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QUATTRO GIORNI – recensione di Dino Aloi su Buduàr

QUATTRO GIORNI – recensione di Dino Aloi su Buduàr

Spesso si cerca di cambiare nome a qualcosa di conosciuto per renderlo migliore o più appetibile. È successo con i netturbini che da un giorno all’altro si sono trovati ad essere chiamati operatori ecologici, stesse mansioni e stessa paga, ma pennellata di freschezza sul nome. Sorte analoga è toccata al fumetto che da un po’ di anni viene chiamato graphic novel che altro non è che l’equivalente di romanzo a fumetti. Il piacere si è subito inspessito quando, sulla copertina del libro Quattro giorni ho trovato proprio la scritta “romanzo a fumetti”. E che romanzo! E che fumetto. La storia parte, infatti, da un romanzo di Marino Magliani che è un ottimo scrittore (oltre ad essere un apprezzato traduttore) che ha ricevuto numerosi premi, tra cui il Premio Selezione Bancarella nel 2019 e il premio alla carriera LericiPea nel 2012. Il racconto è stato amabilmente sceneggiato dallo scrittore e giornalista Andrea B. Nardi e poi disegnato dal bravissimo Marco D’Aponte, eccellente fumettista che abbiamo visto esordire negli anni Ottanta sulle pagine Orient Express, grande rivista di fumetti diretta da Luigi Bernardi. Sono passati anni e la bravura di D’Aponte si è ancor più raffinata nel tratto e nello stile. Delizioso davvero questo libro, che parte da una trama avvincente e si sviluppa con una sceneggiatura ben elaborata, con salti nel tempo che contribuiscono a rendere chiaro man mano lo svolgimento della storia. I disegni di D’Aponte, molto ben impaginati si basano su inquadrature cinematografiche che contribuiscono a dare un ritmo rapido allo svolgersi degli eventi. Una bella prova d’artista, la sua, conferma ulteriore di una grande professionalità raggiunta. Una storia che è anche un omaggio alla Liguria, così come descrive perfettamente nell’introduzione Dario Voltolini, non a caso altro abile scrittore: “Ligure” lo vedete subito cosa significa, leggendo quest’opera. Forse “ligure” è l’unico aggettivo topografico che invece di restringere e dettagliare il suo senso comprimendolo in un luogo (che in questo caso è di per sé stesso un luogo compresso tra montagne e mare), lo fa volare su tutto il pianeta dispiegandosi a categoria emotiva autonoma.

Forse straparlo, per amore del luogo. Ma qualcosa di vero penso che lo sto dicendo. Laddove il dolore resta incapsulato in una vita che continua, laddove le occasioni perdute vivono per il fatto stesso di esserci state, laddove qualcosa per essere detto bene ha senso che sia taciuto – e molti altri “laddove” ancora – l’aggettivo “ligure” arriva a spiegare perfettamente quello che c’è da spiegare.

Un bel lavoro di équipe che si avverte subito, con armonia e amalgama.

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QUATTRO GIORNI – recensione di Bruno Morchio su Il Secolo XIX

QUATTRO GIORNI – recensione di Bruno Morchio su Il Secolo XIX

Nonostante abbia imparato a leggere divorando giornaletti, che negli anni della mia infanzia e giovinezza riempivano le edicole, quando mi accosto alle forme attuali del fumetto lo faccio con l’animo del dilettante. Eppure, dopo aver letto Quattro giorni, il graphic novel tratto dal romanzo di Marino Magliani, pubblicato da Miraggi, con disegni di Marco D’Aponte e sceneggiatura di Andrea B. Nardi, sono rimasto affascinato dalla capacità degli autori di rendere quanto sembra più difficile esprimere in un fumetto: atmosfere e stati d’animo.

Il romanzo (Quattro giorni per non morire, uscito per Sironi Editore nel 2006), Gregorio Sanderi, che sta scontando in carcere una condanna per contrabbando internazionale di oggetti d’arte e che va incontro a morte certa; la sua unica speranza di salvezza è la terapia – nota solo a un medico di Città del Messico – che potrebbe salvarlo, ma a cui non gli è permesso di accedere. Così, durante la licenza concessagli per la morte della madre, decide di organizzare la fuga in Sudamerica dal paesino dell’entroterra ligure dove è nato e cresciuto. Il racconto dei quattro giorni che ha a disposizione per fuggire raccontano una Liguria di silenzi, luci e ombre del fondovalle, e il viaggio interiore dell’uomo nel proprio passato.

Un romanzo “letterario”, dalla trama esile, che attinge alle grandi lezioni di Calvino e Biamonti, e che costituisce una sfida temeraria per chi voglia trasferirlo nel linguaggio del graphic novel.

