Leggere Valeria Bianchi Mian significa entrare in un cumulo di immagini, ricordi, luoghi, moti emotivi. Ma non è confuso e indistinguibile nei suoi elementi. È al contrario allineato, così come le carte dei Tarocchi di cui l’autrice parla nella sua introduzione: «I tarocchi li ho presi in mano da ragazzina […] è possibile che siano le carte a possedere me in un rapporto di reciproca benevolenza e orientamento, come bussola onirica e poetica». L’autrice firma questo importante testo poetico, che attira l’attenzione già dal titolo, che non ha bisogno di essere spiegato o interpretato: “Vit[amor]te. Poesie per arcani maggiori”, edito da Miraggi Edizioni, perché è proprio quello l’invito al lettore, sembra di capire: spingersi nell’interconnessione dei mondi.
E allora tra le immagini del matto, la papessa, l’imperatrice, l’appeso (la cui poesia annessa a quest’ultimo, è stata finalista al secondo premio Alda Merini 2018) e tanto altro, l’autrice ci accompagna in un percorso immaginifico, dove accogliamo il suo invito a cercare (in esergo l’autrice: “A te che vai cercando”. ). A leggere la poetessa, la ricerca non risulta vana, troviamo anche quello che da subito non percepiamo: «ad ogni mia convinzione / aggiungo / un punto di domanda».
E l’approdo al forziere, sia esso un ammasso di interrogativi, o di conferme, ognuno saprà capire in cosa consiste la propria libertà di possesso, lo si deve alla capacità erudita di condurre che contraddistingue Bianchi Mian.
Ci sono passaggi, nella raccolta, che esortano alla riflessione esistenzialista che ricorda la filosofia Sartriana, nell’esposizione di un tempo che sfugge, che non permette la presa, «L’ora persa tra le due e le tre / pensando di vivere a lungo / sommando altre ore e ore al tempo», dove l’interrogativo ci porta sul rapporto spazio-tempo, «me bambina + / me adolescente / + me adulta = / lo spazio illegale del Sé?».
L’autrice dà al lettore senza sfoggio, dona come se stesse prendendo, ricordando un intenso passaggio narrativo dello scrittore libico Hisham Matar. O – per rimanere in un ambiente più vicino alla sua formazione, benché non proprio aderente al percorso nel quale ci accompagna («…Ben più di quanto io mi senta attratta dai popolari marsigliesi o dal percorso intrapreso da Jodorowsky, pur apprezzando la vitalità e l’energia di quest’ultimo, seguo l’anima delle artiste che hanno progettato i Rider-Waite-Smith e i Crowley-Harris, scrive) – sembra seguire l’invito del noto Jodorowsky, quando ci dice che “quello che dai, lo dai a te, quello che non dai, lo togli a te”.
E allora noi leggiamo con precisione e calma, perché come ci ricorda l’autrice «la fretta / ti porta alla soglia / prima degli altri / ma non vinci niente». Cercando di addentare l’arcano, per svelare e scoprire la natura dell’umano sentire.
Il Bagatto
Aborro (andante con grido)
Aborro
l’induzione al bisogno
le multinazionali del disagio.
Aborro
il marketing del nulla
nel Nulla che avanza
e avanza
e t’induce al bisogno
del nuovo modello di ciocco-merendina
del panno impermeabile pulisci macchie invisibili
del dopo dopo-balsamo per i peli delle ciglia
dell’esaltatore di sapidità per gli zombie
che camminano nella ciotola del gatto
dei sogni da far nascere con l’utero in affitto
dell’attico ignifugo su Marte
dello yogurt rossoblu dell’Uomo Ragno
del leviga occhiaie gel multifunctional iperattivo
«Donne di mafia»: il tumulto provocato dalle figure femminili all’interno di Cosa Nostra
Vittime, complici, protagoniste. A raccontare le donne dei boss, omertose o ribelli, all’epoca dei primi grandi pentiti e il loro rapporto con il frantumarsi del fenomeno mafioso, è stata la giornalista lucana Liliana Madeo in «Donne di mafia», un’inchiesta giornalistica realizzata in Sicilia a partire dal 1992, e pubblicata nel 1994. Ristampato oggi dalla casa editrice «Miraggi», a 25 anni di distanza, non smette di fare luce e «mettere ordine» nelle intricate vicende di mogli, amanti, sorelle, figlie, giovani e anziane, da sempre immerse nell’ombra della famiglia. Il testo racconta, infatti, il tumulto che alcune figure femminili provocarono all’interno di Cosa Nostra: quelle che incoraggiarono i loro uomini a uscire dal circuito mafioso, abbandonando gli agi del potere; quelle che si pentirono; quelle che abbandonarono il marito; quelle che fuggirono, al loro fianco, nei rifugi all’estero o in Italia, e decisero di vivere sotto un altro nome, in luoghi continuamente diversi; quelle che si schierarono contro i compagni di una vita; quelle che arrivano addirittura a togliersi la vita. «Quando Giovanni Falcone fu ucciso, provai a immaginare la faccia dei suoi assassini, i loro festeggiamenti per il successo ottenuto. “E le mogli?”, mi chiesi. Come li avevano accolti, quella sera, i mariti? Se li erano stretti amorevolmente al petto? Di loro — le donne del pianeta mafioso — si sapeva ben poco», racconta al Corriere della Sera Madeo, ricordando la genesi del libro. «Mi precipitai a Palermo. Parlai con magistrati, dirigenti delle forze dell’ordine, sociologi, avvocati, anche con alcune delle donne che avevano avuto il coraggio di uscire dalle pieghe del silenzio e della sottomissione alle regole di Cosa Nostra. A molte mie domande ottenevo, in risposta, evasività, moti di fastidio e di sorpresa. Ho lavorato a lungo. “Lo faccia, lo faccia questo libro. Non sa quanto anche a noi può essere utile!”, mi incoraggiò un alto magistrato».
Cultura e tempo
E così, pagina dopo pagina, intervista dopo intervista, nacque l’oera nella quale ritroviamo «donne giovanissime e inconsapevoli, che per amore finiscono nel circuito degli omicidi, tra latitanze, vendette e fughe. Donne che — con gli occhi e il metro di giudizio dell’uomo che hanno sposato — tutto vedono, giustificano, proteggono. O addirittura incrementano. Oppure – quando lui esce dal clan – rinuncia a un giudizio su quanto è accaduto», spiega. Accanto a loro, «ho descritto anche le figure di quante consideravano la convivenza con il marito un incubo e quelle che cui fu la stagione della felicità, sbandierando le virtù del compagno, padre esemplare, cittadino senza peccato». Tutte loro, nessuna esclusa, ci portano a riflettere su quanto sia «stretta la connessione tra noi e il nostro tempo, noi e la cultura che respiriamo». Tutt’altro che misterioso — precisa — è il compito che Cosa Nostra assegna alla donna: «Deve ubbidire, rispettare gli ordini, tacere. Garantisce la sicurezza della famiglia e la continuità del potere all’interno del clan. Le ragazzine dei vicoli di Palermo e delle periferie siciliane lo sapevano ma – ignoranti, sole, catturate dal richiamo sessuale e sentimentale oltre che dalla visione degli agi di cui avrebbero potuto godere – si inserirono senza titubanze in quel mondo cupo, maschilista, violento», chiarisce.
