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MUSICA SOLIDA – recensione di Franco Bergoglio su Mescalina.it

MUSICA SOLIDA – recensione di Franco Bergoglio su Mescalina.it

Musica solida. Storia dell`industria del vinile in Italia

Volete sapere tutto sull’industria discografica? Sulla produzione di vinile, cd, sul mondo delle case discografiche italiane e della distribuzione e ancora su tutto quello che l’autore – in una parola –  definisce musica solida? Acquistate questo libro!

Dopo una breve introduzione sull’invenzione del  fonografo con le sue varie evoluzioni tecniche (tipi di incisione e velocità di rotazione del disco, su tutti) si entra nel vivo con un lungo excursus sull’introduzione della nuova tecnologia in Italia, a partire dal 1902, data della prima registrazione nel Paese, avvenuta a Milano con star Enrico Caruso che in due ore licenziava 10 brani operistici. Da qui in avanti il libro segue l’evoluzione dell’industria italiana dalla nascita delle prime case come la Fonit, la Cetra, La Durium e le altre etichette estere che operavano nel nostro paese prima della Seconda Guerra Mondiale. Con il racconto dell’espansione del mercato del disco avvenuta nel dopoguerra il libro rivela le sue indubbie qualità enciclopediche: viene seguita l’evoluzione delle etichette già nate e documentata quella della galassia di nuove imprese, grandi, medie, piccole e microscopiche che brillano nel Paese, da Nord a sud.

Una ricchezza che si rivela pagina dopo pagina e ci fa comprendere meglio quanto l’industria musicale del nostro paese fosse simile al resto dell’impresa e quindi in grande espansione ovunque. Era il periodo del “miracolo economico italiano”. Sono gli anni della Ricordi e all’estero della Philips olandese o della Decca inglese. Qui la storia si allarga e dal mondo della produzione si passa al racconto delle vicende artistiche. Si raccontano i vari festival della canzone che sorgono nel Paese (e dei quali oggi rimane solo praticamente Sanremo), la vicenda del Clan Celentano che raggruppava vari artisti del cerchio magico del molleggiato, o quella di Mina, la cui casa discografica, la PDU, venne fondata intorno a lei dal padre. Gli anni Settanta segnano il trionfo del 33 giri e di tutto quanto fa da contorno all’industria discografica: le riviste ufficiali, come Gong, Mucchio Selvaggio, Popster/rockstar, quelle underground, le case editrici alternative, i programmi televisivi dedicati alla musica, l’inizio delle radio libere,  fotografi, grafici e designer che lavorano alle copertine dei dischi, le grandi corporation internazionali, le etichette italiane, quelle indipendenti, come la Cramps. Questi sono i capitoli più ricchi di nomi e fatti. Perché negli anni Ottanta inizia, prima in sordina e poi sempre più fragoroso, il fenomeno tecnologico del Cd e il conseguente declino delle vendite degli Lp a 33 giri.

Come già detto in apertura il libro è un vero manuale della discografia italiana, fitto di nomi e di dati interessanti, ma l’ultimo capitolo rivela una ulteriore curiosità: con l’evidente declino portato dalla musica liquida, qui definita addirittura “gassosa” vuoi per la perdita di supporto, vuoi per l’evaporazione della consistenza economica, viene data la parola agli addetti del settore che propongono riflessioni diverse e di indubbio interesse sul fenomeno della musica “gratuita”o della nascita di concorrenti al monopolio SIAE. Ne riporto una, di Alfredo Gramitto Ricci, manager delle Edizioni Musicali Curci, a proposito del giornalismo musicale, che certifica quanto sostengo da tempo, ovvero la morte della critica. “La stampa cartacea è per gli artisti che hanno un pubblico oltre  trent’anni, non interessa più ai ragazzi andare a leggere le recensioni di un Luzzatto Fegiz, anzi è controproducente se piace al giornalista di grido, come una specie di rottamazione”. Purtroppo molti segnali indicano che il processo vale anche sopra i trent’anni e che se si smette di leggere prima di quell’età sarà molto difficile abituarsi a farlo dopo, come testimoniano le non vendite di quotidiani e riviste. Gli intellettuali, guardati con sospetto, vengono rottamati in nome della libera espressione  dei social che però non ha ancora prodotto nulla di paragonabile alla democratica diffusione delle idee, quella che veniva agevolata, come in tutto il resto anche nella musica, dalla pluralità di soggetti coinvolti, ad esempio le etichette discografiche indipendenti, le radio libere, i mensili di approfondimento, gli articoli sui quotidiani, le fanzine, i libri. Si parte rottamatori urlanti e si finisce…Lo scopriremo solo vivendo.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE: https://www.mescalina.it/libri/recensioni/vito-vita/musica-solida-storia-dellindustria-del-vinile-in-italia