Eppure gli autori ci sono riusciti, utilizzando tra accorgimenti: un richiamo puntuale ed efficace a brevi frammenti del testo, il flashback come risorsa narrativa che dà corpo al travaglio interiore del protagonista, e un segno grafico che esalta il chiaroscuro degli anfratti del borgo, i primi piani del volto di Gregorio, la dimensione rarefatta dei ricordi infantili; così le atmosfere e gli stati d’animo che percorrono l’intero romanzo si ritrovano nella versione “graphic”, con una notevole forza e capacità di mobilitare emozioni nel lettore. Un romanzo che si ispira a certi canoni del noir (il personaggio principale è un pregiudicato, la storia è il tentativo di sottrarsi alla vigilanza delle forza dell’ordine), ma che è per gran parte giocato sulle continue corrispondenze tra paesaggio esterno e memoria )”C’erano già quelle palme? Non ricordo più nulla” dice Sanderi appena giunto a Imperia), e si snoda attraverso alcuni incontri fondamentali soprattutto quelli con il fratello e Lori, la ragazza amata in gioventù. La lettura cattura e avvince vignetta dopo vignetta, pagina dopo pagina, fino all’epilogo, senza dargli tregua. Un esempio riuscito di come la traslazione tra diverse forme espressive possa conservare l’essenziale e comunicare lo spirito dell’opera originaria.

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SANTI, POETI E COMMISSARI TECNICI – recensione di Sergio Taccone su La Sicilia

SANTI, POETI E COMMISSARI TECNICI – recensione di Sergio Taccone su La Sicilia

Nuovo prestigioso riconoscimento letterario per lo scrittore Angelo Orlando Meloni. Il suo libro Santi, poeti e commissari tecnici (Miraggi Edizioni) ha ottenuto la “Segnalazione particolare” della Giuria nell’ambito del Premio Nazionale Coni Letteratura Sportiva, uno degli appuntamenti di maggior prestigio dell’editoria legata allo sport che si svolge a Roma.

«Sono molto lieto, – afferma Meloni – a conferma della buona riuscita del libro. Dedico questo riconoscimento alla memoria dei miei genitori».

Meloni offre una narrazione elegante e semplice (la compilazione, ammoniva Sciascia, è la forma moderna di stupidità ed è anche malafede), con un corpus di storie che mette in evidenza un calcio con evidenti segni di umanità: una statua votiva diventa la stratega per far vincere ad una squadra un campionato di paese, il bomber alcolizzato e l’arbitro dalla carriera pulita, giunto all’ultima tappa del suo cammino facendo i conti col passato. Microstorie ambientate in una Siracusa del passato dove i sogni di cuoio s’intersecano con gli amori dell’adolescenza, sfuggenti o mancati, cominciati in estate e finiti prima del rientro a scuola.

Il libro è un’elegia del calcio di provincia, spensierato o capace di regredire nel fango del dio pallone, facendo trasparire una fragilità di fondo che sfocia in una vena malinconica, con una narrazione che, tra sorrisi e lacrime, bussa alle pareti del cuore come il pifferaio barrettiano alle porte dell’alba. Meloni ci mostra nel suo libro l’eminente leggerezza e bellezza del calcio, sintesi perfetta tra dubbio costante e decisione rapida.

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LA LUNA VIOLA – recensione di Salvatore Massimo Fazio sul magazine Paesi Etnei

LA LUNA VIOLA – recensione di Salvatore Massimo Fazio sul magazine Paesi Etnei

Esilarante quanto riflessivo, il nuovo romanzo del torinese, con radici parentali nel mascaluciese, Andrea Serra, sembra proprio bissare il successo di Frigorifero Mon Amour (Miraggi, Torino, 2018). Un legame importante quello con la terra siciliana, madre indiscussa degli albori filosofici (Lentini con Gorgia, Sgalambro e i sofisti, n.d.r.), per lo scrittore e filosofo che durante il lockdown e il grande rumoreggiare di piattaforme a presentare autori in streaming, ha battezzato la prima nazionale proprio nel nostro blog, cui questa pagina è la versione cartacea. Testamento per le figlie (non solo le sue), dalle quali nasce il nome del titolo, una si chiama Viola, l’altra Luna, Andrea Serra ripercorre la carriera di ometto al liceo annoiato da una disciplina che gli pareva non giovare a nulla. Un dì (di gioia, stupore e sputacchiate) la classe frequentata riceve la notizia che le lezioni della madre di tutte le scienze, non saranno più tenute dalla professoressa che della filosofia nulla faceva per farla amare ai suoi alunni, bensì da un supplente. Eccolo entrare per nulla imponente, col volto butterato un giovane che quando parlava emetteva lapilli di salivazione. Divertente in parte, con la sua serena e armoniosa dialettica, mista a quei missiletti che lanciava nolentemente, il giovane supplente, sbalordiva gli studenti con domande semplici per risalire a tesi e pensieri di filosofi col fine unico e indissolubile che la filosofia giovava a rendere libere le persone.

