Cara Catastrofe, guardarti è come entrare in scena, senza aver mai provato la parte.
Cara Catastrofe, la silloge poetica della giornalista Felicia Buonomo, Miraggi Edizioni 2020, si muove in una dimensione ricca di immagini e di assonanze. Sono soprattutto versi ispirati all’universo femminile, all’amore che sempre troppo spesso ne assume un altro volto, quello della violenza e degli abusi, dove la vita delle protagoniste procede per sottrazioni , dove l’amore viene portato via dall’amore.
Felicia sottolinea che molti spunti sono reali, “sottratti”se così vogliamo dire, alla vita, alle storie che ha vissuto come testimone trasferendo i fatti in versi.
Felicia ha tessuto con un grande afflato, armonizzando i vari fili delle storie incontrate e rendendo il lettore partecipe del dolore, della violenza e dei segni che un amore neutralizza l’amore.
E così si incartano le tristezze ordinate alfabeticamente…piegando le inquietudini.
Un amore che si insinua dentro per diventare figlia della paura.
Sono storie dolorose dove anche l’indifferenza ha la sua colpa, donne che vivono il supplizio all’interno delle pareti domestiche e dove le grida si soffocano nel dubbio della colpa, ci si domanda sempre se tutto questo male, la sua fonte mortale risieda dentro quei corpi martoriati dall’amore.
Ogni corpo ferito è il simbolo di un passato violento, di un presente agonizzante e di un futuro incerto.
Nel bene e nel male. Finché morte – mia, per mano tua – non ci separi.
I Versi di Felicia mi sono rimasti attaccati dentro, si sono insinuati sottopelle, hanno percorso ogni singolo tratto del mio corpo per arrivare nella parte più recondita della mia anima e sono implosi in un abbraccio catartico.
Valerio Di Benedetto nella sua postfazione a Cara catastrofe scrive:
“Lo amerete questo libro e a Felicia vorrete un bene smisurato, ne sono certo, perché lei è quell’eroe romantico che abbiamo sempre sognato di essere da bambini, una Lancillotto moderna che non ha paura di rompere gli equilibri, i silenzi, di gridare la verità.”
Ed è così…vi garantisco!
La poesia di Felicia è turbamento, è ossessione, è silenzio, è dolore, ma è soprattutto una voce, un grido sussurrato di speranza che purifica il tormento e il dolore.
Felicia Buonomo Dopo la laurea in Economia Internazionale, nel 2007 inizia la carriera giornalistica, occupandosi principalmente di diritti umani. Nel 2011 vince il “Premio Tv per il giornalismo investigativo Roberto Morrione – Premio Ilaria Alpi”, con l’inchiesta “Mani Pulite 2.0”. Alcuni dei suoi video-reportage esteri sono stati trasmessi da Rai 3 e RaiNews24. Successivamente pubblica il saggio “Pasolini profeta” (Mucchi Editore). Del 2020 è il libro “I bambini spaccapietre. L’infanzia negata in Benin” (Aut Aut Edizioni), diario di un reportage giornalistico sullo sfruttamento del lavoro minorile.
Cosa succede quando una forza inarrestabile incontra un oggetto inamovibile? Questa è la domanda che ci si fa, quando eventi drammatici travolgono la vita di ciascuno di noi. A questo paradosso prova a dare una risposta Fleischman, il protagonista di questo romanzo, rimasto orfano dei genitori quando era ragazzo. E dalle ceneri della sua giovane vita, prova a guardare in alto, per emergere, come se lui stesso fosse nei rami di un albero radicato nella sua città, che non riesce ad andare altrove, ma che è sempre teso verso l’alto.
“Quel che so, è che il centro del sistema solare è il Sole. Il centro di un uragano è il suo occhio. Il centro di un temporale è il cumulonembo. Quel che so, è che il centro dell’alta pressione si trova solitamente sopra le Azzorre. E il centro della bassa pressione più a nord, da qualche parte tra l’Islanda e la Scandinavia. La maggior parte delle volte.”
Fleischman comincia il suo percorso di cura, con una dottoressa che gli consiglia di scrivere tutto su un quaderno: desideri, sogni e bisogni. Il potere taumaturgico della scrittura.
“Dovete avere la forza di prendere in mano carta e penna e riversare sul foglio tutti i vostri problemi, come sto facendo io con voi, anche se non ho intenzione di suicidarmi. Voglio solo volare via. Dovete avere la forza di dare una leccata alla busta, di chiudere la lettera e di imbucarla, dovete avere la forza di riuscire a immaginare l’espressione di chi la leggerà dopo un paio di giorni. Dovete avere la forza di trasmettergli ciò che vi pesa, una parte del vostro infinito. Innanzitutto, però, dovreste avere qualcuno a cui spedirla una lettera così.”
Fleischman si sente costretto a stare nella sua terra, che è la sede anche del Grand Hotel di famiglia: “Pensai che anche attorno alla nostra città c’era una specie di cortina di ferro. La mia cortina di ferro, che non mi vuol lasciar andare via, ma che io supererò.”
La dottoressa lo incoraggia a trovare la sua strada e che ci vuole tempo se le ferite sono profonde, ci vuole tempo per guarire, ci vuole tempo per risolvere il proprio passato. Ci vuole tempo, cura e anche il coraggio di lasciar andare quei dolori famigliari che hanno segnato l’infanzia e l’adolescenza. E bisogna imparare a guardare il cielo e a trarre dal cielo gli insegnamenti necessari per crescere. Fleishman lo fa e ci lascia questo in dono: “Durante il viaggio di ritorno mi disse che ogni cosa ha bisogno del suo tempo, che ci saremmo riusciti, che un giorno tutti i muri di ghiaccio si sarebbero sciolti. Non so se nel mio caso si tratta di ghiaccio.
[.]
Ma la dottoressa disse che quello era solo un esempio. Una metafora. Che sapeva che ce l’avrei fatta. Che avrei trovato la mia strada. E che lei mi avrebbe aiutato. E se non fosse stata lei, l’avrebbe fatto qualcun altro. Io questa la chiamo certezza.”
Duc in altum, semper!
“Ce l’ho fatta. La vita vi offre solo due direzioni. Una porta in alto. E anche l’altra porta in alto. Ma con una deviazione verso il basso. Attraverso il vostro personale infinito. Il problema è che non sapete mai in quale direzione vi state dirigendo.”
Quante volte abbiamo cercato di fuggire, scivolando tra le pagine per giungere laddove non saremmo mai riusciti ad arrivare da soli? E quante altre abbiamo invece mendicato conforto, provando a cogliere gli scorci di una quotidianità troppo spesso data per scontato?
Il titolo di questa raccolta di racconti, pubblicata da Miraggi Edizioni a ottobre 2019, potrebbe apparire emblematico, ma smetterà di esserlo dopo poche pagine. La vita moltiplicata è la storia di Livio, di Ascanio, di Marcello, e di tutti quelli che davanti a una vetrina hanno smesso di guardare solo il proprio riflesso. Molteplici i protagonisti, molteplici le vicende, in equilibrio tra realtà e mondo onirico.
L’autore, Simone Ghelli, non è uno scrittore al suo esordio ma già autore di altre opere, come Non risponde mai nessuno, e racconti pubblicati su varie riviste letterarie, tra le quali Cadillac Magazine. Se siete curiosi di saperne di più, troverete recensioni e altro alla pagina: https://genomis.wordpress.com/.