Rabbia, pena e ammirazione
Nel corso delle ricerche sul campo, «ho scrupolosamente riferito quanto proveniva dalle fonti ufficiali. Esili e sbiadite sono state le voci di replica», sottolinea. Senza dimenticare la «rabbia provata davanti alle matriarche, alla loro indefessa attività mafiosa, e la pena per quante – senza successo – sono andate nelle piazze a urlare i nomi degli assassini di una persona cara, di un figlio». A prevalere, però, è sempre stata «l’ammirazione per quelle che hanno portato il marito a denunciare i crimini commessi e i loro complici, a “parlare” dando il via a nuovi filoni d’indagine. Penso a Margherita Gangemi, moglie di Nino Calderone. Di famiglia non mafiosa, con un diploma e un impiego all’Università di Catania, si innamorata del bel giovane e lo sposa. Subito capisce qual è la sua attività ma tace, stipulando con lui una sorta di patto del silenzio. Finché un giorno – anni dopo – vede i rischi che incombono su di loro e viene allo scoperto. Fa partire Nino alla volta della Svizzera, gli organizza l’accoglienza presso suoi amici e strutture religiose, vende la casa e i gioielli, si licenzia, lo raggiunge …. Sarà lei a chiamare Falcone con cui si incontreranno a Marsiglia».
Il cambiamento di Cosa Nostra
Cosa o cosa non è cambiato da allora ad oggi? «Cosa Nostra è cambiata del tutto, nella struttura e nella gestione degli affari. Pure le figure femminili — anche se ufficialmente il loro ruolo resta quello di sempre — sono cambiate. Oggi non se ne stanno più nella penombra; parlano in pubblico; esibiscono la loro bellezza e i loro talenti. Non solo, sanno usare i mezzi di comunicazione più avanzati; conoscono le lingue straniere; prendono con disinvoltura aerei che le portano da una parte all’altra del globo collegando tra loro poli diversi di denaro e di potere. Ancora, però, non è concesso loro lo scettro del comando», conclude. Quale messaggio è importante rilanciare oggi, alle nuove generazioni che leggono per la prima volta queste vicende sui libri di scuola e non le hanno vissute? «Se un giovane ha interesse per il western, l’horror, il giallo, gli intrichi e gli imprevisti dei giochi d’amore, nelle storie passate di Cosa Nostra trova pane per i suoi denti. E così sarà in grado di gustare ancora meglio le inchieste, gli svelamenti — non poco clamorosi — che si preannunciano».
Mie adorate signore ecogattopardate che anelate il solstizio d’estate e glutei pressostampati,
ho ululato di giubilo alla luna sprofondante nel rovente bacino, ho ballato sotto la pioggia acida che scarnifica il mio inaccessibile terrazzo, ho bevuto punch al mandarino fino ad accartocciarmi come una lattina di alluminio schiacciata e tutto, tutto quanto, tutta questa gioia incontenibile, dirompente, scavallante, purificante come una brezza che discende le pendici del monte Fuji, tutto quanto per avere scoperto questo libro pirotecnico come uno spettacolo al Rione Sanità, spumeggiante come una gazzosa agitata e soprattutto selvaggio, selvatico, maleducato, prepotente, schiaffeggiante come ben pochi altri io abbia incontrato.
Vi dico come è avvenuto. Sono entrato, ho percorso la fila di libri una volta, l’ho percorsa una seconda volta a ritroso, poi l’ho percorsa una terza volta e ho fermato il passo verso la fine, quasi alla svolta a destra della fila di libri. Era lì, di grigio travestito, quel titolo inconcepibile, un alieno tra la folla, un pazzo seduto tra i mediopensanti, uno nudo in fila tra gente vestita da capo a piedi. È successo proprio così.
Brucio Parigi. Ah che titolo! Trovatemene uno più insolente se siete capaci. È pura insolenza questo libro, meravigliosa insolenza. Talmente insolente che il povero Bruno Jasieński, una volta scritto e pubblicato, per altro in condizioni a dir poco ridicole, e dopo aver radunato folle ululanti di gioia per codesta opera, venne espulso dalla Francia dai mangiarane parrucconi franzosi impermalositi e si ritirò in Unione Sovietica dove, come ci si poteva immaginare, finì tragicamente. Era il 1929 e Brucio Parigi è, signorone e signorine palpitanti e palpebranti, un inno futurista, comunista, nemmeno troppo velatamente antisemita, come d’altronde era l’epoca, intimamente anarchico e, io aggiungerei per dare una ventata di post-moderno demodé, un manifesto punk di purissima fattura. Brucio Parigi è un libro carnalmente punk. Ciò lo rende grande. Il punk forse è morto per qualcuno, ma di certo è nato anche con Brucio Parigi.
Qualcuna di voi si incuriosirà, certo certo, un calore, una vampata di proibito, un eccesso che scuote membra infiacchite dagli allenamenti, come l’idea di raparvi a zero, lo so che vi viene, di tanto in tanto, il gesto di rottura, rinchiuso nello sgabuzzino del cervello, perché non leggere un libro così allora, selvaggio e insolente? Ma certo perché non farlo, ma siate avvertite che non è per tutti, domandatevi, sono un lettore o sono un personaggio? Domanda curiosa, domanda impertinente, quasi maleducata, come osa? non si permetta! Io personaggio? Personaggio a me non lo dice nessuno! E poi, personaggio di che, di cosa, di chi? Attenzione mie dilette, cautela, prudenza, sfoderate le armi borghesi, lisciate l’agio della modernità e titubate prima di intraprendere il sentiero oscuro delle pazzia futurista. Il sentiero dei pazzi si addice ai pazzi e in questo caso chi può dire di esserlo o di non esserlo?
