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I PELLICANI – recensione di Mauro Bonciani su I libri di Mompracem

I PELLICANI – recensione di Mauro Bonciani su I libri di Mompracem

Pellicani babbo e figlio per un torrente di parole

I Pellicani, con la p maiuscola, perché è un cognome, non sono gli animali esotici dal grande becco che nell’arte cristiana sono diventati simbolo di Gesù e dell’amore verso i figli: così si intitola il romanzo di Sergio La Chiusa edito da Miraggi.

Un torrente di parole, in un claustrofobico condomino surreale, con situazioni e relazioni ambigue, prima su tutte quella padre-figlio dei due protagonisti, che non molla più il lettore e lo spinge nella corsa lungo le pagine e la tragicommedia di questo strambo eroe.

Pellicani figlio si fa scudo di una valigetta, di un ruolo, Pellicani babbo incombe con i suoi acciacchi da vecchio assistito da una badante che il figlio a metà libro riesce a buttare fuori di casa e dalla loro vita – “Ci siamo emancipati”, annuncia il protagonista sull’onda dell’entusiasmo prima di rinchiudersi nella sua cameretta a sgranocchiare biscotti Plasmon – dopo venti anni in cui era stato assente per impegni non meglio precisati.

E’ un’opera inconsueta quella di La Chiusa, finalista al premio Italo Calvino 2019, in cui ha ottenuto la “menzioni speciale Treccani” per la lingua italiana.

Il giovane Pellicani è così antipatico da risultare simpatico, come accade in molti film. E’ ipocondriaco, goloso, si “traveste”, spacca il capello in quattro ad ogni occasione dato che dubita di tutto, sfugge alle responsabilità, ma in fondo va dritto alla meta e si installa in casa del vecchio e infermo Pellicani babbo.

Se la lettura per voi è anche sfida, immergersi nelle pagine, questo è un romanzo da affrontare. E la sua vena poetica non deluderà.

Qui l’articolo originale:

I PELLICANI – #nonrecensione di Vis à Vis Chiara Trevisan

I PELLICANI – #nonrecensione di Vis à Vis Chiara Trevisan

Nuova #nonrecensione, in forma di bugiardino, per nuovo sorprendente libro in uscita.
“I PELLICANI”, Sergio la Chiusa (Miraggi Edizioni 2020)

CONTENUTO 
Un uomo cammina tantissimo, frenetico e rocambolesco, fra memorie, deliri psicotici, e proiezioni fantasmagoriche, inciampando nelle macerie di un appartamento e di un’esistenza, anzi due. 

AVVERTENZE 
Leggerlo equivale a salire su una bicicletta, lanciata a folle velocità su un percorso sconosciuto. Le prime pedalate lasciano senza fiato, ma in un attimo si prende il ritmo e ci si immerge nel piacere delle folate di aria in faccia. 
Il paesaggio è nitido, grazie a un uso della lingua magistrale e ipnotico. 
Il divertimento assoluto, così come l’intuizione di una realtà verosimile, al di là di ogni apparenza.

INDICAZIONI 
Per chi ha bisogno di muoversi, sperimentare, abbandonarsi e riprendere il controllo, con la certezza della sua inutilità.

POSOLOGIA
Da leggere tutto in un fiato, e lasciare agire con stupore.

ESTRATTO:
“… era chiaro che non potevo sistemarmi da nessuna parte, sistemarsi era sommamente pericoloso, si correva il rischio di trovarsi ad accudire qualcuno, oppure, se non c’era nessuno da accudire nei dintorni, coricarsi, cadere nella trappola del letto e assumere senza pensarci la posizione dell’accidioso, entrare nel suo comodo stampo, che era poi come stendersi in una cassa da morto perché l’accidia, l’inoperosità, l’indolenza erano tutti strumenti di resistenza, d’accordo, ma se non si governavano a dovere alla lunga si tramutavano in attività letali… Circolare! Circolare! Questo era importante!”

https://www.facebook.com/lalettricevisavis

TUTTO L’AMORE CHE MANCA – recensione su Librando Magazine. Nuove penne

TUTTO L’AMORE CHE MANCA – recensione su Librando Magazine. Nuove penne

La trama

Aognuno di noi può capitare di parlare con un oggetto, una pianta o un animale. Giovanni Spartivento, dopo aver perduto in pochi giorni lavoro e fidanzata, liquida lo psichiatra dal quale era in cura e, rimasto solo con la sua ossessione per le donne e la consolazione della marijuana, adotta come confidente un omino della Lego: «Un piccolo aggiustatutto con la tuta e il cappello blu; una via di mezzo tra un idraulico e un operaio, dall’espressione seria ma bonaria». Insieme, intraprendono un viaggio che da Torino li porterà prima ad Amsterdam e poi, in seguito alla notizia dell’omicidio di un’ex compagna di scuola, a Bisenti, paese natale di Giovanni. Bisenti è però anche il paese di origine di Ponzio Pilato… e non sempre le questioni si risolvono lavandosene le mani.

La stanza è vuota, nessuna traccia di vita in quei ventotto metri quadri che ti sembrano una scatola. Ti senti carne avariata in una confezione di plastica: l’atmosfera protettiva ha finito il suo effetto e ti manca l’aria; cominci a marcire e ne senti la puzza ovunque. Sei seduto a terra, nudo, davanti a uno specchio spietato che riflette un’immagine che non riconosci. Siete due statue identiche che stanno per prendersi a cazzotti dopo anni di guerra fredda. Quelle parole ti hanno toccato nel profondo e hai deciso che devi dare una svolta alla tua vita. Serve un taglio netto a tutto senza nessuna pietà, nessuna speranza e nessuna alternativa. Siete solo tu, la lampadina appesa a un cavo che penzola dal soffitto, la bottiglia di un whisky a basso costo e lo specchio. Quel maledetto vetro a cui vorresti dare un pugno e romperlo. Ma hai paura, è questa la verità, nuda come te. Pensi che sarà doloroso, ma fa male anche guardarci dentro e fissare la tua immagine come se aspettassi che sia lei a parlare per prima. Sai bene che non ti darà nessuna risposta e l’unica consolazione è che non farà domande.

Qui l’articolo originale:

