È la storia di un padre lontano dall’essere perfetto e che porta invece con sé una discreta summa di manchevolezze: latinista responsabile della realizzazione di convegni attesi e partecipati ma avversati dal piccolo politico di turno, fragile, inattuale insegnante promotore di scelte incomprese dai suoi studenti, il principale protagonista di Quando i padri camminavano nel vuoto è un uomo che negli anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale gode di locale, limitatissima fama.
Gode anche però delle grazie di Ava, giovane donna di servizio che fa girare teste a uomini di ogni età, con cui usciva dalla sua cupezza, dalla sua infelicità sfilacciata.
Innamorato a suo modo pure della moglie, il professore cerca di mantenere salda la rotta della sua numerosa famiglia salvandosi la faccia agli occhi del mondo e a quelli straordinariamente attenti, indagatori, del figlio bambino, colui che narra la sua vicenda (e così facendo anche la propria) e che per lui tesserà un elogio di pietas e tenerezza che stupisce e commuove.
Lo sguardo del figlio nel farsi uomo coglie appieno lo smarrimento della generazione appena dopo il secondo conflitto bellico, quella con in mano le possibilità di un futuro da costruire ab ovo talvolta sprecate: un senso di spaesamento, sconfitta ineradicabile, sensazione di assenza di definizione di ruolo – tragicamente attuali – che chi narra già da bambino fiuta feroce.
Ogni tanto mi prendeva la voglia di non lottare più. Ascoltavo i grandi parlare. Dicevano sempre che il destino era così e così, che era scritto nel Grande Rotolo. Ogni tanto facevo il tifo per mio padre. Speravo che tenesse duro, che il destino in piena non se lo portasse via. Mi sembrava che a volte non avesse più voglia di lottare per uscire dalla corrente, ma che lottava invece per rimanerci a tutti i costi. Una grande nuotata collettiva, verso la foce del fiume. Mi immaginavo dove portasse il fiume. Il destino era questo fiume in cui ti immergevi e poi ti piaceva farti portare via, era bellissimo e irresistibile. Anch’io avrei voluto, purché con mio padre. Ma mio padre non si decideva, avrebbe voluto uscire dal fiume e restarci dentro contemporaneamente. Faceva un mucchio di cose strambe, che erano contemporaneamente di due segni opposti. Le faceva non solo per il suo dolore congenito, ma anche perché un pezzo della sua natura era anarchica. Ma contemporaneamente perché la sua natura non era abbastanza anarchica. Allora era fuori dalle righe sia quando faceva l’anarchico, sia quando non lo faceva.
Quando i padri camminavano nel vuoto, segnalato al Premio Calvino dal comitato di lettura con un altro titolo, I vivi e i morti, ora giustamente riproposto nell’accurata edizione di Miraggi, Collana Scafiblù, è un romanzo di sconfitta e resistenza, battute d’arresto, cadute, scelte esistenziali e sentimentali che si ripeteranno a specchio, nonostante tutto, anche nelle generazioni a venire, quelle che vivranno in periodi di maggiore saldezza.
Piergianni Curti, laureato in fisica, specializzato in didattica della matematica, dal nome al contrario proprio come il protagonista del romanzo, traccia con grande efficacia la storia di un padre naturale e di altri padri che il figlio-voce narrante ricerca per suo puntello, per non camminare nel vuoto, appunto:padriputativi, figure genitoriali di passaggio, che entrano ed escono – molto ben definiti caratterialmente – per mille ragioni dalla vita di questa famiglia raccontata con ironia.
Un’ironia efficace e benigna, il tratto più significativo di quest’opera, che è romanzo di formazione ma soprattutto di individuazionee tessituracoesa di frammenti, da cui usciranno infine non una, ma due figure difficili da dimenticare, poetiche, piene d’amore.
Niente è come appare. Questa è la costante che regola il romanzo di Cetta De Luca La leggenda del Re Eremita. Un libro che si legge in poche ore, ricco di personaggi ben costruiti e carico di immagini poco definite. Istantanee di una realtà che (ancora e purtroppo), ahimè, ci appartiene. Una tangibilità che si confonde con la menzogna e la scarsa cultura, vittima di retaggi sbagliati e credenze tramandate per paura. Ma procediamo per gradi…
La storia si sviluppa in un piccolo paesino calabrese, Sant’Eustachio Belvedere, un villaggio fatto di case scrostate e magazzini rivestiti dal marrone dei forati, un borgo in cui gli abitanti convivono con le fogne a cielo aperto e dedicandosi principalmente al lavoro nei campi.
È in questo scenario che tre ragazze, tre giovani donne, si trovano ad avere a che fare con un personaggio misterioso e ancestrale, il Re Eremita, una figura leggendaria e conosciuta da tutti ma che nessuno (forse) ha mai incontrato. Un mito che si serve di un emissario particolare: Giuseppe Esposito, ultimo boss di una ‘ndrina locale e unico intermediario tra i paesani e, appunto, l’imperscrutabile Re. Ed è proprio a lui, a Giuseppe, che i cittadini affidano ogni anno delle ragazzine affinché possa condurle nelle mani dell’Eremita e fare in modo che il piccolo Comune non crolli sotto il peso della povertà, e della paura. Ma la verità è un’altra. È ben diversa. E a scoprirla saranno Irene, Cristina e Isabella, aiutate da una suora, che le guiderà attraverso gli inganni e i ricordi sfocati di un mondo racchiuso nella menzogna. Una serie di stradine ricoperte di polvere e rassegnazione. Omertà e sottomissione.
Il testo scritto da Cetta De Luca e pubblicato da Miraggi Edizioni si compone di appena 120 pagine, compresa la prefazione di Giorgia Lepore e i ringraziamenti dell’autrice. È un volumetto che si legge, quindi, in poche ore, grazie anche allo stile sobrio e senza troppi fronzoli della stessa autrice; un modo di scrivere semplice, impreziosito da frasi ben costruite e parole selezionate con cura.
La prima impressione che ho avuto, iniziando la lettura di questo libro, è quasi quella di trovarmi di fronte a un romanzo di formazione. All’inizio infatti vi è la presentazione, scritta in prima persona, delle tre giovani ragazze protagoniste della storia. Ciascuna di loro, in altre parole, “racconta” parte della sua infanzia e mostra al lettore vari scorci della propria vita. Un espediente, questo, che l’autrice sfrutta sapientemente non solo per presentare i personaggi e la loro crescita, ma anche per descrivere l’ambientazione: non a caso, tra i ricordi delle giovani, il piccolo paesino in cui si svolge la vicenda viene rappresentato con una buona quantità di particolari.
Narrativamente parlando, però, credo che, se da un lato tutto questo possa considerarsi una buona soluzione per la presentazione dei personaggi e di Sant’Eustachio Belvedere, dall’altro temo che possa creare confusione nel lettore. Per due ragioni. La prima riguarda la scelta di porre all’inizio del libro il percorso che le tre ragazze compiono. Mi sarei aspettato, visto il genere e la tematica, di essere catapultato all’interno della storia, o al massimo di trovare la presentazione della nemesi. Ma sono anche convinto, bisogna ammetterlo, che la volontà dell’autrice di porre in questo punto iniziale del libro la “formazione” non sia del tutto sbagliata: a molti potrebbe piacere conoscere sin da subito il carattere delle tre protagoniste, per meglio immedesimarsi nei fatti che arriveranno nei capitoli successivi.
La seconda ragione che mi lascia perplesso è la scelta dell’Io narrante che, nei primi tre capitoli, cambia per ben tre volte: prima Irene, poi Cristina e infine Isabella. Nonostante il titolo dei capitoli corrisponda al nome delle ragazze, ho avvertito una sorta di sensazione strana nel dover “mutare” il punto di vista in maniera così repentina; considerando anche il fatto che in seguito vi è un ulteriore cambio, visto che chi narra il tutto è in realtà la suora che aiuta le protagoniste a scoprire la verità.
Un punto a favore è senza dubbio l’atmosfera che De Luca è stata capace di creare: un’aria quasi surreale, rarefatta, ma fortemente intrisa dal carattere crudo della criminalità organizzata calabrese. Un miscuglio di sensazioni che favoriscono la lettura e descrivono egregiamente delle percezioni ancora radicate in alcune zone del Belpaese.
Degna di nota è poi la costruzione del personaggio di suor Maria, la monaca che aiuta le ragazze a scoprire la verità sul Re Eremita. Un personaggio particolare, ricco di molteplici sfaccettature, che l’autrice svela a poco a poco, pagina dopo pagina, rendendolo interessante e unico agli occhi del lettore. Interprete di un’evoluzione legata a un passato anch’esso misterioso.
A parte le scelte legate alla presentazione dei personaggi descritte in precedenza, mi sento di dire che la bravura di Cetta De Luca, ne La leggenda del Re Eremita, è stata soprattutto quella di aver saputo “mischiare le carte”. È stata brava nel fondere tra loro una leggenda derivante dalla Magna Grecia (quella del Re Eremita), una serie di personaggi ben costruiti e l’aspra realtà della criminalità organizzata.
Su certi autori, attraverso lenti procedimenti, si formano aureole di mitologia. Inizialmente accade per cortocircuito. Un titolo azzeccato. Una contingenza temporale. Ma poi subentra il passaparola fra i lettori, con la voglia di ricostruire, libro dopo libro, l’architettura totalizzante. Cosa che riguarda, fra i più recenti, Roberto Bolaño. Scrittore cileno cosmopolita, eppure radicato in un Sudamerica antico e violento di cui ha raccontato misfatti e solitudini, Bolaño è autore di culto di cui, in questi ultimi anni, sono stati pubblicati valanghe di libri. Il suo esaltante iter postumo (è morto a soli cinquant’anni) non è prodotto di un’operazione editoriale. Ma di un talento capace di attrarre il consenso di chi ama la letteratura vissuta in toto. Destino dei sognatori e dei costruttori di mondi. Bolaño non spiega, racconta. Un universo, il suo, che da Cile e Messico si espande all’Europa. Esule solitario e narratore incontinente, ha costruito trame autobiografiche che si rincorrono tra gioventù, bar, circoli artistici, avanguardie e fallimenti, biografie strambe e disperate, in una sorta di sconfinato labirinto di parole.