Da questo incipit la vita dell’autore/protagonista cambia. Dalla conoscenza della compagna, oggi moglie nonché madre della Luna di colore Viola, ai dialoghi con alcuni suoi amici, coi quali ad oggi mantiene strettissimi legami nonostante ve ne siano alcuni nati a.C., la vita di Andrea, ‘scivola a cunette’: chiede consiglio a Giordano (Bruno) su come si agisce in certi momenti, o si ubriaca con Søren (Kierkegaard) quelle volte che si incontrano e non tornano più a casa per l’ora di cena, perché si iniziano a bere nozioni di inquietudine per risalire allo svelamento che tutto può trovare una via, una strada ben oltre quella che si pensa di conoscere. Uno scrittore coltissimo che dell’ironia ha fatto la chiave del suo successo, facendo amare la filosofia per ciò che giova: essere liberi, senza calpestare l’altro.

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MONA – recensione di Maria Laura Labriola su Cronache di Caserta

MONA – recensione di Maria Laura Labriola su Cronache di Caserta

Dopo il successo di Il lago, tradotto in più di 20 lingue, Bianca Bellová, autrice ceca, torna con Mona, tradotto da Laura Angeloni ed edito da Miraggi Edizioni. Protagonisti sono Mona e Adam. Lei è un’infermiera di un ospedale travolto dalla guerra, lui un giovane soldato che ha una grave ferita alla gamba, procurata al fronte. S’innamorano, e le loro giornate sono scandite da racconti del passato. Il racconto è intervallato da molti flashback che ci svelano la vita difficile della protagonista che da piccola è stata rinchiusa per mesi in una botola per nascondersi da chi aveva portato via i suoi genitori. In quel luogo buio e angusto inventa una scrittura segreta che le darà forza giorno per giorno. La scrittura assume così un potere curativo, così come narrare, e riesce a rimarginare le ferite. Mona supera tutto componendo poesie, e con le parole si salva. Ma cosa attira Mona verso Adam? Forse l’accettazione l’uno dell’altro e l’uscita dall’invisibilità in cui si sentono costretti. Il raccontarsi ha forza così forte per Mona? Il potere salvifico delle parole viene trasmesso da lei al capezzale di Adam. Con l’ascolto vi è una sorta di transfert tra i due, come da psicoterapeuta a paziente, così il rapporto diventa sempre più intimo.

Ella rinascerà da una sorta di immobilismo e di apatia, scoprendosi più consapevole di che tipo di donna sia. Ricordando Hemingway in Addio alle armi, ritroviamo i sentimenti come vero tema dominante. L’ambiente non è solo uno sfondo, ma personaggio reale e vivente della storia. In 176 pagine vengono narrate tre epoche della vita e 5 o 6 personaggi con una precisione certosina che rimangono nella memoria. Tutto viene condensato e amalgamato senza digressioni filosofiche o giudizi personali, ma ricavato naturalmente e semplicemente dai dialoghi e dalla trama. La sua scrittura trascina il lettore con consapevolezza di essere guidato da una mano attenta alle emozioni. Non c’è bisogno di dettagli spazio-temporali, poiché tutto quello che viene descritto è extrasensoriale: lo vedi e lo senti. La Bellová pone attenzione con i suoi romanzi a problemi contemporanei che forse, presi dal nostro quotidiano, possiamo dimenticare.

MUSICA SOLIDA – recensione di Guido Giazzi su Buscadero

MUSICA SOLIDA – recensione di Guido Giazzi su Buscadero

Recensisco con immenso piacere questo volume scritto da Vito Vita, redattore delle riviste «Vinile» e «Prog Italia», ed autore di alcuni interessanti volumi sulla musica italiana. Musica solida, questo il titolo del volume, ha due importanti particolarità, è senza dubbio il primo (o quasi) libro pubblicato in Italia dedicato alla storia dell’industria fonografica italiana, inoltre attraverso la nascita del 78, 45 e 33 giri, Vita ci racconta una parte della storia del nostro Paese. Il volume partendo dall’invenzione del supporto fonografico e dall’evoluzione del giradischi, ci guida attraverso lo sviluppo, prima artigianale poi industriale, della realtà discografica italiana tra le due guerre inserendo nomi e marchi – FonitCetra, Pathè, Parlophon, Odeon, Durium etc. – molto noti a chi frequenta da anni il mondo del vinile. Si arriva poi al secondo dopoguerra con la nascita di alcune etichette che per decenni rimarranno regine incontrastate del mercato quali CGD (Compagnia Generale del Disco fondata da Teddy Reno), la Durium di Krikor Mintanjan, la SAAR dei fratelli Gurtier, la Ricordi, la famiglia Carisch, che oltre a Peppino Di Capri ha in catalogo per il mercato italiano i Beatles, per arrivare infine ai primi cantanti-discografici. Da sottolineare già da queste prime società, la forte presenza straniera che comprende immediatamente la possibilità del mercato e crede fortemente nella ripresa economica del Paese dopo lo sforzo bellico.

