divulgazione sulla fisica quantistica di Carlo Rovelli per renderci conto che, sì, la fisica ci può dare la chiave per interpretare alcuni fatti e eventi del mondo che ci circonda, ma che è proprio la fisica quantistica a farci capire come il mondo sia molto più complesso di quanto noi non lo percepiamo.
Ada lavora nello “strano” Istituto di Antropologia insieme ad alcune colleghe e colleghi: Valerie di cui ho già parlato; Ivan Mrazek, che la intrattiene spesso con le sue “teorie edilizie”; Patrick Svàcek, conformista e arrivista; Honza Mikes che, dopo una bouffée delirante a sfondo paranoico verrà ricoverato in ospedale psichiatrico; la sorella di Mikes, Hana; Ales Drik, strano sperimentatore sul sonno che ha come cavia proprio Ada; il direttore Jirecek.
Tutti loro rappresentano una Praga che non è più quella della Primavera, che non è più quella della Rivoluzione di Velluto. È una Praga dove dominano gli arrivisti, dove domina gente senza più ideali, dove la cosa più importante è arricchirsi, fare carriera. È la Praga del neoliberismo imperante in cui Ada fatica a trovare una sua dimensione. Non è un caso che, qua e là nel libro, ci siano riferimenti alla storia recente della Cecoslovacchia, poi Repubblica Ceca, e alla psicologia dei cechi, un po’ come accade nel bel romanzo di Jaroslav Rudis “Grand Hotel” (Miraggi. 2019). Ne è un esempio la riflessione della madre di Ada che Ada è andata a trovare alla radio praghese per cui lavora, sulla provincialità dei cechi:
“Secondo mia madre la provincialità riflette l’atmosfera generale del nostro paese. Quando eravamo parte dell’impero austro-ungarico l’élite ceca, spesso bilingue e forte di un’educazione internazionale conseguita nelle metropoli europee, interagiva con una grande fetta di Europa e aveva una mente aperta. Ai tempi della Cecoslovacchia, pre e post bellica, operavano ancora persone che avevano viaggiato e si sentivano a loro agio in diverse culture. E pur puntando a un pubblico che ormai spaziava soltanto dalla città di As a quella di Cierna, manteneva comunque uno sguardo periferico anche sul resto del mondo. Con lo smembramento della Cecoslovacchia l’ambito si è ulteriormente ristretto. Come se per dispetto ci fossimo raggomitolati in noi stessi. Nemmeno l’ingresso nella Comunità Europea ha cambiato questa prospettiva” (Pag. 39).
Un altro esempio lo troviamo in un altro brano del libro. Qui Ada riflette sul carattere dei cechi:
“Noi oggi non abbiamo nemici esterni, ma il nostro continuo bisogno che qualcosa accada ci porta a intraprendere guerre nei nostri rapporti personali, oppure contro noi stessi.
È una cosa che i cechi possiedono all’ennesima potenza. Sono talmente tanti anni che non combattono armi in mano contro gli occupanti, che l’impulso frustrato di salvaguardare la propria vita e i propri averi si è trasformato in una malattia autoimmune. Non potendosi più opporre a un invasore esterno, hanno rivolto i loro meccanismi difensivi contro se stessi. Informatori, collaboratori, miliziani, agenti segreti, normalizzatori, Svàcek di ogni tipo. L’energia che dovrebbe essere rivolta verso l’esterno si è riversata all’interno” (Pag. 194-95).
Ho introdotto più sopra la madre di Ada, In effetti, nel libro, ci sono altri personaggi importanti oltre a quelli che gravitano intorno all’Istituto. C’è il padre di Ada, Karel, che avrà un ruolo fondamentale nell’economia del romanzo; c’è la sorella di Ada, Sylvia, primogenita e viziata; c’è il fratello Gregor, persona fuori dagli schemi; c’è Max, amico di Gregor, che avrà una storia con Ada; c’è il cane Bubàk.