Recentemente l’editore Miraggi di Torino ha pubblicato – con la traduzione di Marino Magliani e Giovanni Agnoloni – un monumento postumo, strumento indispensabile per gli amanti di Bolaño. Operazione congrua e coraggiosa, proporre in Italia una serie di studi di matrice ispanica come quelli raccolti in «Bolaño selvaggio» (pag. 427, 24 euro), spaccato di una letteratura sudamericana impura, imbevuta di radici europee (come non pensare a certo Perec?). Perfetta radiografia di un anti-maestro, di un inventore di mondi che si inabissano, tra tunnel narrativi e fantasmi apocalittici, affrescando quello che inoppugnabilmente Alessandro Raveggi ha definito, nella prefazione, come un irripetibile «realismo confidenziale».
Nel 1972 esplode una bomba a Peteano, vicino a Gorizia, uccidendo tre carabinieri. Gli inquirenti sospettano alcuni militanti di Lotta Continua. Due di loro, un ragazzo e una ragazza che frequentano la facoltà di sociologia a Trento, finiscono con l’automobile nel lago di Levico, cercando di sfuggire all’arresto. Il figlio di tre anni rimane orfano. Alcuni mesi dopo vengono arrestati sei balordi goriziani che non c’entrano nulla con l’attentato. Poi vengono scarcerati. Per dieci anni le indagini brancolano nel buio, depistate dagli inquirenti che le conducono. Che ruolo hanno avuto i genitori del piccolo? E i nonni che si sono presi cura di lui? Sono stati vittime o sono stati colpevoli? Il velo comincia a sollevarsi nel 1986, quando Vincenzo Vinciguerra racconta al giudice Felice Casson i retroscena dell’attentato e le trame più oscure della destra eversiva degli anni settanta. Ma purtroppo non basta. Il mistero della morte dei due ragazzi non riesce a squarciarsi. Un romanzo sulle oscurità della Storia e sull’impossibilità di ricucire il presente con il passato, anche per quanto riguarda le vicende personali. Una storia che accende la luce sulle mille menzogne che formano la nostra identità, su tutto quello che abbiamo bisogno di raccontarci e di farci raccontare per proteggerci dalla forza travolgente della realtà.
Il secondo romanzo di luca Quarin, Di sangue e di ferro, Miraggi scafiblu Edizioni, non può deludere le aspettative di chi ha amato il suo esordio letterario, avvenuto tre anni fa con Il battito oscuro del mondo, Autori Riuniti, Edizioni. Con questo libro l’autore riprende e ricuce alcune tematiche e riflessioni di fondo che apparivano nel suo precedente romanzo. Penso in particolare alla dicotomia tra la razionalità e l’impulso di morte (un’oscura volontà di potenza?) che accompagna il dispiegamento sia individuale sia storico dell’Occidente. Il protagonista della vicenda è Andrea Ferro, un cinquantenne precario che si arrangia facendo l’assistente universitario a contratto ed eseguendo cover di cantanti country americani in improbabili locali torinesi. Lo spartiacque, quella frattura che inevitabilmente incrina l’esistenza adolescenziale di Ferro è rappresentata dall’improvviso aggravarsi delle condizioni di sua nonna Antonia. Il protagonista del romanzo torna a Udine, sua terra di origine, per occuparsi della donna che lo ha allevato. Attraverso le sue confessioni e reticenze, grazie anche agli enigmatici interventi di altre figure emblematiche, Ferro ricostruisce alcuni tasselli mancanti del suo passato, laddove la storia individuale finisce per coincidere con le pagine più oscure della storia d’Italia nell’epoca del terrorismo rosso e nero. Che cosa lega la morte dei genitori di Ferro, avvenuta in seguito a un misterioso incidente stradale, alla strage di Peteano? Che ruolo hanno avuto i nonni, in quanto esponenti dell’estrema destra cittadina, nelle vicende di quegli anni? Perché il protagonista viene perseguitato da un misterioso autore che aspira a pubblicare per la casa editrice con cui collabora? E che fine ha fatto Silvia, l’eterna fidanzata di Ferro, che spesso lo abbandona e ama sparire nel nulla? Di Sangue e di ferro e un’opera che già dal titolo fa presagire il carattere dicotomico che soggiace alla sua elaborazione. Per cercare di comprendere la direzione verso cui muove la sua esistenza, il protagonista deve riuscire a comprendere la differenza tra realtà e verità; tra i fatti intesi come narrazione deformata dai sentimenti della memoria e i dati oggettivi che la storia dispone sul grande tavolo dell’interpretazione intersoggettiva. Che rapporto c’è fra la storia individuale e la storia di una nazione? È possibile decodificare la misteriosa e oscura volontà che muove il divenire dell’uomo e dei popoli? Si possono ancora scrivere romanzi onesti in cui non si raccontano solo i fatti riconfigurati da una memoria fallace, ma in cui sia possibile illuminare la forza cieca che guida da sempre le contraddizioni dell’Occidente? A voi la risposta. Non dovete far altro che tuffarvi nella lettura di questo romanzo sublime, anche grazie all’eleganza di uno stile ipnotico e travolgente.
“Una cosa è tua quando sai cos’è, e sai cos’è quando la racconti a qualcuno.” Quanto influscono le narrazioni sulla costruzione dei nostri ricordi, del nostro passato e della nostra identità? Quanto influsce la narrazione sulla costruzione dei ricordi, del passato e della identità di un personaggio di un romanzo? Chi racconta, quanta e quale verità consegna al suo interlocutore? E questa verità quanto aderisce alla realtà? Andrea Ferro, protagonista di questo romanzo, si trova a camminare tra le strade del suo passato, di un passato che non ha mai conosciuto fino in fondo e da cui è fuggito prima che le domande diventassero insopportabili. Ferro è cresciuto con le risposte che ha deciso di farsi bastare, su quelle risposte ha dato direzione alla sua vita e alla sua identità. L’aggravamento delle condizioni di salute della nonna lo riporta a Udine, dove le domande si risvegliano e dove iniziano ad arrivare risposte diverse e da più direzioni. Andrea cerca di unire i puntini e di dare un contorno definito al suo passato attraverso i racconti delle persone che ritrova a Udine, ma fino alla fine gli sfugge la dimensione di quella verità che sta cercando. La storia della famiglia di Andrea, la storia di un attentato per cui non sono mai stati trovati i veri colpevoli, la storia del nostro paese dagli anni ’70 ad oggi, tutte queste storie sono appunto “storie”, narrazioni, sono lo specchio deformante della realtà che restituisce verità possibili, tante quante sono le narrazioni possibili. La riflessione è densa, i rimandi letterari e filosofici sono tanti, e ricercati, ma il romanzo riesce con un ottimo ritmo a far convergere i fili verso il loro finale, verso l’origine del racconto. In fondo le storie e la Storia, sono racconti, come i romanzi, e non è detto che realtà e verità coincidano.
Di sangue e di ferro è un romanzo che usa ripetutamente la myse en abyme, talvolta anche come coupe de théâtre, per accendere la miccia narrativa che fa detonatore alle altre storie, circuitando il lettore dal particolare all’universale e viceversa. Questa modalità permette all’autore di ragionare sul senso della Storia e delle storie e davvero non mancano i riferimenti, sempre appropriati, alla riflessione e rilettura politica che prende il via a partire da un tragico evento concreto: la strage di Peteano. Però il romanzo batte più strade, oltre a quella maestra. E, per altre vie, non secondarie, ci porta all’interno delle sue fondamenta. Mi spiego: Quarin srotola le pieghe della narrazione, ci fa entrare nel meccanismo – quasi una nouvelle vague della scrittura – del romanzo in sé e per sé, facendo la spola tra realtà e finzione in un continuo gioco di specchi. Orbene, sappiamo che i protagonisti dei romanzi, per quanto autobiografici, vivono all’interno del romanzo. Quarin sfida la legge della gravità narrativa e li sposta al di là della scena in cui vivono. L’effetto è singolare. Ma più che l’effetto, è senz’altro la inequivocabile dichiarazione d’amore che Quarin fa alla letteratura quella che infine trionfa, sul sangue e su ferro.
“Ricordava davvero qualcosa?” si chiede il protagonista di questo romanzo. Andrea Ferro è un uomo sfocato la cui vita procede su piani paralleli. Andrea Ferro è ricercatore universitario sotto il giogo del professore ordinario, è lettore presso la casa editrice Editori Riuniti, suona in un Pub, fa da balia all’ex fidanzata, ma Ferro ha, soprattutto, un passato. La storia di Andrea Ferro si mescola con la Storia d’Italia. Il romanzo raccoglie testimonianze storiche sulla lotta tra destra e sinistra, tra Lotta Continua, le Brigate Rosse, Gladio, l’eversione nera e l’epoca dei depistaggi, senza dimenticare gli spettri della Decima Flottiglia Mas. Quello di Luca Quarin è un romanzo che si autoalimenta a mano a mano che procediamo con la lettura. È una camminata nelle terre dell’autofiction, ma allo stesso tempo sembra quasi prenderne le distanze, come se l’autofiction fosse una scappatoia o, più semplicemente un mezzo d’indagine che non può dare i risultati desiderati. Questo è un libro che pone molte domande. Alcune delle quali spettano al lettore. Ad esempio, il quesito più intrigante che ci si possa fare dopo aver letto “di sangue e di ferro” ha a che fare con la veridicità delle fonti riportate. Non possiamo essere certi che tutto ciò che è stato citato sotto forma di contributo storico corrisponda al vero. Possiamo essere sicuri però che tutto ciò che è inserito in questo romanzo ha l’unico scopo di rispondere alla domanda iniziale “Ricordava davvero qualcosa?”