CON BATA NELLA GIUNGLA – Mangialibri – Recensione di Caterina Venere Marino

CON BATA NELLA GIUNGLA – Mangialibri – Recensione di Caterina Venere Marino

ARTICOLO DI: Caterina Venere Marino

AUTORE: Markéta Pilátová

TRADUZIONE DI: Alessandro De Vito

GENERE: Romanzo

EDITORE: Miraggi2020

Jan Antonín Bata è sdraiato in un letto d’ospedale. Fa caldo, gli fa male il petto. Ha avuto un infarto. Un altro. Il bianco delle lenzuola di lino inamidato si confonde e si trasmuta nel bianco della neve d’infanzia: sente in lontananza il suono del violino, del suo primo violino. Usa la custodia nera a mo’ di slitta per scivolare dalla discesa e arriva per primo mentre gli altri bambini giocano lanciandosi la neve. Lìda accende il ventilatore per trovare un po’ di sollievo dall’afa tropicale brasiliana. Il motore del ventilatore è rumoroso, cupo e monotono come il motore dell’aereo Lockheed Electra L-10 con cui Jan Antonín Bara ha girato il mondo. È mattino e Lìda e Maja aprono le finestre dalle quali s’inerpica e s’introduce l’inebriante profumo della dama da noite. La prima volta che aveva avuto un infarto c’era solo Marina, nessun dottore – “non ci sono dottori nella giungla” – e la donna, per calmarlo, gli aveva sussurrato di inspirarne il profumo. Anche ora inala profondamente la fragranza floreale e così facendo vola via dalla stanza d’ospedale di San Paolo, attraversa l’oceano e inspira a pieni polmoni, quasi bevendolo, l’odore umido della terra e della neve primaverile. È giusto tornare perché è giunto il momento di ripulire per bene la sua memoria e il suo onore infangati da maldicenze, incomprensioni e finanche da un processo- farsa. Sì, perché lui, Jan Antonìn Bata, fratello unilaterale di Tomàš Bata (originario fondatore di quello che diverrà l’impero calzaturiero Bata S.p.A.) per anni non è stato riconosciuto in patria, in Europa e negli Usa per quello che era né per i suoi meriti. Tutt’altro: “Sono già stato un po’ tutto sulla bocca e sul volgare muso della gente: nazista, ebreo, ebreo tedesco, ebreo ceco, ebreo comune, slavo schifoso, agente del terzo Reich, disertore, traditore della patria, sabotatore della nazione, gigante, agnello sacrificale dei comunisti, re dei calzolai, continuatore, Capo e ora pare che sia stato anche un punto nevralgico della storia ceca contemporanea.” Ora che è morto d’infarto, l’uomo vuole ricomporre i tasselli del puzzle, capire perché non gli hanno dato ascolto e rivedere il tutto “attraverso la lente di ingrandimento del tempo”…

Con Bata nella giungla è la ricostruzione romanzata della vita imprenditoriale e famigliare dei Bata che assume i toni della storia corale di grande respiro. Il romanzo si sviluppa e si organizza in maniera singolare: immaginatevi la classica rappresentazione di un albero genealogico, con le radici, il tronco e le fronde a simboleggiare la stirpe, la discendenza, la progenie; ad ogni modo, l’autrice non tratteggia l’albero in maniera lineare, bensì a scatti, soffermandosi su un personaggio per poi passare ad un altro, senza tenere conto della linea biologica. Difatti, a dare il titolo ad ogni capitolo del libro è il nome di uno dei membri della famiglia, i quali si alternano e ritornano più volte a fornire la loro visione della storia. La narrazione procede dunque andando avanti e indietro nel tempo, nei legami familiari, nelle vicende biografiche e storiche, nei ricordi dei membri della famiglia Bata e nelle loro riflessioni personali. Il lettore è così sbalzato, come da una folata di vento, da un determinato momento storico e da un preciso punto geografico all’altro. In questo romanzo, i piani del presente e del passato si sovrappongono, così come quelli della vita terrena e ultraterrena – sono davvero notevoli e suggestivi i momenti in cui Markéta Pilátová scrive di Jan Antonín Bata mentre vaga erratico su questa Terra e riflette sulle cose della vita dal suo peculiare punto di vista. Si alternano poi gli scenari urbani della Vecchia Europa con le descrizioni del lussureggiante e selvaggio Sudamerica che la caparbietà e la determinazione dei fratelli unilaterali Bata sono riusciti in parte a domare. Questi “Ford cechi” dell’industria calzaturiera con il loro impero hanno rappresentato lo spirito imprenditoriale impregnato di fiducia nel futuro, nel progresso tecnologico e di fiducia nell’uomo e nella socialità. Particolarmente interessanti e profonde le riflessioni dei personaggi sulla lingua madre e sulle lingue acquisite (quasi tutti, in questo libro, sono poliglotti e parlano correttamente il ceco, il serbo, il tedesco, l’inglese, il portoghese e talvolta il francese). Il soffermarsi sulla lingua, sull’importanza della lingua come fulcro attorno al quale si plasma l’identità spirituale di ciascuno di noi così come passpartout per una vita sociale, lavorativa e intellettuale più ricca rivela l’attività di traduttrice della Pilátová, la quale, oltre a scrivere insegna il ceco in Brasile proprio ai discendenti degli emigrati cecoslovacchi delle città fondate dai Bata attorno alle loro fabbriche.

QUI l’articolo originale: https://www.mangialibri.com/libri/con-bata-nella-giungla

VANILLA ICE DREAM – recensione di Lorena Carella su Exlibris20

VANILLA ICE DREAM – recensione di Lorena Carella su Exlibris20

Scritto da Roger Salloch nel 2019 e pubblicato dalla Miraggi Edizioni, nella collana tamizdat, nel 2020, Vanilla Ice Dream è un romanzo distopico sull’America di un ipotetico 2021.

Uno scenario abbastanza immaginario eppure contrassegnato, al suo interno, da dettagli che fanno presagire le discontinuità di un presente portate allo stremo.

Protagonista della vicenda è Carter Hollmann, uno scrittore di viaggio che rientra in America dopo anni all’estero.

“Non era trascorso nemmeno un mese dal suo rientro a casa e Carter aveva già la sensazione che l’attuale regime avesse trasformato l’America in un guscio…”, un guscio che aveva le sembianze di una terra “antica e sconosciuta” in cui notava di perdere le parole fino a non riconoscersi quasi più.

Il Paese che ritrova, infatti, pare essere stato trasformato dalla presidenza di un uomo bianco “con una messa in piega arancione”; in cui il razzismo, che conosceva anche indirettamente essendo stato sposato con Meredith, una donna di colore, è diventato qualcosa di accuratamente organizzato.

Ciò che sconvolge Carter è la cupa e profonda indifferenza nella quale il Paese è precipitato; un’indifferenza che all’inizio del romanzo notiamo tutta nel racconto della morte di un ragazzo nero investito da un furgone dopo, forse, essere stato sorpreso a rubare in un negozio e cacciato via dal titolare. Un avvenimento tragico che, tuttavia, pare non coinvolgere e sconvolgere nessuno.

“L’autista del furgoncino suonò il clacson. Il suono era quello di un basso cupo in una scala musicale. Ma la sua voce era stanca. Già successo, già fatto, già investito ragazzini neri, le anime oppresse hanno a malapena un corpo all’inizio.”

È proprio la visione di questa scena a inaugurare l’intera vicenda: un’azione quotidiana ma, al contempo, l’esemplificazione, tragica, di una condizione umana ben più ampia.

Le rivolte razziali e la connivenza nei confronti di azioni come questa minano e marcano, altresì, il contesto sociologico col quale Carter Hollmann si confronta.

Spinto da due amiciRachel e Bob, piuttosto indifferenti ai problemi sociali, Carter inizia a lavorare in una scuola di scrittura dove tra gli allievi conosce e stringe amicizia con Julio Orijniak.

Portoricano per metà di nascita e con alle spalle un’infanzia burrascosa, caratterizzata da quello che egli chiama mal de ojo, Julio si guadagna da vivere lavorando per una compagnia di traslochi impegnata ad aiutare le famiglie nere a trasferirsi in insediamenti protetti.

Tutto questo fa anche parte di un progetto sviluppato da Mandy Lemmour, datore di lavoro di Julio, un vecchio uomo benestante costretto a letto.

I fotografi lavorano con Julio scattando immagini di questi insediamenti protetti destinati agli uomini di colore per fornire materiale visivo a un videogioco. Tra di loro c’è anche Meredith, l’ex moglie di Carter, dalla quale lo stesso divorziò dopo un violento litigio che causò all’uomo l’allontanamento dalla figlia.

Il videogioco, basato su quello che viene chiamato l’incidente del Lago Michigan, mette in luce il lato oscuro del Sogno Americano dove capitalismo e razzismo congiurano a un inquietante esperimento di ingegneria sociale. Una nuova dimensione si aggiunge quando alcuni personaggi governativi vengono coinvolti, usando il gioco per iniziare un registro nazionale di famiglie nere.

