Non eravamo come gli altri ragazzi. Troppa solitudine nelle nostre vallate liguri, cresciuti lontano dai giochi, dal calcio, da tutto… con in testa chissà quali avventure.
L’avventura di Leo e Gregorio inizia con un disegno, “il disegno delle bestie” trovato per caso su una parete di una grotta da ragazzi. Un giorno, lo stesso disegno ritrovato su un libro, e quella dei due ragazzi diventa una passione, per Leo forse più un’ossessione. Il diploma, l’iscrizione all’Università di Genova, e da lì l’idea di intraprendere un viaggio, “un sogno assurdo”, alla ricerca di un contatto tra civiltà diverse. Poi, un giorno, Leo sparisce e Gregorio viene arrestato per traffico internazionale di stupefacenti.
Passano undici anni, siamo alla fine di marzo 2020, Gregorio nel carcere di Regina Coeli sta scontando la sua pena quando arriva la notizia della morte della madre. Quattro giorni di permesso per seguire il funerale e poi nuovamente in cella.
Colibrì, questo il soprannome che Leo aveva affibbiato a Gregorio, ha però altre intenzioni. Quattro giorni è il titolo del romanzo a fumetti di Marco D’Aponte e Andrea B. Nardi, tratto da un romanzo di Marino Magliani e edito da Miraggi Edizioni. Quattro giorni è anche l’arco di tempo che il protagonista ha a disposizione per risolvere il mistero legato alla morte di Leo, alla sua cattura undici anni prima e per trovare una cura alla malattia che sembra condannarlo alla morte.
La narrazione è un continuo alternarsi di piani temporali: il presente dei quattro giorni nelle valli liguri, il passato di undici anni prima nelle lande peruviane, il trapassato degli anni prima della partenza. Il lettore si sposta con continui flashback da una piano temporale all’altro, cercando di ricostruire insieme al protagonista l’ultimo periodo della vita di Leo, e al tempo stesso seguendo le vicende del tentativo di fuga di Gregorio, del quale nessuno – né il lettore né il protagonista – conoscono l’esito.
Il vero sogno era stato d’avere un sogno.
La dimensione onirica percorre tutto il fumetto. La malattia di Gregorio, una particolare forma di malaria contratta anni addietro in Perù, è un ottimo espediente per richiamarla continuamente. I confini tra realtà e sogno non sono netti, e il continuo passaggio dalla voce del narratore ai dialoghi dei personaggi, sottolinea ancora di più questa sfocatura.
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La dimensione onirica percorre tutto il fumetto. La malattia di Gregorio, una particolare forma di malaria contratta anni addietro in Perù, è un ottimo espediente per richiamarla continuamente. I confini tra realtà e sogno non sono netti, e il continuo passaggio dalla voce del narratore ai dialoghi dei personaggi, sottolinea ancora di più questa sfocatura.
Leo e Gregorio partono mossi da un sogno che li accomuni e da grandi speranze, un po’ come quasi tutti i giovani di oggi, ma la loro avventura viene interrotta dall’intromissione della realtà nel sogno. Riuscire a effettuare gli scavi è più difficile del previsto, i cimiteri sono stati saccheggiati dagli Huaqueros, profanatori di cimiteri Incas, e ad un certo punto del viaggio il sogno va in frantumi: Leo e Colibrì si dividono senza mai più ricontrarsi.
Le tavole in bianco e nero e il tratto di Marco D’Aponte, illustratore torinese, sottolineano questa sospensione tra sogno e realtà e dammi come l’impressione di essere in un vecchio film. Al tempo stesso, però, sottolineano anche un elemento forte che si ritrova in tutto il fumetto: la necessità di conoscere – il significato del disegno delle bestie, l’esistenza del legame tra due civiltà, la sorte che è toccata a Leo – in netta contrapposizione con la realtà attuale che ha perso la curiosità e la voglia di avventura.
Sullo sfondo di una storia che sembra essere soltanto quella di Leo e Gregorio si muovono, però, anche altri personaggi. Lori, che introduce nel romanzo il tema dell’amore, e Gilberto, il fratello di Gregorio. Il tema dellafamiglia non viene affrontato direttamente, ma ne percepiamo la presenza costante sullo sfondo. La madre, che viene citata due volte nel corso della storia, è il simbolo del legame del protagonista con la terra natia. Gilberto, invece, rappresenta la realtà dalla quale Gregorio e Leo sono scappati, l’incarnazione della vita di paese, quella vita che sembrava costringerli in un mondo che non era il loro, loro che “non erano come gli altri ragazzi”.
Quattro giorni racconta una storia forte, nella quale troviamo davvero di tutto. L’amore, l’amicizia, la lealtà, il ricordo e la voglia di combattere e resistere. Il ricordo al fumetto fa sì che l’intensità della storia si concentri in poche pagine. La bravura di Marco D’Aponte e Andrea B. Nardi, invece, fa sì che, nonostante le sole cento pagine, alla storia di due giovani che vogliono combattere l’apatia della realtà in cui vivono, che voglio credere e realizzare il proprio sogno, venga resa giustizia.