Con la sua scrittura, Simone Ghelli avvicina il lettore a piccoli passi per poi catturarlo completamente, attraverso un lessico fluido ed essenziale.
Nel suo racconto, chiaramente autobiografico, Grossi si dipinge come un grumo di rabbia e disperazione conficcato nella carne di una città ormai marcia. Non è l’unico, ne vede tanti intorno a sé, pronti a rivalersi sui vecchi, sui bambini, sui brutti, sui grassi, sui poveri di tasca e di spirito. Grossi si vede così perché sta diventando così; anzi, è già così. È il prodotto precotto di una società che li ha ingozzati di sogni, che li ha tirati su come polli da batteria per poi farli sedere a una tavola apparecchiata con gli avanzi. Grossi vede la sua vita come il resto di qualcos’altro e ogni giorno si sente come se avesse i postumi senza essersi preso una sbronza”.
Per la playlist ringraziamo l’autore, che ha accettato con grande disponibilità di crearla e condividerla con Read and play. I brani sono quasi tutti strumentali: “Anche se non corrispondono esattamente ai racconti rispecchiano le atmosfere dilatate e oniriche”.
La perlina sul fondo, un libro contro la solitudine della quarantena
“Ho escogitato per me stesso la teoria del destino artificiale, mi sono andato a cacciare lì dove non avrei mai voluto essere. Io, timido, offrivo assicurazioni sulla vita, vendevo cosmetici, lavoravo nelle miniere, e continuavo a scrivere e scrivere”.
Così Bohumil Hrabal, scrittore ceco tra i più significativi del Novecento, amato, censurato, boicottato, a seconda delle pieghe che prendeva la storia della sua Cecoslovacchia, tra conati di libertà, compromessi e normalizzazione.
C’è, a monte della sua scrittura, una ribadita volontà di contaminazione, volontà spinta ai limiti della sfida, che attraversa sostanzialmente tutti i suoi scritti, dagli esordi fino alla fine. Una sorta di masochismo funzionale, verrebbe da dire, se è vero che si è ‘andato a cacciare dove mai avrebbe voluto essere’.
In Italia Hrabal è conosciuto soprattutto per i romanzi Treni strettamente sorvegliati, da cui è stato tratto l’omonimo film di Jiří Menzel (Oscar miglior film straniero 1966), Ho servito il re d’Inghilterra, Una solitudine troppo rumorosa, ma è anche nei numerosi racconti raccolti in svariate edizioni, alcune delle quali uscite epurate dalla censura (o ricalibrate a causa di essa), che ci viene incontro il manovale-scrittore, pronto a sporcarsi le mani frequentando i bassifondi di una Praga non proprio magica, fatta di bische clandestine e birrerie, e delle sue periferie di campagna percorse in sella a moto da corsa o grazie a fortunosi passaggi in macchina.
Soffermandosi a osservare e ascoltare o cacciandosi dentro, appunto, mimetizzato e confuso tra gli operai di un’acciaieria, di un deposito di carta da macero, o dietro le quinte di un teatro a manovrare la scena, mentre si sta rappresentando Delitto e castigo, alla ricerca di un po’ di luce e bellezza che esiste e resiste anche dietro la scorza greve degli ultimi.
Anche a questo serve la scrittura, a scovare la perlina che riposa sul fondo di ognuno di noi, a raccontarla e farla brillare.
Si intitola La perlina sul fondo il primo libro di Hrabal pubblicato con successo a Praga nel 1963 e appena pubblicato in Italia da Miraggi edizioni nella collana NováVlna dedicata alla letteratura ceca, primo step di un progetto virtuoso che mira a compensare le lacune di traduzione di questo autore, di cui mancano ancora alcune opere fondamentali.
Si tratta di dodici racconti tradotti da Laura Angeloni, che ha compiuto un lavoro tutt’altro che semplice di adattamento di umori, slang, espressioni idiomatiche, gergo tecnico attinto a professioni, mestieri, ambienti diversi, anche ostici, non familiari, eppure vissuti e abitati come gli unici possibili.
Viceversa, la lettura richiede ad un tempo sospensione e immersione. Per questo leggerli in questi giorni di quarantena è stata una gran bella distrazione. Distillando e tornando più volte su alcuni di essi, soffermandomi su passi e momenti nodali, ho imboccato una via sterrata e laterale, liberandomi dal torpore ansiogeno della strada maestra.
Sono racconti che al plot principale affiancano e intrecciano storie secondarie, squarci di vita che tornano alla mente e prendono corpo in modo improvviso, a volte rocambolesco, nel bel mezzo di un incontro, tra le battute di un dialogo tra due sconosciuti, nei ricordi che decollano e subito planano quando meno te l’aspetti, mentre il racconto procede sicuro e con esso il lettore, ora a strattoni, ora ascoltando e scrutando senza fare domande, ora scartando di lato per cercare di scoprire qualcosa che ancora non gli è stato detto, dentro un tracciato fitto di riferimenti e rinvii e qualche sorpresa.
Difficile concentrarsi su un racconto soltanto, difficile rendere giustizia all’intera raccolta.
Perché in questo coro ininterrotto di voci che affabulano, stordiscono, raccontano e se la raccontano, tutte meritano ascolto e attenzione; in questo museo in divenire di facce, di corpi, di gesti, tutti chiedono di esser guardati, sorpresi, smascherati.
Il giovane dell’acciaieria che in mezzo ai ratti e al pane nero imburrato cascato a terra e ripulito alla meglio, racconta del parrucchiere che lo invita a scegliere tra l’acqua di colonia normale o alla violetta. I due moribondi sul letto di morte che non si può dire di più, ma sono un irresistibile monumento ai sepolcri imbiancati di tutti i tempi. Il traslocatore dalle mani callose e possenti che col palmo avvolge il bicchiere come se fosse un uccellino. La voluttuosa fornaia che morde rumorosamente le mele dopo averle strofinate sui seni. L’imballatore di carta da macero che finge di leggere l’editoriale di un vecchio giornale. Il povero diavolo disposto a vendere il suo scheletro alla scienza per racimolare due soldi che gli permettano di riallacciarsi alla corrente elettrica, o l’altro povero diavolo vittima di un assicuratore che non gioca pulito. Il cacciatore di frodo che si scoprirà essere altro, ma non si può dire. Resta l’immagine del capriolo ucciso al bordo di una strada, un brutto colpo andato a segno raccontato in presa diretta dal passeggero Hrabal, seduto di fianco.
E sono molte le scene che sembrano vissute in diretta, vivide e precise come note d’autore di una sceneggiatura che lascia poco al regista, e il lettore sta lì, intento a osservare, come lo spettatore di un film o il visitatore di una mostra di quadri.
Stati Uniti immaginari (ma non troppo): Vanilla Ice Dream di Roger Salloch
Blow up, il momento il cui un obiettivo mette a fuoco un dettaglio, avvicinandolo allo sguardo, come a volte si fa, sbattendo le palpebre. Al racconto “Las babas del diablo”, Michelangelo Antonioni si ispirò, nel 1966, per realizzare il film Blow up; Cortázar vi raccontavala vicenda di Roberto Michel – traduttore e fotografo, che indagava su un dettaglio, presente in una fotografia. Qualcosa di affine, in un contesto molto diverso, si ritrova nel romanzo Vanilla Ice Dream di Roger Salloch, edito nella collana tamizdat, di Miraggi, 2020.
