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PONTESCURO – recensione di Geraldine Meyer su L’Ottavo

PONTESCURO – recensione di Geraldine Meyer su L’Ottavo

Pontescuro è un ponte di pietra. Pontescuro è un paese della bassa padana. C’era una volta un fiume, due sponde unite da questo ponte che, all’epoca della sua costruzione, univa il nulla con il nulla. Poi, da una parte un castello del padrone e, dall’altra, il paese “della malora”.

Pontescuro, il bellissimo libro di Luca Ragagnin, pubblicato dalla sempre attenta Miraggi Edizioni, è un po’ storia, un po’ favola nera, un po’ leggenda. La nebbia avvolge ogni cosa in quel luogo. Sono gli anni ’20 del secolo scorso, anni di marce e violenze fasciste. Anni di paura e di rancori. In quel luogo dimenticato da Dio, ma non dal male, la giovane figlia del padrone, la sfacciata, libera, troppo libera, Dafne, viene trovata morta con un nastro rosso attorno al collo.

Attorno a questo fatto una storia corale, raccontata dai vari protagonisti ma anche dal fiume, dal ponte stesso, dalle blatte e dalle ghiande. Uomini e natura parlano una lingua che incanta ma che colpisce duro. E raccontano una storia, un ambiente in cui la cattiveria, il rancore, l’invidia, l’ipocrisia, avvolgono tutto, proprio come quella maledetta e insana nebbia che si infila nei polmoni, che taglia il respiro, che lascia il fiato corto della bugia, del non detto, del pettegolezzo usato per scaricare le responsabilità sempre su altri e altro.

Un mondo di male in cui ciò che non si conforma, ciò che provoca, ciò che non si sottrae allo scandalo diventa, inevitabilmente, colpevole. E poco importa che, in realtà, sia solo la proiezione dell’infamia altrui. Questa sarà dunque la sorte della giovane Dafne e di Ciaccio, bambino abbandonato sulla riva del fiume e poi divenuto lo scemo del villaggio. Un marchio che, se da una parte lo difenderà, dall’altra sarà la sua condanna, il pregiudizio che si porta addosso.

Luca Ragagnin (Foto da LuciaLibri.it)

In questo odore stantio di nebbia, umido, sussurri e sospetti, Dafne e Ciaccio saranno proprio i più puri, coloro che non rinunciano al godimento e che, proprio per questo, si porteranno addosso una lettera scarlatta. Il marchio di chi ha tolto la pace a un luogo e a una comunità che, invece, più che di pace viveva di omertà, di desideri repressi, di gelosie striscianti e di aspirazioni sepolte.

Sepolte in quella terra che, nel sottosuolo è più pulita e autentica di quanto sia in superfice, come raccontano le blatte che, nel sottosuolo e negli anfratti si devono nascondere per non morire.

Pontescuro è una metafora, una denuncia leggendaria e fantastica di un’epoca e di una mentalità, di una violenza e di un regime che si preparava a distruggere, nascondere e colpevolizzare tutto ciò che poteva essere vita, gioia, ribellione, provocazione e sessualità. E il ponte è l’emblema di qualcosa che non si può e non si deve attraversare, pena scoprire che non vi è nulla di cui avere paura se non la scoperta di avere accettato un interdetto inutile, strumentale.

Pontescuro è il racconto di un mondo malato, di un mondo (e un’epoca) in cui non ci si preoccupa neanche di imbiancare i sepolcri marci di dentro perché lo stesso marciume è talmente evidente da non essere nemmeno più percepito come tale. E, per questo motivo, trova un colpevole di comodo per continuare a marcire in pace, tra menzogne e ipocrisia.

È bello, è bello davvero questo libro. Perché fa ciò che dovrebbe fare la letteratura: interrogare e non lasciare, in fondo, che vi sia certezza di speranza e redenzione.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

https://www.lottavo.it/2020/07/pontescuro-la-spoon-river-della-bassa-padana/?fbclid=IwAR2ZzJQgsyP7-AjjFjF89OooRXcZLlQTwNfdhmVyRVl9ksCFzLsajqfmtfU
MONA – recensione di Loredana Cilento su Mille Splendidi Libri e non solo

MONA – recensione di Loredana Cilento su Mille Splendidi Libri e non solo

«Nessuno vuole morire» sussurra Mona. «Si sforzano tutti di vivere, di sopravvivere. Si aggrappano tutti alla vita, anche quelli a cui resta solo mezzo cervello e senza una gamba. Nessuno vuole morire».

L’affermata scrittrice ceca Bianca Bellovà ritorna, dopo il grande successo di critica de Il lago, con un libro davvero eccezionale, Mona edito da Miraggi e tradotto sapientemente da Laura Angeloni.

MONA
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Della trama sappiamo solo che è in corso una guerra, che spazza via interi palazzi, lasciando nuvole di polvere, i soldati feriti dal fronte vengono portati all’ospedale dove esercita Mona, sono talmente tanti che sono ammassati sui muri.

Mona la nostra protagonista ha avuto una vita difficile, da piccola è stata richiusa per mesi in una botola per nascondersi da chi aveva portato via i suoi genitori. All’ospedale viene ricoverato un giovane soldato a cui hanno amputato una gamba, Mona se ne prende cura, e le loro giornate sono scandite dai loro racconti del passato.

Mona sa quanto sia facile soccombere alle visioni, quanto impercettibile sia il passaggio tra sanità mentale e assoluta pazzia, ha comprensione per lui, gli preme una mano sulla fronte e pronuncia parole rassicuranti, non potendogli somministrare sedativi.

Mona ha superato suo malgrado le avversità della vita scrivendo poesie, non a caso conosciamo il potete salvifico della scrittura, e attraverso un linguaggio cifrato, scrive i suoi pensieri.

Mona affronta il bigottismo religioso, non ama coprirsi il capo e anzi sfida il veto imposto andando in giro senza il foulard, Mona è una donna audace che non teme i pettegolezzi.