Brucio Parigi, Brucio Parigi, Brucio Parigi… ti entra in testa e non ne esce. Ti deturpa, come un herpes. Come un brufolo sulla punta del naso. Inizia con un velo di oscurità fitta e pesante, una maglia spessa calata sulla faccia. Per un po’ non si comprende. Poi tutto inizia a girare, a vorticare, come a stare in un barile che rotola giù da una collina. Tutto vortica sempre più velocemente, si perde il senso del sotto e del sopra, della luce e del buio, cos’è luce? cos’è buio? la pestilenza è luce o buio? gli ebrei, i comunisti, i francesi, gli americani, i capitalisti, gli operai, gli scienziati, tutti questi, sono sopra o sono sotto? Da che parte stanno? E tu, gattopardata, da che parte stai? Che ne sai di immaginare il mondo in modo selvaggio? Che cosa vuol dire per te selvaggio? Non rispondere, è pericoloso. Parlare è insalubre in certe situazioni.
Nelle oscure profondità dell’oceano, dove non arrivano più le correnti, i vortici e lo sciacquio delle onde, in un’immobile acqua verdastra morta come l’acqua di un acquario, tra foreste di alghe gigantesche e di sigillarie e liane antidiluviane, vive la passera di mare. […] Sul fondo vive la passera di mare. Qualcuno la prese, la tagliò a metà lungo il dorso e mise una metà sulla sabbia. La passera di mare ha soltanto un lato, il destro. Il suo lato sinistro è il fondo marino. Un organo sparisce, se non viene utilizzato. Tutti gli organi della passera di mare del lato sinistro, inesistente, si sono spostati sul lato destro e dal lato destro, l’uno accanto all’altro, un paio di occhi piccolini indifferenti guardano sempre verso l’alto. Gli occhi guardano sempre in su, tutti e due dalla stessa parte, mostruoso, orribili, bizzarri; mentre il lato sinistro non esiste. Nell’enorme città di Parigi, in una rossa casa lentigginosa in rue Pavè, abita il rabbi Eleasar ben Tsvi. […] Il rabbi Eleasar ben Tsvi ha due occhi l’uno vicino all’altro e questi occhi guardano sempre in su, inespressivi, piccoli, molto somiglianti, rivolti al cielo dove credono di poter vedere alcune cose percepite solo da loro. Un organo sparisce, se non viene utilizzato. Il rabbi Eleasar ben Tsvi vede tante cose inaccessibili allo sguardo umano, però non vede quelle più semplici; conosce soltanto un lato, quello rivolto al cielo, mentre quello rivolto al suolo non esiste.
Pazzi, folli, squinternati, gattopardi derelitti, borghesi infracicati, prostrati dalla privazione da sonno, fustigati dall’instabilità emotiva, sessuofobi e sessuomani, psicolabili camuffati, bruciate Parigi finalmente, bruciate la città meravigliosa, il faro d’Europa, la luce della civiltà, lasciate che le fiamme ardano per mesi, per anni, inestinguibili, ballate e ululate sulle braci ancora roventi, date questa soddisfazione ai signori borghesi, normali parrucconi, gradassi benpensanti che non desiderano altro, niente li renderebbe più soddisfatti e pacificati di vedere voi, massa brulicante e fetente di neri scimmioni alzare grida di vittoria dalle macerie e dal carbone di Parigi.
CARA CATASTROFE | Felicia Buonomo (d’amore e rovina)
Che cos’è mai questa Cara catastrofe?
O meglio: dove trova luogo una tanto potente amica di penna?
Rovina è il suo sinonimo – allo specchio riflesso si fa uguale e contraria all’amore e, giocando a immaginare, fa sì che l’affetto degli amanti diventi eroma. Se la catastrofe è amica interiore, i relitti sono dentro la relazione, ed ecco che allora, matematicamente, il risultato è ‘uno fratto’ quell’abbracciarsi forte tra le macerie della coppia archetipica nel dipinto di Burne-Jones Love among the ruins.
Catastrofe, cara – accende romantiche assonanze ed è risoluzione drammaturgica (possibile), capovolgimento dal rosso al nero, parola viva che mi lascia immaginare l’Appeso dei Tarocchi (carta numero XII) impegnato a trasmutarsi in Torre (il Trionfo numero XVI). Ed è una Torre che scoppia e sputa fiamme sopra il paesaggio noto, quella che l’anima della catastrofe mi porta a fantasticare. Sorella simbolica di penna, un ‘caro diario’ evocativo, l’Altra-in-sé di Felicia Buonomo è cara alla poeta, mai scontatané a buon prezzo – è compagna di viaggio. Echi di una privataapocalisse con relativa potenziale apocatastasi aleggiano nell’etere, insieme a Vasco Brondi che apre la silloge e canta… “a inchiodare le stelle a dichiarare guerre a scrivere sui muri che mi pensi raramente…” (Vasco Brondi – Cara catastrofe).
Cara Catastrofe,
m’innamori come il gelo sul lungolago di Mantova, le luci dei lampioni di Milano, le onde sul porto di Genova e la strada oscura dei vicoli di Napoli. Trova nuovi colori e tratti che m’incantino. Dipingi la geografia del mio sentire. Io credo solo agli incantesimi.
La poeta e la sua Catastrofe – ormai fattasi Persona – procedono in carteggio univoco, come traccia unidirezionale o ricamo monologico, coinvolte nel medesimo sguardo che, sempre giocando a immaginare io definirei – riconoscimento omopsichico. E ancora dico gemellaggio interiore, incontro e resa dell’Io all’Ombra. Pensando al rapporto tra queste due istanze, non posso scacciare dalla mente la memoria di un’opera che ho amato tanto. La prosa poetica che abita La casa dell’incesto emerge nel ricordo di un passo d’acciaio e della leggerezza delle piume di un femminile simbolo dell’Altra-in-se-stessa tra le pagine di Anaïs Nin – seppur distante dal tema chiave del libro della Buonomo. Una pennellata, forse, soltanto un tocco leggero mi fa riprendere il filo nella lettura dell’impresa più difficile per le donne (ma anche per gli uomini) di tutte le epoche: ricongiungere i pezzi sparsi, rimettere insieme frammenti di sé, voci e volti dell’interiorità. Vedo l’autrice e la sua Catastrofe come la poeta e la Musa, coinquiline nella stessa ispirazione.
Elementi in luce si intrecciano alle voci in nuce, ai tratti ancora oscuri, messi a nudo fino alla scarnificazione. La pelle e la carne, da un lato. Il dolore dall’altro. La ferita in mezzo. Mentre leggo ho i brividi nelle ossa.
Cara Catastrofe,
guardarti è come entrare in scena, senza aver mai provato la parte. Improvviso, inciampo, goffamente mi rialzo. E di nuovo inciampo. Nei tuoi occhi, il mio sold out. Non c’è spazio per replicare. E io continuo a improvvisare.