Salloch, artista statunitense che vive a Parigi, poliedrico autore di narrativa, cinema, teatro nonché fotografo, e che con il suo precedente Una storia tedesca aveva inaugurato la stessa collana – racconta, con stile controllato ed asciutto – tanto scarno quanto netto ed incisivo – una storia complessa, fatta di contrasti: d’amore, di forzature, implosioni affettive, partenze e ritorni, sempre alimentati o condizionati, sullo sfondo, ma in evidenza, da un radicato odio razziale che arriva a minare, ed a volte del tutto corrodere, anche gli interstizi della vita privata del protagonista. D’altra parte, risulta essere proprio questa l’intenzione editoriale: i “tamizdat”, in Urss e nel blocco comunista, erano le opere straniere clandestine, vietate perché provenienti da «tam», là.
Con il ritmo di una sintassi martellante, paratattica e nervosa, a tratti discontinua – esattamente come uno scatto fotografico, meditato a lungo, oppure dominato da un impulso improvviso – il protagonista, Carter Hollmann, comprende, a mano a mano, e parallelamente vive, la distopia, inizialmente sfuocata, poi nitida, in crescendo – dura,e tragica – che ritrova, in un ipotetico 2021, al suo ritorno negli U.S.A, dopo molti viaggi in tutto il mondo,dei quali conserva molti ricordi, condivisi con il lettore. Travolto da una crisi profonda, dopo un momento di violento scontro con la donna che amava, il protagonista era infatti diventato uno “scrittore di viaggio, un osservatore”.
Gli United States che Salloch racconta sono uno Stato sufficientemente immaginario, ma i moltissimi dettagli riferiti ad aspetti del presente, da ricercare nella lettura – a volte disseminati con una certa ironia, ma sempre portati alle loro estreme conseguenze – fanno comprendere anche il risvolto sociale o addirittura sociologico, di un discorso su temi molto attuali, senza sconti (con riferimenti ad un uomo bianco “con una messa in piega arancione”)…
…Carter era seduto in una bettola chiamata The American Breakfast. Non aveva importanza. Erano le cinque del pomeriggio. Allineati nel bar vecchi sgabelli foderati di pelle porpora. La pelle rubata anni prima dalle selle di qualche rodeo. Quello sì che importava. Vecchi poster raffiguranti la Statua della Libertà e John Kennedy. E Robert Kennedy, con jeans slavati e guance colorite. E poster della prima marcia di protesta delle donne a Washington. Anche quello era importante.
Scene del passato e del presente si alternano nei clic della memoria, e tutto si confonde, ma mai senza lucidità dello sguardo, con le fotografie scattate da Meredith, la donna amata da Carter, mentre l’uomo non riesce mai a definire, del tutto, la natura della relazione, psicologicamente tortuosa, che lo attanaglia.
In un punto del romanzo, un esplicito riferimento a Hemingway dà un’ulteriore possibile chiave di lettura della storia. Un giorno l’attenzione dello scrittore viene attratta da una fotografia, appesa alla parete, in casa di Meredith. La foto in bianco e nero ritrae un bambino, gioiosamente impegnato a mangiare un gelato alla vaniglia.
Fotografie in bianco e nero merlettavano la parete. Alcune scolpite nella miseria. Tutte crudamente contrastate, famiglie nere radunate sui gradini di casa, sul davanzale di una roulotte, madri nere che tenevano bambini neri per i piedi per fermare quello che Meredith chiamava il rigurgito nero. Le dita di una bambina che seguivano le crepe di un muro, cercando una via d’uscita. Di rado c’erano uomini neri. Sul caminetto, un’immagine che lo colpì particolarmente: un bambino nero che leccava un bianchissimo gelato alla vaniglia. La lingua fuori. Il gelato che si stava sciogliendo in fretta. Le sue speranze sulla lingua. Qualcuno, probabilmente Meredith, aveva tracciato un titolo sul bianco opaco che la circondava: Vanilla Ice Dream.
La scena nella foto, però, come molte altre scattate dalla sua ex compagna – nuovamente inseguita, come un incubo ricorrente – è colma di disperazione che amplifica, nell’uomo, il desiderio di capire perché e per conto di chi sta lavorando Meredith, come fotografa. Il rimbalzo delle notazioni coloristiche, nel romanzo, è potente e fortemente visivo, costruendo un discorso nel discorso, con una citazione più volte ripetuta – oltre ad altri numerosi rimandi letterari – la pagina quarantadue di Moby Dick di Melville, che ossessiona il protagonista:
Pensava ad Achab, a Pip e al Pequod, ma soprattutto al capitolo 42, dove si scopre che il bianco, e non il nero, è il colore dell’orrore. Sebbene in molti oggetti naturali la bianchezza accresca raffinatamente la bellezza, quasi le impartisse una sua speciale virtù […] pure, malgrado tutte queste accumulate associazioni, con tutto ciò che è dolce e venerabile e sublime, sempre cova nell’intima idea di questo colore qualcosa di elusivo che incute più panico all’anima di quel rosso che atterrisce nel sangue.
Quindi, mentre l’America è sinistramente dominata dal motto “Make America white again” e la Casa Bianca è chiamata l’Albergo Bianco, in una specie di Stato che controlla i propri cittadini attraverso ogni mezzo possibile – dividendo e selezionando nettamente le persone non solo in base al loro colore della pelle o etnia, ma soprattutto in base alla loro ricchezza – l’osservatore Carter Hollmann, non riuscendo a cancellare il ricordo di quella donna enigmatica (che lo stesso narratore, inizialmente, descrive in un modo asettico e straniato: “In realtà, lei non era nemmeno nera, diciamo più ebano con sfumature di rosa, come quelle sbavature di tramonto che ti avvolgono alla fine di una bella giornata”) intreccerà una relazione con un’altra donna, che conosce da tempo, Catherine, cercando di uscire da una coazione a ripetere che lo spinge a compiere sempre lo stesso errore.
Su suggerimento di due amici, Rachel e Bob, caratterizzati come borghesi piuttosto indifferenti ai problemi sociali – benché li riconoscano e siano consci della distopia che stanno vivendo – lo scrittore inizia a lavorare in una scuola di scrittura dove le pareti sono controllate con un circuito elettrificato; mentre contemporaneamente, in una zona denominata Perimetro, avviene un atroce gioco di ruolo,una lotta, forse simulata, forse sanguinosamente vera, tra Rossi e Blu. Alla tessitura narrativa, ad un certo punto, si aggiunge l’amicizia che lo scrittore di viaggio intreccia con un alunno, Julio, bizzarro e solitario, il cui vero nome è già una storia, di per sé (“Mi chiamo Julio Orijnak. In realtà, Juliano Orijnak. E mia madre ha voluto che fosse Julio Cristobal Crazy Horse Prijnak. Ma di questo ve ne parlerò più avanti”) che, suo malgrado, porterà Hollmann a capire che cosa si nasconde dietro i viaggi in furgone del giovane amico e soprattutto a cosa si riferiscono le foto di Meredith.