“Esistono molti tipi di umiliazione, Mona ne conosce a migliaia, per sentito dire e per esperienza diretta. Gli uomini che incrociandola per strada fanno schioccare la lingua. L’impiegato della banca che ticchetta impaziente con la matita sullo sportello, senza prendersi la briga di aprir bocca, quando Mona si attarda troppo a cercare un documento. Gli inopportuni palpeggiamenti sull’autobus. Gli infiniti parlottii, essere chiamata puttana quando esce con la testa scoperta”

La narrazione è strutturata tra passato e presente, con gli eventi che hanno caratterizzato la vita di Mona e il soldato Adam, fino ai momenti correnti.

In un lento divenire, una Mona bambina fino a una Mona moglie e madre; per entrambi sono esplorazioni intime, pensieri ed emozioni che scorrono come un fiume in piena, entrambi hanno bisogno l’uno dell’altro.

Mona è un libro notevole dove i sentimenti sono i veri protagonisti, una storia che incolla il lettore alle sue pagine, e dove la fermezza di carattere porterà Mona a liberarsi finalmente da un passato ormai perduto come la sua infanzia, come le case e i balconi distrutti dalla guerra.

“Contro gli spessi muri della stanza i pensieri sbattono e rimbalzano rimbombano in una valle sorda e il sonno è l’unico incantesimo che la liberi dal desiderio

Bianca Bellová (1970) è una delle autrici più affermate della Repubblica Ceca.

Ha esordito nel 2009 con Sentimentální román (“ Romanzo sentimentale ”), ripubblicato in nuova edizione nel 2019, a cui ha fatto seguito nel 2011 Mrtvý muž (“ L’uomo morto ”), tradotto in tedesco, e due anni dopo Celý den se nic nestane (“ Non succede niente tutto il giorno ”).

Nel 2016 arriva il grande successo di critica e di pubblico de Il lago, tradotto in più di 20 lingue (in Italia in questa stessa collana) e vincitore nel 2017 di due importanti premi: il Premio Unione Europea per la Letteratura e il premio nazionale Magnesia Litera.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

PENULTIMI – recensione di Martino Ciano su Gli amanti dei libri

PENULTIMI – recensione di Martino Ciano su Gli amanti dei libri

Come un viaggio che ricorda Canto alla durata di Peter Handke, così Francesco Forlani ci porta tra i penultimi, ossia, coloro che ancora conservano qualcosa del nostro vecchio Occidente.

Le sue parole vanno al di là della tradizione, della nostalgia; non c’è aria di polemica nei suoi versi, ma riecheggia la domanda delle domande: qual è il senso di ogni cosa? Ma come sappiamo la risposta da dare sarebbe tanto ovvia quanto impossibile.

Non è un caso che questi versi siano stati composti in Francia, nella patria di Camus, di Sartre, di Céline, che per primi hanno dato vita alla critica della modernità che non è solo dissenso o negazione ma, soprattutto, riflessione e interpretazione del capitalismo, della scienza, del progresso.

Pertanto, i penultimi di Forlani non sono altro che uomini e donne che lavorano per sopravvivere, che vivono per rincorrere qualcosa, che non si interrogano perché forse già hanno la risposta, che si inseguono a vicenda lungo le strade del mondo perché così fan tutti, eppure, davanti a un momento di silenzio, di noia, di smarrimento, di discernimento, loro si riappropriano di una coscienza antica e si affidano a quella poetica della resistenza che smuove l’anima.

Forlani è testimone di queste masse che invadono ogni mattina il metrò, le strade, i negozi, e avverte lo smarrimento di ogni individuo, la voglia di non farsi risucchiare, la necessità di esserci. Anche lui fa parte di questa folla, dei penultimi che ancora non vogliono abbandonare la lotta, ed è proprio per questo motivo che il verso diventa più di un rigo d’inchiostro, ma qualcosa che va inciso perché deve durare, altrimenti non sarebbe testimonianza.

L’autore parte da ciò che è negativo, brutto e sgraziato. Non si può fare altro. Eppure, il gioco dell’arte sta proprio in questo, rendere fruibile e positivo tutto ciò che andrebbe disintegrato, proprio perché ciò che resta possa essere da monito per il futuro; affinché nulla sia più la penultima scelta prima del giudizio finale.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

https://www.gliamantideilibri.it/penultimi-francesco-forlani/

QUATTRO GIORNI – recensione di g.cr. su Repubblica (Torino Libri)

QUATTRO GIORNI – recensione di g.cr. su Repubblica (Torino Libri)

Novantasei ore per salvarsi

Quattro giorni concessi dalle autorità penitenziarie a seguito di un lutto in famiglia a un uomo che sta scontando una condanna per traffico internazionale di stupefacenti; novantasei ore per tentare di salvarsi da una malattia che minaccia di ucciderlo. Ambientato tra le valli del ponente ligure e le lande peruviane chiuse e buie o all’improvviso accecate dal sole, con prefazione di Dario Voltolini, il romanzo a fumetti “Quattro giorni” pubblicato nella collana “MiraggINK” della torinese Miraggi è tratto da “Quattro giorni per non morire” dello scrittore e poeta Marino Magliani (Sironi, 2006). «Una storia cruda, dura, emozionante e asciutta», come la definisce Voltolini, scaldata dall’eco della letteratura sudamericana di cui Magliani è innamorato. La sceneggiatura è firmata da Andrea B. Nardi e le tavole dal torinese Marco D’Aponte, diplomato all’Accademia Albertina, che nel 2000 ha disegnato il fumetto più grande del mondo, la “Storia del traforo del Frejus”, collocato in Piazza Statuto. Sue anche alcune storie de “La valigia del cantastorie” di Guido Ceronetti, due graphic novel tratte dai gialli del commissario Martini, “Tazio Nuvolari, compagno del vento” sceneggiato da Pit Formento, “Cento anni nel futuro” di Riccardo Migliori e “Sostiene Pereira”, adattamento di Marino Magliani del romanzo di Tabucchi.