Santi, poeti e commissari tecnici – recensione di Antonio Benforte su Econote

Santi, poeti e commissari tecnici – recensione di Antonio Benforte su Econote

Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l’unica rimastaci. Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro” così scriveva Pier Paolo Pasolini, come sempre intercettando perfettamente una profonda verità all’interno della società in cui viveva. Non so se e in che maniera influenzato dalla riflessione di PPP, Angelo Orlando Meloni ha imbastito questa originale raccolta di racconti lunghi a tema calcistico. Ma qui non si parla solo di calcio. In questi racconti ci sono sogni, passioni, storie comuni e meno comuni, un bel po’ di Sicilia, e sono scritti con uno stile ironico e ricchi di personaggi memorabili. Il libro, pubblicato da Miraggi Edizioni, potrebbe riuscire a conquistare anche i non amanti del pallone. Sì, perché Meloni scrive bene, ha nelle sue corde diversi stili e registri, e riesce ad appassionare il lettore, in ognuno di questi sei racconti che compongono la raccolta.

Nel primo, lungo racconto che dà il titolo al volume, l’autore immagina una squadraccia di periferia che non vince una partita manco per sbaglio, ma che grazie all’intercessione della beata Serafina inizia a ingranare. Con i suggerimenti dati al parroco del paese la squadra riesce addirittura a vincere il campionato, sorprendentemente. È il calcio, con i suoi palloni di cuoio sgangherati e i campi di periferia polverosi, a farla da padrone. Il gioco del calcio è il sottile filo che unisce tutti questi ironici, scanzonati e divertenti racconti. Si passa dalla Serie A che rischia la catastrofe a causa dell’ex moglie di un dirigente invischiato con il calcio minore, al racconto di un centravanti alcolizzato che prova a trascinare la sua squadra nel calcio di un certo livello. Nel racconto “Il campionato più brutto del mondo” è appunto il capriccio di una donna a far tremare tutti, e solo una serie di incredibili eventi riuscirà a salvare la serie A. Il racconto “L’aeroplano” è rocambolesco e divertente, con Peppino Petrolito detto “Flashgordon” e Nino “Emozione”, la città di Siracusa e una partita di calcio, Inter Ternana, sullo sfondo. Mentre “Ode al perfetto imbecille” è probabilmente quello più realistico di tutti: la storia di un giovanissimo e bravissimo calciatore, che però non trova spazio in squadra perché non è “raccomandato”, quindi si vede passare davanti il figlio dell’avvocato di turno. Non si premia il talento ma la raccomandazione. Non è questa la fotografia perfetta della nostra società? La bravura di Meloni sta nel parlare di calcio per non parlare solo di calcio, ma dell’Italia tutta: delle sue storture, dei suoi mali, dei suoi personaggi miseri ma anche dei lati positivi che il nostro popolo, alle volte, riesce a tirare fuori. Il suo libro è ironico e scritto con grande capacità di coinvolgere e di tenere incollati alle sue pagine, grazie a storie e personaggi leggeri ma allo stesso tempo in grado di creare grande empatia nel lettore.Non ci sono note stonate e anzi tutti i sei racconti sono di pregevole fattura. Il tono tragicomico e scanzonato che pervade l’intera raccolta, è solo uno dei punti di forza di questo libro, che dopo averci fatto sorridere ci fa riflettere, magari con un sorriso a mezza bocca, gli occhi tristi e malinconici. Per chi come noi ha vissuto le curve, l’emozione di vedere 22 scalmanati in pantaloncini rincorrere un pallone, è chiaro che non si tratti affatto del nuovo oppio dei popoli. Ma è una questione molto importante, uno dei motivi per cui vale la pena vivere.