Cos’è di sangue e di ferro di Luca Quarin? Autofiction come strumento per diffidare della grande Storia, e affermare che è “vera” solo la sua narrazione? Un romanzo sul romanzo, volto a saggiarne la tenuta delle regole nel postmoderno? Una contaminazione di generi letterari disseminata di interrogativi filosofici? Tanti sono i piani di lettura di questo romanzo. Che però resta solido nel suo ancoraggio contenutistico: scandagliare l’eversione nera in uno dei suoi più inquietanti episodi, la strage di Peteano (31 maggio 1972). Ferro, il protagonista, si interroga sulle responsabilità di suoi familiari nell’intreccio perverso fra apparati dello Stato, logge massoniche, organizzazioni neofasciste che hanno depistato per anni le indagini, imboccando la “pista rossa” nel tentativo di saldare l’autobomba di Peteano all’omicidio Calabresi (17 maggio). Sono i miasmi di questa putrida storia che avvolgono i protagonisti del romanzo, è inseguendo la sua trama che l’autofiction rimane tesa nello sforzo di avvicinarsi a una verità. Una verità che brucia, forse non risana, forse non esiste neppure, forse è solo l’eliminazione di qualche errore. Tuttavia la sua ricerca consente al narratore di prolungare la vita indagando i misteri della Storia attraverso le storie dei protagonisti, grandi e piccoli, con uno stile che si fa solido, teso, scevro da compiacimenti estetizzanti. Ferro e i suoi congiunti vengono strappati alla Storia che sospinge ai margini del nulla le piccole storie come la sua. Quella Storia che assegna alle piccole storie la sorte di essere narrate, mai di narrare. Una storia che Ferro vuole dimenticare, perché “dimenticare è la nostra unica libertà” [pag.151]. Ma dimenticare non per rimuovere il passato oscuro: dimenticare come fanno le esistenze fortificate, come fa la natura “che ricomincia a ogni istante i misteri dei suoi parti infaticabili” (Balzac). In questo senso “di sangue e di ferro” prolunga la vita del lettore. E in questo senso si può dire che “lo scrittore è il profeta che guarda al passato”.
Il romanzo di Luca Quarin e’ come una matrioska che cela al suo interno almeno altri due romanzi ed altrettanti coprotagonisti: Andrea Ferro orfano cresciuto dai nonni legati a movimenti eversivi della destra, Luca Quarin scrittore in cerca di riconoscimento e Vincenzo Vinciguerra autore della strage di Peteano tutti indissolubilmente legati tra loro. Niente e’ pero’ come sembra a prima vista e bisogna arrivare alla fine della narrazione per toccare con mano tutti i depistaggi subiti dall’inchiesta sul fatto di sangue e nel contempo dalla memoria su ciò che ricordiamo e su come ricordiamo. Un romanzo molto profondo da leggere con attenzione per i quesiti che inevitabilmente ognuno di noi si pone.
Un consiglio di lettura intenso, che non consente tregua allo sguardo del lettore. Nel 1972 esplode una bomba a Peteano, vicino a Gorizia, uccidendo tre carabinieri. Depistaggi, indagini, memoria con cui fare i conti. Un romanzo sulle oscurità della Storia e sull’impossibilità di ricucire il presente con il passato, anche per quanto riguarda le vicende personali.
Un libro poderoso, di grande qualità letteraria. Un romanzo matrioska, di quelli che al loro interno contengono altre storie in un intreccio stretto e inaspettato. La prosa è notevole specie nelle parti dedicate al protagonista Andrea, giovane insegnante che accorre non appena riceve la chiamata da un’infermiera, che avvisa che la nonna si sta aggravando. Quarin è un autore straordinario, che lascia senza fiato. Nonostante io prediliga le scritture asciutte devo dire che questo è un romanzo che ti cattura e che regala delle pagine indimenticabili. Quarin non dà tregua al lettore, lo trascina dentro la vicenda, fa capire che si tratta di una storia vera, fa saltare i confini fra fiction e autofiction. La cronaca racconta cne nel 1972 esplode una bomba a Peteano, vicino a Gorizia, uccidendo tre carabinieri. Depistaggi, indagini, memoria con cui fare i conti. Quarin scrive un romanzo sulle oscurità della storia e sull’impossibilità di ricucire il presente con il passato, la vicenda personale è impastata di sangue e di ferro. La verità è un puzzle da ricostruire con fatica e a caro prezzo.
“Sull’Atlantico un minimo barometrico avanzava in direzione orientale incontro a un massimo incombente sulla Russia, e non mostrava per il momento alcuna tendenza a schivarlo spostandosi verso nord. Le isoterme e le isòtere si comportavano a dovere. La temperatura dell’aria era in rapporto normale con la temperatura media annua, con la temperatura del mese più caldo come con quella del mese più freddo, e con l’oscillazione mensile aperiodica. Il sorgere e il tramontare del sole e della luna, le fasi della luna, di Venere, dell’anello di Saturno e molti altri importanti fenomeni si succedevano conforme alle previsioni degli annuari astronomici. Il vapore acqueo nell’aria aveva la tensione massima, e l’umidità atmosferica era scarsa. Insomma, con una frase che quantunque un po’ antiquata riassume benissimo i fatti: era una bella giornata d’agosto dell’anno 1913”.
Questo il noto incipit de “L’uomo senza qualità” di Robert Musil (Einaudi 1996. Trad. it. Anita Rho, Gabriella Benedetti e Laura Castoldi). In questo incipit così preciso e puntuale possiamo cogliere in filigrana quello che sarà uno dei temi fondamentali dell’opera di Musil: il rapporto tra anima e esattezza. E, a proposito di questo tema, Musil stesso afferma:
“Ogni cosa ha mille lati, ogni lato ha cento rapporti, e a ciascuno di essi sono legati sentimenti diversi. Il cervello umano ha poi fortunatamente diviso le cose, ma le cose hanno diviso il cuore umano” (Op. Cit. Pag. 87).
Come conciliare l’anima con l’esattezza, la poesia con le scienze rigorose, l’umanesimo con la scienza? Può essere conciliabile un ossimoro? Non sarà forse la meteorologia che riuscirà a risolvere la questione? Interrogativi che si sono affollati nelle ma mente alla lettura dell’originale e bel libro di Jaroslav Rudis “Grand Hotel. Un romanzo fra le nuvole”, ottimamente tradotto da Yvonne Raymann e pubblicato da Miraggi nell’ottobre 2019 nella collana dedicata alla letteratura ceca NovàVlna. Il romanzo era uscito nella Repubblica Ceca nel 2006. Va dato grande merito a Miraggi di aver dato la possibilità di conoscere questo piccolo gioiello ai lettori italiani.
Ma chi è Jaroslav Rudis? E’ nato a Turnov nella Repubblica Ceca, distretto di Liberec nei Sudeti tedeschi. E’ scrittore, drammaturgo, sceneggiatore, musicista. Ha scritto romanzi, racconti e, insieme al musicista e performer Jaromìr 99, ha dato vita a una popolare trilogia di fumetti, Alois Nebel; ha, inoltre, fondato il gruppo musicale Kafka Band. Scrive sia in ceco sia in tedesco. Ha ricevuto numerosi premi. Nel 2018, alla Fiera del libro di Lipsia, ha ricevuto il Premio delle Case Editrici con la seguente motivazione. “Con ironia e sensibilità per le piccole preoccupazioni quotidiane della gente Jaroslav Rudis ci restituisce una società composta di personaggi eccentrici, spesso vittime di aneddoti tragicomici. Così sono i suoi libri: divertenti, critici, politici, poetici, in poche parole un rock’n’ roll letterario”.
A questo punto il lettore si domanderà cosa c’entri l’incipit di Musil con Rudis. Lo vedremo, ma prima la trama in breve: Fleischmann, di cui si conoscerà il nome di battesimo solo nelle ultime pagine del romanzo, è un giovane trentenne eccentrico, spostato e che ha la passione per la meteorologia. Va periodicamente da una dottoressa per parlare dei suoi problemi. E’ stato rocambolescamente adottato da un lontano cugino, Jégr, dopo che i suoi hanno avuto un grave incidente in auto dove lui era uno dei passeggeri. A causa dell’incidente ha avuto un ricovero in una struttura per “svitati” dove ha sviluppato una sindrome post-traumatica da stress accompagnata da istinti suicidi, insicurezze, malinconie, desiderio di solitudine e difficoltà con le donne. Fleischmann è, come si diceva più sopra, un appassionato di meteorologia. Ascolta le previsioni del tempo quotidianamente, osserva il cielo e le nuvole dal suo osservatorio privilegiato: l’Hotel che si erge verso il cielo in cui lui vive e lavora. Vi vive e lavora insieme al cugino che lo adottato con cui parla di donne e calcio e dal quale viene ritenuto un giovane con molte difficoltà, anche di comprensione. Viene ritenuto incapace di avere relazioni con le donne e incapace di praticare qualsiasi attività sportiva. Quasi l’intero romanzo si svolge nel Grandhotel di Liberec, città della Repubblica Ceca, capoluogo della regione omonima, collocata nei Sudeti tedeschi. E’ lì che Fleischmann incontra lo stravagante Franz, forse un nostalgico del nazismo, incontra Ciuffo ex compagno di scuola, Zuzana, la cameriera Ilja, una ragazza snella e dai capelli corti che sarà decisiva per lo sviluppo della storia. Sarà nel Grandhotel che l’anelito di libertà di Fleischmann si farà sempre più forte fino alla conclusione finale che lascio al lettore il piacere di scoprire. Tutti i personaggi del romanzo sono strambi, fuori dagli schemi, indimenticabili. Anche se richiamano alla memoria alcuni personaggi dei racconti e romanzi di Hrabal, questi personaggi sono assolutamente originali. Su di essi Rudis ha fatto un lavoro di scavo psicologico molto approfondito.
Si diceva di Musil, della sua ricerca di conciliare anima e esattezza. Fleischmann cerca di farlo utilizzando la meteorologia, il che rimanda all’incipit de “L’uomo senza qualità”, e una vera e propria fenomenologia delle nuvole:
“L’uragano è un ciclone tropicale. Un vortice di bassa pressione. Venti devastanti. In Giappone lo chiamano tifone. In Australia, invece, willy-willy. Nei Caraibi, uragano. Per formarsi ha bisogno di tre elementi: il calore dell’acqua, aria umida e venti equatoriali convergenti. Ma magari è sufficiente che da qualche parte una mosca batta le ali. O una farfalla. O una zanzara. Oppure che qualcuno saluti con la mano per la strada. Sarà per questo che non saluto mai così, per non provocare una catastrofe con il movimento della mia mano.
Un uragano è una gigantesca lavatrice dell’aria, un’aspirapolvere così potente che forse a volte potrebbe servire a ognuno di noi. Un uragano, però, è forse anch’esso uno stato dell’anima, lo stato dell’anima del clima” (Pag. 16).
E le nuvole assumono anche un aspetto poetico:
“All’inizio di ogni storia e di ogni film c’è il cielo azzurro, l’avete mai notato? Poi, ad un tratto, da chissà dove spuntano le nuvole. Io lo so da dove giungono. Ho fiuto per le nuvole” (Pag.21).