L’ARTICOLO ORIGINALE:

QUATTRO GIORNI – recensione di Giacomo Sartori su Nazione Indiana

QUATTRO GIORNI – recensione di Giacomo Sartori su Nazione Indiana

LIGURIA MON AMOUR

Ecco la prefazione di Dario Voltolini (illustrazioni di Marco D’Aponte e adattamento di Andrea B. Nardi; da un romanzo di Marino Magliani)

È con profonda commozione che scrivo questa nota a margine dell’ottima prova congiunta di due squisiti narratori, Marino Magliani alla tastiera e Marco D’Aponte alle matite, innanzitutto per la storia che viene narrata, ma anche per altro.
La storia che viene narrata la conosco da anni e ora me la trovo qui davanti agli occhi visualizzata con raffinata perizia da chi sa come dare corpo alle parole. Da anni non la rileggevo e rivederla così, attraverso immagini sulla pagina che vanno a mescolarsi a immagini che tenevo ancora da qualche parte nella mente, è un’esperienza piena di senso. Facile sintetizzare: tavole magnifiche per una storia potente.
Ma devo ancora una volta ricordare che la “potenza” di una storia ligure è tutta dentro la cartuccia inserita nella doppietta, ma prima della detonazione.

È una potenza che sempre sta per manifestarsi. Questa caratteristica è della terra e dei suoi migliori narratori e poeti. E io amo quella terra, con i suoi narratori e poeti. Secco, compatto, lo spirito di quella regione preme per uscire e ogni volta, anziché esplodere, vibra. Vibra in modo tale da risuonare a distanza, è un suono riconoscibile, simile ad altri (per esempio qui le Ande entrano in grandissima risonanza con i muretti a secco liguri, con la loro anima) ma in fondo unico e imparagonabile.

Ho conosciuto Marino Magliani proprio attraverso il testo qui riproposto, esemplarmente sceneggiato da Andrea B. Nardi, nelle tavole di D’Aponte. Me ne innamorai subito e la gioia per me fu grandissima quando lo vidi pubblicato. Per una volta le cose erano andate per il verso giusto e la grande qualità di uno scrittore veniva colta dall’editoria, veniva accolta e fatta vivere sulla pagina. Be’ questo è un ricordo, ed è molto dolce. Così Marino e io siamo diventati amici, come si può esserlo stando uno in Italia e uno in Olanda. Ma la qualità di un’amicizia che nasce da un testo è un qualità molto particolare. È un’amicizia in qualche modo segnata da quel testo, un’amicizia che profuma di quel testo. La chiamerei, in questo caso, un’amicizia ligure, ma non cercherò certo di spiegare cosa significa “ligure” in questo contesto. “Ligure” lo vedete subito cosa significa, leggendo quest’opera. Forse “ligure” è l’unico aggettivo topografico che invece di restringere e dettagliare il suo senso comprimendolo in un luogo (che in questo caso è di per sé stesso un luogo compresso tra montagne e mare), lo fa volare su tutto il pianeta dispiegandosi a categoria emotiva autonoma. Forse straparlo, per amore del luogo. Ma qualcosa di vero penso che lo sto dicendo. Laddove il dolore resta incapsulato in una vita che continua, laddove le occasioni perdute vivono per il fatto stesso di esserci state, laddove qualcosa per essere detto bene ha senso che sia taciuto – e molti altri “laddove” ancora – l’aggettivo “ligure” arriva a spiegare perfettamente quello che c’è da spiegare.


Marino negli anni ha scritto tante storie, tutte molto belle, solide, tanto pietrose quanto ventilate, e ogni volta è una festa (senza strepiti, eh!) leggerle. Ma per me questa è “la” storia, perché è quella tramite la quale ho conosciuto Marino. Riassumerla? Non ha senso. Solo che è struggente, questo sì che lo posso dire, fatta di uno struggimento particolare che in queste tavole, per un ulteriore gioco del destino di un incontro, risuona perfetta e risuona nelle lontananze.

NdR: il testo riportato è la prefazione di Dario Voltolini al romanzo a fumetti “Quattro giorni”, con illustrazioni di Marco D’Aponte e testo/adattamento di Andrea B. Nardi, tratto dal romanzo “Quattro giorni per non morire” (Sironi Editore, 2006), di Marino Magliani, pubblicato ora da Miraggi Edizioni, nella collana MiraggInk

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

LA VITA MOLTIPLICATA – recensione di Marina Guarneri su il Taccuino dello Scrittore

LA VITA MOLTIPLICATA – recensione di Marina Guarneri su il Taccuino dello Scrittore

