La Luna viola di Andrea Serra, invece è stato pubblicato di recente da Miraggi edizioni, una casa editrice che nel panorama indipendente è ormai una veterana e che seppure con un neo vistosissimo nel suo catalogo, e cioè la pubblicazione di un mio inutile & dimenticabilissimo librettino, continua a regalarci opere molto interessanti e, perché no, spiazzanti, spesso fuori dall’ordinario. Prendiamo questo La luna viola di Andrea Serra, autore che già ci aveva fatto sbellicare dalle risate con il breve ma densissimo romanzo Frigorifero mon amour, una persona lo sfoglia e si aspetta un secondo tripudio post-fantozziano di battute, un altro trionfo pirotecnico di risate, risatacce, risatone e risatine. E invece no, quel diavolo d’un Andrea Serra che cosa ci combina? Ci regala una fiaba dolcissima, e anche spiritosa, sulla paternità, che è pure un apologo filosofico con cui l’autore fa i conti con la sua vita, con la sua passione per la filosofia (e i suoi studi), con la famiglia e le fatiche connesse, con il precariato e le sue fregature. Certamente dopo decenni di narrazioni ombelicali in tutte le salse, è chiaro che raccontare i fatti nostri è impresa rischiosissima, ma ormai è altrettanto chiaro che uno di quelli in grado di farci morir dal ridere, commuoverci e appassionarci col racconto della sua vita ordinaria è il bravissimo scrittore-papà-filosofo-umorista Andrea Serra.
La graphic novel di Marco D’Aponte e Andrea B.Nardi. Da un romanzo di Marino Magliani
Confesso, non senza un pizzico di vergogna, di non aver mai apprezzato abbastanza i fumetti, neppure da adolescente, la lettura, però, di Quattro giorni (MiraggInK, 15 €) mi ha fatto ricredere completamente, aprendomi nuovi e suggestivi scenari. Si tratta di un vero gioiello, lavorato con amore, perizia e certosina pazienza, prima da Andrea B. Nardi che ha sceneggiato un romanzo complesso, ricco di implicazioni e di sfumature, come Quattro giorni per non morire di Marino Magliani e poi illustrato con tecnica sopraffina dalla matita di Marco D’Aponte che ha dalla sua una lunga esperienza di graphic novel, basti pensare all’art bookNuvolari e al Pereira di Tabucchi, sceneggiato dallo stesso Magliani. Come dice testualmente Dario Voltolini nella sua preziosa prefazione il romanzo di Magliani, non diversamente dalla graphic novel, che, come vedremo, è un miracolo di equilibrio e di sobrietà, non può essere riassunto e infatti Voltolini si limita a sottolineare la qualità e lo spessore di un’amicizia – quella tra lui e l’autore – nata da queste pagine e la ligusticità di uno scrittore che ha la Liguria nelle vene, che ne beve a sorsi la terra per parafrasare il titolo di un bel libro di Heinrich Böll e che pur vivendo ormai lontano, dopo aver viaggiato molto soprattutto nell’America latina, non può fare a meno di ritornare periodicamente nella vallata dove è nato tra gli angusti carruggi, i muri a secco e gli uliveti così mirabilmente disegnati da D’Aponte che ne ha colto la fiera tristezza e desolazione in cui si riverbera la sofferta umanità dei suoi abitanti, tagliati nella roccia, mortificati dalla fatica e dagli stenti che caratterizzano la loro magra esistenza. Una terra ingrata ma affascinante, incorniciata dal mare e da una spalliera di monti, che seduce abitanti, turisti e lettori. Anche il protagonista di Quattro giorni, Gregorio Sanderi, allontanatosi in giovane età, in compagnia dell’amico d’infanzia, Leo Ronchino, per inseguire un sogno, per trovare tracce delle civiltà precolombiane nell’America centro meridionale, e per sottrarsi all’atmosfera grigia e asfittica dell’entroterra ligure, finisce per ritornare a casa, anche se a richiamarlo è la morte della madre, la cui notizia lo aveva raggiunto a Regina Coeli dove scontava una pena per traffico di stupefacenti. A testimoniare la profonda amicizia che legava Gregorio a Leo e la loro irrequietezza giovanile valga il seguente passo:
Giorni belli ne abbiamo vissuti tanti insieme. Giorni che passavano nelle vene senza veleno, giorni in cui da bambini, con Colibrì (soprannome di Gregorio) si poteva scappare, scalare le terrazze e perdersi negli uliveti, per non sentirsi, già allora, inseguiti dalla morte.