Negli anni Sessanta poi il 45 giri toccherà l’apice del successo e anche in questo caso nuove società imporranno autori e generi diversi quali la Vedette, la Bluebell, la Phonogram, il Clan di Celentano, la RCA romana (voluta fortemente dagli Americani e dal Vaticano), i Dischi del Sole, la Carosello e molte altre. Negli anni Settanta si arriva infine all’avvento del Long Playing ma questa per alcuni di noi dalle tempie imbiancate è storia recente – la Numero Uno di Mogol/Battisti, la Produttori Associati, la Ascolto di Caterina Caselli, la PDU di Mina, la Polygram etc. – fino ad arrivare agli anni Ottanta ovvero al declino del vinile. Qui termina la parabola del vinile: le multinazionali si accorpano per far fronte alla crisi, la disco music avanza e molte case celebri gettano la spugna.

All’orizzonte si intravede il CD che dovrebbe cambiare il mondo invece dopo pochi decenni sarà costretto alla sconfitta dalla musica liquida (che si contrappone alla Musica solida, non a caso il titolo del volume) per affermare non solo un differente stato della materia ma per celebrare i fasti di un passato remoto di solide certezze. L’autore ha impiegato alcuni anni per preparare questo volume e infatti Musica solida è ricchissimo di informazioni, aneddoti, storia musicale ma anche Storia con la esse maiuscola, e numerosi ritratti di personaggi che hanno abitato e reso affascinante questo mondo. Oggi si parla di rinascita del vinile ma i numeri in gioco sono ancora troppo esigui, è molto in parlare di LP ma la realtà è purtroppo ammara come testimonia la chiusura di molti negozi di dischi. Concludendo, considero questo volume uno dei più importanti libri musicali di quest’anno sia per l’unicità del soggetto sia per aver fatto luce su uomini e società che hanno regalato gioia ed emozioni a tutti noi, vinilmaniaci italiani. Un ottimo lavoro.

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MONA – recensione di Mariangela Lando su Tropismi

MONA – recensione di Mariangela Lando su Tropismi

Di donne e testimonianza. Mona di Bianca Bellová

Fin dalle prime righe di Mona, il romanzo verità di Bianca Bellová per Miraggi Edizioni, ci si addentra in una vicenda in cui gli eventi, così drammaticamente raccontati nella loro crudezza, rivelano un mondo dove le donne vengono considerate esseri non solo secondari, ma spregevoli.

Ma la protagonista non si arrende. 

Mona è un’infermiera che accoglie, cura e si dedica con grande passione alla cura dei feriti di guerra e deve essere abituata a gestire le situazioni tragiche cui versano i malati che giungono al campo. L’ambiente è estremamente maschilista. Parecchi uomini la disprezzano. Le persone arrivano in ospedale con ferite profonde, dolori lancinanti, amputazioni e necessitano di qualsiasi cosa. Anche Adam, un giovane gravemente ferito, ha bisogno di cure specifiche perché ha una brutta ferita alla gamba.

Sullo sfondo di una guerra segnata dalla dittatura, guerra che irrompe con violenza inaudita nella vita della comunità e di ogni singola persona, ecco dipanarsi il percorso di crescita di questa donna. Certi ricordi tornano vivi nella memoria e rivelano una verità dominata dalla brutalità umana.

Quello che maggiormente colpisce in questa storia è l’aspetto orripilante dell’altra faccia femminile: sono le stesse “anziane”, o altre donne a compiere gli atti più crudeli nei confronti del loro stesso sesso. Sono loro infatti a decidere le mutilazioni genitali delle bambine; sono sempre loro a rispedire in casa le mogli picchiate a sangue dai mariti.

E sono state sempre loro ad aver insultato e ad aver deprecato la stessa protagonista rinchiudendola quando “loro” ritenevano fosse stato doveroso.

 È questa la tragedia nella tragedia. L’orrore perpetuato da chi dovrebbe stare dalla tua parte per difenderti.

La nonna non le badava. Quattro donne la tenevano bloccata sopra una semplice branda sul pavimento, mentre la nonna guardava dalla porta. “Aspettiamo che tornino mamma e papà! Loro non lo permetterebbero! Loro non vorrebbero!” La nonna scosse la testa. Tocca a te stupida!

Mona è sposata con un uomo che per fortuna non la picchia. Si considera fortunata ad aver avuto pochi figli e ad aver in qualche modo allontanato l’interesse sessuale del marito per lei. Un appagamento che per queste donne è negato da sempre. La tradizione impone e vuole altro e non servono molti commenti a riguardo.