Infine c’è Kaspar Hauser. Chi è Kaspar Hauser ne “La teoria della stranezza”? È un personaggio enigmatico, figlio di Valerie, che era stata a scuola con la mamma di Ada. È un personaggio enigmatico che si volatilizza, scompare, ricompare. Incerta la sua identità, non si sa bene cosa egli voglia dalla vita, almeno questo è quanto affermano quelli che lo hanno conosciuto. Pavla Horàkovà non ha scelto questo nome a caso. Sul vero Kaspar Hauser sono stati scritti moltissimi libri e articoli, è stato girato un bellissimo film da Werner Herzog nel 1974. “L’enigma di Kaspar Hauser”. Quando leggiamo non possiamo prescindere da tutto ciò e neppure dai brevi riferimenti storici sul misterioso padre di Kaspar Hauser che la stessa Horàkovà ci dà, per ritornare, poi, al figlio di Valerie:
“Riguardo al padre del trovatello di Norimberga del 1828 furono fatti diversi nomi di nobili, compreso Napoleone Bonaparte. Con chi ha avuti Valerie quel figlio illegittimo? Aveva forse una discendenza aristocratica da parte di padre?” (Pag. 56-57).
Che rapporto intratterrà Ada con Kaspar Hauser? Al lettore scoprirlo.
Questo ulteriore riferimento ad Ada mi permette di aprire una nuova parentesi: qual è la relazione tra autrice e narratrice? Ada narra in prima persona. A volte pare di cogliere che l’autrice sia la portavoce di Ada, altre che ci sia uno spazio in cui si differenziano e che Ada vada in piena autonomia, quell’Ada così insicura nelle relazioni d’amore, quell’Ada che va da una psicologa, Nora, anche lei un po’ “strana” e non propriamente ortodossa in quanto a setting, quell’Ada spesso depressa, quell’Ada che si scontra con fenomeni strani cha paiono tutti accadere nel distretto di Sumperk, quell’Ada che si rivolge alla fisica quantistica perché la realtà sembra sfuggirle da ogni parte. Pensando a Mikes, ricoverato in ospedale psichiatrico, guarda un video in cui un certo Dott. Quantum parla della fisica quantistica. La conclusione a cui la ricercatrice arriva è questa:
“L’elettrone si comporta in maniera diversa solo per il fatto di essere osservato. Quando avviene l’osservazione la funzione d’onda collassa. Da ciò si potrebbe dedurre che noi creiamo la realtà attraverso l’osservazione… E così mi convinco di aver causato io stessa le cose spiacevoli che mi sono accadute nella vita, col semplice atto di osservarle. Tutto esiste e allo stesso tempo non esiste, finché non lo guardo. E ciò dipende dalla mia convinzione pregressa sulla sua esistenza o inesistenza” (Pag. 149-50).
Nella bellissima e drammatica scena della visita al collega Mikes nell’ospedale psichiatrico di Bohnice, fatta con Valerie, confessa alla collega la sua paura di uscire di senno:
“Rifletto sulle situazioni in cui si sovrappongono due possibilità; su tutti i bivi che offrono una soluzione binaria. Dove mi avrebbe portato la vita, se quella volta avessi detto sì, o al contrario no. Al pensiero di tutte quelle biforcazioni mi si annebbia la vista. Confesso a Valerie che ho spesso la sensazione di uscire fuori di senno” (Pag. 255).
Il luogo in cui Ada cerca di chiarirsi, di dipanare i misteri, di svelare eventuali segreti di famiglia è la casa del padre. C’è una pagina in cui cita implicitamente Kant e che ha un afflato lirico che, per certi versi, è struggente. Mentre si legge risuonano in noi le pagine dell’ultimo libro di Carlo Rovelli “Helgoland” (Adelphi. 2020) sulla fisica quantistica, un libro in cui Rovelli sostiene che tutto è connesso, tutto è relazione, che la fisica quantistica è una scienza molto difficile e complessa.