Vanilla Ice Dream occupava il pannello centrale all’ingresso. La testa del ragazzino era girata di tre quarti come se potesse già sentire l’approssimarsi della folla nella fotografia successiva, dietro l’angolo, quattro poliziotti con pistole e manganelli che sembravano rosso fuoco sotto la loro placcatura d’argento. Si poteva quasi percepireil gelato che gocciolava sulle sue dita. E poi, un minuto dopo, il gusto dei suoi polpastrelli mentre cercava di leccarlo via. I sogni non mentivano, e nemmeno le fotografie di Meredith. Davano voce ai gradini sul retro, ai giardini, alle roulotte piene dell’immondizia del giorno prima, davano voce all’America, la nostra bella America, My country, ’tis of thee, of thee I sing. Nera l’architettura, bianco lo spazio. Così mangiavano i neri, così pisciavano i neri.
Una battuta, a mio parere, racchiude il cuore intimo di questo romanzo, esplicitando, sul piano emotivo, l’incapacità caparbia, poi consapevole e ricercata con determinazione, del protagonista: così come Carter Hollmann non ha mai imparato ad allacciarsi in modo consueto ed abituale i lacci delle scarpe, egli risulta altrettanto incapace di accettare di vivere, in un silenzio passivo e compresso, in un luogo dove, quando un ragazzo nero viene investito da un furgone – sorpreso forse a rubare in un negozio e malamente spinto fuori dal titolare – nessuno si ferma a preoccuparsene, al di fuori del protagonista stesso e di un’altra persona: e forse è anche per questo che è diventato scrittore di viaggio ed osservatore, quasi cercando, inizialmente, un’ulteriore possibile risposta alla propria inquietudine. Insomma, sentendosi infine più Ismaele che Achab, l’uomo non riesce a stare senza far nulla, senza almeno provarci a cambiare quel mondo, pur sapendo che non è un’impresa facile.
La frase a cui mi riferisco si legge quando Julio, l’allievo/amico che sta imparando ad esprimere, con esercizi di scrittura creativa, le proprie emozioni, inizialmente raggrumate nel silenzio, inizia, quasi in una specie di febbricitante trance, a recuperare la storia di migrazioni della propria famiglia, osservando il dolore che aveva nascosto a sé stessoe dice a Carter: “Mi stai ascoltando? Io mi sto ascoltando”.
Approssimandosi al finale, si svela una speranza, concreta ed interiore, che guarda ad un 2021 senza condizionamenti da strabismo distopico:
A parte questo, avrebbe potuto non esserci alcuna speranza nella nostalgia, ma per ragioni che solo gli dei conoscono, c’era ancora speranza nei pancake.
Dieci racconti costellati da personaggi “divisi in loro stessi”. Storie di anime scisse che vivono in piani diversi della coscienza. In poche parole, Simone Ghelli dà voce a una prolifica commedia umana in cui nessuno si accontenta della realtà e che, pertanto, trova il suo habitat al di là dell’oggettività.
C’è un tempo esterno e un tempo interno. La percezione dell’uno e dell’altro origina un discorso intimo. Infatti, l’irreversibilità delle ore mai coincide con la reversibilità dei ricordi e con il futuro-presente in cui dimorano speranze e desideri. Eppure, è qui che tocchiamo con mano il patire, ossia, il “sentirsi”, che non vuol dire a tutti i costi “appartenersi”, anzi, spesso crea la famigerata incomunicabilità che si instaura tra mondo e soggetto.
Chi sono quindi i personaggi dei racconti di Ghelli?
Sicuramente, sono personaggi che dialogano con il disagio, che vivono un presente che non appartiene loro, che si difendono prendendo le distanze dal mondo pur attraversandolo con grande dignità. Eppure, nonostante i loro sentimenti contrastino con la realtà, essi cercano quel medium capace di instaurare un dialogo con la quotidianità. Insomma, per loro dar voce ai pensieri vuol dire moltiplicare i punti di vista attraverso cui valutare il Mondo. Le loro doglianze alimentano una rivolta solitaria che non esclude la Terra, ma ne allarga l’orizzonte.
È facile entrare nei pensieri di questi personaggi, Ghelli ha uno stile asciutto che prende per mano il lettore. Proprio il lettore è chiamato a seguire la trama, che non si sviluppa orizzontalmente, ma verticalmente. Si sale sempre di più fino a giungere alla sintesi perfetta, ossia, all’impatto con la quotidianità.
Cos’è la realtà secondo Ghelli?
Il mondo si addensa negli occhi di chi lo guarda, pertanto, non esiste l’oggettività, ma solo una intima decodificazione di tutto ciò che si percepisce. La realtà che lo scrittore ci pone davanti è quel gran spettacolo che ci coinvolge e che sa ingannarci. È quindi la soggettività il gran rifugio, una sorta di “camerino” in cui possiamo prendere fiato e ripetere il copione prima di tornare in scena. Fatto sta, che è difficile recitare una parte che non piace, ed è in quel momento che tutto diventa faticoso e farraginoso; anzi, impossibile da mascherare.
La vita delle donne di mafia, tra vittime, complici e protagoniste
Vittime. Complici. Protagoniste recita il sottotitolo del libro di Liliana Madeo. Ma le donne che il lettore incontra nel testo non sono né vittime, né complici, né protagoniste. Non solo questo almeno. E non sono neanche numeri, dati, statistiche. Sono narrazioni. Di vita. Di vite. Di esistenze dominate dal punto interrogativo, all’interno delle quali formulare una domanda può essere, a volte, anche più complesso del cercarne la risposta.
Esistenze evanescenti che appartengono a un mondo fatto di ombre, di confini mai ben definiti. Un mondo di contrapposizioni, Quasi all’incontrario.
Una realtà che non è lontana da quella in cui credono di vivere tutti, che con essa si fonde e si confonde. Un mondo nel quale le scelte non le detta il coraggio ma la mancanza di alternative. Perché quando lo Stato fa un passo indietro, il territorio non resta a guardare e l’anti-Stato diventa Stato e inizia a governare, a suo modo, e a comandare, a volte anche sullo stesso Stato.
E le donne che appartengono a questo mondo sono addestrate, esattamente come dei soldati. Solo che non stanno in trincea, o meglio la loro trincea è nascosta e si plasma seguendo l’ombra proiettata dal proprio uomo o dalla famiglia. Spesso è l’unica realtà che conoscono e che vogliono conoscere.
Il libro di Liliana Madeo racconta la vita delle donne di mafia che vivono in Sicilia. È uscito in prima edizione ventisei anni fa, e ora riproposto da Miraggi. Le storie che narra descrivono una realtà antica, maschilista. Un mondo la cui cultura però non sembra essere cambiata più di tanto in tutti questi anni trascorsi.
Le regole dell’Onorata Società, come veniva anticamente chiamata Cosa Nostra, riguardo le donne non sono state di certo stravolte. Restano inferiori all’uomo nella piramide del comando.
Eppure le donne di mafia si muovono in maniera completamente diversa rispetto al passato. Sono istruite, competenti nei più svariati settori, viaggiano, si curano nell’aspetto, partecipano sempre più e sono attive anche in ambito operativo, tuttavia l’affiliazione vera e propria rimane loro preclusa.