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La vita moltiplicata – recensione di Riccardo Meozzi su Il loggione letterario

La vita moltiplicata – recensione di Riccardo Meozzi su Il loggione letterario

Quant’è difficile fuggire: qualche parola su La vita moltiplicata di Simone Ghelli

Tutti i pensieri rimasti, e i sentimenti, e le frasi ancora da dire; tutto questo e altro ancora si era riversato a terra: un minestrone in cui galleggiavano come zattere parole di tutte le dimensioni. Alcune erano in parte mangiate, e lasciavano scoperto il bianco delle ossa; altre erano molli e intrise di sangue come interiora.

Dal racconto “Vera”.

Un libro è un oggetto strano: esiste nel mondo materiale attraverso la soglia fisica della sua forma, ma al suo interno la realtà è diversa dalla nostra. Se decidiamo di entrare, il minimo che possiamo aspettarci è dunque il contatto con una narrazione che non ci appartiene. Ma se, come in questo caso, all’interno dell’oggetto fisico vi sono racconti, ciò che subiamo leggendo è una rifrazione totale, una scomposizione attraverso uno spettro che cambia a ogni titolo.

I racconti di La vita moltiplicata compiono proprio una rifrazione continua: si muovono, in modo più o meno dichiarato, sulla soglia che separa realtà e visione. Il problema critico di questa raccolta risiede però non su questo confine, ma su individui annebbiati che, all’improvviso lucidi, osservano la realtà andare in frantumi. Il punto di vista dei personaggi del libro di Simone Ghelli è spesso disilluso e freddo, emotivamente distante dagli eventi in cui sono coinvolti. Questo stesso punto di vista è adottato anche a livello narratologico: la narrazione infatti si compie a una distanza di controllo che non può ferire i lettori e, nei pochi casi in cui gli eventi vengono raccontati nel loro svolgersi, come in “Vera” o in “Compito di realtà”, l’impatto traumatico dei fatti viene subito ammorbidito da un uso inoppugnabile della lingua. La cornetta del telefono in “Vera”, ad esempio, diventa lo sfrigolio degli ultimi resti carbonizzati di un pezzo di carne.

La prospettiva tematica adottata dall’autore si concentra sulle realtà abbandonate, a volte ricordate, che hanno bisogno dello sforzo del soggetto per esistere. I suoi personaggi sono macchine narrative ben costruite il cui scopo è di rielaborare costantemente quello che gli è successo o quello che gli sta succedendo; sono, nella loro laconicità, osservatori attenti che non danno nulla per scontato in ciò che vedono. Ghelli, gli sforzi che i suoi personaggi fanno per mantenersi attaccati alla realtà sensibile, li descrive con maestria proprio dimostrandone la futilità. Comprendiamo, leggendo le pagine di questa raccolta, che l’unica realtà davvero esistente è quella raccontata; fuori, il nulla.

I personaggi di Ghelli godono, inoltre, di una forte dimensione purgatoriale. Si muovono, ma soltanto nelle loro teste, avanti e indietro nel tempo e nello spazio: hanno qualcosa in comune con i personaggi di Silenzio in Emilia di Daniele Benati.

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Santi, poeti e commissari tecnici – recensione di Gianluca Massimini su Lankenauta

Santi, poeti e commissari tecnici – recensione di Gianluca Massimini su Lankenauta

Se davvero volessimo provare a guardare il calcio con occhi diversi, imparare a sorriderne e a non prendere troppo sul serio questo sport che assurge molto spesso, nel nostro Paese, a condizione di credo religioso o ad unica ragion di vita, probabilmente a causa di un’allucinazione collettiva, allora i racconti di Angelo Orlando Meloni potrebbero fare al caso nostro.

Santi, poeti e commissari tecnici (Angelo Orlando Meloni, Santi, poeti e commissari tecnici, Miraggi Editore, 2019, pp. 192), infatti, è un’agile, allegra raccolta che con uno sguardo ironico, leggero, ci parla di questo mondo variegato e di tutto l’universo che vi ruota attorno: dall’accesa rivalità tra tifosi che odiano per partito preso a chi vive solo di derby e di calciomercato, ai campioni veri o presunti, alle attese spasmodiche e alle notti insonni di coloro che ogni estate sognano la vittoria del campionato e s’illudono puntualmente di ottenerla, alla commistione di sacro e profano in cui il sacro è sempre a disposizione per proprio uso e consumo, fino ai tristi episodi in cui a far notizia e a finire sulle pagine dei giornali sono i genitori dei piccoli calciatori che si distinguono in “imprese” tutt’altro che esemplari e che, a quanto pare, poco o nulla hanno da insegnare ai propri figli circa i principi dello sport o il rispetto dell’avversario. Ne esce fuori un disegno perfetto, un affresco multiforme e vivo, in cui sono tante le pagine divertenti ma anche quelle che inducono ad una riflessione amara.