Ancora una volta Ada arriva alla conclusione che tutto è connesso, che tutto è relazione, che noi vediamo le cose partendo dallo spazio e dal tempo in cui osserviamo. E struggente è il riferimento al cane Bubak e a quale potrebbe essere il suo punto di vista in questo mondo fatto di connessioni e relazionalità. Mi si scusi la lunga citazione, ma ne vale la pena:
“Guardo le stelle, poi un camion che passa, e per quanto ci pensi non riesco a decidere quale dei due sia il miracolo più grande. Quale dei due è il più assurdo, il meno probabile, quello che contrasta maggiormente il senso comune, quello che si oppone di più alla logica, qual è la sfrontatezza e impudenza più sfacciata? Il cielo stellato sopra di me, o il Mercedes di fianco a me? Assurda è l’esistenza in quanto tale. Dal punto di vista energetico sarebbe molto meno impegnativo se non esistesse niente. E questo rende la vita ancora più assurda. Tanto inverosimile è l’esistenza di Bubàk, un ammasso di amminoacidi, tanto lo è la mia, un raggruppamento degli stessi composti organici, e in più dotata di coscienza. Gli elementi che sono nei nostri corpi, come quelli utilizzati per la produzione e la trazione dei camion, derivano dall’esplosione delle stesse stelle che baluginano sopra di noi, solo molto più vecchie. Ogni fredda pietra porta con sé un potenziale di rinascita e in fin dei conti di autoconsapevolezza. La materia dispersa torna a unirsi, a ridisporsi, a prendere coscienza di sé, l’universo osserva se stesso con quadrilioni di occhi, medita su se stesso con miliardi di menti, denomina la realtà in migliaia di lingue, si contempla, inghiotte e rigurgita. Cosa sarà in gradi di vedere Bubàk, seduto accanto a me a osservare concentrato la strada, col suo sguardo bianco e nero? Quali angoli dell’esistenza percepisce, a me invisibili, con quelle orecchie perennemente tese, le narici che vibrano e soffiano? Esistono sincronicamente tantissimi mondi, quelli che ciascuna creatura vede, ognuna per suo conto. E’ questo che si intende per realtà parallele, o universi paralleli? Tutti gli universi che esistono in contemporanea nella consapevolezza degli esseri in grado di percepirli? E cosa risulterebbe se da tutte queste immagini se ne formasse una sola? Quale grandiosa composizione? Forse nessuna, forse tutto collasserebbe sotto il suo peso” (Pag. 285-86).
che cosa succederebbe se l’agrimensore K. del “Il Castello” e il gestore di motel Norman Bates di “Psyco” confluissero in un unico personaggio, dandosi appuntamento davanti a un palazzo con la parvenza di essere a metà strada tra i due immobili delle rispettive storie? E se Pellicani – questo è il nome del protagonista del romanzo di cui vi sto per parlare -, fosse vestito quasi come un’icona magrittiana, in giacca e cravatta, e con una valigetta si presentasse in quell’ora serale in cui ogni strepito si è già consunto e le voci di dentro prorompessero all’improvviso?
“i Pellicani”, di Sergio La Chiusa (Miraggi edizioni), ha l’impeto fragoroso di un atomo d’idrogeno, che è un gas con la molecola più piccola e più leggera, ma che si muove molto velocemente verso l’alto e riesce a penetrare materiali normalmente impermeabili. L’ossigeno detonante è la giusta miscela di tensione, onirismo, mistero, tragico umorismo contenuti all’interno di una sola stanza, quella in cui è coricato il padre del protagonista, irriconoscibile se non per il naso pronunciato, quasi un marchio di fabbrica della stirpe Pellicani.