Le nuvole, che possono darci indicazioni precise sul tempo atmosferico, che sono poetiche, possono dare la tranquillità. Fleischmann ricorda i tempi della scuola e quel giorno in cui i suoi compagni di scuola lo legarono ad un albero:
“Ero sul punto di crollare, ma dominai la situazione, come si suol dire. Guardai le nuvole che scorrevano basse sopra la via. Le nuvole che portavano la pioggia del Mare del Nord e a un tratto capii. Intendo dire che capii tutto delle nuvole e anche di me stesso. Mi tranquillizzai. Sapevo che presto sarebbe cominciato a piovere e i ragazzi sarebbero corsi a casa” (Pag. 24-25).
Le nuvole sono indispensabili pre prevedere il tempo, sono poetiche, tranquillizzano e salvano, ma hanno anche un aspetto metafisico:
“Le nuvole mi tranquillizzavano. Le nuvole mi avevano insegnato a perdonare. Le nuvole che stavano lì prima di me, prima di voi, prima dell’hotel a punta sulla nostra collina, prima dei comunisti, prima dei nazisti, prima dei calciatori e dei giocatori di hockey, prima dei ferrovieri, dei dottori e dei becchini, prima dei cantanti. delle attrici e dei robot, prima di tutta la nostra storia. Le nuvole che saranno lì anche quando finirà la storia. E finirà. Lo hanno detto alla televisione” (Pag.26).
Fleischmann non è mai diventato meteorologo ma:
“Le nuvole però non mi hanno lasciato. Ricordo tutti gli eventi in base alle nuvole, in base al clima, perché dal clima dipende proprio tutto. E quindi registro tutto quanto. La temperatura. La pressione atmosferica. La direzione e la forza del vento. Le forme e i tipi di nuvole. Le precipitazioni. Proprio tutto ciò che è importante se si vuole conoscere il clima, se si vuole capire da che parte va il mondo. Sulle pareti della mia stanza c’è un enorme grafico, delle linee azzurre, nere e rosse, degli appunti. Questo è il mio mondo. Il mio diario. La mia tabella di marcia” (Pag. 31).
Al lettore può venire il dubbio che il tempo atmosferico sia un surrogato, sia qualcosa che riempie i vuoti dell’anima di Fleischmann. Il lettore condivide con la dottoressa di Fleischmann questo dubbio:
“La dottoressa dice che tutte le mie nuvole, i venti, le nevi, le piogge, i cicloni, le mappe e i grafici suppliscono a qualcosa di molto più importante, a qualcosa che desidero nel profondo del mio personale infinito, ma che forse non conosco neppure. O che forse conosco già. Ma ho paura di farlo” (Pag.89).
Questo è un aspetto molto importante sul quale tornerò dopo. Qui mi preme sottolineare come nel romanzo sia presente anche la Storia, anche la politica. Ci troviamo davanti alla dimensione politica quando Fleischmann evoca il padre e il nonno, quando ci narra di quello strambo personaggio che è Franz, che forse è stato nazista, che si è dato la missione – quasi come in un film- di spargere le ceneri di amici morti nelle loro case d’origine a Liberec.
Liberec è nei Sudeti tedeschi. Dopo l’invasione nazista della Cecoslovacchia quella zona divenne una Gau, unità amministrativa della Germania nazista, e Liberec, che assunse il nome di Reincheberg, ne divenne il capoluogo. Quando la Germania nazista venne sconfitta, il Territorio dei Sudeti venne restituito alla Cecoslovacchia e i tedeschi espulsi. Oggi gli ex territori di lingua tedesca dei Sudeti fanno parte della Repubblica Ceca. Il capoluogo è tornato a chiamarsi Liberec. Nel libro sono adombrati vari riferimenti a queste vicende e non solo quando Fleischmann si associa a Franz nelle sue avventure picaresche e deliranti. Spesso Rudis fornisce il significato in tedesco e in ceco di un nome, sottolinea che in quella zona si parlano il tedesco e il ceco. Un esempio, fra i tanti, quando Fleischmann parla della cameriera Zuzana:
“Il suo cognome è Sladkà. Dolce in tedesco si dice suss o zuckrig. Suss wie Honig vuol dire dolce come il miele e dolce riposo si dice eine susse Rast. Ve lo dico perché i nomi non mentono e Zuzana sembra fatta di zucchero, Ma ve lo dico anche perché la nostra è una città ceco-tedesca. O tedesco-ceca, Per questo traduco sempre tutto” (Pag. 90).
Per quanto concerne il padre, Fleischmann paragona le riunioni a cui partecipava (ma anche su questo punto Rudis riserverà sorprese al lettore) alla sua passione per il tempo atmosferico:
“Spesso prima delle riunioni si chiudeva in bagno dove c’era uno specchio grande. La mamma diceva che davanti allo specchio provava i discorsi, ma secondo me chiacchierava normalmente tra sé e sé, come capita a tutti quando si è soli, anche a me.
Può darsi che la solitudine sia l’unica qualità che ho ereditato da lui. Sempre che la solitudine possa essere una qualità, ma io penso di sì, anche la mia dottoressa si limita a scuotere la testa: non ci vedo niente di male se a qualcuno nella vita bastano le riunioni. A me basta il tempo atmosferico. Alla fin fine anche il tempo atmosferico è simile a una riunione, a volte tranquillo, a volte burrascoso, e una riunione importante è un incessante incontro di nuvole, lampi, pioggia, venti, pressioni, temperature, tutto ciò che influenza, rovina e salva la vita. La vostra e la mia” (Pag. 35-36).
Per quanto concerne il nonno, Fleischmann racconta alla dottoressa che il 21 agosto 1968, giorno dell’invasione russa della Cecoslovacchia, il nonno e la nonna erano andati a vedere i carri armati “con le righe bianche”. Il nonno aveva acceso una sigaretta “Partyzàn” e minacciato i carri armati a pugni chiuso e aveva ridotto in pezzi il suo libretto Rosso. Mentre la nonna lo portava via lui era scivolato ed era finito sotto un carro armato. Racconta ancora Fleischmann alla dottoressa:
“Raccontai alla mia dottoressa che mio papà mi aveva vietato di parlare di carri armati a strisce, di libretti rossi fatti a pezzi e del nonno, che era arrabbiato con la mamma e con la nonna per avermelo raccontato e che in ogni caso era stato un errore del nonno, mettersi davanti ai carri armati, non sarebbe venuto in mente a nessuna persona normale, le raccontai che il nonno non era affatto un partigiano sebbene fumasse le Partyzàn, era un provocatore e un sabotatore, e da quello non prende il nome nessuna sigaretta perché i sabotatori non sono mai molto popolari” (Pag. 129-30).
Dai brani riportati più sopra si può ben capire come siano molto presenti a Jaroslav Rudis le tematiche riguardanti i Sudeti e quelle concernenti la Primavera di Praga e la normalizzazione. Un contesto da non dimenticare mentre si legge.
Si diceva più sopra che le nuvole hanno un significato metaforico. C’è uno slittamento progressivo di senso: le nuvole sono poesia, sono l’esattezza con cui si può prevedere il tempo, sono la metafisica perché esse erano prima di noi, infine diventano la metafora della libertà. Le nuvole sono la leggerezza, la navigazione verso l’Altrove, rappresentano il superamento di ogni confine. E questo è molto importante perché una delle difficoltà di Fleischmann, forse la più grande, è quella di non riuscire a superare il confine, un confine il cui passaggio sembra interdetto, malgrado l’aiuto della dottoressa che lo accompagna fino la cartello che indica la fine della città:
“Ma all’improvviso cambiò tutto, ci avvicinammo al cartello che indicava la fine della nostra città e l’inizio del mondo e cominciò a palpitarmi il cuore, mi si strinse la gola e sulla lingua avvertii il gusto piccante del mio personale infinito, tutte le mie paure. Cominciai a sudare e a soffocare e dovetti uscire perché, mi era chiaro che se l’avessi oltrepassato non sarei più tornato indietro. Mi sarei perso. Sarei morto.
Il conducente lo fece appena in tempo. Aprì le porte, io saltai fuori e mi buttai sulla strada proprio sotto al cartello con la scritta barrata della nostra città, i passeggeri uscirono in massa, si chinarono verso di me, volevano prendersi un pezzo della mia paura, come in modo indolore ne strappano ogni giorno dagli incidenti alla televisione, ma la dottoressa li tranquillizzò, disse loro che non stavo morendo, che era tutto a posto, che non mi era successo niente, che avevo avuto solo un attacco di panico, una normalissima crisi d’ansia e niente di più, ma come me, anche lei sapeva bene che non si trattava solo di questo, che era molto di più” (Pag. 162).
E’ molto di più perché si tratta di emancipazione e di libertà. Ce la farà Fleischmann, dopo questa esperienza, a superare quella linea di confine che gli sembra interdetta? Riuscirà a essere come le nuvole, a essere come il vento?
A conclusione mi si conceda un ricordo personale. Anni fa ero in vacanza con alcuni amici in quella che era ancora la Cecoslovacchia. Uno di loro mi confidò che aveva avuto, in alcuni momenti della nostra permanenza là, dei veri e propri attacchi di claustrofobia. Aggiunse che, a suo avviso, uno dei grossi problemi dell’Europa Centrale era che non c’era il mare che l’avrebbe ossigenata come avrebbe ossigenato lui. Che se ci fosse stato il mare l’ anelito alla libertà di quei popoli sarebbe stato molto più grande.
E il ricordo personale si mischia, oggi, a quello che la dottoressa dice a Fleischmann:
“(La dottoressa) dice che il nostro popolo non fa male a nessuno, ma che in fin dei conti non ci importa se qualcuno fa del male a noi. La mia dottoressa pensa che a noi manchi il mare e l’aria fresca. Oppure delle vere montagne con dei bei panorami. Che noi siamo bloccati in una conca, dove di noi si possono vedere solo i capelli. E che per questo siamo un popolo così introverso. E chiuso in stesso. E angosciato” (Pag. 158).