A ben riflettere e con una certa amarezza si possono riscontrare dei parallelismi tra l’evoluzione di ruolo delle donne di mafia, dagli anni Novanta ai nostri giorni, e quella delle donne italiane in generale. Anche nella società civile o normale, oppure in qualsiasi altro modo si preferisce indicarla, i comportamenti e le azioni delle donne sono cambiati rispetto al passato. Un cambiamento che forse è iniziato prima, con i movimenti femministi degli anni Settanta, o forse no. Ma ciò che fa riflettere davvero sono le limitazioni, le preclusioni, il maschilismo tuttora imperanti, riscontrabili nei più svariati settori, anche se spesso si tende a mascherarli o sminuirli.
Ed ecco allora che viene da chiedersi se sia l’Onorata Società ad adattarsi ai tempi che cambiano, pur restando fedele ai principi fondanti, oppure se nella Società che per comodità chiameremo civile albergano, magari inconsciamente, tratti comuni alla prima sul ruolo sociale che devono ricoprire le donne.
È triste anche solo pensarlo, me ne rendo conto. Ma ignorando la realtà non la si cambia di certo, Piuttosto si tende ad avallare determinati comportanti.
Donne di mafia parte da un’inchiesta giornalistica realizzata dall’autrice a partire dal 1992 e diventata un libro nel 1994. Nasce dalla curiosità dell’autrice di scoprire cosa pensassero le donne di mafia di quanto stava accadendo, quale fosse il loro ruolo, quali erano i sentimenti che accompagnavano i principali eventi delle loro vite, vite scandite da potere, prestigio, denaro ma anche da violenza, morte, dolore.
Sono anni molto particolari per la Storia d’Italia. Scandali, corruzione, attentati, inchieste, processi, pentitismo… vicende che si intrecciano e si mescolano e a cui non è possibile attribuire un’univoca chiave di lettura che sia al contempo universalmente chiarificatrice.
L’indagine svolta da Madeo contribuisce a far luce su alcuni dei tanti misteriosi aspetti di quelle vicende, in particolare narra di quelli che si potrebbe definire i retroscena, ovvero gli sviluppi privati, interni a famiglie e coppie, le azioni poste in essere da queste tante donne di mafia per salvare la posizione, il potere, la famiglia oppure la vita, propria o dei propri affetti.
Un libro, Donne di mafia, già pubblicato e che ha ispirato anche una miniserie televisiva, eppure si conferma un testo di un’attualità sconvolgente e di un interesse notevole. Leggerlo o rileggerlo, pure dopo averne visto la trasposizione cinematografica, rimane un’esperienza impressionante.
“La dolcezza violenta di alcuni passaggi ti stordisce come un gancio di Muhammad Ali e tu vai a terra sfiancato senza capire se sei stato appena investito da un tir, o ti hanno solo confessato il più vero di tutti i segreti.”
Così nella postfazione al libro Valerio Di Benedetto accoglie “l’arduo compito di saper ascoltare, osservare ed essere grati“, e lascia che la silloge di Felicia Buonomo voli “nel firmamento senza l’aiuto di Pegaso” perché lo spirito nei suoi versi “la fa arrivare fino al sole, dove si scotta, si brucia, arde, ma non cade mai, perché non c’è cera a tenere insieme le sue piume, ma versi, immagini, coltellate a tradimento, speranza, umanità, in una sola parola: poesia.”
Rovina: è il sinonimo che mi viene in mente, parola allo specchio riflesso che si fa uguale e contraria all’amore ideale e, giocando ancora a immaginare, fa sì che l’affetto degli amanti diventi eroma. Se la catastrofe della poetessa è l’amica interiore alla quale rivolgersi come in un diario, i relitti della storia sono narrazione, frammenti di una relazione. Ed ecco che il risultato è ‘uno fratto’ il bacio tra le macerie, arcano numero VI dei Tarocchi tra pietre ed edera, la coppia archetipica in nigredo nel dipinto di Burne-Jones “Love among the ruins”.
“Storia di una co-dipendenza con ritorno a sé” potrebbe essere il sottotesto tesoro nascosto, ed è un racconto che apre i diari segreti di tanti esseri umani, trovando nessi e risonanze nel passato o nel presente degli affetti negati, sviliti, frustati a sangue. Chi non si è innamorata almeno una volta di un narcisista?
La storia di qualsiasi privata Catastrofe si fa universale quando l’annosa questione della sofferenza amorosa non può risolversi mutando aspetto e abito, attraversando il Romanticismo e il Decadentismo, ma trova nella psicoanalisi un salvagente tra le onde per poi lottare e urlare i diritti delle donne e giunge quasi indenne nel ‘qui e ora’ tra violenza domestica e femminicidio e si tuffa nel testo poetico a dire di avere ancora – nonostante tutto – un po’ paura. Nonostante tutto, si va avanti per tentativi ed errori. Verso ipotesi di comprensione e cambiamento.
Catastrofe, cara, dico io, accendi romantiche assonanze. Dona ai lettori risoluzioni drammaturgica (possibile!), il capovolgimento dal rosso al nero, parole vive che mi svelino come l’Appeso dei Tarocchi (carta numero XII) sia impegnato a trasmutarsi in Torre (il Trionfo numero XVI). Ed è una Torre che scoppia e sputa fiamme sopra il paesaggio noto, quella che la poetessa mi porge sopra il piatto d’argento del suo libro.
La poetessa e la sua anima gemella Catastrofe – ormai fattasi Persona sul palco della vita – procedono in carteggio univoco, traccia unidirezionale o ricamo monologo, coinvolte nello stesso sguardo omopsichico.
È incontro e resa dell’Io all’Ombra. Pensando al rapporto tra queste due istanze, non posso scacciare dalla mente la memoria di un’opera che ho amato tanto.
La prosa poetica che abita “La casa dell’incesto” emerge nel ricordo con passo d’acciaio e leggerezza di piume.
È il femminile simbolo dell’Altra-in-se-stessa tra le pagine di Anaïs Nin – seppur distante dal tema chiave del libro della Buonomo, basato su altre storie in altri Diari.
È una pennellata, forse, un tocco leggero di quella stessa casa animica che mi fa annodare il filo al femminile di tutte le epoche, che mi porta a ricongiungere i pezzi sparsi, a rimettere insieme frammenti di sé, voci e volti dell’interiorità.
È un’opera alchemica, indubbiamente. Vedo l’autrice e la sua Catastrofe come la poetessa e la sua Musa, coinquiline della stessa ispirazione.
“Cara Catastrofe,/ guardarti è come entrare in scena,/ senza aver mai provato la parte./ Improvviso, inciampo, goffamente mi rialzo./ E di nuovo inciampo./ Nei tuoi occhi, il mio sold out./ Non c’è spazio per replicare./ E io continuo a improvvisare.”
Per soccombere alla propria strada senza lasciarci la vita, l’unica reazione possibile sembra essere quella della poesia. ‘Fare anima’ – Hillman insegna – fare il verso nello spazio di accoglienza del disastro, consapevoli della co-dipendenza dal buio. La Catastrofe, a scavare nella terra nera della psiche, si rivela proiezione sull’Altro. Ed è un Altro-da-sé che si rivela adesso declinato al maschile: “spazio nella linea del mio sguardo,/ uno sguardo/ che aderisce al tuo passo spavaldo.”