Descrizione: Santi, poeti e commissari tecnici è una raccolta che racconta con ironia e tenerezza e una scrittura scoppiettante il senso di una fine: il crollo del mito tutto italiano del “campionato più bello del mondo”, una bufala identitaria a cui abbiamo voluto credere per anni, una vera e propria religione di stato la cui dissacrazione ci renderà – si spera – un po’ più leggeri e meno tronfi, un po’ più umani, sopportabili e meno sfegatati.Santi, poeti e commissari tecnici è uno spaghetti-fantasy calcistico dai toni agrodolci che parla dritto al nostro cuore, al cuore di una nazione che sul calcio ha strepitato troppo e troppo a lungo perché, versata una lacrima, non fosse giunto il momento di riderci su.
Santi, poeti e commissari tecnici è uno spaghetti-fantasy calcistico dai toni agrodolci che parla dritto al nostro cuore, al cuore di una nazione che sul calcio ha strepitato troppo e troppo a lungo perché, versata una lacrima, non fosse giunto il momento di riderci su. Un libro comico, commovente e liberatorio. La raccolta comincia con il lungo racconto che dà il titolo all’opera, una storia sul miracolo della statua votiva della beata Serafina, che all’improvviso suggerisce al parroco del paese la strategia per stravincere il campionato. E finisce con Il campionato più brutto del mondo, l’ultimo racconto, sull’effetto domino che porterà alla chiusura della serie A non appena l’ex moglie di un dirigente invischiato con il calcio minore avrà preteso gli alimenti arretrati. In mezzo, un centravanti alcolizzato e un’intera comunità si illudono di meritare “il calcio che conta”; il giovane calciatore più forte del mondo (o del suo quartiere) scopre quanto sia spiacevole scontentare i genitori VIP degli altri ragazzi; un arbitro incorruttibile durante l’ultima partita della sua vita deve fare i conti con il suo passato e con i desideri di un ragazzo perduto; una stella della serie A ordisce la sua vendetta contro il destino. Storie di calcio e storie d’amore, d’amori mancati e sogni infranti. I sogni dei tifosi, insomma.
Il libro di Meloni fin dal titolo evidenzia l’intenzione di raccontare lo sport più diffuso in Italia. Del resto i classici discorsi da bar nel nostro Paese vertono sempre su politica e calcio. E al bar ci sono le persone vere, come direbbe Filippo Nardi, la gente, il popolo, come va di moda dire adesso. E del resto spesso non si tratta solo di discorsi, spesso calcio e politica si intrecciano, perché sono due ambienti dove girano soldi. Sesso, droga, corruzione, avidità, malaffare permeano entrambi i mondi. Ma il calcio è anche una passione, dal greco pathos, che letteralmente significa sofferenza. Infatti quando si parla di passione di Cristo non si parla certo del suo hobby per la falegnameria. E quando intrecci vita e passione così intensamente come fanno in Sudamerica, il calcio è vita e la vita è calcio, e allora sei disposto a tutto. In più, siamo un Paese dove la religione di Cristo è predominante, e si riempie di storie truculente, sanguinose, di martiri. Dove le processioni religiose si fermano davanti alla casa dei boss per omaggiarli. Dove alcune persone agiscono al di fuori della legge convinte di essere mosse da un potere superiore che li spinge a compiere azioni magari abiette ma con uno scopo alto, un risultato che ancora non si vede ma sarà un bene superiore per tutti. Siamo però un popolo che vive costantemente il contrasto e la contraddizione tra la spiritualità e gli scopi materiali. E del resto ce la ricordiamo tutti la religiosità particolare di Maradona, ma anche del più teutonico Trapattoni, con la sua acqua santa in panchina. Il libro è composto da sei racconti: il primo è il più surreale, rocambolesco e onirico, con animali parlanti, uno stabilimento petrolchimico altamente inquinante, preti, frati, e la statua della beata Serafina. Meloni infila spesso citazioni da nerd, riferimenti cinematografici e musicali. Gli altri racconti sono più “realistici”, sempre rocamboleschi ma meno surreali e più in stile “Un allenatore nel pallone”. Alcuni anche a modo loro commoventi, come “Ode al perfetto imbecille”, altri quasi noir come “Perché no?”. Filo conduttore è l’ironia, la voglia e la capacità di prendere e prendersi in giro, di creare situazioni assurde. Il che rende questo libro, indipendentemente che uno sia o no intenditore di calcio, una lettura fondamentalmente divertente.
«Mi sono ricordato adesso di una volta che siamo andati alle terme di Podebrady. Era estate, papà si era comprato un lungo impermeabile ed eravamo tutti vestiti a festa, io e mio fratello coi nostri completini alla marinara, ma dopo Kovanice, a forza di sventolare, il bell’impermeabile di papà si è impigliato bella ruota di dietro…» «Si dice ruota posteriore, Hrabal.» «Esatto… comunque l’impermeabile ha cominciato ad avvolgersi nell’ingranaggio della ruota posteriore e tirava papà verso di me, lui cercava di raggiungere con la mano la leva del gas, ma veniva trascinato sempre più indietro e le sue mani annaspavano nel vuoto. E anch’io cominciavo a cadere all’indietro…»
Dove sta la vita? Dove si svolge? Potrebbero sembrare delle domande banali, ma messe sotto la lente di ingrandimento, risultano interrogativi a cui forse non è semplice trovare qualcosa di sensato da dire. Chi ha risposto a queste domande nel suo modo personalissimo è stato sicuramente Bohumil Hrabal che, attraverso le sue parole, le sue pagine, ci ha raccontato un’esistenza che scorre in mezzo a tutto ciò che potrebbe apparire insignificante agli occhi di molti.