A volte Meloni ricorre a un tono parossistico, quasi iperbolico. Può succedere infatti che sia una santa a dispensare i dettagli tattici per vincere il campionato, tra commissari tecnici che non credono ai propri occhi e un prete disposto a tutto pur di fare proseliti (si scomoda addirittura anche il motto in hoc signo vinces per un titolo di giornale), e questo in un paese in cui solo un miracolo potrebbe disperdere i veleni del petrolchimico o spegnere le ciminiere, purificare le falde (Santi, poeti e commissari tecnici). Può accadere anche che sia il capriccio dell’ex moglie di un dirigente a mettere in pericolo il campionato più bello del mondo, dando vita a un esilarante effetto domino in cui presidenti e direttori sportivi si adoperano alacremente, con ricatti, combine e scambi di favore, pur di salvare capre e cavoli, salvo poi decidere di vendere tutto ai cinesi, gli unici che possono rimpinguare un’economia drogata (Il campionato più brutto del mondo). Riusciamo a sorridere persino delle rocambolesche vicissitudini di chi vive solo di espedienti, e che tra furti, calcio scommesse e situazioni fortunate, riesce a fare finalmente la vincita della svolta, quella che permette di volare via per sempre (L’aeroplano).

Meloni non esita a ironizzare anche sulle vicende di “el ratòn“, un non più giovane centravanti, eterna promessa pronta ad esplodere, sulla cui bravura e professionalità ci sarebbe tanto da discutere, ritrovatosi ad essere il nuovo colpo di mercato di una neopromossa in serie B alle prese con un campionato dai risultati altalenanti, un allenatore sempre in bilico e una tifoseria che non perdona (Precisi siamo). Un altro bel racconto (Perché no) è dedicato alla resa dei conti tra una vecchia stella del calcio e un suo marcatore, a cui il primo imputa la fine prematura della propria carriera, ad indicare come certi scontri sul campo non si dimenticano.

È comunque Ode al perfetto imbecille il racconto che ci lascia senza fiato perché combina in modo magistrale un tono intimo, quasi lirico, dedicato al ritratto di una vicenda personale e familiare, quella di un giovane calciatore troppe volte escluso dal campo perché non ha i genitori che contano, con il resoconto umoristico delle grandi e piccole meschinità di una umanità quasi sempre priva di coraggio, di decoro, che preferisce piegarsi ai favori, alle pressioni di un modesto mondo di provincia piuttosto che premiare e favorire i talenti. È, insomma, un racconto emblematico della società servile e ignobile in cui viviamo, che prospera troppe volte sull’ingiustizia e sul nepotismo.

Non si sbaglierebbe allora a voler scorgere nelle pagine di questo libro una grande metafora, forse la più adatta per descrivere un Paese sempre pronto ad accendersi per una partita o una coppa o per l’arrivo di un campione ma che riesce, incredibilmente, anche a fare un vanto della propria disaffezione alle regole comuni e a ritenere un qualcosa di “normale” l’assuefazione agli scandali e al malaffare. Santi, poeti e commissari tecnici, col suo umorismo vivo e pungente, può aiutarci sicuramente a tenere gli occhi aperti e a non prendere mai per vero ciò che spesso è solo fumo negli occhi.

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Maledetti francesi – recensione di Andrea Pedrinelli su Dasapere.it