Gli scrittori latinoamericani tirano fuori il peggio di noi
“Bolaño selvaggio” è un libro che fa bene a Bolaño e benissimo ai bolañisti, cioè a tutti noi. E che andrebbe letto da cima a fondo a cominciare dal fondo
Confesso, ho sempre fatto fatica con Roberto Bolaño. Il che non significa che io non abbia letto Roberto Bolaño, perché, giuro, l’ho letto. Ho letto numerosi romanzi di Roberto Bolaño, direi almeno cinque – verità che, non fosse tale, confesso che occulterei senza pensarci un attimo, negando fino alla morte e resistendo eroicamente alle inquisizioni sopraccigliari delle frotte dei bolañisti, i quali sono una setta di adepti che ti sbirciano in tralice mentre parli fino a indurti al balbettio (quando parlate con un bolañista fissatevi su un dettaglio del volto a caso e concentratevi su quello, solo così potrete sostenere il suo sguardo non sostenendolo) e ti sbirciano per vedere se hai detto la verità, sospettando che non l’hai detta, tu Roberto Bolaño l’hai letto poco, pochissimo, e ovviamente male. Come tutte le sette, sono pericolose e assassine, il che getta una luce di amara verità non solo sui bolañisti ma anche su tutti gli altri: sui cortazariani, i dostoevskiani, i pasolinisti, i thomasbernhardiani, i franzeniani, insomma, su chi siamo tutti noi, nessuno escluso, quando amiamo un autore. Siamo dei granitici detentori di culto, degli officianti permanenti, dei teppisti che si contengono per un pelo, degli stalinisti, dei mezzi mostri con l’alibi intero della passione, come se la passione sia mai riuscita ad affrancare qualcuno dalla propria condizione di aguzzino, macché, non c’è un solo caso al mondo, anzi, è vero il contrario, l’ha semmai nutrita e incrudelita, la passione, quella condizione di omicida con l’alibi profondo.
Io – sia chiaro – non sono da meno, e faccio parte di questa famiglia di fanatici feroci che suppongono il proprio gusto il più giusto possibile: quando sono io il portatore di un’inamovibile convinzione letteraria sono sempre nella verità, mentre i portatori di culti diversi erodono il mio terreno esclusivo, quindi mi urtano, mi ostacolano, mi innervosiscono con la loro ottusità. E quanto insistono! Tra l’altro è dalla mia vita cubana in poi che noto come, quando in ballo ci sono i latinoamericani (come se “scrittore latinoamericano” significasse davvero qualcosa), il culto prenda pieghe ancor più aggressive e l’amore assuma assurdi significati travalicanti. Quello che accade è che “scrittore latinoamericano” diventa automaticamente condizione morale e non solo estetica. E lo diventa al punto che criticare la qualità letteraria delle pagine di uno scrittore latinoamericano scarso ma di culto è pericolosissimo, è una spericolata attività portatrice di penose conseguenze, alimentate da sospetti di insensibilità politica del criticante, e di squallido cinismo occidentalista antindigenista (l’accusa non viene aggiornata dal 1967). Perché gli scrittori latinoamericani tirano fuori il peggio di noi? Perché, in nome di ciò che non esiste, ci assembriamo in contese ringhiose su un terreno ridicolo, in una notte in cui tutte le vacche sono nere, trascinandoci – nolenti – fin nel cuore delle selve amazzoniche, sospinti da una rossa brezza esoterico-allegorica?
“Bolaño selvaggio” (miraggi edizioni, 436 pp., € 24 euro) è un libro splendido, pubblicato da un editore tra i più ammirevoli in circolazione. Un libro che fa bene a Bolaño e benissimo ai bolañisti, cioè a tutti noi. E che andrebbe letto da cima a fondo a cominciare dal fondo, cioè da un rimasuglio di intervista ad oggi inedita in cui Bolaño risponde come spesso amava, con sferzante sarcasmo – il che è rivelatore perché la maggior parte degli scrittori che amano senza ironia Bolaño non hanno nemmeno un centesimo del suo sarcasmo e del suo disinteresse verso ciò che era conveniente dire, chi ha dei dubbi si rilegga la conferenza “Siviglia mi uccide” e avrà di che deludersi, in termini di secca sconfessione di militanze presunte.
Ma è leggendo “Bolaño epidemia” di Jorge Volpi che sopraggiunge l’epifania. Non solo perché epidemia è ormai la nostra parola chiave, ma perché, attraverso un gioco metabolañista, Volpi sveste Bolaño, sveste i bolañisti e la propria generazione di tutto il bolañismo deteriore, di tutto il bolañismo orfico, e consegna un saggio acuto, divertente e intelligentissimo sul Bolaño originario. E ci parla dell’utilità di non essere maniacali e settari quando si ama uno scrittore, perché poi si finisce a non capirlo. E a chi, in quel congresso di Siviglia, chiese che consiglio avrebbe dato a un giovane scrittore, Roberto Bolaño rispose: “Vi raccomando di vivere. E di essere felici.” La risposta meno bolañista possibile. La più bella. Quella fu l’ultima apparizione pubblica dello scrittore. Morì a Barcellona di lì a pochi mesi.
Dieci racconti, dieci personaggi, dieci storie. In bilico tra realtà, sogno, inconscio. Questo è La vita moltiplicata di Simone Ghelli, pubblicato da Miraggi Edizioni. Un libro che suggerisce una riflessione a partire dal titolo in cui La vita e non Le vite sembra indicare una sottile linea rossa che fa da cifra di lettura e scrittura. Quasi ci fosse un legame tra le storie raccontate, talmente forte da diventare un unico canovaccio, un unico percorso. Seppure complesso e sfumato, come appunto la vita.
I dieci racconti, come i dieci protagonisti ci appaiono tutti alla disperata ricerca di una via di fuga. Dal presente, da un attuale che più che creare disagio sembra, semplicemente, non bastare a contenere tutto ciò di cui si compone un’esistenza. Ogni cosa in bilico tra passato e futuro, a sostenere un presente che fugge, che stritola, che inchioda, che imprigiona.
E allora la vita moltiplicata diventa, per ciascuno dei protagonisti, una sorta di riscatto, di resa, di sogno, di ricerca estrema di ciò che c’è di più estremo: l’identità. Ma anche la realtà. La domanda che ci arriva, in sottofondo, dalla lettura di ciascuno di questi racconti, potrebbe proprio essere questa: cos’è la realtà? Quella che viviamo e dentro la quale ci muoviamo, costretti dalle convenzioni, dai sottili equilibri (anche psichici) che costituiscono l’impalcatura di una costruzione fragile? Oppure la realtà è quella che ci costruiamo nei sogni, nell’immaginazione e nell’immaginario refrattario alle regole?
Simone Ghelli (Foto da giacomoverri.wordpress.com)
Ghelli è scrittore dalle potenti letture e questi racconti restituiscono quello che deve essere stato (e che presumibilmente ancora è) il suo percorso di lettore. E forse, azzardiamo, anche il suo percorso di “consumatore” di cinema. Perché c’è molto di cinematografico in queste pagine. Non nel ritmo, non nella dinamica ma, certo, nell’uso forte delle immagini. Sì, perché i protagonisti di queste storie noi lettori ci troviamo a seguirli quasi come su uno schermo. Che è quello che costituisce un confine fisico in cui le cose più interessanti avvengono oltre esso, oltre quello spazio, dove apparentemente non si vede più nulla ma dove succede tutto. Tutto quello che sappiamo immaginare.
Che è un po’ quello che avviene nella vita dei vari protagonisti dei racconti, ciascuno dei quali viene dal lettore salutato sulla soglia di qualcosa. Perché ciascun racconto si conclude senza finire. In un moltiplicarsi di ipotesi, di sviluppi, di proseguimenti.
La vita moltiplicata è un atto d’amore, soprattutto, verso la letteratura e la scrittura, verso il loro potere di scrivere ciò che ancora non esiste e che non è mai esistito ma che, proprio per questo, è tutto ciò che davvero, forse, possiamo chiamare realtà.
Un libro molto più complesso di quanto possa apparire ad una prima lettura, sorretto da una scrittura la cui semplicità si avverte essere frutto di un lungo lavorio. Che è esattamente il contrario dello spontaneismo. Non vi è nulla di spontaneo in questi racconti. Semmai qualcosa quasi di automatico, come se l’autore si fosse lasciato andare ad un flusso incontenibile, come se si fosse messo accanto ai suoi personaggi, ascoltandoli, come uno psicoanalista con i suoi pazienti. Solo che qui non c’è nessun paziente perché il disagio o l’incapacità di farsi bastare la vita che manifestano i personaggi non è patologico, anzi. È la più vitale delle rivolte a tutto ciò che vuole ridurre la vita a qualcosa di razionale e senza sfumature e stonature.
Questa perla di libro, pubblicato nel 1963 a Praga e appena pubblicato in Italia da Miraggi è davvero una bella sorpresa. Bisogna immergersi, fino in fondo per trovare la perlina e in ognuno dei racconti che lo compone si trova sempre splendente. Sono 12 racconti di gente comune, di lavoratori in diversi ambiti, acciaierie, deposito di carta da macero, assicuratori, racconti di gente comune dentro qualche birreria, ad assistere ad una gara di macchine in corsa, che prendono lezioni di guida e sono racconti nei racconti. Tutti hanno qualcosa da raccontare, tutti hanno ricordi che emergono, ognuno va a ruota libera perché per ognuno è importante quello che ha da dire, il bello è che ognuno può dirlo ed è pure ascoltato. E l’umanità che ne scaturisce è “ la perlina “ ,laddove magari non ci si fa caso. Sono personaggi marginali, a volte sopra le righe un po’ sbruffoni o timidi oppure un po’ strani ed incompresi. La scrittura di Hrabal, ci permette di andare oltre quello che appare ovvio, è una scrittura fluida, che attrae, a volte ironica, ricca di metafora e poetica. Sono pennellate di poesia quelle che nell’ immersione fanno entrare in empatia e permettono alla perlina di luccicare. Hrabal scrive di cose che conosce ed ha vissuto, i lavori di cui parla sono lavori che lui personalmente ha svolto quando nel 1939 la Cecoslovacchia, suo paese d’origine viene invasa dalla Germania nazista e lui deve abbandonare gli studi e mantenersi.