C’è solo un modo per soccombere senza soccombere: l’unica reazione possibile sembra essere quella del fare poesia.
Fare anima – Hillman insegna – fare il verso nello spazio di accoglienza del disastro, consapevoli della co-dipendenza dal buio. L’Altro, allora, si declina al maschile, una catastrofeche veste gli abiti dell’amato e prende, scrive l’autrice,
spazio nella linea del mio sguardo,
uno sguardo
che aderisce al tuo passo spavaldo.
L’amato ha le armi per aprire la porta alla stessa Catastrofein quanto portatore sano di rovina, giocatore esperto di ungiogo che stringe la donna, ed è un meccanismo perfetto per donare il male.
(…) Strano meccanismo attiva il cuore: brilla negli occhi senza distinguere tra l’amore e il male. Accorcia il tempo, come la fune che mi hai stretto al collo. Ho sempre pensato che sarei morta di crepacuore. Ora so che sarà per soffocamento.
Lui ha in mano la Catastrofe adesso, forse l’ha tenuta saldamente nelle sue tenaglie sin dall’inizio.
La mia vita
scrive ancora la poeta
procede per sottrazione.
Coscienza di quella sottrazione uguale: votarsi al martirio.
Dormiamo insieme ogni notte ma è nella crepa che dovrai recuperarmi. Fai piano, che anche la luce è dolore, dopo la culla di un buio così violento.
La Catastrofe non è fine a se stessa, se nel procedere serrato nel dolore Felicia – nomen omen, per l’uno fratto la Catastrofe stessa – ci conduce al centro, là dove sta l’amore come
dismorfia
ed è l’amore indifferenziato tra L’Io e l’Altro il modus amandiche annulla L’Io. È importante, mi sono chiesta, sapere a chi sono dedicate le invocazioni, le frustate emotive, gli schiaffi nell’anima, le parole che arrivano dritte al brivido del lettore?
No.
La mia impressione è che si tratti in ogni caso di un procedere immersi nella carne della violenza collettiva contro le donne, nella sottomissione e oltre la tirannia, raschiando il fondo della dipendenza affettiva conosciuta da migliaia di esseri umani fragili e forti e innamorati del male, presi al laccio nel non sapere come uscirne, senza potersi muovere da quel legame di Eros e Thanatos – amore mortale. La poeta canta un canto universale, una musica di sfiducia che diventa possibilità di ricostruzione.
In un’ottica analitica potremmo vedere la faccenda da almeno due punti di osservazione: ciò che avviene dentro risuona fuori e richiama il mondo in una danza di viceversa – è un calvario narrato per versi che condurrà alla resurrezione?
Mi ricordi che anche il figlio di Dio è fatto di carne che sanguina e muore. E che nessuno aspetterà, per me, il terzo giorno.
Forse, le voci altre del mondo potranno aprire la breccia, il varco nelle macerie per estrarre, prima o poi, l’anima dal terremoto.
Jessica dice che mi aiuterà e che non sono sola. Quando vado a farle visita non la guardo mai negli occhi. Ogni visita la concludo così: «Jessica, è colpa mia?».
Ogni staffilata poetica di questa toccante silloge è una dose di dolorosa consapevolezza. Fuori dall’inferno, l’inizio è denso grigio, è vuoto pregno che l’arte può coltivare, punti di sutura, poetica della cura.
«Rosa, io sono un metodico. Ho dovuto fare colazione in un altro bar, sono già abbastanza sconvolto per oggi.»
La vita moltiplicata di Simone Ghelli è una raccolta di racconti in cui ciò che ci viene mostrato il più delle volte non corrisponde a ciò che si pensava di leggere: accade quella cosa che uno dei personaggi della raccolta definisce «contraffazione del reale». Ghelli è molto bravo a “rifilarci” la sensazione di essere trasportati in un mondo altro, come sospinti in altre dimensioni, mentre invece – una volta storditi – ci ritroviamo davanti a racconti di vita che fanno del quotidiano, della semplicità, della normalità la loro cifra straordinaria. Ogni racconto parte da un elemento minimo che spezza la routine di un personaggio qualsiasi: un professore che la mattina non può mangiare il suo danese con scaglie di cioccolato perché il bar dove va sempre ha un problema elettrico; un impiegato in una società di servizi che fornisce assistenza ai clienti per conto di terzi, una mattina si ritrova a fare tardi al lavoro per vari motivi – il traffico, la giornata uggiosa, le buche delle strade – ma tutto comincia quando un vecchietto compie una manovra azzardata ad un incrocio con il semaforo rosso; un postino che si alza già stanco una mattina a causa di un incubo notturno e non ne infila una giusta; e così via. Quando qualcosa cambia all’improvviso arriva la vita, e i personaggi di Ghelli restano lì non sorpresi, non sopraffatti, ma assistono a quello che avviene come se fossero dentro a un sogno, come se dormissero un sonno profondo, tanto profondo da sembrare reale, vero ma innocuo. Come se la vita si moltiplicasse, in qualche modo, e diventasse tante vite diverse. E invece un risveglio c’è sempre. Dai racconti di Ghelli si apprende che a sconvolgerci la vita è la vita stessa nella sua normalità. Non soltanto i grandi eventi, non solo i grossi traumi, ma sono gli avvenimenti del quotidiano che possono stravolgere così come possono appiattire un’esistenza. Tutto dipende da noi, da come li affrontiamo, e con che occhi li guardiamo (appena svegli).
Ogni personaggio, alla fine, torna indietro e dopo quello che ha appena vissuto – il sogno, «il miraggio di una vita piena», il tempo di un mondo altro che non è il tempo di questo mondo qua – ricompare la vita vera. O forse no. La scrittura di Ghelli è raffinata, ricercata, a volte si fa rumore di quello che accade – «La casa scricchiolava e brontolava, era un enorme stomaco che stava digerendo la sua vita» –; altre, immagine nitida – «Immobile dinanzi alla distruzione, come l’osservatore esterno nel Naufragio della speranza dipinto da Caspar David Friedrich –; altre ancora suono – […] si eseguono, di nascosto, centinaia di sinfonie di vite separate.»; ma rimane attaccata alle cose, alle storie e ai suoi personaggi – come il pennarello del fumettista Osvaldo Cavandoli alla sua linea –,nel tentativo di tamponare le falle delle loro esistenze tenendole insieme, attraverso un’estetica funzionale che non perde mai di vista ciò che vuole raccontare e anche ciò che vuole immaginare.
«Forse aveva avuto soltanto una passata di febbre e non se n’era neanche accorto.»
Donne di mafia racconta il tumulto provocato o subìto dalle donne all’interno di Cosa Nostra: le più giovani e le più anziane; quelle che si pentono, che se ne vanno, che si suicidano.