Leggo i primi due racconti in metro; mi sorprende subito la natura delle storie: le seguo come quando tentiamo di ricostruire nella mente un sogno appena svanito, al risveglio. Mi ritrovo a percorrere le sinuose vie dell’insondabile umano, con una sensazione piacevole, che passa dall’alienazione iniziale a un grande entusiasmo alla fine. C’è qualcuno che mi sta dicendo delle cose, forse importanti, su come reagisce la mente di fronte a determinati eventi della vita: un adolescente che riceve un’educazione severa, in uno spazio familiare militarizzato, che fugge dalla realtà che lo opprime, alimentando fantasie morbose fortemente aggrappate alla propria passione per la musica e c’è un uomo che percorre i sentieri della memoria in cui la protagonista è una donna, Vera, di nome, ma di fatto? La sua presenza, come un fantasma, si nasconde nelle immagini che vengono fuori da un vecchio album di fotografie. Cavalcare i ricordi è un gioco pericoloso per la mente e, in un attimo, tutto può diventare solo una proiezione dell’inconscio.Torno a casa entusiasta. Mi piace la scrittura di Simone Ghelli, genera empatia e io la trovo piena di suggestioni, a tratti anche poetiche. La malattia di Ascanio Ascarelli è una sorta di porta segreta verso un mondo interiore in cui la riflessione diventa una lunga pausa dalla vita più che preoccupazione per la sorte della stessa; la mania di un giovane apprendista, che legge i manoscritti spediti a un editore, di attaccarsi alla spazzatura letteraria come un accumulatore seriale, racconta una verità che conosco. La somma dei secondi e dei sogni: quante vite fanno tutti quei minuti passati a scrivere? Mi immedesimo anche nel libraio che chiude la libreria con la morte nell’anima e la lettura dei racconti a seguire è un’occasione per incontrare un’umanità varia in cui ci si riconosce e per la quale si fa persino il tifo, come per il professore che compie un atto rivoluzionario, interpretando in senso letterale il “compito di realtà” previsto in una circolare ministeriale e invita i propri studenti a descrivere come vedono la scuola e come vorrebbero che fosse. Le conseguenze sono quelle che ci aspettiamo ma che sarebbero diverse, se fossimo in una società che non ragiona seguendo sempre i soliti schemi mentali. Tra le righe di ogni storia risulta chiaro il messaggio dell’autore: la vita che viviamo, in fondo, è un insieme di dimensioni sovrapposte, che moltiplicano la realtà in piani invisibili, ma indispensabili.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

https://trentunodicembre.blogspot.com/2020/06/miraggi-edizioni-grand-hotel-romanzo_18.html

GRAND HOTEL – recensione di Marina Guarneri su il Taccuino dello Scrittore

GRAND HOTEL – recensione di Marina Guarneri su il Taccuino dello Scrittore

GRAND HOTEL – Romanzo sopra le nuvole 

“Il clima e le nuvole sono l’inizio di ogni cosa, di ogni dialogo e di ogni storia e saranno anche la loro fine.”
Questa vicenda comincia con un traguardo raggiunto. “Ce l’ho fatta”, ripete qualcuno che, nel giorno del suo compleanno, si sta godendo il regalo atteso da tutta una vita: salire in alto, con le nuvole a portata di mano, l’orizzonte che si staglia oltre la città amata e odiata, tenendo sotto controllo altitudine, vento e direzione e, in sottofondo, la musica del silenzio. Un prologo che sul momento mi strania, perché non riesco a dare una collocazione spazio-temporale al narrante e non so cosa voglia dirmi. Ma la curiosità irrompe subito nell’incipit del primo capitolo: “Il mio nome è Fleischman”.Così, conosco il trentenne protagonista di questa storia.
Fleishman è un ragazzo problematico, tendenzialmente asociale, bullizzato dai compagni durante gli anni di scuola, in cura da una psichiatra in seguito al trauma causato dall’incidente stradale in cui ha perso entrambi i genitori; ha sempre la testa fra le nuvole e non solo in senso figurato: lui vive in simbiosi con esse. Le nuvole lo tranquillizzano, gli hanno insegnato a perdonare, gli hanno tenuto compagnia negli anni più difficili della sua infanzia. Fleishman ne studia le forme, le analizza, come fa col clima, quando registra la temperatura, la pressione atmosferica, le precipitazioni, la direzione e la forza del vento. Sulle pareti della sua stanza c’è un enorme grafico, con degli appunti: “questo è il mio mondo. Il mio diario. La mia tabella di marcia.”

L’ossessione per le nuvole, così inconsueta, è l’elemento vincente del romanzo, quello che connota in modo originale il personaggio e rende credibile la sua voce. Per non finire in una casa-famiglia o al riformatorio, Fleishman viene affidato a un cugino sconosciuto, Jégr, col quale andrà a vivere in un hotel, nella città di Liberec, sospeso a 1012 metri sopra il livello del mare. Un’enorme fabbrica di nuvole a forma di missile rotondo, che si stringe sulla punta; una struttura senza spigoli, la cui torre si conficca nel cielo come un ago affilato.È lì che Fleishman conosce Ilja, la cameriera che lo giudica strano, salvo poi raccogliere i suoi segreti ed è lì che si affeziona a Reinhard Franz, un ex pilota nostalgico del passato, tornato in città con le ceneri di due suoi amici raccolte in un barattolo di latta, per compiere una missione importante.Ciò che ho apprezzato della narrazione è la capacità dell’autore di portare il lettore a familiarizzare con tutti i personaggi, dal protagonista a quelli secondari. È facile interessarsi alle vicende raccontate da Fleishman, quando anticipa storie ed entrata in scena di persone con la formula “ma questo ve lo dirò dopo”, creando una sorta di bolla di sospensione in cui sono racchiuse aspettative, che non saranno deluse. È con questo meccanismo di “rimando”, in grado di creare attesa e generare curiosità, che conosciamo meglio Jégr e il suo “museo del blocco orientale”, allestito nella reception dell’hotel, pieno di oggetti legati a determinati momenti della sua vita e anche Ciuffo,  ex compagno di scuola e ora nuovo cameriere del Grand Hotel, che sogna di fare fortuna in America grazie al “salvifico” Happylife, una brodaglia verde multifunzionale, utile per tutto: stoviglie, tappeti, per farci i cetrioli sottaceto, per lucidare le scarpe, per il mal di gola, per sbiancare i denti…
“Con questo pulisci i mobili e anche l’auto col tuning.”
La narrazione ingenua di Fleishman, che conserva quasi dei tratti autistici (come nella meticolosa ricostruzione etimologica di talune parole), definisce bene il personaggio e per lui non si può che provare una simpatia del tutto spontanea: la sua forza risiede nella fragilità, che emerge proprio dalle riflessioni semplici, ma di grande potenza espressiva; nella paura di abbandonare Liberec, tale da provocargli autentiche crisi di panico ogni volta che prova a varcarne i confini. Ma ad aiutarlo, nella più grande sfida della vita,  più che le parole di una psichiatra o la compagnia di una persona speciale, saranno ancora le nuvole, fedeli ed eterne compagne di viaggio, le uniche in grado di restituirgli la felicità.Il cerchio si chiude: la storia si completa con tutte le sue verità. Quando si arriva al silenzio del commiato, viene voglia di applaudire.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

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DI SANGUE E DI FERRO – recensione di Rosa Elenia Stravato

DI SANGUE E DI FERRO – recensione di Rosa Elenia Stravato

Luca Quarin è un autore che non conoscevo, uno di quegli autori nei quali t’imbatti casualmente o per suggerimento, come nel mio caso, e ti insegnano ad averne cura. Perciò, oggi, sono felice di presentarvi questa mia scoperta.