Le cose che restano sopra il bancone di legno di un pub, la polvere che, strato su strato, si solidifica sopra un vecchio cappotto, i fondi dei boccali di birra e le parole scritte su fogli di carta pronti per essere poi bruciati; i ricordi che scottano dentro la testa e una vecchia foto in bianco e nero nella sua cornice d’argento, sopra la sua mensola, che ancora ci parla, di notte, poco prima di chiudere gli occhi e dormire.
Bohumil Hrabal è nato a Brno nel 1914 ed è morto a Praga nel 1997, La perlina sul fondo è stato pubblicato in Italia da Miraggi, la traduzione è a cura di Laura Angeloni.
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Una raccolta di racconti che scava dentro le cose comuni, che si muove tra gli ultimi, che ci fa sentire le voci che non ci arrivano mai, che ci fa vedere le facce e i movimenti di chi spesso passa inosservato. Con la sua scrittura asciutta e decisa Hrabal ci conduce dentro pagine dense, reali, dentro dialoghi che sembrano quelli che potremmo trovarci a origliare mentre beviamo un bicchiere di vino, a notte tarda, in un locale dalle luci soffuse.
«Ma perché non l’ha detto subito? Faccia attenzione! Quando torna a casa dall’ufficio metta un po’ d’acqua in un pentolino e ci versi dentro parecchio rum. Lo faccia bollire, ovviamente dopo aver aggiunto chiodi di garofano e pepe. E poi beva di gusto, aspetti un quarto d’ora che la bevanda inizi ad accelerare, dopodichè ci beva sopra un bel bicchiere di liquore di segale, perché il liquore di segale agisce sul petto. Poi esca all’aperto… ormai starà già facendo buio, si butti per terra da qualche parte e si metta a dormire, e vedrà che all’alba, con la prima rugiada, il raffreddore sarà passato. È il metodo Kneipp, che è molto meglio degli impacchi di Preissnitz. Domani allora le porto i fazzoletti!»
La perlina sul fondo è un libro pieno, pieno di vite e di parole, di situazioni sempre al limite e di buone intenzioni; un libro colmo di personaggi surreali ma quanto mai sinceri. Pagine che ci fanno trovare improvvisamente tra le persone, in una strada, con i rumori del traffico che quasi si possono toccare, con il brusio di tutte le lettere superflue, che non ci servono ma che a tratti possono essere salvifiche. Hrabal cerca con ostinazione il bianco sul fondo lurido e sporco, cerca la salvezza tra chi è diverso da lui e forse, proprio per questo, in possesso di chiavi magiche per superare la sofferenza della vita.
«Io vado» disse il cognato. «La mia vecchia mi aveva mandato a comprare un disco, la colonna sonora del film Moulin Rouge, e per me prenderò uno di quei valzer zugraureri. Che croce comunque queste donne! All’inizio impazziva per le bande e le fanfare, ma appena sono cominciate a piacere anche a me, lei è passata al jazz. Quando ci siamo sposati tifavamo entrambi lo Sparta, io e Marika. Tempo sei mesi e lei ha cominciato a tenere per in biancorossi, e ogni volta che c’era un derby e lo Sparta stracciava lo Slavia non mi parlavano nemmeno i muri…
Data di pubblicazione:10 Giugno 2020
ISBN: 9788833861319
Prezzo (Euro): 16
N. Pagine: 176
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La peculiare, profondissima, forma d’amore tra Mona, infermiera in un ospedale travolto dalla guerra, e Adam, il giovane soldato che arriva dal fronte con una grave ferita alla gamba, fa qui da collante a grandi temi umani e sociali. La violenza con cui la dittatura e le guerre irrompono nella vita della collettività e del singolo, la condizione della donna, l’infanzia rubata dalla crudeltà degli adulti. Ma anche, più semplicemente, i rapporti che sbiadiscono, le distanze che aumentano, l’adolescenza, col suo carico di strafottenza e apatia che a volte si porta dietro. Nel buio e nella devastazione della guerra, in un ospedale infestato dalla vegetazione della giungla e dalle urla dei pazienti, Mona e Adam trovano un’ancora di salvezza: la parola.
Introduzione
Un muro bianco, il colore della purezza che vuole indicare tranquillità e libertà , ma che si ritrova suo malgrado ad essere la crepante testimonianza di infiniti dolori che non sempre trovano risoluzione . Un confessore muto che raccoglie storie , frammenti di vita che si susseguono , si somigliano e si confondono senza un vero perché . Nessuno può fermare la mutevolezza del tempo che corre troppo veloce anche per poterci camminare accanto . Il muro regge una casa , una struttura può essere anche la colonna portante di un sogno ma cosa accade quando si erige a fortezza del cuore ? Diamo il nostro tiepido assenso , incuranti delle conseguenze, nascondendoci sull’ effimera inconsapevolezza . Si trasforma in una parete divisoria tra il singolo e l’altro, non solo fisica ma anche emotiva sviluppando una nera incomunicabilità . Il muro si personifica e diventa un anziano che chiede con la sua flebile voce di potersi fermare un pò . Una sedia , un letto per quietare momentaneamente le sue stanche membra , senza diventare tuttavia un tutt’ uno con i simboli della catatonica società sempre più devota all’ immobilità . Il muro personificato , nonostante l’età si aggrappa alla vita e lo testimoniano le crepe che poi sono le sue lacrime per un mondo che fatica a riconoscere . Piange ininterrottamente il vecchio muro soprattutto quando si ritrova ad affrontare la dissacrante rappresentazione del male che attraversa l’ingiusta applicazione di un codice misterioso, si prende anche la vita dei più giovani. Bianca Bellovà racconta con maestria la vita negli ospedali con una straordinaria empatia regalando un raggio di sole in mezzo al buio della sofferenza .