Domande, riflessioni, visioni, si concatenano così nella mente di Carter, descritto come “il miglior commentatore della realtà in circolazione” che, pertanto, dovrà fare i conti con ciò che vive e con l’amore: da un lato quello naufragato per Meredith, dall’altro quello per Catherine che conosce da sempre.

Un racconto che alterna immagini presenti e passate e che rivive scostante, discontinuo nella descrizione delle stesse, proprio come fossero tutte fotografie, protesi cognitive di quanto giornalmente vediamo o vogliamo vedere.

In tal senso, viene quasi naturale un parallelo tra il personaggio di Carter Hollmann e quello di Thomas, protagonista del film di Michelangelo Antonioni Blow Up.

All’inquietudine di Thomas, caratterizzato dal regista padre del concetto di alienazione sul grande schermo come l’emblema di un personaggio che non si accontenta di riprendere cose straordinarie ma vuole indagare la realtà quotidiana spiandola quasi come da un buco della serratura per poterne così cogliere l’intimità più nascosta, fa da contrappunto il personaggio di Carter, anch’egli assetato di verità. Una verità che cela tutta nella scrittura, vista come lo strumento utile per “portare alla luce l’essenza di ciò che contava” davvero.

Uomini attivi eppur spesso distratti, disfunzionali nelle proprie emozioni e, al contempo, frenetici.

Nel Carter di Roger Salloch si evince tutta l’incapacità di rassegnarsi a un silenzio passivo e compromesso e di rimando, la volontà di osservare, raccontare il tutto da un altro, e nuovo, punto di vista per poter finalmente scoprire cosa “realmente sta succedendo qui”.

Emblematico il tal senso lo scambio di battute con Catherine:

“Catherine strinse la mano di Carter.
Pensi che potrei arrivarci? Le chiese.
Dove?
A essere di nuovo me stesso. Come il cuore di questo Paese. Come la canzone. Nonostante il Presidente. Il nostro mal de ojo. È possibile?”

Con uno stile controllato, asciutto, incisivo e una sintassi paratattica e fulminante quasi come scatti fotografici ripetuti, Vanilla Ice Dream, vuole porre le basi per un atto deliberato di resistenza, necessario a superare le pulsioni razziste di un Paese descritto in tutte le sue ombre e chiaroscuri, quasi a esorcizzare anche quella paura che attanaglia oggi la maggior parte delle persone.

Una paura incontrollata e che assume il volto di ciò che è diverso e ignoto: di un colore, di un credo religioso diverso, di diversi modi di descrivere lo stesso mondo.

A ricorrere più volte nel romanzo è il riferimento al capitolo quarantadue di Moby Dick, assegnato da Carter ai suoi studenti e assunto come spunto di riflessione da adottare nel quotidiano. In queste pagine Melville fa riferimento alla bianchezza della balena simbolo di tutto quello che può considerarsi oscuro e maligno.

“Guardavano alle cose come se fossero state scolpite nella pietra. Voleva che sapessero che c’è sempre un altro modo di percepirle, magati da una prospettiva completamente opposta. Le offese che si possono rivolgere a un uomo nero che si odia sono le stesse per un uomo bianco. Non c’è differenza tra negro bastardo e bastardo muso pallido. In pratica, voleva parlare loro dalla prospettiva opposta, opposta a quella da cui parlavano all’autorità del momento.”

Pienamente inserito nelle recenti rivolte razziali in America, Vanilla Ice Dream, nel suo intento profondo, sembra porsi parallelamente ai cori e agli striscioni del movimento Black Lives Matter, introducendo vicende che, seppur immaginare, sanno cogliere la più intima e spiazzante attualità.

Spiccata è la capacità analitica di un artista poliedrico come Salloch: narratore, sceneggiatore, fotografo e commediografo statunitense che vive e lavora a Parigi, autore già di Una storia tedesca (Miraggi, tamizdat, 2016) capace di fotografare e concatenare con maestria e rigore avvenimenti per creare storie che raccontano contrasti, implosioni, rimandi che parlano al presente ma anche alle nostre speranze e alle nostre più taciute fragilità.

Un romanzo importante e necessario.

Perché è arrivato il momento di non avere più paura.

Qui l’articolo originale:

PAGINA BIANCA – recensione a cura di Paolo Pera su Letto, riletto, recensito!

PAGINA BIANCA – recensione a cura di Paolo Pera su Letto, riletto, recensito!

Di fronte al libretto Pagina bianca (Miraggi Edizioni, 2020) di Gianluca Garrapa si possono avere sentimenti contrastanti, un lettore esigente come me troverebbe indigeribile una simile sperimentazione (non solo linguistica, ma soprattutto formale), eppure il compito del recensore – ripete sempre un mio amico – è trovare quel poco di buono ovunque, in ogni opera. Questa è stata la mia motivazione. Mi limiterò dunque a quelle cose che ho trovato realmente affascinanti, e pure a interpretare un poco la sperimentazione attuata in queste pagine.

Già dal titolo possiamo arrivare a intendere l’intento principale di Garrapa: disseminare la parola per il foglio, facendo sorgere (risorgere?) il bianco dello stesso. Già la poesia di per sé lavora molto sullo spazio non inchiostrato, altresì qui l’autore smembra la poesia sparpagliandone i pezzi. L’effetto parrebbe quasi brutale, e vorrebbe pure avere un intento evocativo: quasi come se la parola – in sé, nuda e cruda – dovesse racchiudere l’infinitezza raccomandata; l’autore – come chiunque sappia scrivere – deve conoscere la portata ontologica del linguaggio, ma un lettore diseducato a questa ricettività altresì trovandosi di fronte a un tale laboratorio si sentirà ben estraneo. In questo dismembramento v’è qualcosa di interessante che non riesco a cogliere appieno, ha però catturato la mia attenzione quella breve sezione intitolata “paese” dove si traccia (proprio in questi termini) una breve storia di quanto fu la nostra penisola nei tempi che ci precedono. 

Aggiungo in più che al fine di ogni percorso – che Garrapa compone a mo’ di novello Pollicino – ho avuto come l’impressione che il tutto dovesse suscitarmi una certa ilarità, soprattutto nelle svariate parole richiamanti i pasti quotidiani. Ciò fu parecchio piacevole, invero: quasi come le canzonature di un vecchio amico.

La parte che più si avvicina alla poesia, però, non ha a che fare con alcun tentativo di versificazione presente in questo testo, anzi sta ben piantato in quelle prosette (per lo più diaristiche) che partono giocose per concludersi tragiche. In queste, racchiuse per lo più nella sezione “Egli”, noto un buon ritmo in ogni micro-narrazione, e pure un espediente interessante: in fondo tali prose vorrebbero essere poesia (non che non vi sia la poesia in prosa, qui per poesia sto intendendo un’opera in versi), ebbene, il punto posto a ogni conclusione di frase prende – in Garrapa – il posto dello slash (che notoriamente occorre per posizionare sul rigo continuativo una poesia in versi). Aggiungo che tale sezione – “Egli” – è realmente uno scrigno di fantasia linguistica apparentemente nonsense, proprio per ciò gustosa e vasta.

Direi in conclusione che Pagina bianca sia un testo da leggere lasciando da parte qualunque intendimento vero di poesia, per aprirsi (e possibilmente beneficiare, dell’ironia per lo più) a questo tentativo ben studiato di stupire, che parte proprio dalla messa in dubbio della poesia stessa.