Quelle che incoraggiano mariti, fratelli, figli a uscire dal circuito mafioso in cui sono immersi; quelle che invece scelgono la strada della denuncia, perdendo perdendo la loro libertà e passando da un rifugio all’altro; infine quelle che si chiudono in casa, sopravvivendo a se stesse nella rete della cosca.
Giornata della memoria delle vittime di mafia: queste sono le donne che hanno saputo dire no
La giornata della memoria e dell’impegno promossa da Libera e Avviso Pubblico che si celebra in tutta Italia il 21 marzo, primo giorno di primavera, quest’anno subirà molti cambiamenti dal punto di vista organizzativo, a causa dell’emergenza Covid-19. Ma grazie alla rete e alla campagna social promossa dall’associazione tutti potremo partecipare e dare un abbraccio virtuale ai familiari delle vittime di mafia.
Ancora una volta, e per diverse ragioni, le protagoniste di questa giornata saranno le donne. Il 21 marzo nasce proprio dal dolore di una mamma. La mamma di Antonino Montanaro, il capo scorta di Giovanni Falcone. È stata lei che durante il primo anniversario della strage di Capaci ha chiesto perché il nome di suo figlio non veniva mai menzionato. Si parlava dei “ragazzi della scorta”. E così, dal dolore di questa madre di un figlio vittima di mafia, a cui veniva negato anche il ricordo, ogni anno si leggono i nomi di tutte le vittime, per non dimenticare nessuno di loro. Perché la memoria si trasformi in impegno collettivo.
Il ruolo delle donne dentro e fuori le organizzazioni criminali, come vedremo, si è rivelato fondamentale per dare un duro colpo alle mafie. A febbraio è stato ristampato dalla casa editrice Miraggi il libro Donne di mafia della giornalista Liliana Madeo. Il testo è alla sua terza ristampa. La prima volta fu pubblicato da Mondadori nel 1994 ed è tutt’oggi attualissimo per comprendere il ruolo delle donne “vittime, complici, protagoniste” del mondo mafioso.
Liliana Madeo, in tempi in cui ancora si parlava poco o niente della figura femminile nelle organizzazioni criminali, è riuscita a tracciare il profilo delle mogli, delle compagne, delle fidanzate dei più potenti boss di Cosa Nostra. Alcune omertose, altre ribelli, protagoniste indiscusse del tumulto all’interno della mafia siciliana, all’epoca dei primi grandi pentiti. Liliana Madeo racconta di queste donne in chiave inedita, con le carte delle inchieste, ricostruendo la vita insieme ai boss, senza un filo di retorica, senza aggettivi, facendoci entrare all’interno di quelle famiglie e sentire la paura, la negazione, l’attesa, l’ansia per il futuro dei figli.
Giacomina Filippello, che per 24 anni è stata la compagna di Natale D’Ala, uomo di rispetto di Campobello di Mazara, ha conosciuto Riina, Badalamenti, sapeva chi era il suo uomo ma lui riusciva a darle tutto e a farla vivere in un mondo incantato. È stata la prima pentita di mafia dopo averlo visto morto ammazzato con 25 colpi di kalashnikov. “Lo sorpresero indifeso come un uccello. Non si accorse nemmeno che stava per morire. Era in piedi, cadde come un frutto maturo” raccontò.
E successivamente molte sono state le donne che hanno scelto di dire no. Lo hanno fatto soprattutto per il bene dei propri figli, perché non fossero costretti a un futuro di morte, paura, rabbia, scelto per loro dai padri. E così dopo il periodo siciliano, più recentemente, anche la Calabria ha avuto delle donne come protagoniste dell’antimafia.
Come Maria Concetta Cacciola, una giovane donna di Rosarno con un marito in galera che voleva essere libera di vivere la sua vita e che temeva per i suoi figli. Maria Concetta era cresciuta in una famiglia legata agli ambienti della criminalità organizzata ed era sposata con un uomo che stava in prigione. Mentre lei viveva tutti i giorni la sua prigionia all’interno delle proprie mura domestiche. Quando si è ribellata la famiglia non l’ha accettato ed è morta ingerendo acido muriatico nella sua abitazione, dopo un lungo calvario di solitudine. Alcune, come narrato bene da Liliana Madeo, hanno scelto il silenzio, l’omertà. Basti pensare alla moglie di Totò Riina, Ninetta Bagarella.
Oggi tuttavia qualcosa cambia. E un primo segnale c’è stato grazie a Libera e il Tribunale per i Minorenni di Reggio Calabria con il protocollo “Liberi di scegliere”. Sono circa 70 i minori allontanati dalle famiglie ‘ndranghetiste. Una trentina le donne che hanno deciso di allontanarsi dall’ambiente mafioso e salvare se stesse e i propri figli.
Abbiamo sempre meno esempi di donne che non parlano, vestali di una cultura arcaica e feroce, come quelle descritte da Sciascia nella Sicilia come metafora e più donne che hanno cambiato la storia delle organizzazioni criminali.
Isolamento forzato? D.it sposa l’iniziativa lanciata dagli editori – impiegate il tempo leggendo – pubblicando stralci di nuovi titoli e link da cui scaricare libri gratis. Oggi, un estratto speciale in occasione della “Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie”
Donne di mafia di Liliana Madeo è stato pubblicato 25 anni fa e torna ora in libreria in occasione della “Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie”, con Miraggi Edizioni. È il racconto del tumulto all’interno di Cosa Nostra che le donne hanno provocato, subito. Le più giovani diverse da quelle anziane perché si pentono, piantano il marito, si suicidano. Ma anche incoraggiano i loro uomini a uscire dal circuito mafioso in cui sono cresciuti, li aiutano, gli dischiudono le potenzialità di una vita nuova, libera. Sono al loro fianco nei rifugi all’estero o in Italia, sotto un altro nome, in luoghi continuamente diversi che il loro stato di collaboratori di giustizia gli garantisce. E anche donne che non condividono un percorso simile, si schierano clamorosamente contro i mariti o si chiudono in casa per godere almeno della rete di solidarietà della cosca. Da Donne di mafia è stata tratta una miniserie tv diretta da Giuseppe Ferrara. Ecco l’estratto del primo capitolo.
La vita col boss può essere bellissima. Il rimpianto e la nostalgia divorano le notti di Giacoma Filippello, che per ventiquattro anni è stata la compagna di Natale L’Ala, uomo di rispetto di Campobello di Mazara. Al suo fianco ’Za Giacomina ha conosciuto Badalamenti, Riina, il clan Rimi. Ha visto scontrarsi gli interessi dei vecchi e dei nuovi capi, in una scia di sangue che seminava lutti e annunciava nuovi delitti. Ha guardato in faccia gli uomini d’onore che, senza un’ombra sul viso, senza un trasalimento della coscienza, andavano a uccidere.