Quella morte che incombe come un drappo funereo non solo sui protagonisti ma sull’intera vallata, come iconicamente si nota da alcuni sfondi neri, dai colori cupi delle costruzioni, delle nuvole e delle espressioni dei personaggi, penso al presentimento di Anselmo che rivolgendosi a Gregorio dice testualmente: “Quando tornerai io sarò per altre cantine”. Ed è sempre Anselmo che quando Gregorio, a bordo di una sgangherata Vespa, si allontana definitivamente dal paese dice fra sé:
“Due anni e passa… Quando torni non mi ci trovi più, sono stanco… Ah!… uelli che non sono venuti al mondo non si sono persi niente” Quelli che non sono venuti al mondo non si sono persi niente.”
Di pessimismo, rassegnazione e fatalismo sono materiati i personaggi di Magliani, curvi sotto il peso di un’angoscia incombente. La morte poi è l’inseparabile compagna di Gregorio, la cui vita è funestata dalla prematura scomparsa della madre, figura accarezzata con trepida commozione, dalla guardia uccisa durante un’evasione, forse da lui anche se non si saprà mai con certezza, e da una forma rara di malaria contratta in Guatemala, che non si riesce a debellare per cui Gregorio sembra avere i giorni contati (da qui il titolo del romanzo, Quattro giorni per non morire) e infine dalla droga con il suo carico di veleno e di distruzione.
A fare però da contraltare a questo mondo listato a lutto si affacciano il sogno, l’amore e l’amicizia, i colori, allora, si fanno più chiari, il tratto meno marcato e una sorta di leggerezza aleggia nell’aria, come nel volo del colibrì che rimane sospeso vicino al fiore. La matita stessa di Marco D’Aponte che aveva scavato nelle fattezze e nelle espressioni dei personaggi per coglierne le emozioni e i sentimenti, il ritmo compassato e la scarnificata sobrietà sembra muoversi più agile e leggera, assecondando perfettamente la riduzione a sceneggiatura operata con notevole maestria e sensibilità da Andrea B. Nardi, che ha saputo cogliere l’essenza della narrazione senza sacrificare momenti drammaturgicamente salienti e alcuni riferimenti e reminiscenze letterarie come l’amore di Magliani per Francesco Biamonti di cui viene riportata una intera frase e il debito nei confronti di un altro modello non meno significativo, Cesare Pavese, da cui riprende il tema del viaggio (mi riferisco a ciò che Gregorio dice quando ricorda il suo congedo dalla madre in campagna: “Allora credevo che un uomo si realizzasse solo partendo” e sempre da Pavese sembra discendere la delusione che lo assale quando ritorna nella sua vallata e si accorge che il mondo della memoria non esiste più o è radicalmente cambiato ed è allora che Gregorio, nome tipicamente biamontiano, non diversamente da Anguilla, il protagonista de La luna e i falò, capisce che partire vuol dire andarsene, crescere, veder morire e morire. Rimane però – e non è consolazione da poco – la convinzione che “il vero sogno era stato di avere un sogno”, di aver coltivato un progetto o una semplice idea di evasione e di libertà. Il debito maggiore, comunque, a mio avviso, è nei confronti di Francesco Biamonti, ligure dell’entroterra come Magliani, la cui scrittura brilla di un arido lirismo come risulta dalla frase riportata integralmente. “Una luce radente spianava il mare e lo sollevava nelle insenature”, e sono convinto che questa sia la conclusione migliore per un romanzo a fumetti da non perdere.
Il poeta Romano Vola, ex sindaco di Bergolo (Paese di Pietra, di cui fondò la Renaissance), ci stupisce con la sua terza raccolta poetica – edita per Miraggi Edizioni – Collezione Autunno-Inverno, che pare essere non tanto il suo capolavoro senile quanto il suo Capolavoro. In essa è racchiuso l’intero apparato umano e intellettuale di Vola, che spazia della poesia bruta e “bukowskiana” a veri e propri tentativi esistenzial-filosofici, tutto ciò in un complesso para-diaristico ben esplicitato dalla data (e pure dall’ora di fine composizione) che sormonta ogni singola opera.