Un romanzo nel quale cascherete e che vi trasmuterà in un tempo lontano ma che sentirete scorrere dentro le vostre vene come un imperativo al quale non potrete aver modo di sottrarvi: come l’amore che vi invade l’esistenza e potete solo sentirne la sua astinenza malgrado esso vi sia ad un soffio. Edito da Miraggi Edizioni, quella narrata è una storia che s’innesta in un passato che ha qualcosa di “così presente”. Lo so, sembra paradossale ma, mi darete ragione.

Dotato di una scrittura particolareggiante e minuziosamente architettata in una sinfonia di parole ammaestrate dal proprio direttore d’orchestra, si legge con una facilità estrema. Sarete tentati di raggiungere l’ultima pagina con una “curiositas” simile a quella di Apuleio nelle sue Metamorfosi. Benché la matrice storica del romanzo non concede alla fantasia ampi orpelli, la narrazione, diventa il fil rouge che legherà i protagonisti i vostri compagni di avventura. Compagni che vi porteranno a spasso tra luoghi non comuni capaci di scardinare quelle consapevolezze immutabili che preservate. Ho accostato le Metamorfosi a questa storia consapevole del paragone stonato: si, perché, la vera matrice portante della narrazione è ciò che sfugge.

Non aspettatevi di trovare una serenità o una stasi: è un romanzo che porta a burrascose affermazioni, a picchi di isteria e diventa scomodo. Si, perché ciò che si racconta non conosce riposo. Un moto. Un moto perpetuo.

Un romanzo, lo ammetto, ben scritto ma complesso: siamo nel 1972  e una bomba distrugge  Peteano uccidendo tre carabinieri. L’incidente scatenante s’inquadra come il momento in cui i panni del lettore vengono, amabilmente, distrutti e lasciano il posto ad un’esperienza totalizzante. Ed è così che parte l’inchiesta degli inquirenti che sembra portare ad un gruppo di militanti tra cui spiccano  un ragazzo e una ragazza che cercando di scampare ai carabinieri,  finiscono con l’automobile nel lago di Levico.

Nel rocambolesco inseguimento l’impatto è un urlo muto ma assordante: il figlio di tre anni rimane orfano. Proprio da qui parte una assurda routine di errori e falle nel sistema giudiziario che condanna ed assolve sei giovani ma che non riesce a chiarire le posizioni che hanno avuto quei due genitori.
Ma il passato, si sa, è sempre pronto a mostrarsi una Torre di Babele furente. Dopo dieci anni il caso viene riaperto come un’autopsia delle coscienze: Vincenzo Vinciguerra racconta al giudice Felice Casson i retroscena dell’attentato e le filosofie  più oscure della destra eversiva degli anni settanta. In un duello tra razionalità e desiderio di chiarezza, il mistero su quei due giovani, non trova quiete.

E nel limbo delle festanti incertezze diventa chiaro che, non sempre, il passato può essere spiegato dal presente. Non sempre, il passato, sceglie di raccontarsi a chi ha bisogno di risposte.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

https://rosaeleniastravato.wordpress.com/2020/06/17/di-sangue-e-di-ferro/

DI SANGUE E DI FERRO – recensione di Sandor Tence su Primorski

DI SANGUE E DI FERRO – recensione di Sandor Tence su Primorski

VIDEM – Un libro interessante dello scrittore friulano Luca Quarin

L’attentato di Peteano collegato alla bomba nella scuola slovena

VIDEM – La strage di Peteano, in provincia di Gorizia, dove una bomba il 31 maggio 1972 ha ucciso tre carabinieri, ha ispirato lo scrittore friulano Luco Quarin per il suo secondo romanzo “Di sangue e di ferro”, pubblicato dalla casa editrice torinese Miraggi Edizioni (280 pagine, 19 euro). Il titolo è un gioco di parole, in quanto Andrea Ferro è il narratore e protagonista di una storia che si svolge principalmente in Friuli, ma anche a Gorizia, a Trieste e a Trento. Il romanzo è una lettura impegnativa perché presuppone la conoscenza della violenza e degli omicidi dei rivoluzionari neri negli anni ’60 e ’70, ma è stato scritto in un modo interessante che attira il lettore, pur nel disorientamento iniziale.

Quarin ha optato per due storie parallele che si intrecciano: una immaginaria, l’altra reale. Il giovane Andrea Ferro, che vive a Torino, viene chiamato dall’ospedale di Udine e gli dice che i giorni di sua nonna sono contati e che lei vorrebbe rivederlo. Tornare a casa è molto doloroso per lui, poiché evoca il ricordo dei suoi genitori che, quando era bambino, morirono in un inspiegabile incidente d’auto vicino a Trento, e perché suo nonno faceva parte della cellula neofascista di Udine. Il padre e la madre militavano nella sinistra extraparlamentare (frequentavano la Facoltà di Sociologia di Trento al tempo in cui Renato Curcio stava allestendo lì le Brigate Rosse) e, secondo i carabinieri e i servizi di intelligence, erano coinvolti anche negli omicidi terroristici di sinistra. Il nonno, come già detto, era fedele al fascismo ma non solo, era anche un sovversivo, che probabilmente non era direttamente coinvolto nell’assassinio a Peteano, ma sapeva molto di lui e dei suoi autori

La difficile storia della famiglia si intreccia con quella di un’epoca buia per i nostri luoghi e per tutta l’Italia. Un gruppo di goriziani inizialmente venne sospettato di essere responsabile della strage di Peteano, sulla base di false testimonianze e di prove inventate preparate da alti funzionari dei carabinieri con il consenso e la cooperazione di servizi di intelligence infedeli allo stato. La verità, tuttavia, era molto diversa. La bomba che ha ucciso gli sfortunati carabinieri fu fabbricata e fatta esplodere da terroristi neofascisti che furono successivamente condannati, così come gli ufficiali dei carabinieri e dei servizi segreti che fecero ricadere la responsabilità sul gruppo di goriziani e che inibirono e ostacolarono il lavoro dei giudici.