Ha conosciuto il timore della morte, la diffidenza per gli amici che in un qualunque momento potevano tradirti, le atroci insicurezze che fanno parte del patto fra il mafioso e Cosa Nostra. Ha tentato anche lei di rispondere con la violenza alla violenza, prima di capire che volere giustizia è diverso dal vendicarsi. Quando lo ha capito, s’è trovata sola. Una « pentita ». Una delle prime donne di mafia che si sono messe a collaborare coi giudici.
Ma di tutta la sua vita avventurosa ’Za Giacomina sempre preferisce ricordare i momenti felici del passato
e le indicibili tenerezze di cui l’uomo che ha amato, un boss cui sono attribuiti gravi reati, era capace. Lei diceva: sento il profumo delle zagare in fiore, è primavera, chissà se le fragole sono mature. E lui gliene faceva arrivare un cestino. Lei perdeva le scarpe in campagna, e lui la riportava fra le braccia in paese. Lei diceva: vorrei fare il bagno in mare, prendere il sole. E lui, che non era felice di questo, perché non gli andava l’idea che la sua donna si mostrasse in costume da bagno, prendeva una spiaggia tutta per loro; con la scusa che doveva « aggiustare » una questione sorta per il pagamento del « pizzo », a Menfi, nel cantiere dove stavano costruendo l’albergo Paradise, una volta si fece dare le chiavi dell’intero stabilimento. Che giornata indimenticabile! C’erano solo loro due, senza occhi estranei che li guardassero.
Persino lui si mise in costume, poi disse ridendo: « Ma vedi che cosa mi fai fare… Pensa se i miei uomini mi vedessero… ». Aveva per lei mille attenzioni, ricorda.
Certo, poi era geloso, il maledetto. A volte la chiudeva in casa a chiave. Giacomina si ribellava ma poi lui sapeva sempre farsi perdonare: « Si faceva un agnello ».
Glielo hanno ammazzato, il suo uomo, il 7 maggio ’90, e lei s’è fatta pentita. Per amore e per vendetta. Con furore. « Quando vennero a dirmi che avevano ucciso Natale, mi si annebbiò la vista e cominciarono a tremarmi le gambe. Correvo come una pazza: lo trovai dentro il supermercato di Campobello. Che scempio ne avevano fatto. Venticinque colpi di mitra, tutti a segno. Scelsero i kalashnikov perché lui si era fatto la macchina blindata e allora ci voleva un’arma che bucasse la corazza antiproiettili.
Precauzione eccessiva. Lo sorpresero indifeso come un uccello. Non si accorse nemmeno che stava per morire. Era in piedi, cadde come un frutto maturo. Io me l’aspettavo, dopo due volte che ci avevano tentato. Sapevo che prima o poi sarebbe arrivata la mala notizia.
Non potevo immaginare però che il dolore sarebbe stato così forte. Lo abbracciai, gli baciai la fronte. Non piangevo, non gridavo. Ero di pietra. Intuivo che alle mie spalle c’era una folla, ma non vedevo nessuno, non sentivo voci. Vidi la sua pistola, la toccai, gliela sfilai, la nascosi sotto la giacca. Sotto gli occhi di tutti. E uscii, a testa alta. Pensai subito a vendicarlo. Ora, mi dicevo, se incontro don Alfonso dei miei stivali gli sparo in bocca. Non vidi né don Alfonso né gli altri che, ero sicura, avevano fatto quel massacro. Dissi: “ Chi deve pagare, pagherà ”» ha raccontato al giornalista della « Stampa » Francesco La Licata, siciliano, esperto di mafia, con il quale – dopo il pentimento, in un periodo che era a Roma – aveva voluto parlare. Criniera di capelli corvini, occhi di fiamma, ancora oggi ’Za Giacomina ha una bellezza meridionale intensa e fosca. Il gusto per la provocazione e una gioiosità innata le fanno scegliere abiti vistosi dai colori squillanti. La capacità di emozionarsi addolcisce i suoi tratti, e rende caldi i suoi gesti, cariche di poesia le sue parole.
Quest’amore in cui ha bruciato la sua vita – e che alla fine l’ha portata a raccontare al giudice Borsellino tutto quello che sapeva sulle cosche trapanesi, sulle alleanze fra mafia, malavita, imprenditoria, logge massoniche, politica – è un amore iniziato quando aveva diciott’anni.
Di mafia allora non sapeva niente. Da quando aveva sei anni era stata mandata in collegio, dalle suore dell’Incoronata di Trapani. Tornava per le vacanze e di quelle visite conserva un ricordo intenso, confuso e lieto. Le sono rimasti impressi un viavai incomprensibile di persone nella sua casa, profumi sconosciuti, ragazze seminude, il biancore delle loro braccia, la civetteria della biancheria intima, un’aria di mistero che le circondava.
Lei, bambina, si nascondeva e spiava. E rideva. Tornò per la Pasqua del ’66, il primo aprile. «Fu il pesce d’aprile della mia vita». In quell’anno l’Italia dei giovani era affascinata da una tournée dei Beatles e dallo scandalo della «Zanzara», provocato da un’inchiesta sul sesso dei ragazzi del liceo Parini di Milano. Lei faceva il suo ingresso nel mondo della mafia.
Campano per nascita e formazione, parigino per scelta, Francesco Forlani è scrittore eclettico, performer, traduttore, fondatore di riviste come «Sud», instancabile promotore di iniziative che gettino ponti tra culture diverse ma con molti punti in comune, quella italiana e quella francese.
E mentre sta per uscire in Francia un suo nuovo libro, intitolato Par-delà la forêt: Mon éducation nationale, in Italia pubblica, in edizione bilingue e con fotografie fatte da lui stesso (contaminare i linguaggi è una caratteristica del lavoro di Forlani) una sorprendente opera di poesia intitolata Penultimi (Miraggi edizioni, pagine 128, euro 13) che nasce da un’occasione autobiografica per acquisire valenze di grande significato.