Qui l’articolo originale:

http://www.lettorilettorecensito.flazio.com/blog-details/post/94978/gianluca-garrapa—pagina-bianca—miraggi

GRAND HOTEL. ROMANZO SOPRA LE NUVOLE – recensione di Renzo Brollo su Mangialibri

GRAND HOTEL. ROMANZO SOPRA LE NUVOLE – recensione di Renzo Brollo su Mangialibri

Liberec, Repubblica Ceca. Fleischman vive e lavora dentro al futuristico Grand Hotel, costruito proprio sulla cima del monte Ještěd. Ci è entrato da ragazzino grazie al cugino Jégr, che lo ha trasformato in una specie di facchino tuttofare. Ora ha trent’anni e da quell’albergo ci esce poco. Ha un passe-partout che usa per entrare nelle camere degli altri e così conoscere le loro vite. A volte spia dal buco della serratura ciò che fa Jégr con le sue donne, buscandosi ogni tanto qualche scappellotto. Ma soprattutto Fleischman è appassionato di meteorologia, convinto che il tempo atmosferico sia la sola cosa che conti al giorno d’oggi nel mondo, perché capace di influenzare qualsiasi evento e situazione, persino la psiche umana, così come dice la sua dottoressa. Conosce ogni genere di nuvola, le loro trasformazioni, ciò che anticipano. Non è mai riuscito a lasciare la città di Liberec, da quando suo padre e sua madre sono morti in un incidente stradale, ma forse non è andata proprio così, e lui è finito al Grand Hotel. Ci ha provato più volte, salendo sopra un camion di passaggio, in taxi, ma non è mai arrivato oltre il cartello che indica la fine della città anche se, prima o poi, ce la farà. Ora ha anche una missione da compiere: aiutare il vecchio Franz, che zoppica e ha fatto la guerra, a riportare a casa i suoi amici, o quello che rimane di loro perché, come dice sempre Franz: uno deve finire lì dove è nato. Per questo, chiuse in alcuni barattoli, porta con sé le ceneri dei suoi compari che spargerà con l’aiuto di Fleischman dove ciascuno di essi è nato e cresciuto…

La morte è come il vento, pensa Fleischman. Perché il vento, meteorologicamente parlando, sta al principio e alla fine di ogni cambiamento del tempo; sposta le nuvole, come vite umane, da una parte all’altra del mondo. Così è la morte, se ci pensiamo bene, anche se il ragazzotto strano, mezzo matto e disadattato, è forse la persona meno indicata per raccontare un fatto di cronaca. Difficile credere alla sua attendibilità, che pare fragile come la fragilità delle nuvole, che non sono che polvere raccolta dall’umidità. Persino la scomparsa dei suoi genitori potrebbe non essere andata così come la racconta alla sua dottoressa. Ma prima o poi ci arriverà a dirla tutta, a descrivere la realtà e spiegare molte cose di sé. Il problema è a chi. Il bestiario di gente che lo circonda non è certo promettente. A Ciuffo, che sostiene di essere stato in America e vorrebbe ritornarci? Alla dottoressa, che però ama la storia dell’incidente stradale? O forse alla bella Ilja? Jaroslav Rudiš ci propone una storia bizzarra, piena di ombre e poche luci, proprio come un cielo nuvoloso tormentato dal vento, dove gli sprazzi di sereno vengono soffocati dal grigio della pioggia. Ma il giovane Fleischman è un personaggio carico di poesia malinconica, che per evitare di affogare nella melma della vita si aggrappa alla meteorologia, la sua sola arma contro gli uomini che lo sottovalutano e non lo apprezzano. Grand Hotel è anche una storia di confine, quello della frontiera ceco-tedesca, e di confinati in un luogo fuori dal tempo, aggrappato alla cima del monte Ještěd come un nido d’aquile. I brevi capitoli ci lasciano il tempo di riflettere sulla condizione di Fleischman che non aspetta altro che il vento buono che lo porti via da lì, questa volta per davvero.

Qui l’articolo originale:

https://www.mangialibri.com/libri/grand-hotel-romanzo-sopra-le-nuvole

Bolaño Selvaggio – Recensione a cura di Ciborio Volpe su Mille Splendidi Libri

Bolaño Selvaggio – Recensione a cura di Ciborio Volpe su Mille Splendidi Libri

Edmundo Paz Soldán, Gustavo Faverón Patriau

Bollato selvaggio – 416 pp.Miraggi Edizioni

Traduzione di Marino Magliani e Giovanni Agnoloni

“Dopo una lunga malattia, Roberto Bolaño morì il 14 luglio 2003. 

Quello stesso giorno, più o meno a mezzanotte, diventò immortale”. 

Così si esprime lo scrittore messicano Jorge Volpi il cui ricordo dell’amico Roberto Bolaño è contenuto nel bellissimo saggio, rivisto e aggiornato, “Bolaño selvaggio” pubblicato da Miraggi edizioni a cura di Edmundo Paz Soldán e Gustavo Paverón Patriau.

Forse, insieme a “Tra parentesi”, il saggio più completo dell’opera del grande scrittore cileno diventato dopo la morte autore di culto soprattutto tra i lettori più giovani.

Jorge Volpi non è il solo scrittore scelto per ricordare l’amico Roberto, nel libro non mancano, infatti, i ricordi emozionanti degli scrittori che hanno conosciuto da vicino Roberto Bolaño e che hanno avuto la fortuna e il privilegio di leggere i suoi scritti mentre l’autore era ancora in vita. Tra questi ricordiamo Rodrigo Fresán, Juan Villoro, Alan Pauls, Enrique Villa-Matas, Celina Manzoni, Jorge Herralde, e, soprattutto, colui che farà conoscere in tutto il mondo l’immensa è sterminata opera di Bolaño, e cioè Ignacio Echevarría.

Ma perché è così importante leggere Bolaño e conoscere la sua opera?

Forse perché l’autore cileno non è solo quello che ha scritto. Leggere Bolaño vuol dire entrare anche in tutto quello che ha letto e i suoi romanzi assumo anche le sembianze di veri e propri manuali della letteratura.

Chi dirà ai Bolañisti che, anziché venerare il libro di B., bisogna studiarlo, sfogliarlo, tagliuzzarlo, abusarne e persino torturarlo, fin quando canti, fin quando non riveli – o no – il segreto di come faceva quel gran “figlio di puttana” a scrivere così bene…”

Sono d’accordo con questo giudizio: Bolaño va studiato a fondo e questo saggio, che approfondisce dal punto di vista umano e Letterario la sua vita, può sicuramente servire per conoscere nei dettagli l’opera omnia di questo grande scrittore.

“Bolaño selvaggio”, pertanto non è solo per chi già si è accostato a questo autore, ma, principalmente, per chi si vuole incuriosire a conoscere la sua letteratura.

Ecco, a tal proposito, cosa scrive l’amico Juan Antonio Ródenas:

“L’opera di Roberto Bolaño è una delle proposte più originali della letteratura latinoamericana dell’ultimo decennio. Al tempo stesso, è uno dei progetti più lucidi, intelligenti e audaci, come dimostra perfettamente il fatto che “I detective selvaggi” abbia ottenuto il premio Rómulo Gallegos. Bolaño è bravissimo a unire il divertimento col dramma, a inserire le avventure letterarie nelle squallide peripezie della vita…”

Aggiungerei di mio che l’opera di Bolaño è anche un’operazione molto coraggiosa proprio perché leggendo i suoi libri si ha come la sensazione che i suoi libri fossero una specie di “continuum narrativo” volti a creare un unico romanzo totale che racchiudesse tutto: romanzi, poesie e racconti.

Una specie di galassie letteraria che ha contribuito a creare il “mito” di Roberto Bolaño.

L’ultimo libro pubblicato in ordine di tempo è “Sepolcri di cowboy”, e la domanda che ci poniamo è la seguente: sarà l’ultimo nel senso che porrà la parola fine alla sua produzione letteraria o in futuro ci dobbiamo aspettare altri suoi inediti?