Ma chi volevano proteggere i carabinieri che depistarono le indagini su Peteano? I giudici veneziani Felice Casson (futuro senatore) e Carlo Mastelloni (fino al suo pensionamento capo della procura della corte di Trieste) erano convinti che l’organizzazione militare segreta Gladio fosse coinvolta nell’attentato, ma lunghe indagini non lo confermarono, sebbene i sospetti siano rimasti. Il ruolo enigmatico dell’organizzazione militare segreta è stato anche affrontato da una speciale inchiesta parlamentare, che ha sottolineato che Gladio è stata particolarmente “attiva” sul confine italo-jugoslavo, che gli sloveni veneziani testarono in prima persona.

Nel romanzo che riporta anche documenti ufficiali e contributi giornalistici (tra cui quello di Claudia Cernigoi), Quarin scrive ampiamente sul deposito di armi ed esplosivi di Gladio scoperto a Opicina, su una collina rocciosa vicino al sentiero Tiziana Weiss. I carabinieri hanno rivelato l’esistenza di questo magazzino (ufficialmente chiamato Nasco) nel febbraio 1972, effettivamente scoperto nell’estate del 1971, ma hanno tenuto la questione in silenzio in modo che la storia del raid di Gladio non fosse divulgata al pubblico.

L’ordigno presumibilmente venne dal deposito di Opicina, con il quale i fascisti (“sfuggirono” a Gladio, ma come facevano a saperlo?) effettuarono non solo l’attentato di peteano ma anche un il fallito attentato (1969) alla scuola slovena di San Ivan a Trieste e forse anche per il massacro di Piazza Fontana a Milano lo stesso anno. Uno dei più grandi depositi di armi ed esplosivi di Gladio scoperto da persone del posto (uno di loro era il figlio di un maresciallo di Opicina) che i carabinieri locali cercarono di coprire, su ordine dei loro superiori e sotto la pressione dello “stato profondo”. Ma non per sempre.

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VIDEM – Zanimiva knjiga furlanskega pisatelja Luce Quarina

Črni obroč od bombe na slovenski šole, Nabrežine in atentata pri Petovljah

VIDEM – Atentat v Petovljah na Goriškem, kjer je eksplozija bomba 31. maja 1972 ubila tri karabinjerje, je navdihnil furlanskega pisatelja Luco Quarina za njegov drugi roman Di sangue e di ferro (Iz krvi in železa), ki je izšel pri turinski založbi Miraggi edizioni (280 str., 19 evrov). Naslov je besedna igra, saj je Andrea Ferro pripovedovalec in protagonist zgodbe, ki se v glavnem odvija v Furlaniji, a tudi v Gorici, Trstu in Trentu. Roman je zahtevno branje, ker predpostavlja poznavanje nasilja in atentatov črnih prevratnikov v šestdesetih in sedemdesetih letih prejšnjega stoletja, a napisan na zanimiv način, ki ob začetni zbeganosti pritegne bralca.

Quarin se je odločil za dve vzporedni zgodbi, ki se prepletata: eno izmišljeno, drugo resnično. Mladega Andrea Ferra, ki prebiva v Turinu, pokličejo iz videmske bolnišnice in mu sporočijo, da so babici šteti dnevi in bi ga zato rada videla. Vrnitev domov je zanj zelo boleča, saj mu prikliče spomin na starša, ki sta, ko je bil otrok, umrla v nepojasnjeni prometni nesreči pri Trentu, njegov pokojni dedek pa je bil voditelj videmske neofašistične celice. Mama in oče sta bila prepričana levičarja (študirala sta na Fakulteti za sociologijo v Trentu ravno v času, ko je tam Renato Curcio ustanavljal rdeče brigade) in po mnenju karabinjerjev in obveščevalnih služb tudi vpletena v levo obarvane teroristične atentate, stari oče, pa kot rečeno, prepričan fašist. Ne le to, temveč tudi prevratnik, ki najbrž ni bil direktno vpleten v atentat v Petovljah, a je o njem in njegovih izvajalcih veliko vedel.

Trpka družinska zgodba se prepleta z zgodovino tistih za naše kraje in za vso Italijo temnih časov. Za atentat v Petovljah je bila sprva osumljena skupina Goričanov na osnovi lažnih pričevanj in montiranih dokazov, ki so jih pripravili ob privoljenju in sodelovanju državi nezvestih obveščevalnih služb visoki karabinjerski častniki. Resnica pa je bila povsem drugačna. Bombo, ki je ubila nesrečne karabinjerje, so izdelali in nastavili neofašistični teroristi, ki so bili pravnomočno obsojeni, kot tudi karabinjerski častniki in podčastniki, ki so krivdo za atentat hoteli naprtiti nedolžnim Goričanom, potem pa z vsemi sredstvi zavirali in ovirali delo sodnikov.