Noi di Pellicani figlio sappiamo ben poco, il necessario a scatenare universi fantastici popolati da forme e parvenze umanoidi. Vent’anni prima l’uomo ha rubato dei soldi al padre e da allora non l’ha più visto; è andato via dal lavoro sottraendo articoli di cancelleria; ora deve partire per la Cina. Non sappiamo in che luogo si svolga l’azione ma non ne abbiamo bisogno, perché tutto ciò che occorre al La Chiusa-demiurgo risiede nella sua maestosa capacità affabulatoria e nella sublime proprietà stilistica che fa di “i Pellicani”, già finalista alla XXXIIesima edizione del Premio “Italo Calvino” (menzione speciale Treccani), un libro d’insuperata bellezza, l’esordio più maturo e elegante dell’anno.
Se non bastasse quanto detto sin qui, il lettore sappia che riconoscerà Collodi, Shakespeare, Borges e la tragedia greca venati da contrappunti comici, al limite del grottesco.
“… perché invece di sparire, […] c’incaponivamo a esistere nonostante il cambiamento dei tempi e i progetti di riqualificazione?”. “… a un tratto ebbi come l’impressione che il vecchio intendesse sbarazzarsi di me e per ciò si fosse messo a puzzare a tutto spiano e a perdere liquidi…”. È un romanzo sulla fine della Bellezza, sull’inevitabile degradazione e sul mistero insito nella natura umana. Il vecchio Pellicani non è più il povero demente sdraiato su un letto e accudito, all’inizio, da una giovane badante, ma è l’emblema di una società disorientata, depotenziata, inaridita, immobile. L’espediente narrativo è la miccia che innesca in realtà una più ampia fluttuazione esistenziale, in cui La Chiusa s’interpone da eccelso narratore, come per la grande letteratura, in cui non c’è niente da raccontare, ma che sconfina in quella zona ellittica e portentosa del pensiero che scuote per lungimiranza e immaginifiche metafore conoscitive le anime esonerate dall’armonia.
La vita moltiplicata è una raccolta di dieci racconti pubblicata da Miraggi Edizioni nella collana Golem dell’autore Simone Ghelli.
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Il titolo della raccolta, La vita moltiplicata, ha un significato che rimanda alla formazione cinematografica dell’autore. Difatti ricorda i celebri fotogrammi del cavallo in movimento ripreso dal fotografo Muybridge. Simone Ghelli pare voglia dirci questo: la vita è fatta di istantanee in movimento. Così anche ogni personaggio della raccolta è un cinematografo mobile di immagini e suoni.
Il titolo è dunque un’esortazione, come a dire che se questa realtà ci assottiglia, rende le frange della profondità sempre più piatte fino a ridurci a esseri superficiali, allora resta la possibilità di moltiplicarci sullo spazio. È solo in questo modo che ci è ancora permesso di muoverci: come fotogrammi in cerca della nostra profondità.
Il racconto L’ineluttabile
Con ogni probabilità il racconto che meglio rende l’idea sottesa all’intera raccolta è L’ineluttabile. Qui l’autore gioca in maniera equilibrata con elementi onirici e altri invece – sembrerebbe – autobiografici. La narrazione si svolge in un vecchio locale di Siena. Il protagonista è un ex-studente universitario, tornato per partecipare a un concorso per un posto come ricercatore. Mentre è lì solo, seduto a un tavolo, fa la conoscenza di un uomo quasi irreale, dai modi e dalle fattezze d’altri tempi e comunque familiari. Ne viene fuori un dialogo che scava e che indaga, per poi riemergere e lasciare il lettore alla mercé di un pugno di domande alle quali cercare di dare risposta, una volta che si termina la raccolta.
Quando, citando Deleuze, afferma che “bisogna che il cinema filmi non il mondo, ma la credenza in questo mondo”; oppure quando evoca la formula di Sant’Agostino secondo la quale esiste una simultaneità di presenti – un presente del presente, un presente del passato e un presente del futuro – pare che l’autore voglia raccontarci di una realtà, quella odierna, giocata tutta qui, su unico piano superficiale ma tricolore, proprio come la copertina dell’opera.