Ovviamente la domanda rimane senza risposta. Nessuno può affermare con certezza che “Sepolcri…” sia il punto di arrivo perché è riconosciuta la “sua dedizione assoluta alla letteratura e alla scrittura” e questo fa sì che non si esclude negli anni a venire che possa venire fuori ancora qualcosa di inedito.

Intanto consiglio di leggere e rileggere e rileggere ancora, tutto quello che è stato pubblicato fino ad ora. Quello che verrà in seguito si vedrà. In ogni caso i suoi libri resteranno e ci accompagneranno sempre nel nostro percorso di conoscenza della grande letteratura.

Chiudo riportando le parole che furono pronunciate durante il funerale laico che si tenne a Barcellona il 16 luglio 2003:

“Addio, allora, a Roberto, con tutti i suoi amici e tutti quelli che lo amavano, che sono tantissimi, con un groppo in gola. Ma i suoi libri ci accompagneranno e resteranno, trionfo della letteratura a cui lui, così intrepidamente, consacrò la sua vita”.

Edmundo Paz Soldán (Cochabamba, Bolivia, 1967) insegna letteratura ispano-americana alla Cornell Universi- ty. Autore di romanzi e saggi, le sue opere sono tradotte in otto lingue e ha vinto il Premio de Cuento Juan Rulfo (1997) e il Premio Nacional de Novela en Bolivia (2002). In Italiano si possono leggere i romanzi Río Fugitivo e La materia del desiderio, entrambi pubblicati da Fazi.

Gustavo Faverón Patriau (Lima 1966) insegna al Bowdoin College ed è autore di saggi storici e letterari e di un romanzo, nessuno dei quali ancora tradotto in italiano. Direttore della rivista «Somos», tiene la rubrica «El Comercio» e gestisce uno dei blog più seguiti in ambito ispano-americano, «Puente Aéreo».

QUI l’articolo originale: https://millesplendidilibriblog.wordpress.com/2020/09/13/bolaño-selvaggio-di-edmundo-paz-soldan-e-gustavo-paveron-patriau-miraggi-edizioni/

I PELLICANI – recensione su Le parole e le cose

I PELLICANI – recensione su Le parole e le cose

[Esce oggi per la collana “scafiblù” di Miraggi Edizioni il romanzo I Pellicani di Sergio La Chiusa, finalista Premio Calvino 2019, Menzione Speciale Treccani. Ne presentiamo l’incipit e un estratto del secondo capitolo, preceduti dalla nota di Giulio Mozzi che accompagna il libro (it)]

Il giovane Pellicani è un chiacchierone. Si presenta una sera – una sera tardi – nella casa del padre, casa dalla quale si era allontanato – dopo aver sottratto certi risparmi da un certo cassetto – vent’anni prima. L’immobile, un condominio di sei, sette piani, è disastrato. Ma la scritta «Pellicani» sul campanello dell’ultimo piano c’è ancora; e la porta è appena accostata. Il giovane Pellicani – un completo grigio un po’ sdrucito, una valigetta ventiquattrore portata solo per darsi un tono – vuole fermarsi una notte e via, andare altrove: ha degli affari in Cina, sostiene. Il padre avrà dimenticato i fatti di vent’anni prima, lo accoglierà volentieri. Tuttavia nell’appartamento il giovane Pellicani trova solo un vecchio. Somigliante un po’, questo è vero, soprattutto nel naso, a Pellicani padre. Ma un vecchio, insomma! Va bene che sono passati vent’anni… Parla, parla, il giovane Pellicani, raccontando tutto ciò che fa, tutto ciò che vede, l’appartamento, la biancheria stesa in una stanza, la donna che tutti i giorni viene a cucinare il minestrone al vecchio; parla, parla, il giovane Pellicani, e noi lettori siamo presi in questa sua infernale chiacchiera, nel suo ostinato non credere a ciò che vede, nel suo ipotizzare, reinventare, spiegare, trasfigurare la banale realtà che gli si presenta davanti: finché ci arrendiamo, smettiamo di farci domande, non ci interessa più se il vecchio nella casa sia o non sia Pellicani padre, se l’uomo nello specchio sia il vero Pellicani giovane o un impostore: ci interessa solo abbandonarci al fervore di questa inesauribile chiacchiera. Rare volte la lettura di un romanzo dà tanto piacere per la scrittura in sé; e rare volte tanta ricchezza narrativa viene con tanta disinvoltura stipata in un solo romanzo, in un solo appartamento, quasi in una sola stanza.

Giulio Mozzi

* * * 

Non che avessi intenzione d’installarmi in casa sua, intendiamoci, ma i miei impegni m’avevano portato nei dintorni e mi pareva scorretto non andare nemmeno a vedere come se la passava. Tutto sommato era pur sempre mio padre. Mio padre? Ho detto mio padre? Lo ammetto, a volte mi lascio trascinare dall’entusiasmo. A ogni modo m’immaginavo la sorpresa: vedermi comparire dopo vent’anni, realizzato nonostante il suo scetticismo, e con tanto di completo grigio topo e valigetta da manager. Anche se va detto che il completo era un po’ sciupato, per via delle notti passate in trasferta, e la valigetta conteneva solo pochi articoli di cancelleria rubati in ditta tanto per non andarmene a mani vuote, e una mutanda di ricambio, anche, per gli appuntamenti importanti. Ma non ci avrebbe fatto caso: la gioia di rivedermi avrebbe messo in secondo piano i dettagli, e anche se c’eravamo separati in malo modo scambiandoci ingiurie sulle scale non m’avrebbe negato ospitalità per una notte. D’altra parte il tempo risolve tutto, risana i rancori, rimargina le ferite, e non era per nulla detto che rimuginasse an- cora sui risparmi che gli avevo prelevato dal comodino prima di partire, a titolo di liquidazione, per così dire.

« Mi trovavo a passare da queste parti per affari », avrei spiegato esibendo con noncuranza la valigetta, che ora stavo usando per ripararmi da una pioggerellina molesta che intanto che ragionavo sembrava rammentarmi con una certa minuziosa pedanteria che non avevo nemmeno un soprabito. Ma che importava il soprabito? Papà si sarebbe congratulato per la mia carriera di cui valigetta e completo grigio topo erano sintomi indiscutibili, io avrei minimizzato scrollando le spalle con aria superiore: « Ah, la valigetta dici? Sciocchezze, pensa che ho solo messo su un’impresa d’import-export, roba da nulla », e avrei chiesto se per caso c’era ancora il mio letto, lui sarebbe filato tutto contento a preparare la biancheria pulita per l’ospite illustre e tanti saluti. Al mattino sarei ripartito per la mia strada. Perché io, sia messo subito in chiaro, sono un individuo indipendente, e anzi metto l’indipendenza sopra ogni altro valore.