È un brav’uomo Kamil. Non la picchia, non la prende mai con la forza. La loda sempre per quello che cucina, anche quando non è un granché. Il marito di Mara la sua amica, l’ha trascinata per i capelli e le ha dato un calcio in pancia così forte da farle uscire gli escrementi. Invece il marito di Azum ha ingaggiato un drogato per strada perché le buttasse addosso dell’acido in cambio di una dose.

Uno spiraglio di luce arriva dalla scuola per infermiere in città, ancora in funzione nonostante i bombardamenti. In ospedale si devono prendere le decisioni più difficili e risolutive per la sopravvivenza dei giovani.  Il sovraffollamento  nelle corsie e nei vari reparti diventa, man mano che si prosegue nella lettura, molto estenuante. La donna dedica molte ore ad un lavoro che ama. Ed è proprio in corsia che si instaura un rapporto particolare tra lei ed Adam: l’uomo deve subire un’altra delicata operazione.

Se è possibile, voglio vivere.

È ciò che vogliamo tutti. Ciò che desideriamo da sempre. Abbiamo il diritto di essere felici. Dovremmo esserlo senza mettere al primo posto sempre gli altri. Ma per Mona non è così. La tradizione culturale, le brutalità umane, il contesto sociale, le guerre, le devastazioni, le mancanze materiali hanno sempre fatto in modo che a prevalere per lei sia qualcos’altro.

Per lei, in tutte le crepe della vita, l’unica luce emergente è quella per Adam; il solo vederlo le dà sollievo, il dato di fatto che lui sia ancora lì le rischiara la giornata al punto che riesce a lavorare incessantemente per ore e quando sedendosi con un bicchiere di granita alla frutta qualcuno le rivolge la parola disprezzandola con un

Perché non sei accompagnata donna immorale?

lei con grande fermezza e coraggio riesce a rispondere: Scusi, mi fa ombra.

Molte volte abbiamo letto e sentito racconti simili. Leggendo questa storia non solo ci si affeziona alla protagonista, ma la sensazione netta è che esista un’altra via.

Rimaniamo inorriditi di fronte a questi eventi così vicino a noi. Ed è anche per questo che serve la letteratura come testimonianza. Non possiamo solo  commentare. È arrivato il momento che le parole diventino azioni concrete. I romanzi come questi non rappresentano per chi legge solo evasione.

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KRAKATITE – recensione di Loredana Cilento su Mille Splendidi Libri e non solo

KRAKATITE – recensione di Loredana Cilento su Mille Splendidi Libri e non solo

“Strano potere hanno le fiamme, come l’acqua che scorre; le guardi e ti incanti, resti immobile, non pensi più, non sai e non ricordi più niente, ma rivedi dentro di te tutto ciò che hai vissuto, tutto ciò che è stato, al di fuori di ogni forma e tempo.”

Krakatite dello scrittore, drammaturgo e giornalista Karel Čapek pubblicato dapprima a puntate sulla rivista Lidové noviny e poi in un libro unico nel 1924, è un romanzo fantascientifico che rappresenta i temi utopistici dell’epoca, gli effetti devastanti di una polverina esplosiva creata dal chimico Prokop, capace di radere al suolo interi paesi.

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Krakatite è tradotto per la prima volta in Italia grazie alla casa editrice Miraggi, nell’esplosiva traduzione di Angela Alessandri, con una esaustiva postfazione di Alessandro Catalani.

Prokop, un geniale chimico, mette appunto una rivoluzionaria polvere esplosiva, ma se usata impropriamente può avere effetti catastrofici. La Krakatite esplode solo il Martedì e il Venerdì, ma non solo, la Krakatite ha un altro effetto sugli uomini e le donne: la polverina bianca ha la capacità di decifrare le vibrazioni degli atomi, scaturendo passioni incontrollabile.

Prokop, nella sua estenuante peregrinazioni vissuta come una vera e propria odissea, come ci spiega Catalani, è riconducibile ai miti dell’antica Grecia. Le donne di Prokop come le donne incontrate dall’eroe greco, si insinuano raffinatamente nella sua vita sconvolgendo il buon chimico.

In Krakatite sono presenti dunque innumerevoli riferimenti allegorici, tra deliri febbrili, sogni e realtà, Prokop affronterà una serie di peripezie per scappare da chi vuole impadronirsi della potente polvere, per un insano potere, per tenere in pugno uomini e nazioni.

Siamo difronte a un libro con la straordinaria capacità di attirate l’attenzione del lettore, non è solo un romanzo fantascientifico –  sarebbe banalmente considerato così da un occhio poco attento – ma è soprattutto una estenuante ricerca intima ed esistenziale del proprio io: Prokop cerca l’amore, un amore idealizzato, infatti la donna con il velo che inizialmente incontra, non ha volto: è solo un’illusione o esiste realmente? Anche la spregiudicata principessa del castello, per quanto innamorata non basterà a colmare la sua sete d’amore.