Koga so hoteli zaščititi karabinjerji, ki so ovirali preiskavo o Petovljah? Beneška sodnika Felice Casson (bodoči senator) in Carlo Mastelloni (do upokojitve je bil vodja tožilstva na tržaškem sodišču) sta bila prepričana, da je bila v atentat tako ali drugače vpletena tajna vojaška organizacija Gladio, dolgotrajne preiskave tega sicer niso potrdile, sum pa ostaja. O zagonetni vlogi tajne vojaške organizacije se je ukvarjala tudi posebna parlamentarna preiskava, ki je izpostavila, da je bil Gladio posebno »aktiven« na italijansko-jugoslovanski meji, kar so na lastni koži preizkusili Beneški Slovenci.

Quarin v knjigi na osnovi uradnih dokumentov in novinarskih prispevkov (med drugim tudi Claudie Cernigoi) veliko piše o skladišču orožja in razstreliva organizacije Gladio, ki so ga odkrili v Nabrežini na skalnatem obronku v bližini razgledišča Tiziana Weiss. Domači karabinjerji so februarja leta 1972 dejansko inscenirali odkritje tega skladišča (uradno se je imenoval Nasco), ki so ga v resnici odkrili poleti leta 1971, a so stvar zamolčali, da ne bi zgodba o rovarjenju Gladia pronicnila v javnost.

Iz nabrežinskega skladišča naj bi prišlo razstrelivo, s katerim so fašisti (»izmaknili« naj bi ga Gladiu, a kako so vedeli zanj?) izvedli ne samo atentat v Petovljah, a tudi eksploziv vrste T4 za spodleteli atentat (1969) na slovensko šolo pri Sv. Ivanu v Trstu in morda tudi za pokol v milanski Kmečki banki istega leta. Eno največjih skladišč orožja in razstreliva Gladia sta odkrila domača fanta (eden od njiju je bil sin nabrežinskega marešala), domači karabinjerji pa so na ukaz nadrejenih in na pritisk »globoke države« vse prikrili. A ne za vedno.

https://www.primorski.eu/kultura/crni-lok-od-nabrezine-do-petovelj-BX541524

IL CRINALE DEL TEMPO – recensione di Davide Morresi su Read and Play

IL CRINALE DEL TEMPO – recensione di Davide Morresi su Read and Play

Cos’è Il crinale del tempo?
È un romanzo, sì, ma breve.
È un’autobiografia, perché la storia narra – anche – di episodi reali vissuti in prima persona dall’autore.
È un racconto, perché nel libro c’è quel “Tutto a ferragosto” che ha il sapore di narrativa veloce, che solo apparentemente è distante dal resto della trama.
E poi è quello spazio temporale che l’autore percorre per tornare nel passato, alla sua infanzia, a quegli eventi traumatici, per affidarli alla penna di uno scrittore alter ego, protagonista di questo libro, e lasciarli così liberi di volare via. 

Nell’incipit troviamo il match tra Muhammad Ali e Foreman. Un incontro che, si scoprirà lungo la narrazione, ha un valore altamente simbolico. In un’intervista, Vittorio Graziosi spiega: “Ho voluto usare questa storia come incipit perché sia metafora del coraggio. L’idea di base è che nella vita ci vuole coraggio non solo per vincere un conflitto, ma anche per iniziare ad affrontarlo”. Ed ecco palesato il leitmotiv di questo libro tanto avaro di pagine (sono 115) quanto generoso di, appunto, coraggio.

Nella stessa intervista, che potete vedere qui, Graziosi dice anche: “Per portare i lettori nel mio crinale del tempo avevo bisogno del coraggio di raccontare questa storia, dopo aver avuto il coraggio di superarla. E dall’incipit affiora perfettamente questo coraggio attraverso la vittoria di Muhammad Alì. Tra l’altro si tratta di un evento avvenuto nel 1974, come quello che racconto”.
1974, anno in cui lo scrittore protagonista ritorna attraverso il crinale del tempo dopo aver visto il manifesto funebre dell’uomo che qualche pagina più avanti verrà chiamato “il mostro”. Il manifesto spinge Francesco, questo il nome dello scrittore protagonista del romanzo, a sedersi alla scrivania per fissare la propria storia, questa storia, ora accettata, metabolizzata, superata, con un gesto tanto potente quanto simbolico, quello della scrittura: usare le parole, il nero sul bianco, per edificare pagine che volino libere verso chiunque voglia leggerle, come a eliminare del tutto un morbo esterno. Come se fa una terapia contro un virus. A tale proposito, Graziosi aggiunge: “Se questo libro fosse una medicina, sarebbe un antinfiammatorio, preferibilmente naturale. Una medicina indispensabile”.

Una storia di violenza nella quale Francesco si trova coinvolto in un modo così naturale da sembrare quasi un gioco, fino a quando comprende, ancora bambino, di essere vittima di un abuso. 
La trama copre un arco di numerosi anni: Francesco bambino che vive con i nonni, Francesco che si trasferisce in Austria dove i genitori si trovano per lavoro; Francesco che torna in Italia con la famiglia. E la vita che cambia e ogni volta si adatta al nuovo, senza trovare punti fermi, fino ad arrivare all’abuso psicologico e fisico subito insieme al fratello, per poi ritrovarsi adulto, quando va a trovare lo zio, in un ultimo gesto di addio, nella tomba dove è sepolto.

Poi, trasferito in Austria, non avevo più terra da esplorare, nessuna scorreria su quei prati lisci come biliardi e il cielo tra l’azzurro e il grigio che soggiogava ogni cosa. Disciplina e ordine intorno a me e nella famiglia. Tutto sotto controllo con questa religione che invadeva ogni aspetto della vita. Una rete invisibile che invadeva l’estro e ogni pensiero maturato con l’esperienza personale.
Alla fine, per la mancanza di una vita veramente vissuta, anche uno zio così particolare non faceva suonare in noi nessun campanello d’allarme. Ci permetteva voli di fantasia e complicità, andava bene, pur di viverla la vita.
Così quando mio fratello se lo vedeva fuori dalla scuola con la sua giacca scura, in fondo era contento. Nel fracasso della massa di ragazzini pronti a muoversi per uscire, lo aspettava a braccia conserte vestito dei suoi abiti antichi e dello stesso identico tenue sorriso. 