Aneddoti personali
Sono veramente felice di avere la possibilità di recensire questo libro per tanti motivi. Prima di tutto perchè mi ha permesso di allargare i miei orizzonti letterari . Questo è stato, infatti, il mio primo approccio alla letteratura ceca che mi ha favorevolmente conquistato e sicuramente continuerò quest’incredibile viaggio con una crescente emozione e la mia grande voglia di conoscere. Il primo approccio con questo libro è avvenuto attraverso la diretta su Book Advisor svolta dall’autrice e da alcuni rappresentanti della bella famiglia della casa editrice Miraggi. Ricordo che è stata una diretta molto coinvolgente ed emozionante . Uno degli elementi che mi ha fatto avvicinare al libro è sicuramente il racconto della disabilità . Volevo capire come la raccontasse l’autrice. Vivendola in prima persona per me questo libro è stato un terribile déjà vu, ma a volte è estremamente necessario ricordare il proprio passato per migliorare il futuro .Un libro che assolutamente fa bene all’anima .
Recensione
Ascoltare il tuo silenzio che diventa il mio, è questa la tacita promessa che i due protagonisti si fanno. Il libro è narrato seguendo l’indefinita atemporalità tipica della formula c’era una volta , che conquista e ammalia con la sua magia. Il lettore è altresì trasportato in un mondo tutt’altro che magico, poiché la Bellovà ci offre un ritratto veritiero e decadente della nostra società. L’attenta analisi è svolta non soltanto attraverso luoghi ma soprattutto mediante la moltitudine di personaggi che si susseguono, ricordando che noi non siamo altro che la conseguente rappresentazione del mondo circostante. Per questo il tempo è perfettamente riconoscibile e non troppo lontano . Ė un tempo che ha l’odore della guerra, le esistenze sono come foglie d’autunno che delicatamente perdono il loro colore e cadono irrimediabilmente nel torbido e immenso baratro del niente . Ė un romanzo sul sovraffollamento degli ospedali, sulla lotta contro un morbo invisibile senza risoluzione di cui si conosce il nome ma non la vera pelle perché si nasconde in ogni epoca assumendo diverse forme e sembianze. Le rappresentazioni del bene e del male si riproducono esattamente come l’uomo, poiché sono due parti indissolubili del suo essere. La vita negli ospedali è raccontata dettagliatamente, il personale medico combatte giornalmente contro l’inciviltà umana percorrendo il canale opposto, ovvero la via della salvezza . Un percorso complesso ma estremamente empatico dove bisogna mantenere un certo distacco perchè il trasporto emotivo è dietro l’angolo e potrebbe travolgere . Lo sa perfettamente Mona , la protagonista di questa storia , un ‘infermiera che si ritrova a provare un profondo sentimento per un suo paziente . Mona acquisisce meritatamente la centralità del romanzo perché non è narrata soltanto la sua professione ma soprattutto il suo percorso di maturazione . Mona ha inconsapevolmente una colpa: essere nata donna e quindi quotidianamente ne paga il prezzo . Non vuole piegarsi al codice sociale che la vuole coperta, nascosta ma soprattutto zitta. Mona invece parla e non permette a nessuno di zittire la sua voce e dove mancano le medicine cerca di affievolire le sofferenze con il potere salvifico delle storie . Per troppo tempo Mona è stata zitta , come se non fosse viva, come se non esistesse per nessuno, adesso riemerge dal suo inferno individuale mostrando al mondo intero la sua anima ribelle . Tutto questo però funge anche da copertura, perché si ribella al mondo, ma è incapace di affrontare i suoi demoni .Non lo può negare almeno a se stessa, ci sono lati di sé che nessuno effettivamente conosce. Finché nella sua vita arriva Adam. Il protagonista maschile si presenta al lettore come il fantasma di se stesso. Adam non è altro che la proiezione corporea di Hani un giovane soldato che si ritrova inaspettatamente disabile, infatti, gli è amputata una gamba. Si è parlato di proiezione corporea perché l’anima di Adam- Hani è completamente scissa dal corpo . Vaga in un non luogo che il giovane non vuole rivelare . Ė un romanzo sulla morte dove essa è però sinonimo di un’agognata libertà. Il percorso di accettazione della sua nuova condizione è qualcosa che Adam non riesce ad affrontare o meglio non vuole. Il suo unico desiderio è morire. Mona costretta a convivere con l’apatia del marito Kamil e del figlio Ata , non può permettere che la luce fioca della candela si spenga anche per Adam , l’uomo che le ha permesso di conoscere un nuovo battito del cuore . Da quel momento inizia la loro personale rivoluzione emotiva. La traduzione di Laura Angeloni non tradisce il ritmo incalzante e magnetico del romanzo, anzi crea un ponte dialogico che squarcia l’anima. La scrittura di Bianca Bellovà è viva e poetica procede per immagini . Ė come se stesse inoltre girando il film delle esistenze dei suoi personaggi in attesa di un punto di contatto, affinché non sia tutto vano e resti qualcosa da raccontare per chi vuole indagare la straordinaria forza dirompente della memoria. La copertina rappresenta letteralmente un momento felice di Mona che la ritrae bambina mentre cerca di comunicare con il suo amico , il bue Mun . In una lettura figurata però il bue può indicare anche l’iniziale chiusura di Adam che ha costruito soprattutto per le emozioni un vero muro . Riuscirà Mona ad abbatterlo? Un romanzo sul prendersi cura , i due protagonisti si salvano insieme raccontandosi i dolori più intimi . La comunicazione orale e gestuale dà vita alla forma più totalizzante d’amore che possa esistere .Il racconto di due anime perse che combattono le tenebre cercando di eliminare ogni nuvola con la forza dei loro sogni e con quella dei loro sguardi e dei cuori tracciare un nuovo magico e speranzoso orizzonte .