L’amato ha le armi idonee per spalancare la porta della Catastrofe, è lui il portatore sano di rovina, è il Trickster, giocatore esperto del giogo che stringe la donna, macchina perfetta creata, sembrerebbe, per donare il male.
“[…] Strano meccanismo attiva il cuore:/ brilla negli occhi senza distinguere/ tra l’amore e il male./ Accorcia il tempo,/ come la fune che mi hai stretto al collo./ Ho sempre pensato che sarei morta di crepacuore./ Ora so che sarà per soffocamento.”
Catastrofe dunque è il segreto mercurio che lega i due nel rapporto stretto, nel laccio del Diavolo dei Tarocchi? Gli amanti tenuti saldamente nelle sue tenaglie sin dall’inizio.
“La mia vita” – scrive ancora la poetessa – “procede per sottrazione./ Coscienza di quella sottrazione uguale: votarsi al martirio.”
E ancora…
“Dormiamo insieme ogni notte/ ma è nella crepa che dovrai recuperarmi./ Fai piano, che anche la luce è dolore,/ dopo la culla di un buio così violento.”
La Catastrofe conduce il lettore al centro, là dove sta l’amore come dismorfia ed è l’amore indifferenziato tra L’Io e l’Altro il modus amandi perfetto per annullare L’Io. Si procede dal nero all’albedo immersi nella carne della violenza collettiva contro le donne, nella sottomissione, oltre la tirannia, raschiando il fondo della dipendenza affettiva conosciuta da migliaia di esseri umani tra Eros e Thanatos.
Come ho già scritto altrove: “La poetessa canta un canto universale, una musica di sfiducia che diventa possibilità di ricostruzione.”[1]
Sempre che sia il calvario a condurre alla resurrezione.
“Mi ricordi che anche il figlio di Dio/ è fatto di carne che sanguina e muore./ E che nessuno aspetterà, per me,/ il terzo giorno.”
E poi? Ancora. Oltre.
“Jessica dice che mi aiuterà/ e che non sono sola./ Quando vado a farle visita/ non la guardo mai negli occhi./ Ogni visita la concludo così:/ «Jessica, è colpa mia?».”
La poetica della cura, forse, ci potrà donare la risposta. Nel frattempo, Psiche procede sola, si riconosce individuo tra le proprie ferite, alla ricerca del Dio che si è allontanato.
La perlina sul fondo, un libro contro la solitudine della quarantena
“Ho escogitato per me stesso la teoria del destino artificiale, mi sono andato a cacciare lì dove non avrei mai voluto essere. Io, timido, offrivo assicurazioni sulla vita, vendevo cosmetici, lavoravo nelle miniere, e continuavo a scrivere e scrivere”.
Così Bohumil Hrabal, scrittore ceco tra i più significativi del Novecento, amato, censurato, boicottato, a seconda delle pieghe che prendeva la storia della sua Cecoslovacchia, tra conati di libertà, compromessi e normalizzazione.
C’è, a monte della sua scrittura, una ribadita volontà di contaminazione, volontà spinta ai limiti della sfida, che attraversa sostanzialmente tutti i suoi scritti, dagli esordi fino alla fine. Una sorta di masochismo funzionale, verrebbe da dire, se è vero che si è ‘andato a cacciare dove mai avrebbe voluto essere’.
In Italia Hrabal è conosciuto soprattutto per i romanzi Treni strettamente sorvegliati, da cui è stato tratto l’omonimo film di Jiří Menzel (Oscar miglior film straniero 1966), Ho servito il re d’Inghilterra, Una solitudine troppo rumorosa, ma è anche nei numerosi racconti raccolti in svariate edizioni, alcune delle quali uscite epurate dalla censura (o ricalibrate a causa di essa), che ci viene incontro il manovale-scrittore, pronto a sporcarsi le mani frequentando i bassifondi di una Praga non proprio magica, fatta di bische clandestine e birrerie, e delle sue periferie di campagna percorse in sella a moto da corsa o grazie a fortunosi passaggi in macchina.
Soffermandosi a osservare e ascoltare o cacciandosi dentro, appunto, mimetizzato e confuso tra gli operai di un’acciaieria, di un deposito di carta da macero, o dietro le quinte di un teatro a manovrare la scena, mentre si sta rappresentando Delitto e castigo, alla ricerca di un po’ di luce e bellezza che esiste e resiste anche dietro la scorza greve degli ultimi.
Anche a questo serve la scrittura, a scovare la perlina che riposa sul fondo di ognuno di noi, a raccontarla e farla brillare.
Si intitola La perlina sul fondo il primo libro di Hrabal pubblicato con successo a Praga nel 1963 e appena pubblicato in Italia da Miraggi edizioni nella collana NováVlna dedicata alla letteratura ceca, primo step di un progetto virtuoso che mira a compensare le lacune di traduzione di questo autore, di cui mancano ancora alcune opere fondamentali.
Si tratta di dodici racconti tradotti da Laura Angeloni, che ha compiuto un lavoro tutt’altro che semplice di adattamento di umori, slang, espressioni idiomatiche, gergo tecnico attinto a professioni, mestieri, ambienti diversi, anche ostici, non familiari, eppure vissuti e abitati come gli unici possibili.
Viceversa, la lettura richiede ad un tempo sospensione e immersione. Per questo leggerli in questi giorni di quarantena è stata una gran bella distrazione. Distillando e tornando più volte su alcuni di essi, soffermandomi su passi e momenti nodali, ho imboccato una via sterrata e laterale, liberandomi dal torpore ansiogeno della strada maestra.
Sono racconti che al plot principale affiancano e intrecciano storie secondarie, squarci di vita che tornano alla mente e prendono corpo in modo improvviso, a volte rocambolesco, nel bel mezzo di un incontro, tra le battute di un dialogo tra due sconosciuti, nei ricordi che decollano e subito planano quando meno te l’aspetti, mentre il racconto procede sicuro e con esso il lettore, ora a strattoni, ora ascoltando e scrutando senza fare domande, ora scartando di lato per cercare di scoprire qualcosa che ancora non gli è stato detto, dentro un tracciato fitto di riferimenti e rinvii e qualche sorpresa.
Difficile concentrarsi su un racconto soltanto, difficile rendere giustizia all’intera raccolta.
Perché in questo coro ininterrotto di voci che affabulano, stordiscono, raccontano e se la raccontano, tutte meritano ascolto e attenzione; in questo museo in divenire di facce, di corpi, di gesti, tutti chiedono di esser guardati, sorpresi, smascherati.
Il giovane dell’acciaieria che in mezzo ai ratti e al pane nero imburrato cascato a terra e ripulito alla meglio, racconta del parrucchiere che lo invita a scegliere tra l’acqua di colonia normale o alla violetta. I due moribondi sul letto di morte che non si può dire di più, ma sono un irresistibile monumento ai sepolcri imbiancati di tutti i tempi. Il traslocatore dalle mani callose e possenti che col palmo avvolge il bicchiere come se fosse un uccellino. La voluttuosa fornaia che morde rumorosamente le mele dopo averle strofinate sui seni. L’imballatore di carta da macero che finge di leggere l’editoriale di un vecchio giornale. Il povero diavolo disposto a vendere il suo scheletro alla scienza per racimolare due soldi che gli permettano di riallacciarsi alla corrente elettrica, o l’altro povero diavolo vittima di un assicuratore che non gioca pulito. Il cacciatore di frodo che si scoprirà essere altro, ma non si può dire. Resta l’immagine del capriolo ucciso al bordo di una strada, un brutto colpo andato a segno raccontato in presa diretta dal passeggero Hrabal, seduto di fianco.