La pubblicazione di questo libro nella sua terra nel 1963 appunto, ha portato una grande novità nella letteratura ceca, dove non c’è l’eroe ma l’umanità comune con le sue peculiarità “imperfette “. Si trova in questo libro una lucida analisi di una società complessa. Dopo la Primavera di Praga, nel 68, il regime ha censurato totalmente le opere di Hrabal, i suoi libri circolavano clandestinamente, erano un antidoto alla al regime di Stalin , nonostante ciò ha ottenuto un buon successo come scrittore anche fuori dai confini della sua nazione. Merita una nota di plauso la traduttrice , lo dice lei stessa nella nota a fine libro, che non ha avuto un lavoro facile da fare, il linguaggio che ha usato lo scrittore è quello della lingua parlata, piena di modi di dire e sottintesi e semplificazioni che tradurre e rendere bene in italiano è per chi è bravo ( questo lo dico io). Una postfazione molto interessante di Alessandro Catalano anche curatore del libro, arricchisce e porta a conoscenza lo scrittore e le sue opere . È un libro da leggere è un libro che arricchisce e fa riflettere. È uno scrittore da leggere (e approfondire almeno per me) per la capacità di far dialogare collettivamente e ad alta voce , anche quelli che non hanno potuto farlo. Miraggi ha fatto ancora un bel canestro.
Mona, libera e rivoluzionaria in una società degradata
Gentili lettori,
ci ritroviamo ancora una volta ai margini di una società degradata, dove l’abbrutimento e la fatiscenza sono speculari a dinamiche di possessione dei corpi, delle coscienze e del loro annientamento. Risuona Foucault di “Sorvegliare e Punire” e le relative logiche di delirio. Questo nodo tematico profondo e irresolubile è il centro del lavoro di Bianca Bellová che, con il suo “Mona”, uscito in Italia l’8 giugno, tradotto da Laura Angeloni per Miraggi Edizioni, s’inscrive tra gli autori che hanno sentito l’urgenza di reificare la questione elevandola a iperbole speculativa e declinandola in modo da accogliere e illuminare altre afferenze tematiche: la repressione del desiderio, la discriminazione dei diritti delle donne, le esecuzioni sommarie, la tortura, il linciaggio, la guerra, l’ambiente oltraggiato, la perdita dell’innocenza. L’autrice ci ha abituati al superamento dei generi letterari, essendo le sue produzioni dotate di un dispositivo affabulatorio slegato da caratterizzazioni stereotipate, creando atmosfere ben radicate nell’attualità ma con un continuo rimando a suggestioni atemporali, che sfiorano lo straordinario. Gran parte della storia si svolge in un ospedale che si sta sgretolando pian piano, in un paese di cui non conosciamo il nome, in mezzo a una guerra civile. Mona è un’infermiera che ha conservato la dignità dei principi coi quali è stata formata, nonostante subisca le molestie di un medico del suo reparto. I suoi genitori, dissidenti e spariti nel nulla, le hanno lasciato in eredità valori che non è incline a barattare. La nonna, per proteggerla dal regime, l’ha segregata in una sorta di piccolo scantinato, nella sua casa di campagna. «Ed eccola lì, tra quattro pareti non murate. La stanza – ma poteva chiamarsi stanza? – era completamente buia, senza finestre. Alzandosi in piedi Mona toccava con la testa la botola da cui una volta al giorno riceveva una ciotola di riso e consegnava il recipiente con gli escrementi». Una volta adulta sposa un uomo che la rispetta ma di cui non è innamorata e con lui ha un figlio. Nella sua città le donne vanno in giro solo col velo sul capo e accompagnate. Mona è libera, rivoluzionaria. Sarà l’incontro con Adam, un paziente arrivato in pessime condizioni e che subirà amputazioni, a rinvigorire una volontà che va ben oltre la dose di piccoli orrori quotidiani. In stanze desolate, impregnate di iodio e morte, i due iniziano a scambiarsi i ricordi, collimanti con l’identità martoriata di un intero paese. «Perché non sei accompagnata, donna immorale?», le dice un uomo. E poi la minaccia. «Ma tu non eri quello ricoverato in ospedale l’anno scorso per un’ernia, quello che frignava come una femminuccia?», ribatte Mona. Bianca Bellová frammenta la parola, la polverizza per ricreare atmosfere sibilline in cui il lettore ritrova fini aderenze a una letteratura esistenziale. «Se è possibile, voglio vivere. Ma se non lo è, vorrei solo che finisse presto». E poi la fine, degna di un Romain Gary. L’Antiquario vi saluta.
Donne di mafia è stato pubblicato 25 anni fa ed è tornato quest’anno in libreria in occasione della Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie, con Miraggi Edizioni.
È il racconto dello scombussolamento all’interno di Cosa Nostra che le donne hanno provocato. Cosa Nostra nasce come mondo al maschile, dove le donne tacciono e per questo sono rispettate e scelte; tutto è basato sulla violenza e sul potere, sull’imposizione al maschile. Le facce delle donne che fanno parte della mafia sono tante: il libro racconta le distinzioni fra loro.
Le più giovani si mostrano diverse da quelle anziane perché sono state determinanti , incoraggianti e accanto ai loro uomini che avevano deciso di uscire dal circuito mafioso in cui sono cresciuti e di diventare collaboratori di giustizia. Sono quelle che possono aiutarli a intraprendere una vita nuova, libera, con tutte le difficoltà che questa comporta. Sono al loro fianco nei rifugi all’estero o in Italia, sotto un altro nome, in luoghi continuamente diversi che il loro stato di collaboratori di giustizia gli garantisce. Alcune li hanno lasciati, alcune si sono suicidate.
L’autrice ne cita molte, io qui cito quelle che mi hanno maggiormente colpita.
È Rita Atria, la più giovane. Figlia di un mafioso. Il padre è stato ucciso come anche il fratello Nicola. Aveva 16 anni quando ha deciso di andare a parlare in Procura a Sciacca, di nascosto, invece che andare a scuola. Quando il padre è stato ucciso aveva 11 anni, una grande perdita per lei. Con la madre aveva un pessimo rapporto. Quando anche Nicola, che era il suo unico riferimento affettivo è stato ucciso, ha deciso di raccontare quello che aveva visto e sentito nella sua famiglia. “Il mio compito è vendicare mio padre e mio fratello“. Inizia così per lei un viaggio doloroso, continuerà ad andare in Procura invece che a scuola. Era convinta che il padre non aveva le mani sporche di mafia, lo credeva un Robin Hood, che aiutava chi aveva bisogno ed è stato un duro scontro il suo, con i magistrati che hanno dovuto dirle la verità. Trovava tutte le giustificazioni per scagionarlo, non voleva credere che fosse un mafioso. C’era anche il giudice Borsellino ad ascoltarla ed è stato proprio lui quello che è riuscito ad avere la fiducia di Rita, che è stata allontanata dalla casa materna e messa sotto protezione. Viene messa in un residence insieme alla cognata Angela e alla nipotina, che aveva deciso di collaborare prima di lei. Dalla Sicilia a Roma, Rita era spaesata, ma convinta della sua scelta, mentre la madre faceva di tutto per farla rientrare a casa, fino a minacciarla di farla ammazzare. Dopo questa minaccia non ci sono stati più incontri tra loro. Scriveva di come avrebbe voluto il suo funerale Rita e soprattutto che la madre non avrebbe dovuto partecipare. In quel periodo viene ucciso Falcone, Rita e Angela sono sgomente, sperdute, insieme a Borsellino, rappresentava la possibilità del riscatto. Rita vuole stare da sola, non vuole più stare nel residence, si intestardisce. Incontra un ragazzo col quale inizia una relazione, una boccata d’ossigeno nella sua vita. Studia. Ma vuole vivere da sola, gli consegnano le chiavi dell’appartamento il 21 luglio, due giorni dopo l’uccisione del giudice Borsellino, quello che aveva scelto come padre putativo . “Quella strage le squassa. Piera ha avuto un collasso da cui non riesce a riprendersi. Rita è come trasognata, fuori di sé… Borsellino era il suo nuovo padre… Nessuno può capire che vuoto ha lasciato nella mia vita.” Al settimo piano del suo mini appartamento, Rita vuole stare sola, riflette e si sente inadeguata e sola. Il 26 luglio apre il balcone e si butta nel vuoto. Su un foglietto lascia scritto “Adesso non c’è più chi mi protegge. Sono avvilita. Non ce la faccio più.” La notizia del suicidio arriva di sera nel carcere di Trapani, c’erano rinchiusi alcuni uomini accusati di mafia, un mormorio riempie il silenzio e una voce più alta di tutte grida “Una di meno“. Un grande applauso risuona per tutto il carcere: si fa festa. Neanche da morta avrà la pietà della madre. Ci sono donne che non condividono il percorso di collaborazione dei mariti e si schierano clamorosamente contro di loro o si chiudono in casa per godere almeno della rete di solidarietà della cosca. C’è chi appena saputo che il marito si è pentito ha indossato il lutto come se il congiunto fosse deceduto.
Giacoma Filippello (‘Za Giacomina) per ventiquattro anni è stata la compagna di Natale L’Ala, e ha potuto assistere a scie di sangue e conosciuto uomini importanti dei clan, era parte del clan e da tale si è comportata a tutti gli effetti. Quando ha capito che volere giustizia è diverso che vendicarsi uccidendo, s’è trovata sola. Le sue notti sono state tormentate da dubbi e nostalgia ma è diventata una pentita. Una delle prime donne di mafia che si sono messe a collaborare coi giudici. Ma di tutta la sua vita avventurosa ’Za Giacomina sempre preferisce ricordare i momenti felici del passato e le indicibili tenerezze di cui l’uomo che ha amato, un boss cui sono attribuiti gravi reati, era capace. Glielo hanno ammazzato, il suo uomo, il 7 maggio ’90, e lei s’è fatta pentita. Per amore e per vendetta. Con furore. “Quando vennero a dirmi che avevano ucciso Natale, mi si annebbiò la vista. Sapevo che prima o poi sarebbe arrivata la mala notizia.” Dissi: “Chi deve pagare, pagherà” ha raccontato al giornalista della Stampa Francesco La Licata, siciliano, esperto di mafia, con il quale – dopo il pentimento, in un periodo che era a Roma – aveva voluto parlare.