Conclusioni
Questo è un libro potente che consiglio a chi vuole farsi un regalo per l’anima.
Margherita Gangemi si era innamorata di Antonino Calderone quando lavoravano al Consorzio agrario provinciale. Lei era una ragazza tutto pepe, aveva studiato da ragioniera e viveva in un quartiere “borghese” di Catania. Erano gli anni Settanta e lei cercava di ignorare la vera attività del marito, la mafia in effetti non aveva a quel tempo l’aspetto sanguinario che ha assunto in seguito. Quando durante una scampagnata in famiglia con Nino incontrò Luciano Liggio, gli chiese chi fosse quell’individuo e lui rispose che si trattava di un amico “professore”, Margherita in realtà aveva già visto sui giornali il volto di quell’uomo e qualcosa aveva intuito. Nel dicembre 1986 Nino si pentì e Margherita fu testimone di quella difficile scelta. Era lei che viaggiava da un carcere all’altro, lei che avvicinava medici e magistrati. Fu Margherita che chiamò a Palermo dalla Francia Giovanni Falcone e gli comunicò che Nino era disposto a parlare. “Venga ad interrogare mio marito”, disse la donna al giudice: “Ha molte cose da dire”, precisò. Con il magistrato Margherita, diventata intraprendente, concordò un nome inventato per poterlo chiamare senza correre il rischio che quelle conversazioni venissero intercettate. Ottenne che Falcone contattasse Gianni De Gennaro e Antonio Manganelli. Margherita era desiderosa di cambiare vita e mentre il marito si trovava nel carcere francese di Aix en Provence, e collaborava, lei riuscì ad entrare con i figli in convento per trovare un po’ di tranquillità. Arrivati in Italia Nino dovette andare in carcere per scontare una vecchia condanna e Margherita si trovo sola con i figli in un rifugio segreto. Nino non poteva chiamare dal carcere perché le telefonate dovevano esser registrate e i numeri del rifugio dovevano rimanere sconosciuti…
Il libro della giornalista e scrittrice Liliana Madeo, che racchiude vicende esistenziali forti perché legate a ribellioni all’interno di clan mafiosi, è stato pubblicato per la prima volta dalla casa editrice Mondadori nel 1994. Questa è la terza edizione. Le donne le cui esistenze hanno trovato posto nello scritto sono scomparse o sono anziane, mentre nella realtà attuale tante giovani protagoniste di vicende analoghe a quelle descritte nel libro trovano ancora l’energia morale e la determinazione di varcare la soglia del luogo dove vivono e consegnare verbali e memoriali alle forze dell’ordine per rovesciare il giogo della violenza che le opprime e portare alla luce verità inconfessabili. Spesso anche per salvare i figli da logiche di reiterazioni di comportamenti che non sono più condivisi. Ciò che emerge dalle letture delle preziose testimonianze raccolte da Liliana Madeo venticinque anni orsono e che permane come fenomeno identico in tante altre storie di “donne di mafia” sino alla data attuale è purtroppo l’assenza della protezione dello Stato nei loro riguardi. Non esiste in altri termini né un circuito di tutela psicologica nei riguardi di chi sfugge alla famiglia mafiosa in preda a tumulti fortissimi né un sistema di tutela economica che consenta di continuare l’esistenza in maniera serena e sicura. E non si tratta di donne colpevoli di reati, ma semplicemente spesso di compagne, di mogli o di figlie di criminali che non hanno commesso alcun reato. Un rapporto asimmetrico che vede la vittima tutelata, il colpevole processato e la donna che si ribella messa all’indice sia dal proprio nucleo familiare e sia dalla società civile. Un plauso dunque a tutti coloro che, come l’autrice, portano alla luce le storie di queste eroine intrepide e coraggiose, autentiche protagoniste assieme a taluni organi di giustizia, della lotta alla mafia.
Me lo ricordo come se fosse ieri il negozio di Bata a due passi dalla stazione e da piazza Santa Maria Novella, la serie di vetrine e l’insegna con le lettere rosso vive. Bata era un marchio conosciuto, quasi di casa. Le sue scarpe stavano nel mio mondo e non c’era altro d’aggiungere, niente che la curiosità potesse fiutare.