“il cuore di Prokop era già in imbarazzo, colto da dubbi infami e umilianti; io sono, Gesù io per lei sono un servo, per il quale…probabilmente…si infiamma nel…nel…momento del delirio, quando…quando è sopraffatta dalla solitudine o cosa.”

Kralik lo ha definito “la più raffinata poesia sessuale della letteratura ceca” ed è così, Karel Čapek ha rivoluzionato sia le caratteristiche del romanzo fantascientifico, sia quelle del romanzo sentimentale, un libro dunque geniale e moderno che rispecchia la natura umana e la sua sete di esistenza, ma anche di assenza, in una ricerca tormenta, convulsa e dolorosa dell’amore.

Karel Čapek (Malé Svatoňovice 1890 – Praga 1938), giornalista, drammaturgo e narratore, è stato uno dei maggiori scrittori cechi del Novecento ed è stato ripetutamente tradotto in italiano fin dagli anni Venti. Grande sperimentatore di nuove forme e generi letterari, ha affrontato nella sua opera temi di grande attualità: l’intelligenza artificiale, l’energia atomica, la diffusione di epidemie etc. Deve la sua consacrazione internazionale all’opera teatrale R.U.R. Rossum’s Universal Robots (1920), che ha introdotto nella cultura mondiale il termine “ robot ” ed è stata di recente riproposta in una nuova traduzione da Marsilio.

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PAGINA BIANCA – recensione di mariaannapatti su CasaLettori

PAGINA BIANCA – recensione di mariaannapatti su CasaLettori

Giochi di parole che in “Pagina bianca”, pubblicato da Miraggi Edizioni, formano disegni.

La scomposizione del verso crea movimento, non rispetta il rigo, si muove su linee immaginarie.

“È la rima che guasta e la festa si arresta.”

Una sperimentazione linguistica che propone immagini di “gente quanta gente.”

Incontro casuale mentre “la musica alta” individua l’incapacità di comunicare.

Le acque, i castelli, “il fruscio del bosco di pini. e tufo d’antichi desideri”.

La punteggiatura è esercizio senza regole, esperienza di libertà.

Profumi mediterrani che scavano assenze, streghe e sciamani mentre “il cielo è un prato di calendule bianche, da lontano.”

Gianluca Garrapa è un eclettico affabulatore e nella prosa intercalata alla lirica si libera di schemi e figure allegoriche.

La sua è conquista di un linguaggio nuovo che recupera il suono del fonema.

“Stagione in cui tutto resta imprigionato nell’ombra.

Percosse.

Alcolico intruglio.

Schiamazzate di ragazzi col casco infilato sotto il braccio.”

La provincia nelle notti sfrangiate di desideri, nelle stelle che sembrano vicine.

Il dialetto segna il confine del ricordo di una terra amata con quel dolore antico di chi parte.

“Una sedia due ombre l’amore.”

In una frase si concentra la fugacità del sentimento.

Il lettore si perde e si ritrova, segue percorsi interiori, percepisce la malinconia.

“Immaginarsi. più che immaginare.”

È questa la rivoluzione proposta dall’autore, liberarsi da ogni ingombro lessicale e culturale ed entrare nel nucleo profondo dell’essere.

Un libro che riserva molte sorprese, una sfida per tutti noi che non riusciamo a cogliere la differenza tra solitudine e moltitudine.

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MONA – recensione di Anja Widmann su Exlibris20

MONA – recensione di Anja Widmann su Exlibris20

Se raccontare è mettere ordine nella vita e trovarne un senso, i personaggi di Mona ricorrono alla narrazione per prendere possesso della propria storia, mettere in fila gli accadimenti che ne hanno delineato l’andamento e riappropriarsi così della propria identità.

Come nel precedente Il Lago, Bianca Bellová ambienta questo romanzo in un tempo e in un luogo non definiti: un paese senza nome straziato dalla guerra e vessato da una dittatura religiosa. 

Tutto, qui dove siamo, sembra fatto per cancellare l’identità personale: le grida di soldati senza nome, l’annullamento delle donne, che possono uscire solo accompagnate e con il capo coperto, la miseria di chi ha perso tutto, le sparizioni politiche e una natura inclemente che si riprende ciò che l’uomo cerca di strapparle.

Mona lavora come infermiera nel reparto militare dell’ospedale ed è qui che incontra Adam, poco più che un ragazzo, che oscilla tra la veglia e il delirio della febbre in cui continua a sprofondare in seguito all’amputazione della gamba. Gli analgesici scarseggiano, gli antibiotici sembrano non avere alcun effetto; Mona ha solo le parole per tentare di trattenere Adam nel mondo dei vivi e le usa come le ha già usate per tenere attaccata alla vita sé stessa in passato, ricorrendo al potere salvifico della narrazione. 