Maledetti francesi – recensione di Andrea Pedrinelli su Dasapere.it

Saranno anche “maledetti”, questi francesi, però certo la loro cultura musicale è notevole: e la loro storia sul fronte cantautorale talmente densa e significativa che fa sempre bene, ripassarne i capisaldi, magari pure scoprendovi sfumature nel tempo un poco -ingiustamente- perdutesi. Dunque “benedetti” Monti e Marini: che con classe, cultura e garbo offrono a orecchie, cuore e cervello un magistrale viaggio dentro la storia della “chanson” più autorale -a tratti anche teatrale- d’Oltralpe; Monti fra l’altro non è nuovo a certi exploit cultural-musicali, e del resto il disco si collega a un suo bel libro, omonimo, edito nel 2018 da Miraggi, e lui nel tempo ha saputo costruirsi un solido e credibile repertorio da interprete-studioso-autore capace di spaziare in profondità tra cabaret, cantautorato e storia della canzone: non solo italiana. In “Maledetti francesi” Monti, qua e là accompagnandosi con la chitarra, ha scelto la cifra essenziale del piano (o poco più) e voce: e spalleggiato da un’eccellente Ottavia Marini, appunto al piano ma anche nel canto, effettua questo suo nuovo viaggio dalle radici della musica moderna transalpina al suo portato rock in modo raffinato, meditato, con gran gusto teatrale, non poco savoir faire (come notano in terza di copertina) e anche una cifra deliziosa dell’interpretazione, non solo sempre lontana dal già sentito e dal già abusato, ma spesso pure originalmente sarcastica o efficacemente disincantata.

Con questi ingredienti base, cui ovviamente s’aggiunge la scelta d’un repertorio spettacolare estrapolato dall’universo francese dell’intreccio delle arti con la musica nel secolo 1880/1980, “Maledetti francesi” è insieme gran disco e necessaria quanto riuscita operazione culturale: che non per nulla ha ricevuto -prima a ottenerlo- il patronage dell’Institut Français di Milano. E “Maledetti francesi” ha, come primo merito dei tanti, pure quello di farci scoprire o riscoprire angoli divenuti per varie ragioni “minori” della storia della chanson: dunque il primo cantautore, l’ideatore della “chanson canaille” Aristide Bruant; i testi senza censure di capolavori notissimi quali “Albergo a ore” tradotto per noi dal compianto Herbert Pagani; perle nascoste di geni quali Boris Vian o Serge Gainsbourg; l’arguta e puntutissima verve del rocker “maledetto” Renaud Séchan detto semplicemente Renaud, uno dei pochi grandi di Francia che non hanno avuto riscontro sul nostro territorio. E fra le righe delle scelte di Monti e della Marini ci sono anche, da riscoprire e magari andarsi a riascoltare (su vinile, perché no?), le mille contaminazioni Italia/Francia: qui ovviamente fotografate nel necessario recupero delle traduzioni fatte su classici d’Oltralpe da parte di Bruno LauziFabrizio De André, il già citato Pagani, Enrico Medail; per tacer di Monti stesso e di quella Andrea Mirò che seminascosta firma -e si sente, il suo taglio- la bella “Storia di Bonnie e Clyde” dall’originale “Bonnie & Clyde” di Gainsbourg.
Non ci si aspetti però una sequenza di “hit”: perché l’intento della coppia Monti/Marini era effettuare un viaggio potente, che sì sapesse passare da faccende finite spesso sotto i riflettori e però selezionate anche per le loro caratteristiche rivoluzionarie, anticonformiste o palesemente “maudit” (dunque Piaf, Brassens, Ferré…) ma per arrivare appunto a un’infilata di gioielli da rimettere in luce, fossero essi brani “minori” di Gainsbourg, le storie dietro le canzoni di Trenet o Bécaud, artisti sicuramente da conoscere come Renaud.
Il viaggio musicale di “Maledetti francesi” è dunque ricco, ampio ed emozionante; con qualche dubbio che punge soltanto per “Venite qua” che rispetto al resto pare pleonastica e per un passaggio didascalico-recitativo che sembra c’entri poco col disco ne “Il controllore del metrò” di Gainsbourg, peraltro riscoperta interessantissima di una “Le poinçonneur des Lilas” ben tradotta da Monti.

Il resto è eccellenza: l’inedito su Bruant “Allo Chat Noir” e lo struggimento bilingue di “Que reste-t-il de nos amours?”, il lavoro su “Albergo a ore” e la magnifica “Son venuto a dirti che vado via”, la strepitosa “Strani tipi” da “Les poètes” di Ferré e la lieve “Et maintenant” tenuta ben lontana da ogni ovvietà di rilettura pianistica. Con vette quali l’esilarante, ma anche inquietante, “Giava delle bombe atomiche” che Lauzi e Monti riprendono da Vian, il piglio maturo e dolente (lontanissimo da certe arroganze gridate sentite ormai troppo spesso) di “Egregio Presidente” ovvero “Il disertore” sempre di Vian, la sfaccettata e commossa “Paris canaille” di Ferré, i veri e propri capolavori di Renaud il quale, cantore del disagio e delle periferie, metteva in scena dialoghi padre-figlia capaci di indagare a fondo e con sferza tematiche forti dell’oggi, che andavano dalla violenza diffusa alla crisi della scuola.
Insomma, “Maledetti francesi” è un ripasso spettacolare d’un mondo che andrebbe insegnato a scuola: quel mondo inimitabile di canzoni allegre che raccontavano tristezze, melanconie e disperazioni, a volte pure denunciando con violenza le storture del mondo. Il mondo che la Francia ha donato alla storia della canzone d’autore, per farla breve: e che Monti e Marini, “benedetti” loro, ci riportano ben presente ad ascolto e anima.