« Papà », mormorai, ma la parola mi era sembrata sconcia, e mi era morta sulla lingua lasciandomi un repellente sapore zuccheroso, come di sciroppo per la tosse. Mi ricomposi. Guardai meglio il tizio che, coricato su un letto matrimoniale, mi scrutava con due occhi terrorizzati. Mica era mio padre! Macché! Un vecchio era! E per di più aveva tutta l’aria di un paralitico, ridotto a un manichino dalla vita in giù. Che ci faceva un tale relitto in casa di mio padre? Come si permetteva di occupare il suo posto? Avevo la tentazione di aggredire il vecchio abusivo, ma mi trattenni. D’altro canto le cose non erano per nulla chiare. Potevo, per esempio, essere capitato in casa d’altri. Il nome sulla porta non provava nulla. Mio padre non era certo l’unico Pellicani in circolazione. Poteva benissimo trattarsi di un altro Pellicani… Un altro Pellicani? Mi veniva da ridere a pensarci. Ma la cosa m’intrigava tutto sommato. Mio padre si levava subito di torno. Del resto, che voleva? Non ci vedevamo da vent’anni! Doveva intromettersi proprio ora? In ogni caso, restava da capire chi era costui. Un Pellicani legittimo? Uno che occupava il posto che gli competeva? Rinsecchito, prosciugato, ridotto per così dire all’osso, aveva invero una cert’aria da individuo non del tutto in regola: sembrava insomma un renitente, uno che resisteva illegalmente al mutamento dei tempi e invece di rispondere all’appello del mercato se ne stava per conto suo, dedito magari a una vita contemplativa che non era in linea con le politiche vigenti: mentre lo scrutavo sembrava muovere le mandibole a vuoto, come impegnato in una sua ruminazione incessante e puntigliosa.

« Buon appetito », dissi, e poi, per rassicurarlo, visto che mi fissava con un’aria preoccupata, aggiunsi che ero diplomato in ragioneria e che sapevo come comportarmi in casa d’altri, e rimarcai quel “casa d’altri” come per caricarlo di sottintesi, che però io stesso non avevo compreso. A dire il vero non avevo le idee chiare. Improvvisavo e stavo sul vago circa le ragioni della mia visita e in attesa che il vecchio rivelasse per primo le sue intenzioni investigavo, tastavo il terreno, chiedevo se non fosse imprudente passare la notte con la luce accesa e la porta aperta, se la luce non potesse per esempio attirare in casa individui molesti, e intanto gli camminavo per la stanza con la mia valigetta leggermente sgocciolante e notavo che intorno alla lampada da letto ruotavano come indemoniati certi insetti minuscoli: « Di questi tempi non si sa mai chi può capitarti in casa », continuavo allusivo, perché avevo come il sospetto che aspettasse qualcuno e che non avesse lasciato la porta aperta senza ragione. Il vecchio però non si lasciava scappare nulla. Doveva avere un carattere chiuso, reticente, e così ostinato che per convincerlo a svelare i suoi piani ci sarebbero volute tecniche d’interrogatorio avanzate, e manette, catene, cavi elettrici e altri strumenti sofisticati di cui ero sprovvisto. Anche se a dirla tutta sembrava più che altro un paralitico che aveva perso l’uso della parola, magari per merito di un ictus provvidenziale che gli aveva strappato per sempre i tormentosi dilemmi del linguaggio. Mentre investigavo tra le medicine ammucchiate sul comodino in cerca d’indizi, il vecchio, notavo ora, andava schiacciando con una mano una pallina antistress, come se la mia comparsa l’avesse messo in uno stato d’agitazione.

D’altro canto era comprensibile che diffidasse dello sconosciuto che s’aggirava per casa con la valigetta e che dal suo punto di vista d’ottantenne, e per di più paralitico, poteva passare per un messaggero dei tempi nuovi, uno di quei rottamatori che vanno casa per casa a raccattare ruderi e anticaglie da portare al macero, un angelo della morte insomma che per rendersi più accettabile e stare al passo coi tempi s’era mascherato da uomo d’affari invece di manifestarsi nel costume tradizionale di scheletro incappucciato con tanto di falce da tetro mietitore, che, montando un tristo cavallino grigio, anch’egli tradizionale, e quindi scheletrito e spelacchiato, sarebbe stato costretto ad arrancare inverosimile nel traffico sulla sua cavalcatura svogliata e claudicante e sorbirsi pure le lamentele degli automobilisti, anche per via degli escrementi che il cavallino disseminava per strada, come per protesta – e d’altra parte come non capirlo, il cavallino: la vecchiaia, i polmoni oppressi dall’inquinamento, nell’animo il peso di un lavoro a tempo indeterminato per cui non provava una vera vocazione e che per di più comprometteva la sua immagine pubblica, e mentre trasportava penosamente il suo impresario ossuto certo nell’intimo suo vagheggiava un’altra vita, e nonostante l’età avanzata, i reumatismi, i primi sintomi dell’artrosi, s’immaginava magari d’essere scritturato per uno spot pubblicitario su qualche marca di shampoo e galoppare libero di tristanzuoli ingombri su una sterminata spiaggia atlantica portando allegramente in groppa una bell’amazzone bionda coi capelli al vento, e le natiche carnose e compiacenti, invece del cinto pelvico dell’impresario che gli straziava la pelle e gli ricordava a ogni passo il suo triste destino di subordinato e messo di sciagure… Ebbene, dicevo? Ah, licenziato il riluttante e lagnoso cavallino, peraltro obsoleto per via degli sviluppi nel settore dei trasporti, era giunto con un comodo suv nero dai vetri oscurati, l’aveva lasciato in un parcheggio sotterraneo e si era presentato in modo discreto, con tutti gli attributi della legalità e del libero commercio, tra cui appunto una valigetta piena di contratti e moduli vari. Anche se il vestito a ben vedere era stropicciato e rivelava che a dispetto della valigetta il tizio era dedito a lavori sordidi e manuali: nella giacca si notavano persino strappi e scuciture che lasciavano trapelare in una mente immaginativa sospetti di dispute, anche violente: le resistenze dei soggetti ormai superati, vecchi testardi che non volevano liberamente sottoscrivere il contratto che veniva loro proposto, e invece di lasciarsi prendere con un mite cenno di consenso, polemizzavano sino all’ultimo e lottavano persino accanendosi ridicolmente con le unghie contro il vestito del rottamatore salito dal regno delle ombre. Normale quindi che il vecchio stesse sulle sue. D’altro canto, anche l’arrivo a ora tarda, notturna, era equivoco e non si sposava con la legalità, incline invece alle ore diurne. Diffidare delle apparenze! Diffidare! mi dicevo complimentandomi intimamente con il vecchio che restava chiuso in un mutismo impenetrabile.

A furia di diffidare però mi venne il sospetto che costui non solo non era mio padre, ma nemmeno si chiamava Pellicani, che il nome sulla porta era parte di una messinscena e che ero vittima di un’oscura macchinazione. Provai a chiamarlo per metterlo alla prova. « Pellicani », dissi come sovrappensiero, mentre, senza mollare la valigetta, ma con le pantofole ai piedi, mi aggiravo per la stanza simulando interesse per i mobili, « Pellicani », e subito con la coda dell’occhio vidi sulla specchiera la testa di Pellicani voltarsi verso di me. Caso? Coincidenza? Riprovai: « Pellicani », e poi ancora: « Pellicani », « Pellicani », « Pellicani », andavo ripetendo camminando intanto per togliergli punti di riferimento, e tutte le volte il vecchio ruotava la testa con un movimento meccanico, come inseguendo il suo nome che volava inafferrabile da un punto all’altro della stanza. Bisognava riconoscere che rispondeva correttamente agli stimoli. « Allora, sei proprio un Pellicani? », chiesi infine fissandolo in volto. Il vecchio sembrava acconsentire con gli occhi, che gli si erano illuminati, invasi da una specie d’orgoglio di casta. Doveva trattarsi di un Pellicani autentico. Un Pellicani doc, per così dire. Anche se restava un che di dubbio in tutta la persona.

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KRAKATITE – recensione di Eva Luna Mascolino su SoloLibri.net

KRAKATITE – recensione di Eva Luna Mascolino su SoloLibri.net

Miraggi Edizioni, 2020 – Grazie a Krakatike, Čapek si riconferma un caposaldo della letteratura ceca della prima metà del Novecento, capace di intercettare con largo anticipo le tendenze e i drammi collettivi che, seppure in maniera diversa, avrebbero interessato l’intero pianeta due decenni dopo.