Bata: un nome così semplice, così famigliare, che per me era un’azienda italiana, come la Nutella e il Mulino Bianco. Ci ho messo molto per scoprire che la sua storia comincia in quella che un tempo era la Cecoslovacchia per poi resistere alle guerre e alle dittature del Novecento. Che questa impresa con fabbriche e punti vendita in tutto il mondo discende da una modesta famiglia di calzolai. Che per scampare al nazismo e allo stalinismo a un certo punto l’Europa viene lasciata per la giungla del Brasile, dove anche una birra è nostalgia. E che questa destinazione non è solo fuga, non è solo investimento produttivo, è anche la possibilità di una nuova vita, in città comunità che nascono dal niente.
Sì, tutto questo l’ho appreso solo l’altro giorno, immerso nelle pagine di Con Bata nella giungla della scrittrice ceca Markèta Pilàtovà, proposta da Miraggi con l’ottima traduzione di Alessandro de Vito (mi piace, per inciso, che il nome del traduttore figuri in copertina).
E’ una gran bella storia da leggere, questa, densa di personaggi affascinanti, umori vari, sviluppi imprevedibili tra due continenti e geografie più complicate del cuore e degli affetti. Un’avventura sempre riscaldata da una visione forte, quasi utopica, da impresa che non si limita a guardare solo i conti – più volte inseguendo Bata mi è affiorato il nome di Adriano Olivetti. Senza trascurare altri temi, importanti: il distacco dalla propria terra, la possibilità di far convidere dentro di noi anche un’altra patria, l’appartenenza che ci assegna la lingua, la fedeltà a noi stessi e alle nostre radici.
Eppure non si tratta solo della storia, ma del modo con cui è raccontata. Markèta restituisce vita, trasmette la verità che non è solo quella dei fatti accaduti. Costruisce un mosaico di sguardi e punti di vista e fa in modo che la sua voce diventi la voce di chi non c’è più. Adopera la prima persona persino per la fabbrica dismessa.
Questo libro adempie a ciò che a un certo punto afferma Dolores, una delle protagoniste. Noi siamo qui, possiamo essere qui, finché qualcuno pensa a noi. E questo succede ed è dono raro, bellezza che per una volta ci teniamo stretti.
Un racconto in versi, uno scarno ma essenziale spaccato che tratteggia la banalità del male.
La pacchia non è finita, ma è appena iniziata. È una delle dichiarazioni più forti di questo libro e che dà inizio alle danze. Catapultati tra quattro amici che solo per gioco danno fuoco a una baraccopoli, diventiamo partecipi di un miscuglio di “frasi fatte”, di slogan da marciapiede, di inutile retorica sospinta dall’ignoranza. E sullo sfondo, il rimorso di uno dei quattro protagonisti, che sente il peso di un’azione vile che ha ridotto in fin di vita una bambina.
Proprio per la sua “profonda” banalità, perché il male è sempre il risultato di una superficiale lettura delle cose e dei fatti, questo libro fa riflettere. Tra queste pagine non vi è nessuna ricerca linguistica, nessun orpello, nessun dettaglio; vince la crudeltà, spicca l’ignoranza, trapela solo l’indifferenza. Anche nel tenue rimorso di uno degli incendiari si fanno spazio le giustificazioni che dovrebbero ridurre questo atto a una marachella andata male.
Daniele Zito ha raccontato in poche pagine una vicenda dei nostri tempi dando risalto al concetto di male. Ed è proprio questa prosa scarna che ci pone davanti all’essenza della malvagità che, in questo libro, non è solo “ispirata” dal contesto, ma è anche una prova di appartenenza a una comunità malata, guidata dagli slogan e immersa nella spettacolarizzazione dell’ovvietà e della banalità.
Spesso si cerca di cambiare nome a qualcosa di conosciuto per renderlo migliore o più appetibile. È successo con i netturbini che da un giorno all’altro si sono trovati ad essere chiamati operatori ecologici, stesse mansioni e stessa paga, ma pennellata di freschezza sul nome. Sorte analoga è toccata al fumetto che da un po’ di anni viene chiamato graphic novel che altro non è che l’equivalente di romanzo a fumetti. Il piacere si è subito inspessito quando, sulla copertina del libro Quattro giorni ho trovato proprio la scritta “romanzo a fumetti”. E che romanzo! E che fumetto. La storia parte, infatti, da un romanzo di Marino Magliani che è un ottimo scrittore (oltre ad essere un apprezzato traduttore) che ha ricevuto numerosi premi, tra cui il Premio Selezione Bancarella nel 2019 e il premio alla carriera LericiPea nel 2012. Il racconto è stato amabilmente sceneggiato dallo scrittore e giornalista Andrea B. Nardi e poi disegnato dal bravissimo Marco D’Aponte, eccellente fumettista che abbiamo visto esordire negli anni Ottanta sulle pagine Orient Express, grande rivista di fumetti diretta da Luigi Bernardi. Sono passati anni e la bravura di D’Aponte si è ancor più raffinata nel tratto e nello stile. Delizioso davvero questo libro, che parte da una trama avvincente e si sviluppa con una sceneggiatura ben elaborata, con salti nel tempo che contribuiscono a rendere chiaro man mano lo svolgimento della storia. I disegni di D’Aponte, molto ben impaginati si basano su inquadrature cinematografiche che contribuiscono a dare un ritmo rapido allo svolgersi degli eventi. Una bella prova d’artista, la sua, conferma ulteriore di una grande professionalità raggiunta. Una storia che è anche un omaggio alla Liguria, così come descrive perfettamente nell’introduzione Dario Voltolini, non a caso altro abile scrittore: “Ligure” lo vedete subito cosa significa, leggendo quest’opera. Forse “ligure” è l’unico aggettivo topografico che invece di restringere e dettagliare il suo senso comprimendolo in un luogo (che in questo caso è di per sé stesso un luogo compresso tra montagne e mare), lo fa volare su tutto il pianeta dispiegandosi a categoria emotiva autonoma.