«Collezione Autunno-Inverno» è, per Romano, un titolo ironico che allude alla sua età avanzata; come a dire: sono arrivato nella brutta stagione, ma esprimo ancora la parte migliore di me con la poesia. Proprio per l’impianto diaristico, il libro non presenta una logicità tematica diversa dal corso dei giorni; e sono proprio questi a porre una “storia”: durante la lettura ci pare d’abitare, giorno per giorno, il pensiero del poeta; ciò rende possibile percepire il nostro pensiero con una maggiore affinità. Per spiegarmi meglio: essere di fronte al linguaggio mentale d’un estraneo (che si esprime cristallinamente, cadendo pure in anatemi lanciati contro le proprie turbe) ci ricorda come pensare, come interloquire col nostro pensiero, come trattarlo qualora ci spinga nell’oscurità. In questa quotidianità il poeta ci porta nelle reminiscenze che lo addolorano, come il ricordo della moglie scomparsa (nella poesia «Che ti avrei scritto?», che è forse la più commuovente) o il cancro vittoriosamente superato, cui accenna attraverso un immaginario dialogo con Bukowski (l’autore che più lo segnò, e che pare il suo maggior confidente).
Nel libro, Vola, enuncia soprattutto la propria perpetua voglia d’amare, riempiendone il libro di manifesti, per esempio la poesia «Piccole eternità» che (poundianamente) ci consegna questi versi: Resta così, invocava il mio cuore, / Non muoverti, che sia per sempre. Dammi il tuo respiro, amore mio: / piccole eternità sgranano / il loro infinito nella mia mano / e una volta tanto / non parlano del tempo che passa / ma di quello che si è fermato / alla felicità. La donna angelo, cui Vola si rivolge, è forse la giovinezza che sente ancora in sé quale compagna eterna. La sua mancanza, nei momenti peggiori, conduce il poeta nell’insoddisfazione, nella ricerca dell’Altrove: quel mondo possibile che chiama «Ipazia»,Luogo che non appare / ma ti comprende e ti comprime.
Vola non manca poi d’ironizzare sulla sua brama di fisicità (soprattutto amorosa) attraverso alcune poesie, ben esplicite, che paiono avere un’aura di dissacrazione del sesso stesso. Infatti, Romano vive l’amore come un novello Dante; mentre la passione (tradotta dalla sua mente) è mera crudezza bukowskiana. Ciò ci stranisce un po’, non immagineremmo mai Dante a letto con Beatrice… E in che contorsioni, poi!
La lingua di Vola è semplice e istintiva, la genuinità con cui parla d’infinito è la stessa con cui esprime l’amore viscerale.
Ecco, di visceralità si tratta: il nostro poeta, prendendo bassa ogni vita, proietta sé stesso in una realtà in cui manca la magia – giacché essa s’è spogliata della sua veste astratta per divenire perfetta concretezza, che Romano coglie dappertutto grazie a un occhio fanciullesco, come lui stesso confessa nella sinossi. In conclusione potremmo dire questo: la poesia di Romano Vola si fonde con l’oggetto che assume, Romano stesso si fonde nell’impegno poetico e umano. Pare quasi un aspetto kenotico: dove l’uomo si spoglia di sé stesso per diventare l’altro, il mondo da tradurre attraverso la propria sensibilità. La poesia che conclude la raccolta, «L’urlo e la preghiera», ci mostra bene tutto ciò: C’è una grande differenza / nel sentire / tra chi ama / a chi vuol bene. / La stessa che c’è / tra l’urlo e la preghiera. Se l’amore è fusione, Romano non ha “voluto bene”: Romano ha amato, in ogni visione ed espressione!
Vito Vita si occupa di musica, come ricercatore, come critico e anche come musicista, da tantissimi anni, praticamente è un’enciclopedia vivente, conosce ogni piccola curiosità, ogni aneddoto, ogni data, ogni musicista. Così dopo un lavoro di circa dieci anni, ha pubblicato questo interessante volume con sottotitolo “Storia dell’industria e del vinile in Italia” per Miraggi edizioni. Un libro mastodontico di quasi 400 pagine, curato con pazienza certosina e scritto in maniera scorrevole e avvincente. Una lunga carrellata di come si è evoluto quello straordinario compagno di viaggio, che chiamiamo disco o cd, nella storia del nostro paese, guardando al passato con interesse, senza cadere nella retorica del rimpianto. Il libro si divide in sette capitoli, partendo dal disco a 78 giri, la gommalacca, fino ad arrivare alla musica gassosa. Una storia affascinante che ci fa scoprire la nascita e la diffusione del fonografo e del grammofono in Italia, l’arrivo del Jazz, la nascita della radio e l’avvento di una marea di etichette discografiche nel loro periodo migliore, cioè quello tra gli anni sessanta e settanta. Un viaggio che va dalla Fonit cetra alle varie gestioni della Ricordi passando attraverso la Phonogram, la Rca, la Cgd, la Karim , la Emi, la Wea, La Carosello, la Meazzi, la Durium, la Polygram, senza tralasciare etichette particolari come i dischi del sole, l’ultima spiaggia, Pdu, Cramps, Bla bla, la Numero uno e personaggi significativi come la famiglia Carish, Ladislao e Piero Sugar, Vincenzo Micocci, Lucio Salvini, Alfredo Rossi, Krikor Mintanjan, Agostino Campi, Teddy Reno, Mogol e Battisti, Caterina Caselli. La storia prosegue poi con la crisi del vinile, l’avvento del cd, fino ad arrivare alla musica liquida dei nostri giorni. Nell’ultimo capitolo troviamo tre interventi interessanti di altrettanti discografici: Alfredo Gramitto Ricci, Stefano Patara e Roberto Razzini. Per concludere un libro necessario che, parafrasando la prefazione di Giangilberto Monti, secondo noi ci voleva.