E sono molte le scene che sembrano vissute in diretta, vivide e precise come note d’autore di una sceneggiatura che lascia poco al regista, e il lettore sta lì, intento a osservare, come lo spettatore di un film o il visitatore di una mostra di quadri.
Roberto Saporito è un vero scrittore, di quelli che conoscono a tal punto la letteratura da costruire congegni perfetti e piacevoli. Il suo nuovo lavoro s’intitola Respira, ed è uscito per Miraggi di Torino, Casa giovane e attenta alle novità, anche stridenti. La trama, dunque. 11 Settembre 2001. Crolla la torre sud delle Twin Towers, e il protagonista, che sarebbe dovuto essere già lì al lavoro, come ogni giorno, e invece è ancora a letto reduce da una sbronza, decide di sparire. Mercante d’arte stronzo e spietato. Meglio sparire, tagliarsi barba e lunghi capelli, salvare la vita a un energumeno e riordinarsi le idee: un nuovo passaporto falso fornito dal nuovo amico e intanto già compare nell’elenco ufficiale degli scomparsi. Tre anni dopo lo ritroviamo in un bistrot di Saint-Rémy-de-Provence dove si gode finalmente la vita, grazie anche ai soldi fatti quando era uno stronzo manager della Grande Mela, finché… finché la vita chiede il conto, anche se la vita, quella vita, non è più la sua. Rocco Balestrini, ex socio del capitale sottratto dal protagonista in quella mattina maledetta, ma per molti altri versi benedetta, l’osserva a due passi dal tavolino del suo rassicurante bistrot. E l’intreccio s’accende, d’improvviso, come nel miglior Saporito, lungo il solco leggero e raffinato della letteratura d’autore. La fuga, stavolta obbligata, porta l’autore a nascondersi prima in una casa nelle Langhe, quindi in un altrettanto suggestivo rifugio nel Chianti assieme a un’affascinante puttana che tutto sembra fuorché una puttana, e poi ancora a Roma e poi a Venezia. Mentre l’ex mercante d’arte scappa da un luogo all’altro viene spontaneo chiedersi se sia possibile sfuggire improvvisamente a un’esistenza prestigiosa ma frenetica che ti ha tolto quasi il gusto di vivere. La risposta va cercata nelle pieghe di questo libro esile ma ricco di profonde suggestioni, e così la stessa chiave del libro, sempre vivo e piacevole, sta proprio nel titolo, nel tentativo continuo del protagonista di imparare a respirare davvero, nel tentativo di sottrarsi a uno stanco riflesso di sopravvivenza che è oggi comune un po’ a tutti noi. Ci riuscirà? Questo, forse, non è giusto svelarlo, ma, forse l’autore ce ne dà una parziale idea in questa folgorante citazione: “Quando incontri solo persone nuove e mai persone che hanno fatto parte della tua vita mentre questa cresceva di giorno in giorno e di anno in anno, lo scorrere del tempo diventa un bugiardo difficile da sbugiardare, o più semplicemente un bugiardo che vuoi sbugiardare. Quando muori e rinasci lo scorrere del tempo acquista un altro significato o forse perde del tutto il suo vero significato, qualunque esso sia. Quando muori e rinasci sei già più fortunato degli altri, che quando muoiono, di solito, non rinascono…” Un libro da leggere e meditare, di un autore in costante crescita. Di una splendida Casa editrice che ha appena compiuto dieci anni di vita.
“Esatta come il dolore dei pezzi che perdo, sicura come le lacrime che non comprendi. Non ho paura di morire, lasciare questo corpo soffrendo è il mio rifiuto. Se quel Dio in cui credete fa la misericordia che dite, anticipo i miei saluti.” In chiusura di questa corposa raccolta ecco come la poetessa conclude il suo semplice sussurro. Un saluto delicato e nello stesso tempo dubbioso, per quella illusione che ogni essere umano traduce al redde rationem, possibilmente lontano dalla sofferenza ed illuminato da un tenue raggio che sfiora. Allo stesso modo ella apre la silloge con parole dal tremore controllato, nell’incanto di suggestive variazioni tra il molo di Genova, il lungolago di Mantova, i lampioni di Milano, i vicoli di Napoli, posando il piede nelle ombre che circondano. Ogni poesia ha il sapore della denuncia, per la “catastrofe” che continuamente aleggia tra i versi e sospinge a pensieri e ripensamenti variegati. Dall’attendere la burrasca nel tumulto del cielo, all’abbraccio “nella mia stanza di spine e petali rossi di te”, dal muro dove “inchiodare una farfalla”, alla evasione dal labirinto degli occhi, tutti passi che staccano l’armonia del dettato per affondare nelle incertezze che la realtà forgia a dispetto. Lo “strano meccanismo che attiva il cuore” sarebbe allora il suggello che l’amore riesce a imprimere nella nostra palpitazione, e che accorcia i tempi come una corda che stringe intorno al collo, senza per altro soffocare, ma capace di avviare desideri. Il brindisi ha tutte le angolature pungenti nella disperazione che annienta: “Alza il bicchiere in brindisi anche per me. Tu che sei così esperto nella pratica dello stordimento da sostanza alcolica. Brinda al Dio che tutto ti perdona. Anche lo scempio a cui mi costringi, mentre mi rinchiudi in questa stanza sudicia, maleodorante, dove si consuma lo stillicidio dei tuoi insulti. Brinda al Dio tuo complice. Che per tutto mi punisce.”
La “catastrofe” per la poetessa si annida in ogni angolo, il più remoto che sia, per avvinghiare e stordire senza pietà, dando una certa continuità alla diacronica vicenda della insofferenza umana, per ondulazione e duttilità degli stati emotivi. Scrittura duttile, generosa, a tratti di polisemica significanza, educata ad un sussurro attivo, meditativo, liquido nelle espressioni e nelle figurazioni, che rivela un occhio attento a quel policromatico concerto di visioni ed emozioni che diventano schegge proiettate nella varietà degli imput.