Adam si attacca alla voce di Mona come all’eco di una felicità scomparsa per sempre: la mamma francese di Mona così simile alla sua nonna che, avendo lavorato per una famiglia francese, aveva ricreato per la sua famiglia, con il duro lavoro, lo stesso clima elegante che il ragazzo ritrova nei ricordi di Mona, a tenere lontano lo squallore e la distruzione che avrebbero divorato la città. 

Bianca Bellovà non risparmia nulla di questa crudezza nelle sue pagine, ci mostra gli arti cauterizzati e le bende che trasudano sangue, le discariche dei rifiuti medici saccheggiate dai derelitti della città, l’ospedale che cede all’incuria, il silenzio rassegnato della gente comune.

C’è un cielo immenso che pesa sopra le teste dei personaggi di questa storia, che si muovono impotenti sotto di esso. “Fa caldo” si dicono,  ed è una constatazione che resta sospesa, non c’è azione possibile, solo l’enorme fatalità delle cose.

Con questa accettazione Mona ha vissuto gli stavolgimenti che sono stati la sua vita, passivamente, come qualcosa di troppo grande per poterla provare a contrastare; e solo adesso, raccontando la propria storia a Adam, può riappropiarsene, scrollandosi di dosso l’apatia che la immobilizza. Mona passa quindi dalla passività del subìto al racconto attivo, valutando gli esiti e rimettendo in discussione il suo presente. Lo fa come una rivolta, come una scelta che non le può essere rubata, non stavolta.

La trama di questo romanzo non è l’ordito che allontanandosi mostri un disegno più vasto e preciso, è sfilacciata e discontinua, invece; se un disegno è presente non è per i nostri occhi coglierlo per intero. L’autrice ci mostra i suoi personaggi per frammenti, lasciando al lettore il compito di intuirne le traiettorie. C’è un prima e un dopo, però; Mona è una storia di trasformazione. 

E c’è una levità particolare nel rappresentare, a pennellate lievi, i momenti di cambiamento profondo della protagonista; ed è qui che traspare tutta la maestria di Bianca Bellová.

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LA PERLINA SUL FONDO – recensione di Come Musica su Goodreads

LA PERLINA SUL FONDO – recensione di Come Musica su Goodreads

In questa raccolta di dodici racconti, Bohumil Hrabal fa parlare la gente comune che lavora, passeggia, prende il sole, beve birra; gente comune che, in una parola sola, vive e che proprio nell’atto stesso di vive, racconta.
Scrive la traduttrice Laura Angeloni: “è attraverso la parola che cercano di emergere dall’invisibilità in cui sono relegati e svelano la loro identità più profonda, composta di ciò che sono e che sono stati, ma anche di ciò che avrebbero voluto, o hanno sognato, di essere. Ed è in quel momento che il riflettore di Hrabal li illumina, mostrandoceli nell’attimo in cui « si sono strappati di colpo la camicia e mi hanno mostrato il cuore ».”

Hrabal quindi da scrittore diventa un trascrittore, taglia e monta dialoghi, per riprodurre “i discorsi della gente comune, assemblandoli in un susseguirsi di voci che con la tipica genuinità e vivacezza della lingua orale danno vita alla polifonia di ciascun racconto.”

Scrive lo stesso autore alla fine dei racconti: “La perlina sul fondo non racconta le avventure di un orecchino di perla precipitato sul fondo di un pozzo secco, né di un uomo soprannominato Perlina che ha toccato il fondo. La perlina sul fondo non contiene nemmeno testi che nel loro sovratesto e sottotesto nascondono allegorie o simboli. E tanto meno racconti che si basano su un punto di svolta. Piuttosto ne La perlina sul fondo ho spostato la perlina al di là del fondo del libro. Volevo piuttosto indurre il lettore a riflettere sul fascio di luce di questi racconti, in cui le persone entrano all’improvviso per poi uscirne altrettanto all’improvviso, come se, avendo percorso insieme un pezzo di strada sul tram, da frammenti di conversazione e pochi gesti fossimo riusciti a conoscerli in profondità. Lasciando poi al lettore, nel caso ne abbia voglia, il compito di depositare sul proprio fondo le proprie perline. Grazie a quest’esperienza così forte i valori delle biblioteche universitarie riprendono vita e ogni più incredibile avventura umana rappresenta di per sé un’allegoria, un simbolo, e nasconde il punto di svolta e la perlina sul fondo anche al di là del suo fondo.”