I penultimi non sono gli ultimi. I penultimi possono ancora trovare ciò che resta della civiltà occidentale, delle sue idealità: la comunanza, la commozione, la morbidezza di ciò che è sensuale, corporeo, vitale. Possono ancora concepire la speranza del cambiamento. Il mondo che emerge non è più quello dell’alienazione operaia ma quello dell’apartheid prodotta dalle nuove oligarchie finanziarie. La società tende a dividersi in caste non più in classi come nel ‘900, le persone, sempre in movimento pendolare, restano immobili, l’Occidente sembra tutto retrodato a vecchio regime, a prima della rivoluzione borghese, è un mondo neofeudale, appunto. Di questo mondo Forlani dice con tenerezza e crudeltà. Con un contributo di Biagio Cepollaro.
Un testamento filosofico con linguaggio chiaro e divertente
«Un supplente di filosofia stravolse l’idea che avevo sulla materia». Così esordisce Andrea Serra dialogando sulla nuova tesi filosofica della Luna Viola, che dà il titolo al suo secondo romanzo. «Ci chiese perché dovevamo studiare filosofia. Diverse furono le risposte, ma tutte sbagliate. Ci disse che l’unico modo di evitare la carcerazione era la filosofia, perché è grazie al sapere che l’uomo è libero».
Nel romanzo, già in ristampa, e che è anche testamento per le figliole che si chiamano come la locuzione che forma il titolo, uscito per Miraggi il 16 giugno, Serra narra la filosofia con un linguaggio chiaro e divertente. La filosofia non ha da rimanere rinchiusa e sepolta nei libri scolastici e possibilmente anche nelle teste di quattro idioti, che acquistata una laurea trascorrono il tempo a idolatrare il loro docente di turno. La filosofia: «è viva e pulsante nei dubbi e nelle vertigini della nostra quotidianità» dice Andrea Serra, autore dell’estate 2020 et prosegui: incrocia e dialoga con sette suoi amici cari, quali Socrate, Nietzsche, Giordano Bruno et alii. Persone fidate, che già dal primo pulpito di una relazione, lo sosterranno fino a mettere su famiglia con la consorte, che dichiara non capirne nulla di filosofia. Lì il mistero: siamo certi di non sapere nulla quando il sostantivo della madre di tutte le scienze ci viene posto? Sappiamo, solo che non lo riconosciamo e la causa è di quegl’idioti di cui prima che solo anagraficamente hanno 35 anni, snobisti tutelati da congreghe di cognomi di abusanti: impostori che dialogano su Dio, puntando il dito contro chi non gli va a genio in quell’istante. A salvarci? Lei, la tesi della filosofia della Luna Viola.
È un libro molto particolare e molto interessante è la sua struttura. I piani di lettura sono più di uno e tanti sono gli interrogativi di tipo filosofico che percorrono tutto il romanzo che verte fondamentalmente sulla verità, storica e individuale. Protagonisti sono Andrea Ferro uomo di mezza età che si trova ad Udine al capezzale della nonna, con cui è cresciuto,l’eversione nera in uno dei suoi più inquietanti episodi, la strage di Peteano (31 maggio 1972) e in parte lo scrittore stesso Luca Quarin (Nella foto in basso a destra).