Dopo la recente traduzione italiana de La fabbrica dell’Assoluto a cura di Giuseppe Dierna per Voland, nel mese di giugno è arrivato in libreria anche un altro suggestivo romanzo dello scrittore ceco Karel Čapek, questa volta inserito nella collana di letteratura boema NováVlna di Miraggi Edizioni. Si tratta di Krakatite, apparso per la prima volta nel 1924 e ora arrivato nel nostro Paese grazie allo straordinario lavoro sul testo di Angela Alessandri. La vicenda, che come spesso accade nella produzione dell’autore parte da presupposti fantascientifici ai limiti del distopico, si sviluppa su dei binari sempre meno prevedibili e riesce a intrecciare tematiche, livelli di interpretazione e significati di straordinaria pregnanza, in cui la fisica dialoga con l’amore, la chimica con gli interessi politici e l’economia con i ricatti morali.

La storia è quella del chimico Prokop, che un giorno si ritrova uno strano signore alle calcagna mentre passeggia sul lungofiume. Solo in un secondo momento capisce che si tratta di un vecchio compagno di studi non del tutto raccomandabile, Tomeš, anche se intanto una strana debolezza psicofisica gli fa perdere il controllo della situazione. Il risultato? Senza volerlo, prima di perdere i sensi, confida al suo interlocutore più di quanto dovrebbe, rivelandogli di avere inventato una polverina bianca perennemente a rischio esplosione: la Krakatite. Al suo risveglio, Prokop si accorge del fatto che la singolare invenzione, il cui nome si ispira al vulcano Krakatoa, è stata rubata con prontezza da Tomeš. Prova dunque a rintracciarlo e va fino a casa sua, ma l’uomo è scomparso con la sua potenziale arma di distruzione di massa e al suo posto sopraggiunge una giovane donna velata, che chiede a Prokop di aiutarla a ritrovare Tomeš per una questione di vita o di morte.

Da qui prende il via un’avventura singolare, durante la quale il protagonista perde più volte i sensi per via di problemi di salute, agguati ed episodi fra i più mirabolanti, e che di capitolo in capitolo lo portano a spostarsi per il Paese in un duplice tentativo disperato. Da un lato, infatti, vorrebbe dare una mano alla sconosciuta ed evitare che qualcuno perda la vita se lui non dovesse intervenire in tempo, mentre dall’altro lato vuole assicurarsi che Tomeš non venda all’acquirente sbagliato la sua Krakatite, trasformandola in una minaccia per la sopravvivenza della specie umana in un periodo – quello a cavallo tra le due guerre mondiali – particolarmente teso dal punto di vista diplomatico. Così, se da una parte il chimico è sfortunato perché non riesce a ritrovare il ladro in nessun modo, è pur vero che la sua ricerca lo porta a conoscere altre donne di cui si innamora perdutamente e a rimanere l’unico in grado di produrre nuova Krakatike, oltre a conoscere fino in fondo i meccanismi di funzionamento.

La sua presenza e collaborazione vengono quindi contese tanto sul piano politico quanto su quello sentimentale tramite il ricorso a sotterfugi, scambi di persona, contrattazioni e dilemmi etici, in un intreccio mirabolante che mescola la speculazione tecnologica a numerosi altri elementi narrativi. Non per niente, optare per una scelta sana, ragionevole e prudente vuol dire talvolta rinunciare a una certa felicità personale, o ancora peggio sacrificare la propria libertà e sottomettere ogni singolo aspetto dell’esistenza al controllo di gente ambigua e opportunista. Il labirinto in cui si muove Prokop è pertanto sprovvisto di segnaletica e lo incastra in una posizione continuamente scomoda e precaria: per tirarsene fuori senza ferire chi lo circonda o senza mettere in pericolo l’intera Europa non potrà appellarsi solo alle sue competenze da scienziato, ma mettersi in gioco con sangue freddo e creatività dalla prima all’ultima pagina.

Con un stile raffinato e al tempo stesso spassoso, che solletica e stimola la lettura con gli espedienti più moderni e originali, grazie a Krakatike Čapek si riconferma un caposaldo della letteratura ceca della prima metà del Novecento, capace di intercettare con largo anticipo le tendenze e i drammi collettivi che, seppure in maniera diversa, avrebbero interessato l’intero pianeta due decenni dopo. Riscoprirlo oggi, in particolare per merito della lodevole ricerca qualitativa di una casa editrice indipendente, significa riflettere sul secolo da cui proveniamo da una prospettiva inedita e osservare l’animo umano nelle sue più sordide sfaccettature. Il tutto, fra l’altro, riemergendo dalla lettura con meravigliosa e profonda leggerezza.

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https://www.sololibri.net/Krakatite-Capek.html

Quattro giorni: dal romanzo al fumetto. La graphic novel di Marco D’Aponte, Andrea B. Nardi e Marino Magliani su Tropismi

Quattro giorni: dal romanzo al fumetto. La graphic novel di Marco D’Aponte, Andrea B. Nardi e Marino Magliani su Tropismi

Non eravamo come gli altri ragazzi. Troppa solitudine nelle nostre vallate liguri, cresciuti lontano dai giochi, dal calcio, da tutto… con in testa chissà quali avventure. 

L’avventura di Leo e Gregorio inizia con un disegno, “il disegno delle bestie” trovato per caso su una parete di una grotta da ragazzi. Un giorno, lo stesso disegno ritrovato su un libro, e quella dei due ragazzi diventa una passione, per Leo forse più un’ossessione. Il diploma, l’iscrizione all’Università di Genova, e da lì l’idea di intraprendere un viaggio, “un sogno assurdo”, alla ricerca di un contatto tra civiltà diverse. Poi, un giorno, Leo sparisce e Gregorio viene arrestato per traffico internazionale di stupefacenti.

Passano undici anni, siamo alla fine di marzo 2020, Gregorio nel carcere di Regina Coeli sta scontando la sua pena quando arriva la notizia della morte della madre. Quattro giorni di permesso per seguire il funerale e poi nuovamente in cella. 

Colibrì, questo il soprannome che Leo aveva affibbiato a Gregorio, ha però altre intenzioni. Quattro giorni è il titolo del romanzo a fumetti di Marco D’Aponte e Andrea B. Nardi, tratto da un romanzo di Marino Magliani e edito da Miraggi Edizioni. Quattro giorni è anche l’arco di tempo che il protagonista ha a disposizione per risolvere il mistero legato alla morte di Leo, alla sua cattura undici anni prima e per trovare una cura alla malattia che sembra condannarlo alla morte.

La narrazione è un continuo alternarsi di piani temporali: il presente dei quattro giorni nelle valli liguri, il passato di undici anni prima nelle lande peruviane, il trapassato degli anni prima della partenza. Il lettore si sposta con continui flashback da una piano temporale all’altro, cercando di ricostruire insieme al protagonista l’ultimo periodo della vita di Leo, e al tempo stesso seguendo le vicende del tentativo di fuga di Gregorio, del quale nessuno – né il lettore né il protagonista – conoscono l’esito.

Il vero sogno era stato d’avere un sogno. 
La dimensione onirica percorre tutto il fumetto. La malattia di Gregorio, una particolare forma di malaria contratta anni addietro in Perù, è un ottimo espediente per richiamarla continuamente. I confini tra realtà e sogno non sono netti, e il continuo passaggio dalla voce del narratore ai dialoghi dei personaggi, sottolinea ancora di più questa sfocatura. 