Diventato professore di italiano nelle scuole francesi, Francesco Forlani è stato costretto a modificare sostanzialmente le sue abitudini. La scuola in cui insegnava era quasi in Normandia, e per quanto efficienti siano i trasporti francesi ci volevano un paio d’ore per arrivarci. Fine, quindi, delle frizzanti serate parigine, per uscire all’alba o in piena notte, prendere il metrò alla prima corsa e raggiungere la stazione Montparnasse, da dove partono i treni per l’Ovest. Un’occasione preziosa per scoprire una dimensione sconosciuta della città e, appunto, quelli che Forlani chiama empaticamente «i penultimi»: persone che dipendono dalla puntualità del treno, che se c’è qualche ritardo saranno «donne delle pulizie non presenti/ come da contratto negli uffici, manovali assenti dai cantieri,/ i professori dalle cattedre e impiegati dalla macchina/ che amministra il tempo degli uomini e delle donne».
Persone, insomma, chiamate a svolgere ruoli subalterni, obbligate a essere delle rotelle di ingranaggi che tendono sempre più a ignorare l’aspetto umano dell’organizzazione sociale, di quelle spietate macchine finalizzate esclusivamente al guadagno e al controllo in quel «capitalismo della sorveglianza» di cui parla la studiosa americana Shoshana Zuboff e che ha sconvolto anche la tradizionale divisione in classi.
Per «raccontare» i suoi penultimi, l’autore casertano ha scelto una lingua poetica colloquiale, quasi narrativa, che rinuncia all’enfasi lirica, privilegiando i toni bassi anche se non rinuncia a guizzi e accensioni, collocandosi in una posizione decisamente «altra» rispetto alla koinè dominante. Nella consapevolezza che le cose dicono sempre «più di quanto non si sia in grado di sentire veramente» e che si dovrebbe fare almeno il tentativo di riuscirci.
“Carico e scarico” è il nome che Alessandra Carnaroli ha dato alla prima sezione di questo libro ricolmo di schietta e cruda realtà, narrata e anche giudicata. Poesie con katana è il suo titolo, edito da Miraggi Edizioni.
E di certo c’è un carico pesante. Come quello di una pistola che viene resa idonea al fuoco, quello che ferisce, in molti casi uccide. Lo si capisce già dai primi versi «scania / iveco / prime parole / italiane / dopo / ti stupro».
E lo scarico non è certo sinonimo di alleggerimento, o posizionamento là dove è giusto che qualcosa o qualcuno debba essere messo. Lo scarico è quello della responsabilità, di fronte alla consueta ignominia, di cui tutti sanno, pur se collocata nella cornice del tabù. Perché seppure sfruttata e soggiogata dal maschio, quella vita sembrerebbe meglio di un’esistenza più breve là da dove si proviene.
«Sono / 100% africana / fica di frutta / adesso ti spremo»: non ci gira intorno Alessandra Carnaroli; le parole sono quelle che sarebbe giusto usare. Non sono audaci, scabrose, non sono di rottura, sono aderenti. La scelta metrica, ugualmente. La poetessa sceglie di dare un ritmo alla sua voce come su un palco, dove i ritmi sono scadenzati dalla pause, che aprono varchi di ragionamento, poggiati ad esempio su «le madri grasse / che vestono / le figlie / come puttane / per sentirsi belle / i mariti che vanno / a puttane / noi puttane», o su quei bambini persi che «tutti abbiamo cercato / nel gabinetto / morto senza documento».
E poi la seconda sezione, “Murini / Inserisci un emoji”, dove l’inserimento delle emoji, scritte per esteso e in corsivo, fanno della scelta autoriale la trasposizione del mediocre sentire comune di fronte a scelte dettate dall’ottusità, in alcuni casi dalla religione («solo dio sa quando è il tuo turno / top top top / non osi uccidere l’uomo / ciò che a lui sfugge / gattino arrabbiato faccia con occhiale / incollato grrr grrr) e dalla chiusura mentale, che diventano simbolo di uno sguardo dal campo visivo monco, limitato.
Poesie con katana è un testo di assoluto valore artistico e – ce lo conceda l’autrice – anche morale (ma non moralista, sia chiaro), offrendoci la possibilità di avere un orizzonte visivo differente, se si vuole, uno spunto in cui far confluire la capacità critica dell’individuo, per farci scegliere, per renderci padroni del concetto di scelta. Carnaroli sembra giudicare per far giudicare a noi una realtà che esiste suo malgrado. Poesie con katana stana la nostra colpa di non saper vedere, la nebbia in cui ci culliamo per non sentirci meno buoni di quanto pensiamo di essere o volere.
Santi poeti e commissari tecnici è un libro strano che parla di tutti noi, del calcio e della società, di passioni e di identità. Angelo Orlando Meloni crea un insieme di aneddoti e storie che ruotano attorno allo sport più amato in Italia e che, in parte, giocano a dissacrarlo.
La fede calcistica, quella vera e propria religione di Stato che ogni domenica ci tiene incollati alla tv, in questo libro viene presa con leggerezza, con ironia. A dimostrazione di come anche con il calcio e di calcio si possa scherzare, parlare con tranquillità, scoprendoci più umani e meno sfegatati.
La trama
Santi poeti e commissari tecnici (Miraggi edizioni) si compone di racconti che hanno al centro il calcio. Il primo di questi racconti, che poi dà il titolo al libro, ci parla del miracolo della statua votiva della Beata Serafina, la quale suggerisce di colpo al parroco del paese le strategie giuste per vincere il campionato.
Negli altri racconti ci sono un bomber alcolizzato ed una comunità che pensano di meritare “il calcio che conta”; un arbitro incorruttibile che dirige la sua ultima partita e deve fare i conti col suo passato; un giovane campione scopre il difficile rapporto coi genitori degli altri ragazzi; un ragazzo esordisce in Serie A e medita vendetta contro il destino.
Nell’ultimo racconto la massima serie rischia di fallire a causa dell’ex moglie di un dirigente che pretende gli alimenti dal marito, che lavoro nel mondo del calcio giovanile.
La recensione di Santi poeti e commissari tecnici di Angelo Orlando Meloni
In questo libro ci sono dentro piccole e grandi storie, che magistralmente uniscono il calcio all’amore. Non sono amori facili badate bene; qui parliamo di amori finiti, sfuggenti, mancati o mancanti. Lo stesso amore per il calcio acquista connotati surreali, malati, mai davvero puri.
Santi poeti e commissari tecnici ci parla poi del calcio di provincia, quello che dovrebbe essere limpido, leggero, spensierato, e che invece scopriamo corrotto quanto e come quello ad alti livelli. La caratterizzazione dei personaggi ci proietta prima sui campetti della domenica, e poi di colpo nei grandi stadi. Due facce della stessa moneta.
I sogni dei tifosi sono fragili, così come è fragile l’universo calcio, perché fatto da uomini. Ecco perché tutto il libro di Angelo Orlando Meloni è attraversato da una vena malinconica, da toni agrodolci che tirano in ballo i ricordi ed il cuore, ciò che troviamo nel nocciolo di una nazione.