Forse straparlo, per amore del luogo. Ma qualcosa di vero penso che lo sto dicendo. Laddove il dolore resta incapsulato in una vita che continua, laddove le occasioni perdute vivono per il fatto stesso di esserci state, laddove qualcosa per essere detto bene ha senso che sia taciuto – e molti altri “laddove” ancora – l’aggettivo “ligure” arriva a spiegare perfettamente quello che c’è da spiegare.
Un bel lavoro di équipe che si avverte subito, con armonia e amalgama.
Nonostante abbia imparato a leggere divorando giornaletti, che negli anni della mia infanzia e giovinezza riempivano le edicole, quando mi accosto alle forme attuali del fumetto lo faccio con l’animo del dilettante. Eppure, dopo aver letto Quattro giorni, il graphic novel tratto dal romanzo di Marino Magliani, pubblicato da Miraggi, con disegni di Marco D’Aponte e sceneggiatura di Andrea B. Nardi, sono rimasto affascinato dalla capacità degli autori di rendere quanto sembra più difficile esprimere in un fumetto: atmosfere e stati d’animo.
Il romanzo (Quattro giorni per non morire, uscito per Sironi Editore nel 2006), Gregorio Sanderi, che sta scontando in carcere una condanna per contrabbando internazionale di oggetti d’arte e che va incontro a morte certa; la sua unica speranza di salvezza è la terapia – nota solo a un medico di Città del Messico – che potrebbe salvarlo, ma a cui non gli è permesso di accedere. Così, durante la licenza concessagli per la morte della madre, decide di organizzare la fuga in Sudamerica dal paesino dell’entroterra ligure dove è nato e cresciuto. Il racconto dei quattro giorni che ha a disposizione per fuggire raccontano una Liguria di silenzi, luci e ombre del fondovalle, e il viaggio interiore dell’uomo nel proprio passato.
Un romanzo “letterario”, dalla trama esile, che attinge alle grandi lezioni di Calvino e Biamonti, e che costituisce una sfida temeraria per chi voglia trasferirlo nel linguaggio del graphic novel.
Eppure gli autori ci sono riusciti, utilizzando tra accorgimenti: un richiamo puntuale ed efficace a brevi frammenti del testo, il flashback come risorsa narrativa che dà corpo al travaglio interiore del protagonista, e un segno grafico che esalta il chiaroscuro degli anfratti del borgo, i primi piani del volto di Gregorio, la dimensione rarefatta dei ricordi infantili; così le atmosfere e gli stati d’animo che percorrono l’intero romanzo si ritrovano nella versione “graphic”, con una notevole forza e capacità di mobilitare emozioni nel lettore. Un romanzo che si ispira a certi canoni del noir (il personaggio principale è un pregiudicato, la storia è il tentativo di sottrarsi alla vigilanza delle forza dell’ordine), ma che è per gran parte giocato sulle continue corrispondenze tra paesaggio esterno e memoria )”C’erano già quelle palme? Non ricordo più nulla” dice Sanderi appena giunto a Imperia), e si snoda attraverso alcuni incontri fondamentali soprattutto quelli con il fratello e Lori, la ragazza amata in gioventù. La lettura cattura e avvince vignetta dopo vignetta, pagina dopo pagina, fino all’epilogo, senza dargli tregua. Un esempio riuscito di come la traslazione tra diverse forme espressive possa conservare l’essenziale e comunicare lo spirito dell’opera originaria.
Nuovo prestigioso riconoscimento letterario per lo scrittore Angelo Orlando Meloni. Il suo libro Santi, poeti e commissari tecnici (Miraggi Edizioni) ha ottenuto la “Segnalazione particolare” della Giuria nell’ambito del Premio Nazionale Coni Letteratura Sportiva, uno degli appuntamenti di maggior prestigio dell’editoria legata allo sport che si svolge a Roma.
«Sono molto lieto, – afferma Meloni – a conferma della buona riuscita del libro. Dedico questo riconoscimento alla memoria dei miei genitori».
Meloni offre una narrazione elegante e semplice (la compilazione, ammoniva Sciascia, è la forma moderna di stupidità ed è anche malafede), con un corpus di storie che mette in evidenza un calcio con evidenti segni di umanità: una statua votiva diventa la stratega per far vincere ad una squadra un campionato di paese, il bomber alcolizzato e l’arbitro dalla carriera pulita, giunto all’ultima tappa del suo cammino facendo i conti col passato. Microstorie ambientate in una Siracusa del passato dove i sogni di cuoio s’intersecano con gli amori dell’adolescenza, sfuggenti o mancati, cominciati in estate e finiti prima del rientro a scuola.