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Santi, poeti e commissari tecnici – recensione di Massimiliano Viola su Modulazioni Temporali

Santi, poeti e commissari tecnici – recensione di Massimiliano Viola su Modulazioni Temporali

L’autore di “Santi, poeti e commissari tecnici” (Miraggi Edizioni, Collana Golem,2019, pp. 192, euro 16) è Angelo Orlando Meloni che, nato a Catania, ambienta la sua raccolta di sei racconti nella sua Sicilia.

Con una scrittura molto divertente e dissacrante racconta la fine del mito tutto italiano del “campionato più bello del mondo”. Il primo racconto è quello che dà il nome all’intera raccolta e al centro della storia troviamo la Vigor, squadra di Vezze Sul Mare, che fin dalla fondazione non ha mai vinto una partita e neanche è mai stata retrocessa, pur arrivando sempre ultima. L’allenatore inizia a essere contattato dal parroco del paese che gli dà dei consigli sulla formazione che gli arrivano dalla beata Serafina. Quando arriva il momento di giocare contro l’A. S. Marina, la squadra del comune gemello, Marina di Vezze, succederà di tutto e di più. Nel secondo racconto (“Precisi siamo”) un centravanti alcolizzato “el raton” e un’intera comunità si illudono di meritare “il calcio che conta”. Nel terzo racconto (“Ode al perfetto imbecille”) un ragazzino che, pur essendo bravissimo a giocare, non viene mai messo in campo perché figlio di un tizio stravagante, e a lui viene preferito un altro che l’allenatore e il presidente sono obbligati a far giocare perché “quando si arrabbia l’avvocato Cesari per noi sono cazzi amari”. Nel quarto racconto (“L’aeroplano”) un arbitro incorruttibile, durante l’ultima partita della sua vita, deve fare i conti con il suo passato e con i desideri di un ragazzo perduto. Nel quinto racconto (“Perché no”) una stella della serie A, ex divo del pallone, ordisce la sua vendetta contro chi, anni prima, l’ha fatto scendere dal piedistallo e cadere nel dimenticatoio. Nell’ultimo racconto (“Il campionato più brutto del mondo”) la Serie A rischia la catastrofe  a causa dell’ex moglie di un dirigente invischiato con il calcio minore, che pretende gli alimenti arretrati dal marito.

Il libro di Angelo Orlando Meloni ha un sapore tragicomico, dove l’umorismo non è fine a se stesso ma denuncia un mondo di ingiustizie e compromessi. Per l’autore “In Italia la vera religione è il calcio. I miei personaggi sono perdenti con un cuore grande”“Santi, poeti e commissari tecnici” si legge tutto di un fiato, è divertente e fa riflettere su un mondo che si è lasciato trascinare spesso in scandali e illegalità e che gli hanno tolto quel fascino irresistibile che aveva un tempo.

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La leggenda del Re Eremita – recensione di Isabella Moroni su Art a part of Culture

La leggenda del Re Eremita – recensione di Isabella Moroni su Art a part of Culture

A volte, quando le donne diventano protagoniste assolute di un racconto, si produce un senso di vertigine che apre alla conoscenza.

Succede anche questo nel romanzo di Cetta De Luca La leggenda del Re Eremita (Miraggi Edizioni), una storia dura, ma anche un thriller, ma anche una cronaca di donne, ma anche un dono alla Calabria, terra terribile e luminosa, radice profonda dell’autrice.

Tre donne, tre amiche d’infanzia sono al centro di questa narrazione: ognuna è e non è quello che sembra; come ciascuna di noi, ognuna è tante sfaccettature, tante emozioni, tanti segreti, tanta purezza, tanta rabbia, tanta ingiustizia, tanta ricerca.