Cercando di mettere ordine nella casa della nonna, Ferro si trova a dover mettere ordine anche nella sua vita e soprattutto in quella della sua famiglia. I suoi genitori muoiono in un incidente e lui rimane orfano a tre anni e cresce con i nonni paterni. E quello che piano piano viene alla luce, col quale non aveva mai voluto/saputo confrontarsi è il suo tormento. Altro tormento , come un grillo parlante, è Quarin che si rivolge a lui per la pubblicazione di un libro ,gli scrive mail e propone punti di vista, veri e propri quisillibus filisofici sulla narrazione, sulla scrittura e quant’altro relativo al libro che vorrebbe pubblicare. Si dipana nel romanzo una pagina di storia che si è protratta per anni prima di far venire alla luce una fitta trama di collegamenti e depistaggi legati all’attentato del 1972 che forse ha trovato una verità dopo più di dieci anni. A vario titolo erano coinvolti per ragioni opposte i nonni e i genitori di Ferro, ma il motivo del coinvolgimento è la scoperta con cui non è facile fare i conti. Scoprire una realtà difficile da digerire, pensare a come sarebbe stata la sua vita se, come è stato possibile che, chi erano davvero i genitori, i nonni, quanto erano implicati in una brutta storia?
Un tormento. E sebbene sembra chiaro che la verità relativa ad un evento storico è giusto che venga sempre a galla per giustizia dovuta, quella relativa alla propria storia familiare a posteriori è sempre dovuta? Parrebbe di sì, i conti dovrebbero sempre tornare anche se il costo è alto. Ma forse no, giova sempre scovare fino in fondo? Lo svelamento può cambiare il corso o le scelte di una vita adulta? Ferro vorrebbe dimenticare, lo scrittore può continuare a ricordare il passato. È un romanzo che fa riflettere molto. Nel romanzo Quarin riporta anche documenti ufficiali e contributi giornalistici che si intrecciano bene con la parte romanzata rendendo la lettura piacevole.
«Ho inchiodato rotaie, fatto il capostazione, offerto polizze assicurative, ho lavorato come commesso viaggiatore, operaio di acciaieria, imballatore di carta da macero e macchinista teatrale. Quello che volevo era sporcarmi con l’ambiente, con la gente comune, e trovarmi a vivere, ogni tanto, l’esperienza sconvolgente di scorgere la perla sul fondo dell’essere umano».
Così scrive Bohumil Hrabal (1914-1997), il più grande scrittore ceco del secondo Novecento insieme a Kundera, nella breve introduzione al suo esordio nella narrativa, «La perlina sul fondo» (1963), ora tradotto da Laura Angeloni in prima edizione italiana e ottimamente curato da Alessandro Catalano per una piccola e coraggiosa casa editrice torinese dal nome promettente, Miraggi, con una collana dedicata ad autori cechi, dove spicca un titolo ormai introvabile, «Il brucia cadaveri» di Ladislav Fuks, che uscì nei Coralli di Einaudi negli anni ’70 tradotto dalla moglie di Angelo Maria Ripellino, ora riproposto in una nuova ed efficace versione da Alessandro De Vito.
Hrabal pubblicò questo libro abbastanza tardi, a 49 anni, approfittando del venir meno del rigido realismo socialista degli anni Cinquanta, quando i suoi racconti circolavano soltanto in samizdat, e del disgelo dei primi anni Sessanta, prima che la Primavera di Praga venisse stritolata dai carri armati sovietici.
Si tratta di dodici racconti che segnano una novità nel grigiore culturale dell’epoca: Hrabal riproduce i discorsi della gente comune, con il gusto per il racconto orale, per le situazioni surreali create dalla lingua parlata degli avventori delle birrerie, degli operai di un’acciaieria, e un montaggio quasi cinematografico.
Qui ci sono già i personaggi dei capolavori successivi, «Vuol vedere Praga d’oro?» (1964), «Treni strettamente sorvegliati» (1965), «Ho servito il re d’Inghilterra» (1971) e «Una solitudine troppo rumorosa» (1976), quelli che Hrabal definisce «stramparloni», chiacchieroni che raccontano storie di donne e di calcio, di motori e di caccia. Corredano il volume una bibliografia e una preziosa filmografia con l’elenco di tutti i film tratti dalle opere di Hrabal.
Les pénultièmes ne sont pas les derniers (B. Cepollaro, Introduction)
Ce livre, alternant vers et prose, n’est cependant ni un prosimètre ni un recueil incluant quelques petits poèmes en prose. Plutôt une sorte de carnet de voyage – un voyage circulaire et répétitif, celui des “avant-derniers”, justement, lève-tôt, SDF, travailleurs divers, obligés de prendre les premiers métros à l’aube, lorsque tout juste « Paris s’éveille », que « Les banlieusards sont dans les gares / À la Villette on tranche le lard » etc. (J. Dutronc – A. Ségalen – J. Lanzmann). Un livre abondamment corrélé aussi de photos prises par l’auteur, au hasard de ses pérégrinations quotidiennes de turbo-prof d’italien en région (mais habitant Paris, près des « deux boulevards philosophiques : le Boulevard Voltaire et le Boulevard Diderot, comme pour fonder la nation », p. 72). Abonné donc à la ligne 6 du métro parisien, direction Gare Montparnasse et la suite.