Il libro è un’elegia del calcio di provincia, spensierato o capace di regredire nel fango del dio pallone, facendo trasparire una fragilità di fondo che sfocia in una vena malinconica, con una narrazione che, tra sorrisi e lacrime, bussa alle pareti del cuore come il pifferaio barrettiano alle porte dell’alba. Meloni ci mostra nel suo libro l’eminente leggerezza e bellezza del calcio, sintesi perfetta tra dubbio costante e decisione rapida.
Esilarante quanto riflessivo, il nuovo romanzo del torinese, con radici parentali nel mascaluciese, Andrea Serra, sembra proprio bissare il successo di Frigorifero Mon Amour (Miraggi, Torino, 2018). Un legame importante quello con la terra siciliana, madre indiscussa degli albori filosofici (Lentini con Gorgia, Sgalambro e i sofisti, n.d.r.), per lo scrittore e filosofo che durante il lockdown e il grande rumoreggiare di piattaforme a presentare autori in streaming, ha battezzato la prima nazionale proprio nel nostro blog, cui questa pagina è la versione cartacea. Testamento per le figlie (non solo le sue), dalle quali nasce il nome del titolo, una si chiama Viola, l’altra Luna, Andrea Serra ripercorre la carriera di ometto al liceo annoiato da una disciplina che gli pareva non giovare a nulla. Un dì (di gioia, stupore e sputacchiate) la classe frequentata riceve la notizia che le lezioni della madre di tutte le scienze, non saranno più tenute dalla professoressa che della filosofia nulla faceva per farla amare ai suoi alunni, bensì da un supplente. Eccolo entrare per nulla imponente, col volto butterato un giovane che quando parlava emetteva lapilli di salivazione. Divertente in parte, con la sua serena e armoniosa dialettica, mista a quei missiletti che lanciava nolentemente, il giovane supplente, sbalordiva gli studenti con domande semplici per risalire a tesi e pensieri di filosofi col fine unico e indissolubile che la filosofia giovava a rendere libere le persone.
Da questo incipit la vita dell’autore/protagonista cambia. Dalla conoscenza della compagna, oggi moglie nonché madre della Luna di colore Viola, ai dialoghi con alcuni suoi amici, coi quali ad oggi mantiene strettissimi legami nonostante ve ne siano alcuni nati a.C., la vita di Andrea, ‘scivola a cunette’: chiede consiglio a Giordano (Bruno) su come si agisce in certi momenti, o si ubriaca con Søren (Kierkegaard) quelle volte che si incontrano e non tornano più a casa per l’ora di cena, perché si iniziano a bere nozioni di inquietudine per risalire allo svelamento che tutto può trovare una via, una strada ben oltre quella che si pensa di conoscere. Uno scrittore coltissimo che dell’ironia ha fatto la chiave del suo successo, facendo amare la filosofia per ciò che giova: essere liberi, senza calpestare l’altro.
Dopo il successo di Il lago, tradotto in più di 20 lingue, Bianca Bellová, autrice ceca, torna con Mona, tradotto da Laura Angeloni ed edito da Miraggi Edizioni. Protagonisti sono Mona e Adam. Lei è un’infermiera di un ospedale travolto dalla guerra, lui un giovane soldato che ha una grave ferita alla gamba, procurata al fronte. S’innamorano, e le loro giornate sono scandite da racconti del passato. Il racconto è intervallato da molti flashback che ci svelano la vita difficile della protagonista che da piccola è stata rinchiusa per mesi in una botola per nascondersi da chi aveva portato via i suoi genitori. In quel luogo buio e angusto inventa una scrittura segreta che le darà forza giorno per giorno. La scrittura assume così un potere curativo, così come narrare, e riesce a rimarginare le ferite. Mona supera tutto componendo poesie, e con le parole si salva. Ma cosa attira Mona verso Adam? Forse l’accettazione l’uno dell’altro e l’uscita dall’invisibilità in cui si sentono costretti. Il raccontarsi ha forza così forte per Mona? Il potere salvifico delle parole viene trasmesso da lei al capezzale di Adam. Con l’ascolto vi è una sorta di transfert tra i due, come da psicoterapeuta a paziente, così il rapporto diventa sempre più intimo.
Ella rinascerà da una sorta di immobilismo e di apatia, scoprendosi più consapevole di che tipo di donna sia. Ricordando Hemingway in Addio alle armi, ritroviamo i sentimenti come vero tema dominante. L’ambiente non è solo uno sfondo, ma personaggio reale e vivente della storia. In 176 pagine vengono narrate tre epoche della vita e 5 o 6 personaggi con una precisione certosina che rimangono nella memoria. Tutto viene condensato e amalgamato senza digressioni filosofiche o giudizi personali, ma ricavato naturalmente e semplicemente dai dialoghi e dalla trama. La sua scrittura trascina il lettore con consapevolezza di essere guidato da una mano attenta alle emozioni. Non c’è bisogno di dettagli spazio-temporali, poiché tutto quello che viene descritto è extrasensoriale: lo vedi e lo senti. La Bellová pone attenzione con i suoi romanzi a problemi contemporanei che forse, presi dal nostro quotidiano, possiamo dimenticare.
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