Parlare di calcio è affascinante, e se lo si fa con una risata invece che con una lacrima, è ancora più bello. E questo libro può davvero aiutarvi a scoprirvi tifosi sotto un altro punto di vista.
Non seguo il calcio e non tifo alcuna squadra e, in termini di regole da rispettare sul campo, mi limito a sapere che ci sono undici giocatori per squadra, che esiste il fuorigioco e che non si può prendere la palla con le mani, a meno che tu non sia il portiere o Maradona. Nient’altro. Eppure mi ha divertito, stimolato ed emozionato la raccolta di racconti di Orlando Meloni, Santi, poeti e commissari tecnici, edita da Miraggi edizioni, dove il calcio è il comune denominatore di tutti e sei i racconti. Infatti, è il modo in cui Meloni ha deciso di descrivere e parlare del calcio a rendere tutti i racconti del libro piccole perle imperdibili. Lo sport in questione è usato, letterariamente parlando, come una grande lente d’ingrandimento attraverso cui osservare ed esasperare meccanismi sociali elementari come arrivismo, invidia, rivalsa sociale, disperazione, brama di denaro e di successo. Attorno quindi al nucleo calcistico, Orlando Meloni racconta storie d’amori mancati o di sogni infranti, ora esilaranti e grottesche, ora tristi e commoventi, in una raccolta che presenta al lettore una ricchissima varietà tematica, resa uniforme e solida dalla personalissima stilizzazione dell’autore, il cui stile è davvero irresistibile.
Il primo racconto, quello che dà il titolo alla raccolta, è bellissimo. Ci sono due comuni, Marina di Vezze e Vezze sul Mare, partite di calcio, animali parlanti, uno stabilimento petrolchimico che inquina aria e mare, preti e la statua della beata Serafina. Elementi difficili da accomunare, eppure l’autore ci riesce e scrive un racconto molto interessante, con striature da commedia nera che gli conferiscono un’atmosfera particolare e suggestiva. Leggendolo ho riso e mi domandavo dove Meloni volesse arrivare, quando ho letto le ultime due pagine sono rimasto a bocca aperta. Complimenti.
Effectio miraculi in nomine dei. Si prega il gentile credente di fare attenzione. Rivelazione clinamen improbalistico completata. Punto di snodo individuato nel minuto quarantadue del secondo tempo. Upload dettagli in corso, buffering 69%…” Il prete tirò fuori il blocchetto degli appunti e si gettò ai piedi della statua.
Precisi siamo è il secondo racconto e leggerlo è come ascoltare una canzone strana e complessa, ma magnetica, non capisci subito dove voglia arrivare ma la segui cullato dalla bellezza della melodia. Così, in questo racconto, leggi e senti il ritmo fluido della narrazione e assisti come gli spettatori in platea alle vicende di un calciatore alcolizzato che è diventato simbolo per la comunità del “calcio che conta” e le vicende del suo allenatore, ma non solo… Orlando Meloni stupisce anche qui. In mezzo abbiamo altri tre racconti originalissimi, e il terzo, Ode al perfetto imbecille è quello che più mi ha sorpreso dell’intera raccolta. È un racconto intenso, molto commovente.
[…] Non hai nemmeno sentito l’allenatore che si lamentava con il custode del campetto[…] O forse hai fatto finta di non sentirlo, come hai fatto finta di sorridere a tuo padre, all’uomo dei tic, mentre tornavate a casa, e tuo padre ha fatto finta che non fosse successo niente. Perché così va l’amore, a volte non facciamo domande per paura delle risposte.
È un feroce pugno nello stomaco, dove gli ultimi resteranno ultimi, senza possibilità di rivalsa o di rivincita, perché gli uomini, gli unici a poter cambiare e scardinare alcuni corrotti meccanismi sociali, non lo permetteranno mai.
Quando ritorni a casa vorresti stringere la mano di tuo padre e tuo padre vorrebbe tenere stretta la tua, ma sei un uomo ormai e la mano di tuo padre trema, ti ha fatto sempre impressione stringerla.
Il campionato più brutto del mondo è l’ultima storia della raccolta. Qui la serie A rischia la catastrofe a causa dell’ex moglie di un dirigente invischiato con il calcio minore, che pretende gli alimenti arretrati dal marito. Da qui, una catena corrotta di dirigenti che inizia a chiedere soldi a pesci sempre più grandi, fino al collasso totale.
Gelsomina Mariotti sbianca e sente su di sé il dolore dei tifosi e dei loro figli e nipoti. A occhio, perché quel dolore possa alleggerirsi, ci vorranno dieci generazioni di drogati, maniaci depressivi, di auto-stupratori e collezionisti di merda d’artista a ogni angolo di strada, di suicidi a iosa ed ebefrenici come se piovesse.
Gli effetti del game-over del campionato di calcio in questo racconto mi hanno ricordato le conseguenze della peste descritte da Boccaccio nel Decameron: i legami sociali si recidono, la violenza dilaga, i più ricchi cercano di fuggire in ville e tenute campestri:
In città hanno trovato un deserto. Le serrande sono abbassate. I bar sono chiusi. Non un’anima in giro. Non si è presentata nemmeno la polizia perché il campionato più bello del mondo è finito e questa è. Qualcuno ha deciso al posto loro e nessuno potrà farci più niente.
Ecco che si comprende bene, terminati i racconti, come il calcio per l’autore sia ora fonte di discriminazione sociale, ora rammarico di una vita, ora collante sociale, ora allegoria di una società bigotta e preconcetta, e quindi, vale la pena ribadirlo, il calcio permette un focus su questi concetti, avvicinandoli al lettore, mettendo alla berlina le bassezze di una società che ha pochi valori, e, purtroppo, spesso, nemmeno buoni. I racconti di Meloni sono agili e freschi, giocano con gli intrecci delle vicende, arditi e complessi, amano rappresentare e descrivere personaggi buffi e scapestrati, violenti e teneri e illustrare una galleria letteraria piena di colori vividi e originali; galleria nella quale c’è anche spazio per l’eco di riferimenti e intrecci fantascientifici, che colorano l’atmosfera della raccolta di una piacevolissima leggerezza. Mi viene da definire Meloni come uno scrittore appassionato, perché ama divertirsi con le storie e le parole, con le commistioni di generi, e, oltre che raccontare storie, trasmette messaggi, veicolati da una forma narrativa indiavolata. La stilizzazione originalissima dell’opera consente poi di instaurare una conversazione a tu per tu tra autore e lettore, conversazione divertentissima e anche impegnata, perché si sa che al momento non c’è niente che vada trattato seriamente come il calcio, nemmeno la letteratura.
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