Parce que, tant qu’il y aura des pénultièmes, ça voudra dire qu’il y a encore un peu de marge pour l’humanité, que nous ne sommes pas encore arrivés à la fin du voyage, au bout de la nuit.
(p. 94)
J’ai sur ma table, en même temps que ce dernier livre de Francesco Forlani, la plaquette d’un autre exilé à Paris, Filippo Bruschi (Maniere, Massa, Transeuropa), le recueil d’une Brésilienne d’Italie, Vera Lúcia de Oliveira (Ero in un caldo paese, Rimini, Fara), le dernier livre de Paolo Febbraro (La danza della pioggia, Rome, elliot) et une micro-anthologie de L’infinito léopardien – poème dont c’est le bicentenaire – en plusieurs langues (Venise, Damocle), tous sortis en 2019[1]. Et ne puis m’empêcher de penser, avec une pointe d’envie, que l’Italie en crise a quand même la chance de voir publiés tous ces ouvrages, dont aucun n’espère devenir un best-seller, alors que nous ne parvenons pas à convaincre les grands éditeurs du prospère Hexagone à prendre le risque – minime – de lancer ici un illustre inconnu tel que Pascoli (1855-1912) ou de procurer une nouvelle édition (en vers) des Chants de Leopardi, ou encore de faire connaître ce chef-d’œuvre, dialogue poétique en forme de Mystère, qu’est la Représentation de la croix d’un autre quasi-inconnu en France, Giovanni Raboni. Il est vrai que d’excellents sites suppléent à leur manière cette pusillanimité criante. Fermez la parenthèse.
Les Penultimi / Pénultièmes, donc, s’ils utilisent çà et là le langage mixte-transnational où excelle le poète saltimbanque Forlani, remarquablement illustré dans son précédent Parigi, senza passare dal via (Laterza 2013)[2], pointent plus souvent sur une variété stylistique mêlant les mots des tribus (haute couture, courage, trafic ralenti, c’est l’heure c’est l’heure !…) aux allusions textuelles, comme à la fin du bref extrait prosaïque cité plus haut (ou encore, p. 65, les couleurs des voyelles), et bien sûr à la magie des simples noms : Montparnasse (et le Parnasse), Ville Lumière, Louise Michel, São Tomé, la station Verlaine, la Normandie… en langue originale dans le texte évidemment. Comme :
Là un sac en plastique à la dérive voletait d’un trottoir à l’autre de l’avenue Daumesnil, soulevé par le vent, en suspens dans la lumière rose, on aurait dit une méduse, toute seule, parmi les gens égarés
[mais l’italien “perduta gente” est là un syntagme dantesque – Enfer iii – et relève du pluristylisme évoqué plus haut] (p. 80).
Remarque, en passant : point de vélos, nul bicycle (chers aux antépénultièmes peut-être) dans ce chant qui se refuse à être des “derniers”, ou des Letzten de rilkienne mémoire, voire comme aurait dit Derrida des « survivants » que nous sommes peut-être déjà ici et maintenant. Le regard est concentré, attentif à ce qui fait plus sérieusement – et durablement – la condition des « vrais gens » dont le je poétique ne se distingue jamais. Sans « distinction », il applique une pietas discrète, pudique, participante aux mots, aux « gestes » et « sourires » de ses semblables (p. 11), et c’est cette attention même qui le rend de bout en bout présent, encore qu’il n’apparaisse, sous sa forme grammaticale, que plus loin et toujours avec parcimonie. Les gestes eux aussi, parfois, « paraissent autres », dans un impersonnel absolu qui va mêler textes (a rose is still a rose), anonymat d’un quelconque on « pénultième », tu projeté ailleurs où n’est « personne d’autre que lui », sauf la nature indifférente et je quand même : « excepté moi qui lui passe à côté » (p. 24). On pourrait appeler cela mélange des genres, ou encore dissimulation d’un lyrisme bien présent, sous une narration objective qui donne son unité à l’ouvrage[3]. Ou enfin alogique trouée, déraisonnable beauté jusqu’à cet haïku de la couverture de survie (en or pur), voyage dans une bien plus longue histoire, jusqu’aux victimes anonymes du drame de Pompéi – la région d’origine de Francesco Forlani – par exemple :
Alors, tandis que je descends les escaliers dans la lumière jaunâtre des néons je me demande à quel moment il est arrivé que le volcan laisse les corps calcinés ensevelissant toute grâce sous la cendre
(p. 46)