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La dimensione onirica percorre tutto il fumetto. La malattia di Gregorio, una particolare forma di malaria contratta anni addietro in Perù, è un ottimo espediente per richiamarla continuamente. I confini tra realtà e sogno non sono netti, e il continuo passaggio dalla voce del narratore ai dialoghi dei personaggi, sottolinea ancora di più questa sfocatura. 

Leo e Gregorio partono mossi da un sogno che li accomuni e da grandi speranze, un po’ come quasi tutti i giovani di oggi, ma la loro avventura viene interrotta dall’intromissione della realtà nel sogno. Riuscire a effettuare gli scavi è più difficile del previsto, i cimiteri sono stati saccheggiati dagli Huaqueros, profanatori di cimiteri Incas, e ad un certo punto del viaggio il sogno va in frantumi: Leo e Colibrì si dividono senza mai più ricontrarsi. 

Le tavole in bianco e nero e il tratto di Marco D’Aponte, illustratore torinese, sottolineano questa sospensione tra sogno e realtà e dammi come l’impressione di essere in un vecchio film. Al tempo stesso, però, sottolineano anche un elemento forte che si ritrova in tutto il fumetto: la necessità di conoscere – il significato del disegno delle bestie, l’esistenza del legame tra due civiltà, la sorte che è toccata a Leo – in netta contrapposizione con la realtà attuale che ha perso la curiosità e la voglia di avventura. 

Sullo sfondo di una storia che sembra essere soltanto quella di Leo e Gregorio si muovono, però, anche altri personaggi. Lori, che introduce nel romanzo il tema dell’amore, e Gilberto, il fratello di Gregorio. Il tema della famiglia non viene affrontato direttamente, ma ne percepiamo la presenza costante sullo sfondo. La madre, che viene citata due volte nel corso della storia, è il simbolo del legame del protagonista con la terra natia. Gilberto, invece, rappresenta la realtà dalla quale Gregorio e Leo sono scappati, l’incarnazione della vita di paese, quella vita che sembrava costringerli in un mondo che non era il loro, loro che “non erano come gli altri ragazzi”.

Quattro giorni racconta una storia forte, nella quale troviamo davvero di tutto. L’amore, l’amicizia, la lealtà, il ricordo e la voglia di combattere e resistere. Il ricordo al fumetto fa sì che l’intensità della storia si concentri in poche pagine. La bravura di Marco D’Aponte e Andrea B. Nardi, invece, fa sì che, nonostante le sole cento pagine, alla storia di due giovani che vogliono combattere l’apatia della realtà in cui vivono, che voglio credere e realizzare il proprio sogno, venga resa giustizia.

QUI l’articolo originale: https://www.tropismi.it/2020/09/08/quattro-giorni-dal-romanzo-al-fumetto-la-graphic-novel-di-marco-daponte-e-andrea-b-nardi/

Santi, poeti e commissari tecnici – recensione di Tommaso De Beni su I LIBRI

Santi, poeti e commissari tecnici – recensione di Tommaso De Beni su I LIBRI

Recensito da Tommaso De Beni

Descrizione: Santi, poeti e commissari tecnici è una raccolta che racconta con ironia e tenerezza e una scrittura scoppiettante il senso di una fine: il crollo del mito tutto italiano del “campionato più bello del mondo”, una bufala identitaria a cui abbiamo voluto credere per anni, una vera e propria religione di stato la cui dissacrazione ci renderà – si spera – un po’ più leggeri e meno tronfi, un po’ più umani, sopportabili e meno sfegatati.Santi, poeti e commissari tecnici è uno spaghetti-fantasy calcistico dai toni agrodolci che parla dritto al nostro cuore, al cuore di una nazione che sul calcio ha strepitato troppo e troppo a lungo perché, versata una lacrima, non fosse giunto il momento di riderci su.

Angelo Orlando MeloniSanti, poeti e commissari tecnici, Miraggi edizioni, 188 pagine

Santi, poeti e commissari tecnici è uno spaghetti-fantasy calcistico dai toni agrodolci che parla dritto al nostro cuore, al cuore di una nazione che sul calcio ha strepitato troppo e troppo a lungo perché, versata una lacrima, non fosse giunto il momento di riderci su. Un libro comico, commovente e liberatorio. La raccolta comincia con il lungo racconto che dà il titolo all’opera, una storia sul miracolo della statua votiva della beata Serafina, che all’improvviso suggerisce al parroco del paese la strategia per stravincere il campionato. E finisce con Il campionato più brutto del mondo, l’ultimo racconto, sull’effetto domino che porterà alla chiusura della serie A non appena l’ex moglie di un dirigente invischiato con il calcio minore avrà preteso gli alimenti arretrati. In mezzo, un centravanti alcolizzato e un’intera comunità si illudono di meritare “il calcio che conta”; il giovane calciatore più forte del mondo (o del suo quartiere) scopre quanto sia spiacevole scontentare i genitori VIP degli altri ragazzi; un arbitro incorruttibile durante l’ultima partita della sua vita deve fare i conti con il suo passato e con i desideri di un ragazzo perduto; una stella della serie A ordisce la sua vendetta contro il destino. Storie di calcio e storie d’amore, d’amori mancati e sogni infranti. I sogni dei tifosi, insomma.

Il libro di Meloni fin dal titolo evidenzia l’intenzione di raccontare lo sport più diffuso in Italia. Del resto i classici discorsi da bar nel nostro Paese vertono sempre su politica e calcio. E al bar ci sono le persone vere, come direbbe Filippo Nardi, la gente, il popolo, come va di moda dire adesso. E del resto spesso non si tratta solo di discorsi, spesso calcio e politica si intrecciano, perché sono due ambienti dove girano soldi. Sesso, droga, corruzione, avidità, malaffare permeano entrambi i mondi. Ma il calcio è anche una passione, dal greco pathos, che letteralmente significa sofferenza. Infatti quando si parla di passione di Cristo non si parla certo del suo hobby per la falegnameria. E quando intrecci vita e passione così intensamente come fanno in Sudamerica, il calcio è vita e la vita è calcio, e allora sei disposto a tutto. In più, siamo un Paese dove la religione di Cristo è predominante, e si riempie di storie truculente, sanguinose, di martiri. Dove le processioni religiose si fermano davanti alla casa dei boss per omaggiarli. Dove alcune persone agiscono al di fuori della legge convinte di essere mosse da un potere superiore che li spinge a compiere azioni magari abiette ma con uno scopo alto, un risultato che ancora non si vede ma sarà un bene superiore per tutti. Siamo però un popolo che vive costantemente il contrasto e la contraddizione tra la spiritualità e gli scopi materiali. E del resto ce la ricordiamo tutti la religiosità particolare di Maradona, ma anche del più teutonico Trapattoni, con la sua acqua santa in panchina.  Il libro è composto da sei racconti: il primo è il più surreale, rocambolesco e onirico, con animali parlanti, uno stabilimento petrolchimico altamente inquinante, preti, frati, e la statua della beata Serafina. Meloni infila spesso citazioni da nerd, riferimenti cinematografici e musicali. Gli altri racconti sono più “realistici”, sempre rocamboleschi ma meno surreali e più in stile “Un allenatore nel pallone”. Alcuni anche a modo loro commoventi, come “Ode al perfetto imbecille”, altri quasi noir come “Perché no?”. Filo conduttore è l’ironia, la voglia e la capacità di prendere e prendersi in giro, di creare situazioni assurde. Il che rende questo libro, indipendentemente che uno sia o no intenditore di calcio, una lettura fondamentalmente divertente.

QUI l’articolo originale: http://www.i-libri.com/libri/santi-poeti-e-commissari-tecnici/?fbclid=IwAR06KpR8Hqb6ogxq9PstpIRmECSdB5MyQkLlJIK0_5yJSFmkU43O0DAeUCc