Non avevo mai letto Bohumil Hrabal prima di questo libro.
A ben predispormi nei confronti di questa lettura è stato il fatto che ami sia gli scrittori cechi sia leggere racconti.
Leggerò sicuramente altro di questo autore.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

https://www.goodreads.com/review/show/3312664959

MONA – recensione di Federica Duello su Letto, riletto, recensito!

MONA – recensione di Federica Duello su Letto, riletto, recensito!

Mona fa l’infermiera; da una ragazza dall’animo dolce segnato dagli eventi ormai quotidiani di quella porzione di mondo in cui è nata e cresciuta non ci si potrebbe aspettare altro. Pronta ad aiutare chiunque stia soffrendo e abbia sofferto peggio di lei, che da bambina, si affacciò alla vita consapevole si era affacciata alla vita vera da una botola in cui rimase per lunghi mesi, accudita dalla nonna perché non prendessero anche lei, dissidente figlia di dissidenti. Neanche durante la gravidanza pensò a mettersi da parte: giovane, con un essere in grembo e in testa ancora gli incubi dell’infanzia passata nel luogo chiuso e angusto, partì per la capitale alla ricerca di notizie di suo padre, eroe nazionale per i diritti di chiunque si consideri essere umano libero. Adesso Mona è una donna, libertina e forte; sposata con un uomo non convenzionale, Kamil e suo figlio, Ata, tipico adolescente ribelle per motivazioni che non saprà mai nessuno, in realtà. La vita di Mona scorre tra l’ospedale, la famiglia, e la speranza di una vita finalmente giusta, mentre assaggia i suoi adorati macarons per strada, senza uomo al suo fianco che la tuteli, per sentirsi ancora viva nonostante tutto: anche nonostante le occasioni in cui il caporeparto, per punirla a causa un’istruzione mal seguita o per la sua cattiva condotta (per cui molto spesso le due cose vanno a coincidere), attua dei comportamenti tipici di un maschilismo finto predominante che mira a ricordare alla donna chi sia davvero al comando, nell’area.

Non è data sapere l’esattezza geografica né temporale dello svolgimento della sua vita, ma di certo questa è basata in un luogo in cui le donne senza accompagnatore né velo sono chiamate a rispettare la legge morale, considerate poco di buono e guardate malamente: cosa si credono d’essere, uguali agli uomini? 

Non siamo in qualche paese a sud del mondo, una trentina d’anni fa orsono. Questa è storia contemporanea. A noi che la viviamo. Nell’ospedale in cui lavora Mona arriva un soldato, un ragazzo, Adam; uno dei tanti che arriveranno da lì a poco; soldato superstite di una guerra di cui si visse l’inizio, di cui ancora non si vede una fine né chi la vivrà. Un ragazzo come tanti altri, in balia delle poche risorse ospedaliere del luogo, su un letto all’interno di un’evanescente struttura sanitaria preda della natura umana e atmosferica di un periodo storico che non concede scampo

“Mona” si svolge tra continui salti tra passato e presente delle vite di Mona e Adam: i giochi da bambino e i primi amori fino alla guerra in mezzo al deserto per lui, l’imposizione di un peccato originariamente commesso ma mai realmente attualizzato, per lei: sono entrambi pedine, dure a cadere, di una storia in cui o ne sei il (o la) protagonista anche a costo di tutto ciò che potresti mai desiderare, o vai inesorabilmente verso il baratro, cadendo a pezzi come l’ospedale in cui Mona lavora, assorbito dalle radici di un albero che per incurie o per scarsità di mezzi, è stato trascurato per molto, troppo tempo.

In entrambi i racconti di vita però spicca una figura, dominante sul resto: la nonna. Eterno simbolo di tradizione, saggezza (non che corrispondano necessariamente, le due), del saper stare al mondo; definizione profonda delle radici che ognuno di noi ha e di cui, molto spesso, ci si dimentica. È questo, ciò che si evince da “Mona”: bisogna conoscere le proprie radici non per seguirle senza criterio, convinti a priori che sia la scelta migliore per ognuno di noi; bisogna, anzi, conoscerle per esaminarle dal profondo, vivisezionarle e saper distinguere il buono da ciò che invece non è giusto o non più giusto, sia per noi che per chi verrà dopo.

Una scrittura coinvolgente e accattivante al tempo stesso magnetizza l’attenzione del lettore al suo messaggio; la composizione testuale si insinua tra i tessuti emozionali come un ago giocando tra l’amore e la morte, sia corporea che spirituale, attraverso uno studiato intermezzo tra eventi passati e presenti provenienti gli uni dagli altri che, come molto spesso succede anche nella vita reale, si confondono fino a rappresentare un unico cerchio infinito che solo un’azione sovversiva sarà in grado di spezzare.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

http://www.lettorilettorecensito.flazio.com/blog-details/post/90061/bianca-bellov%C3%A1—mona—miraggi