La nostalgia dei personaggi
C’è un elemento che abbiamo rinvenuto in tutti i personaggi di questa raccolta: la nostalgia per un tempo che non esiste più e che fa sì che ogni voce presente in quest’opera sia fuori sincrono, appartenga a un mondo che non è di questo tempo, è di un tempo passato o, per meglio dire, di un tempo che non è mai esistito perché abita nella sublimazione del sentimento nostalgico. A tal proposito, è emblematico il racconto L’ultima vetrina, già pubblicato sulla rivista Cadillac nel 2016 con un titolo diverso (E non venne più nessuno), nel quale l’autore racconta le vicende di un librario che preferisce la vita inventata dei libri a quella reale, un uomo che si sente “come l’ultimo pesce vivo in un acquario”. Anche in Compito di realtà il protagonista fatica a trovare la sua dimensione; una vita, quella del professor Iuri Bettalli, supplente presso un istituto comprensivo della provincia, che appare “fuori asse” negli ideali che cozzano con la realtà, soprattutto se questa poi si confronta con il punto di vista degli adolescenti.
Un accenno allo stile
Lo stile di Simone Ghelli è essenziale, privo di sbavature. Nessuna frase è lasciata al caso, ma è costruita per tendere al punto, al nocciolo di ciascuna narrazione breve. Gli elementi compositivi e il perno emotivo, al centro di ogni racconto, si integrano in maniera tale che le immagini narrative catturate dall’autore siano di grande equilibrio stilistico.
Grand Hotel di Jaroslav Rudiš è un romanzo particolare pubblicato in Italia da Miraggi Edizioni, nella collana NováVlna diretta da Alessandro De Vito.
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Grand Hotel di Jaroslav Rudiš portato in Italia da Miraggi edizioni con la traduzione di Yvonne Raymann è un’opera di narrativa che incuriosisce il lettore catturandolo fin dalle prime pagine.
Ma iniziamo dal principio.
Siamo in Repubblica Ceca, Fleischman è un giovane uomo sui trent’anni, con qualche difficoltà e un passato tragico alle spalle, lavora come tuttofare al Grand Hotel di Ještěd, ha una passione smodata per la meteorologia che utilizza soprattutto come termine di paragone con la vita stessa. Vita che procede monotona fino a quando non conoscerà due persone che in modi differenti influiranno su molte delle sue decisioni.
Come già detto in precedenza, Grand Hotel di Jaroslav Rudiš è un romanzo unico nel suo genere, raccontato in prima persona dallo stesso protagonista, con molteplici similitudini tra la meteorologia e la vita stessa, un’opera che favorisce l’introspezione di chi legge, anche grazie a uno stile onirico quasi ipnotico, capace di suscitare una forte empatia.
I personaggi sono molti e tutti ben delineati, anche se si legge di loro tramite l’occhio del protagonista.
Il mio preferito é come sempre un secondario: Ilja, la ragazza che irromperà nella vita Fleischman in modo del tutto inaspettato. Proprio questa irruzione aiuterà lo nella sua crescita personale.
Jaroslav Rudiš ci guida per mano in questa storia e ad ogni pagina ci sospinge ad un’autocritica spronandoci però a gioire delle piccole cose della vita senza mai perdere la speranza verso il futuro.
Chiede il lettore di fare i conti con le proprie paure e trovare uno slancio, un appiglio per fronteggiare l’ignoto, il tutto senza mai perdere il ritmo della narrazione né facendo scemare la tensione narrativa.
Le varie metafore con base meteorologica non appesantiscono né la narrazione né lo stile narrativo anzi hanno la capacità di rendere ancora più efficace l’impatto emotivo della storia sul lettore. In conclusione, mi sento di affermare che Grand Hotel di Jaroslav Rudiš è un romanzo brillante e potente al contempo che può essere un’ottima guida in questi tempi d’incertezza.
Grand Hotel di Jaroslav Rudiš, Miraggi Edizioni pp.224, Brossura 18 €, versione digitale disponibile.
Ringrazio la casa editrice per la copia cartacea del romanzo.
Casa editrice scoperta Grazie alla libreria Gogol & Company di Via Savona 101 Milano
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