On l’aura compris, les cordes dont joue l’écrivain sont multiples et parfois discordantes, sinon variées, en tout cas pluristylistiques au sein d’un ensemble cohérent et suivi pourvu que le lecteur en accepte le jeu, au fond dialogique et empreint de douceur. Comme l’est, pour finir, le feuillet manuscrit donné à voir p. 107, dont on comprend en chaussant ses lunettes qu’il correspond au premier texte (numéroté 5, p. 11, en incipit) ; alors que le texte n° 1, que l’on a lu p. 91, clôturait primitivement l’ouvrage, ainsi qu’une rapide enquête parmi les archives numériques de cette aventure (sous forme de pdf) peut le confirmer aux plus curieux des lecteurs. Quoi qu’il en soit, une élégante façon de replier la fin sur son début, pour ne pas finir peut-être, en une vaste figure d’épanadiplose dont bien d’autres écrivains ont joué (T. S. Eliot : « La fin, c’est l’endroit dont nous partons »), et qui pourrait être une forme de consolation, si l’on veut bien faire l’effort de lecture :
Et ainsi, en approchant l’oreille de ces choses abandonnées on peut presque entendre leurs voix et la mer.
[3] Je reprends ici les notes de mon intervention à la Librairie italienne de Paris Tour de Babel, le 30 janvier 2020, en compagnie de Christian Abel, Fortunato Tramuta, Andrea Inglese et l’auteur (accompagné de deux musiciens).
Pontescuro è un ponte di pietra. Pontescuro è un paese della bassa padana. C’era una volta un fiume, due sponde unite da questo ponte che, all’epoca della sua costruzione, univa il nulla con il nulla. Poi, da una parte un castello del padrone e, dall’altra, il paese “della malora”.
Pontescuro, il bellissimo libro di Luca Ragagnin, pubblicato dalla sempre attenta Miraggi Edizioni, è un po’ storia, un po’ favola nera, un po’ leggenda. La nebbia avvolge ogni cosa in quel luogo. Sono gli anni ’20 del secolo scorso, anni di marce e violenze fasciste. Anni di paura e di rancori. In quel luogo dimenticato da Dio, ma non dal male, la giovane figlia del padrone, la sfacciata, libera, troppo libera, Dafne, viene trovata morta con un nastro rosso attorno al collo.
Attorno a questo fatto una storia corale, raccontata dai vari protagonisti ma anche dal fiume, dal ponte stesso, dalle blatte e dalle ghiande. Uomini e natura parlano una lingua che incanta ma che colpisce duro. E raccontano una storia, un ambiente in cui la cattiveria, il rancore, l’invidia, l’ipocrisia, avvolgono tutto, proprio come quella maledetta e insana nebbia che si infila nei polmoni, che taglia il respiro, che lascia il fiato corto della bugia, del non detto, del pettegolezzo usato per scaricare le responsabilità sempre su altri e altro.
Un mondo di male in cui ciò che non si conforma, ciò che provoca, ciò che non si sottrae allo scandalo diventa, inevitabilmente, colpevole. E poco importa che, in realtà, sia solo la proiezione dell’infamia altrui. Questa sarà dunque la sorte della giovane Dafne e di Ciaccio, bambino abbandonato sulla riva del fiume e poi divenuto lo scemo del villaggio. Un marchio che, se da una parte lo difenderà, dall’altra sarà la sua condanna, il pregiudizio che si porta addosso.
Luca Ragagnin (Foto da LuciaLibri.it)
In questo odore stantio di nebbia, umido, sussurri e sospetti, Dafne e Ciaccio saranno proprio i più puri, coloro che non rinunciano al godimento e che, proprio per questo, si porteranno addosso una lettera scarlatta. Il marchio di chi ha tolto la pace a un luogo e a una comunità che, invece, più che di pace viveva di omertà, di desideri repressi, di gelosie striscianti e di aspirazioni sepolte.
Sepolte in quella terra che, nel sottosuolo è più pulita e autentica di quanto sia in superfice, come raccontano le blatte che, nel sottosuolo e negli anfratti si devono nascondere per non morire.
Pontescuro è una metafora, una denuncia leggendaria e fantastica di un’epoca e di una mentalità, di una violenza e di un regime che si preparava a distruggere, nascondere e colpevolizzare tutto ciò che poteva essere vita, gioia, ribellione, provocazione e sessualità. E il ponte è l’emblema di qualcosa che non si può e non si deve attraversare, pena scoprire che non vi è nulla di cui avere paura se non la scoperta di avere accettato un interdetto inutile, strumentale.