Felicia Bartolotta Impastato, moglie di un mafioso, cognata di un boss, parente di “amici degli amici” e madre di Peppino assassinato dalla mafia perché ne denunciava i crimini. Cinisi il suo paese, il marito era un padre padrone, prepotente e autoritario. Peppino aveva scoperto i libri, la cultura, sognava di trasformare il mondo. Da ragazzino aveva assistito all’uccisione dello zio con un’auto imbottita di tritolo, ne restò molto scosso e scoprí la mafia e che era una brutta cosa. Felicia soffriva del suo matrimonio, viveva con la paura e il silenzio, non poteva permettersi di avere un’opinione personale. Voleva tornarsene a casa dei genitori quando scoprí che il marito la tradiva, non le fu permesso, “non si usava”. Quando Peppino ha cominciato a impegnarsi per denunciare la mafia e i loschi affari, lo scontro col marito si era fatto più duro. Minacciava Peppino il marito, e lei perché stava dalla sua parte. Ogni incontro col padre era una lite. Non c’era verso di far cambiare idee a quel figlio che tanto amava, ma si sforzava di capire le sue idee, leggeva quello che lui lasciava a casa e cominciò a riflettere su tante cose che aveva intuito. Finché il marito ha cacciato di casa Peppino. Si vedevano di nascosto. Dell’ attrito tra padre e figlio si parlava molto fuori. Il padre morì investito da un’auto, un caso? Per Peppino non c’era più protezione alcuna, il 9 maggio fu fatto saltare in aria, disintegrato. Le indagini hanno puntato su un suicidio e il caso fu archiviato. Ma Felicia, il figlio Giovanni e gli amici di Peppino, respinsero quella tesi. Il giudice Chinnici riaprí il caso. Sì sentenziò che si trattava di delitto di mafia, ma i colpevoli non sono mai stati condannati. Felicia non è più uscita di casa. Ha sempre parlato coi giornalisti ai quali raccontava di sé della sua storia di mogie e madre “cioè donna d’altri”, condannata a non esserlo per sé. La mafia in casa mia un libro intervista è stato pubblicato da Anna Puglisi e Umberto Santino che hanno dato vita a Palermo al Centro di documentazione “Giuseppe Impastato “
All’uscita del libro nell’edizione Miraggi l’autrice in un’intervista per l’editore ha rilevato che non esiste più la donna sottomessa all’uomo mafioso. Oggi “le compagne o aspiranti compagne degli uomini di mafia non stanno più nella penombra. Parlano in pubblico. Sono viaggiatrici instancabili, anche se nel metro di giudizio dei vertici di Cosa Nostra la donna resta un soggetto inaffidabile, una creatura debole, con molti talenti ma capace di provare emozioni che possono mettere a rischio l’intero territorio su cui la mafia esercita la sua signoria.” Trovo che l’idea di Miraggi di ripubblicare questo libro sia stata una scelta molto coraggiosa e azzeccata. Il libro è la descrizione di un fenomeno che ha coinvolto le donne e che continua a farlo, laddove ancora oggi le donne all’interno delle cosche mafiose continuano a rivestire ruoli di fondamentale importanza.
La cronaca più recente è piena di donne che risultano avere ruoli sempre più importanti per la sopravvivenza e la funzionalità dell’organizzazione mafiosa. La loro intraprendenza e capacità di gestire le fila di questo malaffare ha preso sempre più spazio e spesso le abbiamo viste in luoghi di comando. Tutto ciò non giustifica ovviamente il loro operato, sempre di mafia si parla.
E di mafia bisogna continuare a parlare per denunciare questa presenza così difficile da sconfiggere. E di mafia bisogna continuare a scrivere e a pubblicare perché non si può abbassare la guardia e nemmeno dimenticare il sacrificio di uomini onesti e di legge che ci hanno lasciato la vita. Oggi la mafia si insinua in tutte le falde scoperte e con modalità sempre più affilate. Falcone ha detto “Certo dovremo ancora per lungo tempo confrontarci con la criminalità organizzata di stampo mafioso. Per lungo tempo, non per l’eternità: perché la mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine” (Cose di Cosa Nostra).
L’evoluzione l’abbiamo vista, quella delle donne e delle modalità. Ora mi auguro tanto di poter vedere la fine, con qualche dubbio. Consiglio vivamente la lettura di questo libro perché è un libro appassionante, una scrittura che cattura, una ricchezza di testimonianze tutte vere e davvero interessanti.
Quando entri in area nemmeno ci pensi che ci sono due compagni a pochi metri da te, tutti soli, pronti a fare un altro gol a porta vuota per merito tuo. É una specie di magia, dentro di te non è cambiato niente, sei sempre lo stesso, ma di fuori è diverso. Nessuno riesce a fermarti e tu adesso hai capito che devi andare fino in fondo. Il portiere avversario è indeciso, esce dai pali ma esce male. Finti il passaggio al centro e lo fai accartocciare su se stesso e gli pieghi le gambe. Nessuno se lo aspettava che ti sarebbe venuta un’idea leggermente diversa. Non se lo aspettavano nemmeno in tribuna. Ma di questo non ti curi, perché sei tutto dentro i tuoi muscoli. Non sai come sia possibile, ma spari un missile all’incrocio dei pali e segni il primo gol della tua vita.
La recensione di Santi, poeti e commissari tecnici di Angelo Orlando Meloni
Durante il torneo calcistico la squadra famosa per essere la peggiore della provincia, quella che non vede un gol da anni, improvvisamente comincia a vincere. Inspiegabilmente, senza ragione. Merito della beata Serafina che predice addirittura il minuto esatto in cui avverrà l’azione decisiva per la vittoria. C’è poi un ragazzino bravo, Garrincha lo chiama l’allenatore, ma non deve oscurare il figlio della famiglia più importante della città e quindi sta in panchina. Un calciatore porta a compimento una vendetta che aspettava da anni contro un giocatore che ritiene colpevole della sua rovina e altre storie dove il calcio è sempre il protagonista che tira le fila dei personaggi di questo libro.
La mia opinione su Santi, poeti e commissari tecnici di Angelo Orlando Meloni
Santi, poeti e commissari tecnici è composto da sei racconti e non bisogna essere esperti di calcio per poterli apprezzare.
Il calcio è il simbolo sportivo di questo paese. Persone che si passano la “fede calcistica” di padre in figlio, domeniche allo stadio, imprescindibili appuntamenti del calendario da non poter nemmeno lontanamente saltare e milioni di gadget con cui vestire i bimbi praticamente appena nati. Ma il calcio merita tutto questa fede, passione, amore? Secondo me no ma io non ne sono innamorata.
Lo amano tutti, invece, in questi racconti e l’amore è talmente assoluto che non finisce di fronte a nessuna difficoltà, intrallazzo o partita non giocata. Il tifoso non vacilla mai, non demorde ma anzi si ammanta di una fede imperitura che lo scherma da qualsiasi bruttura investa il suo idolo.
In questi racconti troviamo tutto quello che riguarda il mondo del calcio, dalle scommesse alle partite truccate, dalle periferie dove si gioca per dare un senso ad una vita disgraziata fino allo stadio, quello vero e famoso, dove giocano gli quadroni.
Se amate il calcio sicuramente questo libro fa per voi ma anche se non lo amate troverete interessanti le strade scelte per raccontare uno sport molto, forse troppo, amato. Buona lettura.
“Il bruciacadaveri” è il secondo romanzo dello scrittore ceco Ladislav Fuks. Pubblicato a Praga nel ’67, apparve in Italia nel ’72 nei Coralli dell’Einaudi, tradotto da Ela Ripellino e con un’introduzione di Angelo Maria Ripellino. Dopo quell’edizione, peraltro non più ristampata, non vi sono state altre successive edizioni e quindi quella è stata, sino ad oggi, l’unica da noi esistente. Finché, nel marzo di quest’anno, la casa editrice Miraggi edizioni, all’interno della sua collana di letteratura ceca, ne ha pubblicato una nuova edizione, con una nuova traduzione curata da Alessandro De Vito e una postfazione di Alessandro Catalano. A distanza quindi di circa cinquant’anni viene riproposto, in modo aggiornato, questo libro straordinario, rendendolo nuovamente disponibile.
Riproporre Fuks e “Il bruciacadaveri” è non solo un’iniziativa editoriale assolutamente meritoria ma è un tributo a un grandissimo scrittore e ad un’opera geniale che è da considerare a tutti gli effetti un capolavoro della letteratura del ‘900. Nel segnalare pertanto l’uscita di questa nuova edizione che colma con la sua presenza un vuoto nel panorama di quei libri di assoluto valore, ingiustamente dimenticati, propongo contestualmente, qui di seguito, due contributi per “avvicinare” o “riavvicinare”, per chi già lo conosce, “Il bruciacadaveri”.
Il primo, così da avere anche un riscontro della nuova edizione, è il testo di presentazione de “Il bruciacadaveri” contenuto nella bandella di copertina della edizione della Miraggi a firma di Alessandro De Vito che ringrazio per avermene concesso la pubblicazione. Segnalo inoltre la nuova traduzione di Alessandro De Vito che, rispetto alla precedente, è più diretta, più cruda e realistica laddove quella della Ripellino, senza nulla togliere, era più “fantasiosa” e più spinta sul grottesco. In questo senso la nuova traduzione restituisce di più il nudo e metallico meccanismo che scandisce tutta la vicenda de “Il bruciacadaveri” senza perdere nulla di quell’assurdo che pervade il testo. Sicuramente un’evoluzione e un aggiornamento della precedente traduzione con un linguaggio più contemporaneo.
E, a seguire, come secondo contributo, il mio commento de “Il bruciacadaveri” (che lessi anni fa nella precedente edizione) già pubblicato e presente in questo blog che ripropongo per l’occasione.
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Bandella di copertina de “Il bruciacadaveri” di Ladislav Fuks edito da Miraggi edizioni, a firma di Alessandro De Vito
Praga, 1938-39. La storia del Novecento marcia a passo forzato verso uno dei suoi momenti più critici: il magniloquente Nuovo Ordine nazista, la guerra imminente, la “questione ebraica”, le persecuzioni pianificate, l’invasione dell’ Europa.
Chi è il signor Kopfrkingl, protagonista di questa storia nera praghese? Un tenero, sdolcinato padre di famiglia, impiegato al crematorio, un uomo che sorride sempre. Si, in apparenza. Interiormente, invece, è una marionetta dall’animo monodimensionale, dalla volontà larvale, dalla morale astratta e limitata, che vede tutto e tutti come stereotipi. Un uomo intimamente servile per cui il bene è indifferentemente cura e sterminio, felicità e olocausto, la cui idea di paradiso in terra condanna gli altri all’inferno.