Il percorso interiore di Francesco è intriso di delicatezza, come a comunicare che, con il coraggio, anche l’evento più distruttivo può essere quietato. C’è una positività diffusa che trasforma la violenza ricevuta in un fatto che, una volta rielaborato, lascia liberi al futuro.

È emblematico come il nome del protagonista venga svelato solamente a fine romanzo, quando il crinale del tempo ha fatto il suo dovere, la tempesta è cessata, l’uomo adulto ha ora una sua personalità forte e ha dimostrato il proprio valore, riprendendosi la vita con integrità e determinazione. Palesare il nome solo a trauma superato è una raffinatezza che Vittorio Graziosi usa per sottolineare come tutto il libro sia il viaggio del protagonista verso il recupero di una serenità rubata e di un’identità minata. 


In Read and Play trovi anche le recensioni con soundtrack di questi libri autobiografici:
– Febbre di Jonathan Bazzi
– Bianco di Breat Easton Ellis
– Svegliami a mezzanotte di Fuani Marino


Particolarità

Tra le altre, ho notato queste tre caratteristiche narrative che ritengo degne di essere sottolineate:

  1. il protagonista scrive in prima persona: è uno scrittore che narra la propria storia, spinto dalla necessità profonda di liberare i ricordi. Si presenta forte il tema della scrittura salvifica, terapeutica, affidata a un alter ego, tecnica narrativa non nuova, ma che qui si presenta con rara e piacevole naturalezza;
  2. accanto al plot principale, c’è una seconda storia: quella che lo scrittore scrive in terza persona, narrando le vicende di Ahmed e Anna, che si associa a quella autobiografica e la intervalla. Lo scrittore ha bisogno di riprendere fiato nei momenti in cui la prima storia tocca punti sensibili del proprio animo;
  3. la scrittura è ricercata, il lessico e la sintassi sono studiati con accuratezza, nulla è casuale. La prosa lirica e delicata trasmette una sensazione positiva nonostante il tema affrontato sia molto forte e per nulla tranquillizzante, a rimarcare come attraverso il coraggio si possono superare anche le situazioni più difficili. 

La soundtrack

Ascolta la colonna sonora: Il crinale del tempo – Vittorio Graziosi

Come il crinale del tempo percorre tutta la narrazione, così anche i riferimenti musicali sono funzionali al viaggio nella memoria. Si va dalle sigle delle trasmissioni televisive degli anni Sessanta a Scende la pioggia di Gianni Morandi che accompagna il ritorno in Italia dall’Austria, passando per Tipitipiti di Orietta Berti e per un motivo suonato da un artista di strada su un “vecchio pianoforte verticale tutto rigato”.
Tutti i brani si riferiscono a citazioni e riferimenti musicali contenuti nel testo.

  1. Canzonissima sigla 
  2. Rischiatutto sigla
  3. Reine de musette – Yvette Horner
  4. Scende la pioggia – Gianni Morandi
  5. Quella carezza della sera – I Bandiera Gialla
  6. Tipitipiti – Orietta Berti
  7. Astro del ciel – Coro
  8. Danza lucumi (piano) – Bebo Valdés

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

L’AMORE PUZZA D’ODIO – recensione di Valeria Zangaro su Rivista Blam!

L’AMORE PUZZA D’ODIO – recensione di Valeria Zangaro su Rivista Blam!

L’amore puzza d’odio: il tempo di una storia d’amore scandito da stagioni e poesie

In quest’opera Massimiliano Boschini ci racconta, con un linguaggio tagliente e disincantato, una storia d’amore vista con gli occhi di un uomo. Lo fa in una maniera originale, avvalendosi di 52 componimenti poetici suddivisi, a loro volta, nelle quattro stagioni dell’anno, che sono poi anche le stagioni dell’amore.

L’amore puzza d’odio: la trama del libro di Massimiliano Boschini

Una sera lui, con una Ceres in mano, conosce lei:

Ti vidi tirartela solo un pochino
tra amiche con lacca e senz’acca

Sono sguardi ammiccanti, quelli che si scambiano, tipici degli inizi, di quando l’uomo e la donna mettono in scena la classica danza del corteggiamento, di lei che sta sulle sue e aspetta che lui faccia il primo passo. E poi quel momento arriva:

mia Cenerentola,
ti tolsi una scarpa
chiedendoti un numero

È chiaro ormai che i due si piacciono. È arrivata l’ora di scambiarsi il numero di telefono per fissare poi il primo appuntamento cui precede il rito preparatorio di lui:

lavato e stirato
mutande Uomo e Arbre Magique

e pronto per
un incontro galante, meglio se osè
arriva il primo bacio, il primo
parabrezza appannato
sipario del nostro amore

Sopraggiungono le farfalle nello stomaco e le scritte sulla spiaggia. Nasce una relazione, i due si sposano, la loro vita è scandita dalle domeniche passate all’Ikea e dai pomeriggi sul divano. Eppure poco alla volta s’insinua nella coppia l’incomprensione e la stanchezza della routine. Persino dirsi “ti amo” è una frase stanca, che ha la stessa passione di una madre che ti chiede “Tutto bene a scuola oggi?”. L’amore si frantuma, la coppia si separa, subentrano dapprima la rabbia, poi la nostalgia, e infine l’odio, fino alla morte di qualsiasi sentimento.

Lungo tutta l’opera di Boschini, Vincenzo Denti – pittore e artista, nonché docente presso il Liceo Artistico G. Romano di Mantova – ci delizia con le sue divertenti illustrazioni, o suggestioni, come le definisce lui…

PER LEGGERE L’ARTICOLO COMPLETO: https://www.rivistablam.it/libri/recensioni/lamore-puzza-dodio-il-tempo-di-una-storia-damore-scandito-da-stagioni-e-poesie-recensione-libro/