Pontescuro è il racconto di un mondo malato, di un mondo (e un’epoca) in cui non ci si preoccupa neanche di imbiancare i sepolcri marci di dentro perché lo stesso marciume è talmente evidente da non essere nemmeno più percepito come tale. E, per questo motivo, trova un colpevole di comodo per continuare a marcire in pace, tra menzogne e ipocrisia.
È bello, è bello davvero questo libro. Perché fa ciò che dovrebbe fare la letteratura: interrogare e non lasciare, in fondo, che vi sia certezza di speranza e redenzione.
«Nessuno vuole morire» sussurra Mona. «Si sforzano tutti di vivere, di sopravvivere. Si aggrappano tutti alla vita, anche quelli a cui resta solo mezzo cervello e senza una gamba. Nessuno vuole morire».
L’affermata scrittrice ceca Bianca Bellovà ritorna, dopo il grande successo di critica de Il lago, con un libro davvero eccezionale, Mona edito da Miraggi e tradotto sapientemente da Laura Angeloni.
Della trama sappiamo solo che è in corso una guerra, che spazza via interi palazzi, lasciando nuvole di polvere, i soldati feriti dal fronte vengono portati all’ospedale dove esercita Mona, sono talmente tanti che sono ammassati sui muri.
Mona la nostra protagonista ha avuto una vita difficile, da piccola è stata richiusa per mesi in una botola per nascondersi da chi aveva portato via i suoi genitori. All’ospedale viene ricoverato un giovane soldato a cui hanno amputato una gamba, Mona se ne prende cura, e le loro giornate sono scandite dai loro racconti del passato.
Mona sa quanto sia facile soccombere alle visioni, quanto impercettibile sia il passaggio tra sanità mentale e assoluta pazzia, ha comprensione per lui, gli preme una mano sulla fronte e pronuncia parole rassicuranti, non potendogli somministrare sedativi.
Mona ha superato suo malgrado le avversità della vita scrivendo poesie, non a caso conosciamo il potete salvifico della scrittura, e attraverso un linguaggio cifrato, scrive i suoi pensieri.
Mona affronta il bigottismo religioso, non ama coprirsi il capo e anzi sfida il veto imposto andando in giro senza il foulard, Mona è una donna audace che non teme i pettegolezzi.
“Esistono molti tipi di umiliazione, Mona ne conosce a migliaia, per sentito dire e per esperienza diretta. Gli uomini che incrociandola per strada fanno schioccare la lingua. L’impiegato della banca che ticchetta impaziente con la matita sullo sportello, senza prendersi la briga di aprir bocca, quando Mona si attarda troppo a cercare un documento. Gli inopportuni palpeggiamenti sull’autobus. Gli infiniti parlottii, essere chiamata puttana quando esce con la testa scoperta”
La narrazione è strutturata tra passato e presente, con gli eventi che hanno caratterizzato la vita di Mona e il soldato Adam, fino ai momenti correnti.
In un lento divenire, una Mona bambina fino a una Mona moglie e madre; per entrambi sono esplorazioni intime, pensieri ed emozioni che scorrono come un fiume in piena, entrambi hanno bisogno l’uno dell’altro.
Mona è un libro notevole dove i sentimenti sono i veri protagonisti, una storia che incolla il lettore alle sue pagine, e dove la fermezza di carattere porterà Mona a liberarsi finalmente da un passato ormai perduto come la sua infanzia, come le case e i balconi distrutti dalla guerra.
“Contro gli spessi muri della stanza i pensieri sbattono e rimbalzano rimbombano in una valle sorda e il sonno è l’unico incantesimo che la liberi dal desiderio”
Bianca Bellová (1970) è una delle autrici più affermate della Repubblica Ceca.
Ha esordito nel 2009 con Sentimentální román (“ Romanzo sentimentale ”), ripubblicato in nuova edizione nel 2019, a cui ha fatto seguito nel 2011 Mrtvý muž (“ L’uomo morto ”), tradotto in tedesco, e due anni dopo Celý den se nic nestane (“ Non succede niente tutto il giorno ”).
Nel 2016 arriva il grande successo di critica e di pubblico de Il lago, tradotto in più di 20 lingue (in Italia in questa stessa collana) e vincitore nel 2017 di due importanti premi: il Premio Unione Europea per la Letteratura e il premio nazionale Magnesia Litera.
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