Lo stile ossessivo e preciso di Fuks sottolinea perfettamente questo aspetto e gli è funzionale. “Il bruciacadaveri” procede come una partitura con il frequente contrappunto di ripetizioni di nomi e intere espressioni. Lo sguardo alienato e distorto del protagonista, con tracce di macabro divertimento, amalgama un testo di cui si può apprezzare la struttura profonda e la caleidoscopica creatività: siamo a tutti gli effetti di fronte a un capolavoro del Novecento. Ma forse ha un senso ulteriore, oggi, riproporre questa figura di “volenteroso carnefice”, che accoglie in sé le parole d’ordine naziste con leggerezza e conseguenze paradossali, opportunista, perbenista e superficiale.
“…la violenza non paga per nessuno. Con essa si può tirare avanti solo per un breve periodo, ma non si può scrivere la storia. Viviamo in un mondo civilizzato, in Europa, nel Ventesimo secolo” si dicono più volte i personaggi, nel 1938. La storia ha provato loro il contrario a stretto giro, e ormai, anche molti anni dopo, passato l’inizio del Ventunesimo secolo, sappiamo che nulla può essere dato per scontato, che l’angusto abisso del signor Kopfrkingl non si è richiuso per sempre con la fine delle ideologie e grazie al benessere, e che far finta di niente può precipitarci nuovamente dentro di esso.”
Alessandro De Vito
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Il mio commento de “Il bruciacadaveri”
Karel Kopfrkingl (K.K.) è il protagonista de “Il bruciacadaveri”. Che fa K.K.? E’ impiegato al Crematorio di Praga o, come dice lui, al Tempio della Morte. K.K. non solo è un consumato esperto delle pratiche crematorie ma ne è un fervente paladino.
Non perde occasione per sottolinearne i vantaggi e i pregi: la rapidità e asetticità del processo, la sua non aggressività, in quanto la cremazione non intacca i corpi in modo diretto col fuoco ma agisce per effetto del solo calore, insomma, come dire, non è invasiva e poi l’intrinseca democraticità della cremazione che ci riporta tutti, indifferenziatamente, alla nostra originaria condizione di polvere da cui proveniamo senza lasciare in giro sgradevoli tracce dei nostri corpi, ma lasciando libera la nostra anima di andarsene dove e come vuole perché K.K. crede pure, bontà sua, nella reincarnazione: legge da sempre lo stesso libro, un volume sul Tibet.
Ma non si deve credere che per questa sua passione mortuaria oltre che abnegazione professionale K.K. sia un sinistro e lugubre figuro, nossignore, al contrario è un amorevole, anzi, diciamolo, un zuccheroso e mellifluo signore: “Tenera” è la parola con cui inizia “Il bruciacadaveri” ed è per l’appunto K.K. che la pronuncia rivolgendola alla moglie Lakmè che, in realtà, si chiama Marie ma K.K. ha deciso che si chiama Lakmè, così come lui che si chiama Karel si è ridenominato Roman. E alla moglie, alla figlia e pure alla gatta non risparmia vezzosi aggettivi quali: “maliarda”, “eterea”, “celeste”, “soave”, “diletta”, “purissima” e il suddetto “tenera”.
“Sono romantico” dice ”ed amo la bellezza”, non si fosse capito. Colma i familiari di regalini, li porta spesso a spasso, stravede per la propria casa che ama arricchire di ninnoli e oggettini, teche, quadri e quadretti tra cui spiccano: la tabella degli orari delle cremazioni nonché una nera Drasophilia funebris. E nella sua smania di ribattezzare tutto pure il quadro col faccione del presidente del Guatemala diventa per K.K. il ritratto di un famoso ministro delle pensioni francese, anche se sotto, nel quadro, c’è scritto Presidente del Guatemala. Insomma tutto ha un ordine e un senso per K.K., il suo.
Ma tant’è, cosa volete che sia, in fondo in fondo, nel suo intimo, K.K. è un buono: “Non dobbiamo far torto a nessuno, nemmeno col pensiero” dice, e poi non ha vizi e debolezze di sorta, è un premuroso sostenitore del matrimonio, del suo matrimonio: “Non c’è matrimonio, mia celeste, che sia così bello e felice come il nostro”, salvo poi andare regolarmente a farsi vedere dal Dottor Bettelheim, esperto in malattie veneree, suo vicino di casa, di nascosto dalla moglie, chissà come mai? Si fa pure scrupoli sulle percentuali che deve riconoscere a due suoi collaboratori che incarica di procurargli “clienti” per il “suo” crematorio, mosso a pietà per le loro tristi condizioni familiari, salvo, di quelle condizioni, non occuparsene affatto.
Ma K.K. ha anche un amico, un certo Willie Reinke, un fervente e accanito filonazista (la storia si svolge durante l’occupazione tedesca) il quale, in modo pomposo e borioso, quale egli è, dipinge attrattivamente al nostro K.K. i vantaggi e i piaceri che lui, K.K., potrebbe avere aderendo al partito nazista: nomina certa alla direzione del crematorio, anche perché di un esperto come lui c’è un crescente bisogno, e poi la possibilità di frequentare belle donne, l’ingresso garantito allo sfarzesco Casinò tedesco di Praga e in generale l’essere ben visto e ben accolto tra i “nuovi padroni”.
K.K. non è un vero e proprio ambizioso però capisce che qui c’è un nuovo ordine con cui fare i conti e siccome all’ordine, alle forme, alle regole lui ci tiene, alle profferte di Reinke ci fa più di un pensierino. Ma c’è un problema, la moglie e quindi anche i figli (ne ha due) hanno sangue ebreo e questo è un neo grave gli dice l’amico Willie, che va affrontato, pena il non accesso ai benefit nazisti. E quale miglior modo per affrontarlo ma, ovviamente, facendo fuori moglie e figli: perché non soffrano, poverini.
E così porta il figlio in visita al crematorio, lo spranga, lo infila in una bara con un altro morto già pronto per la prossima cremazione, di cui quindi beneficerà anche il figlio e, non visto, si allontana andando, come se niente fosse, a denunciare la scomparsa del figlio. Per far scomparire la mite e inconsapevole moglie organizza un’impiccagione–finto suicidio, ne denunzia irreprensibilmente il fatto alle autorità dando ovviamente il benestare per la cremazione dell’amata Lakmè. La figlia si salverà solo perché a K.K. fa visita un monaco tibetano che, venuto direttamente dal Tibet, gli dice che lui, K.K., è il nuovo Dalai Lama quello che “Budda ha scelto e in cui si è reincarnato”. Il finale è ancor più grottescamente tragico e lo risparmio.
Adesso viene da chiedersi ma in conclusione chi è veramente K.K.? Angelo Maria Ripellino nella sua introduzione lo definisce così: “L’immagine calcolatissima di un benpensante e ipocrita cerimoniere, uno schizoide impigliato nelle consuetudini di un macabro rituale, un saccente becchino-filantropo, che l’epoca incline alle stragi e la sicumera esequiale e la sciocca ambizione e la flaccidità del carattere e la tenerezza, si’ la tenerezza tramutano in un dispensatore di eutanasia” (A.M. Ripellino – “Fuksiana” in Ladislav Fuks – “Il bruciacadaveri” – Einaudi – 1972 – Pg. XV)
E tutto questo va perfettamente bene. Ma qui c’è dell’altro secondo me. Perché Fuks ha realizzato non solo un’opera geniale per il suo macabro surrealismo grottesco ma, a mio parere, ha soprattutto individuato e sviluppato un modello, un archè, che è sia estetico che concettuale, che si basa sull’idea di forma. Se infatti rileggiamo tutta la storia e il modo in cui vengono raccontate le cose ci accorgiamo che tutto in K.K. risponde, deve rispondere, al rispetto delle forme, sia come immagini che la narrazione stessa suscita, sia per il tipo di atteggiamenti e comportamenti di K.K., per il valore intrinseco che hanno.
K.K. fa tutto quello che fa non perché c’è una relazione che egli instaura con le cose e con gli altri, ma perché tutto deve rientrare in un suo schema formale. Tutto deve corrispondere ad una forma prestabilita e inalterabile: si pensi al delirio di cambiare i nomi propri o di cambiare i nomi agli oggetti. E tutto ciò che può alterare questa forma: per assurdo in primis proprio la realtà, quella vera, va eliminato. Anche l’adesione al nazismo diventa per K.K. un problema di adesione alla forma nazismo, non al nazismo in sé, cosa che invece fa l’amico Willie. Ma questo dominio della forma in K.K. è il dominio di una forma vuota di contenuti, è mera apparenza, è il nulla.
E’ una cosa già in sé defunta, è un’iterazione solipsistica della morte che così come nella catena di montaggio del crematorio si ripete sistematicamente negli atti, nei gesti e nelle parole da inutile idiota di K.K. La forma è per K.K. l’unico senso della vita. Per K.K. tutta la vita si consuma nella forma e nelle forme e come tale si nega la vita, in quanto tutto in lui si riduce ad un insieme di pratiche meticolose, ordinate, coerenti, perbene ma inutili. Pratiche solo formali dove anche la morte è ridotta a procedura asettica ed “igienica”.
E adesso si insinua una domanda affascinante nella sua tragicità, ma non è forse che il nazismo è stato, in ultima istanza, un mostruoso, orripilante, agghiacciante tentativo di affermazione del dominio della forma? Se infatti affermiamo, assumendo lo schema de “Il bruciacadaveri”, che la forma nel momento in cui si nega di contenuti e di senso e perciò si sclerotizza in sé stessa, traducendosi in cosa morta, nega la vita, altrettanto possiamo dire del nazismo, laddove esso si afferma come delirio onnipotente che vuole mettere ordine, il suo ordine, nel mondo ripulendolo da tutto ciò che è diverso da sé e, pertanto, imponendo la sua forma che non consente alcun grado di libertà, alcuna possibile tolleranza in più o in meno rispetto al modello fissato dalla forma nazismo.
E’ evidente che al di là delle volontà soggettive il dominio della forma diventa assolutamente prevalente e ovviamente aberrante e per imporsi ha bisogno di affermarsi a scapito della vita la quale invece presuppone diversità, eterogeneità, differenze, movimento invece che fissità, rigidità, iconicità, ripetitività, propri della forma fine a se stessa e, peraltro, tipici del nazismo. In questa ipotesi il nazismo assume, in conclusione, le sembianze di un’orrenda gestalt autoreferenziale e autoriproducentesi in quanto pura espressione solo di se stessa. Ed è forse questa la grande metafora contenuta ne “Il bruciacadaveri” che ci illumina con un sinistro bagliore che ci arriva direttamente dal forno crematorio della Storia.
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