Strano ma ricco questo libro, Il gigante folle (Miraggi edizioni, pp. 316, euro 20,00); e con un titolo misterioso. E ancora più strano – davvero molteplice e affascinante – l’autore, Vladimir Zabughin: un russo nato a Pietrogrado, quella che poi è diventata Leningrado e San Pietroburgo, figlio di un alto funzionario del ministero delle Finanze dell’impero zarista; ma fin da giovane grande appassionato della cultura italiana e latina, in particolare umanistica e rinascimentale. A Pietrogrado si laureò in storia e filologia e ottenne un premio prestigioso, un viaggio di perfezionamento a Roma, dove già nel 1911, all’età di 31 anni, conseguì la libera docenza alla Sapienza in Letteratura umanistica. Intanto, aveva sviluppato il suo percorso religioso. Convertito al cattolicesimo di rito orientale, a Roma si legò all’abbazia di San Nilo a Grottaferrata, che ancora oggi esiste ed è completamente dipendente dalla Santa Sede: era ed è la sede principale dei cosiddetti «basiliani» in Italia. A San Nilo andò a dirigere la rivista «Roma e l’Oriente», per creare già allora quella forte liaison religiosa, ma anche politica, tra cattolici e ortodossi, che avrebbe avuto un vero profilo solo col Concilio Vaticano II. Intanto Zabughin all’Università si era occupato della cultura latina nell’Umanesimo e nel Rinascimento, e incominciava a produrre saggi e libri (anche ponderosi) che sarebbero diventati importanti: a partire dai tre volumi (tradotti anche in russo) dedicati a Giulio Pomponio Leto, umanista del Quattrocento, studioso e cultore di storia romana e bizantina; per continuare col Vergilio nel Rinascimento italiano (Zanichelli 1921-’23; ristampa anastatica a cura dell’Università di Trento nel 2001), fino alla Storia del Rinascimento cristiano in Italia uscito postumo nel 1924. Perché, come se non bastassero le altre singolarità, Zabughin morì giovane in Alto Adige, caduto il 13 settembre 1922 in un ghiacciaio del monte Cevedale (venti giorni prima, il 25 agosto, il Corriere della Sera aveva dato notizia di un suo record alpinistico!). Ma non è finita. Zabughin era un vulcano di iniziative che riguardavano vari ambiti, compresi i rapporti con la diplomazia. E veniamo a questo Il gigante folle: si tratta della ristampa, accompagnata da un ricco saggio biografico di Gian Paolo Castelli e altri contributi, di un libro che lo storico russo pubblicò nel 1918 da Bemporad. E il sottotitolo spiega l’arcano del titolo: Istantanee della Rivoluzione russa. Proprio così, «istantanee», perché il libro racconta il viaggio che Zabughin fece in Russia tra il giugno e il novembre 1917, i mesi in cui ebbe e si sviluppò la «Rivoluzione russa». Il viaggio era stato progettato da Vittorio Scialoja, ministro senza portafoglio per la Propaganda durante la prima guerra mondiale, quando il primo ministro era Paolo Boselli. Dalla relazione per Scialoja, scritta giorno per giorno e consegnata al Ministero degli Esteri dopo il viaggio, nacque appunto Il gigante folle, e un saggio di Scialoja ne è la prefazione. Un libro «che può dar la misura della sua virtù di non tiepido osservatore della realtà e delle sue doti di scrittore spedito, efficace, spesso anche arguto»: così lo commentò a ragione, in un necrologio di Zabughin, il famoso «Giornale storico della letteratura italiana». È vero. Le «istantanee», scritte in mille modi, sono centinaia, stese via via durante il lunghissimo attraversamento della Russia, che in quel momento era in guerra con i tedeschi: passando da Pietrogrado fino al monte Ararat, attraverso le linee del fronte, a Riga, in Polonia, in Romania e in Ucraina; e ritorno. Ma ovviamente il cuore è Pietrogrado, dove Zabughin seguì con precisione i durissimi e lunghi conflitti che si aprirono tra le varie forze politiche nate dopo la cacciata dello zar. La «rivoluzione russa» del titolo non è quella bolscevica e di Lenin, che si avviò a luglio, ma esplose veramente per «ventisei ore, dall’una antelucana del 25 ottobre alle tre del 26» (e fu un testimone, come ora sappiamo, a raccontarlo). Erano gli scontri riguardanti in particolare Alexander Kerenskij, che nella «rivoluzione di febbraio» era stato ministro di Giustizia come membro del Partito socialista rivoluzionario e poi primo ministro, vero leader in quella rivoluzione. Un uomo che Zabughin adorava: «dionisiaco, sfolgorante, alto di mente e di cuore» (così lo descrive a pagina 247). Invece per lui Lenin diventa un «Dalai Lama» (p. 85) e il «ciarlatano più servizievole» (p. 275); mentre definì la più celebre delle bolsceviche, Alexandra Kollontaj, «la Marfisa della rivoluzione» (p. 147) tanto per ricordare che l’autore sapeva anche di Ariosto. Sono pagine e pagine che descrivono gli scontri, la corruzione, gli affarismi che si intravvedono attraverso i conflitti del 1917 e però lasciano anche emergere le tendenze e l’atteggiamento del giovane intellettuale russo nel proprio paese: odiava i contadini (erano riusciti a guadagnare di più nell’esercito come soldati) e gli operai, che «andavano in giro, vestiti con inaudita eleganza» (p. 133); per questo considerava invece i borghesi i veri perseguitati da quella rivoluzione («borghesi affamati e grassi proletari», p. 165). Quanto all’ufficiale dell’esercito, era convinto che quello russo (a differenza degli italiani e dei francesi) «è di tempra alquanto femminea» (p. 162). Zabughin vede ogni cosa, anche lo zar decaduto e la famiglia e i suoi appartamenti, e tratta tutto con un certo disprezzo: perfino il «sottotenente russo che esortava gli amici a non dare elemosina a un lazzaroncello stracciato che la chiedeva in tedesco» Quello a cui si assiste nel lungo racconto è un «immenso carnevale» che contiene di tutto: i «cadetti» – il partito liberale che prese il potere, «liberaloni con comica gravità» (p. 102) e con una «rassegnata cretinaggine collettiva» (p. 164); ma anche la «microcefala mentalità socialista» (p. 127) dei rivoluzionari che appoggiavano Kerenskij (e un po’ anche quella dei bolscevichi). Due pagine vengono dedicate perfino a Trotzki, che l’intellettuale incontrò il primo novembre 1917, quando la rivoluzione vera e propria, quella bolscevica, era partita e Zabughin voleva ormai «infilare l’uscio del colossale manicomio russo». A Trotzki chiese il passaporto per scappare, e lo ottenne. Lo descrive così: «È chiomato, barbuto e molto brizzolato». Ma il viaggiatore è anche feroce: «ha l’aria annoiata di colui che aspetta un mondo d’affari, senza che ne venga neppure uno». Si può capire perché un libro così complicato fu più o meno ignorato dalla cultura, dai giornalisti e dai comunisti dell’epoca. Per contro fu esaltato da Giovanni Gentile, che nel novembre del 1918 ne scrisse una recensione favorevole sul giornale di Bologna Il Resto del Carlino. Anche questo è un dato di rilievo, che ci dice qualcosa di questo intellettuale complesso e interessante: come spiega Gabriele Turi nella biografia del filosofo, l’anno dopo, nel 1919, proprio quell’entusiasmo permise a Gentile di imporlo come nuovo incaricato di Letteratura umanistica all’Università di Roma. Ma anche per questo Zabughin ebbe dei problemi con la cultura italiana (ne ha parlato di recente con grandi dettagli uno studioso bolognese, Francesco Sberlati): troppo «religiosa» la sua lettura della storia dell’umanesimo, in un periodo in cui Gentile stava cercando di far penetrare il cattolicesimo nella cultura italiana. Non stupisce che, in proposito, non fosse piaciuto a Croce e neanche molto a Gramsci, che nei Quaderni del carcere ne respinse (come Croce) il «rinascimento cristiano». Ai laici veri non piaceva proprio.
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