Ognuna di loro conosce la leggenda del Re Eremita, antica quanto le terre della Magna Grecia che l’hanno originata; ognuna ha sperato di poterla vivere, ciascuna, infine, l’ha provata sulla sua pelle restandone segnata.
Perché il Re Eremita, o meglio, colui che, invisibile e sconosciuto, oggi lo incarna fra le campagne e le spiagge del paese senza speranza dove si svolge la storia, non è quello della leggenda, né quello che vorrebbe sembrare.

È la metafora di quel sistema patriarcale-criminale che è la malavita organizzata calabrese, è la violenza sulle donne, vittime designate, è il potere che si fa strumento di meschinità. È l’orrore puro che non si può cancellare, è la sozzura dell’anima che si riversa sulle sopravvissute e le rende vuote.

Cetta De Luca ha una scrittura diretta e, al contempo magica. Non descrive, apre porte. Guida fra pertugi e spazi nascosti dell’esistenza femminile, detiene le chiavi di questo mondo all’apparenza contemporaneo, ma dai sentimenti arcaici e potenti come quelli delle Grandi Madri.

E Grandi Madri sono le sue protagoniste. Ognuna a suo modo ha affrontato l’orrore, la paura, la vergogna, con la fuga, con la scrittura, con la negazione.
E quando, infine, si ritrovano davvero, diventano le artefici violente e sfolgoranti della giustizia e della loro liberazione. Anche a costo della vita.

Senza falso pudore, senza quella distorta correttezza che imporrebbe di consegnarci ad un finale onesto o equilibrato, Cetta De Luca sfida la sua stessa narrazione e capovolge il destino forte dell’appoggio della letteratura tragica e della tradizione del sud. Ci sorprende, ci spiazza, ci costringe a tenere gli occhi aperti e a chiedere di poterne leggere ancora. Troppo breve è stata l’esperienza così avvolgente.

Colei che ha ricevuto il male più oscuro e profondo, è la predestinata a proseguire la storia.
Ma vorrà cambiare quel mondo?

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L’imperatore di Atlantide e Poesie dal campo di concentramento – recensione di Antonello Saiz su Satisfiction

L’imperatore di Atlantide e Poesie dal campo di concentramento – recensione di Antonello Saiz su Satisfiction

«Coltivare la Memoria è ancora oggi un vaccino prezioso contro l’indifferenza e ci aiuta, in un mondo così pieno di ingiustizie e di sofferenze, a ricordare che ciascuno di noi ha una coscienza e la può usare». Così scrive la senatrice Liliana Segre, superstite dei campi di concentramento e in questa Cronaca dalla libreria non posso non ricordare una di quelle serate ai Diari più importanti e necessarie di altre.

Il 27 Gennaio, Giorno Della Memoria, abbiamo voluto presentare due libri tematici, editi dalla casa editrice torinese Miraggi, L’imperatore di Atlantide a cura di Enrico Pastore e Poesie dal campo di concentramento di Josef Čapek. Insieme a Fabio Mendolicchio, editor di Miraggi, e allo scrittore Enrico Pastore abbiamo ospitato anche il cantautore Daniele Goldoni che ci ha fatto ascoltare brani tratti dal disco Voci dal profondo inferno.

Si è partiti dal racconto de L’imperatore di Atlantide e dall’incredibile storia di un’opera d’arte unica, scritta e composta nel lager di Theresienstadt, nell’attuale Repubblica Ceca. Miraggi Edizioni ha pubblicato da pochi mesi questo libro prezioso, che presenta il testo dell’opera scritto dai due deportati, Ullmann e Kien, che collaborarono alla sua stesura nella seconda metà del 1943.

Il libro contiene l’originale in tedesco a fronte e offre, poi, la storia di Viktor Ullmann e Petr Kien attraverso la penna di Enrico Pastore, che illustra il contesto del ghetto di Terezín e analizza il valore artistico, sociale e di resistenza dell’opera, mentre a Marida Rizzuti, esperta musicologa, è affidata l’analisi della partitura musicale. 

L’opera di Ullmann e Kien è uno di quei raffinati capolavori dimenticati del secolo scorso, nato in uno dei più perversi campi nazisti. Tra il 1941 e il 1945, la città-fortezza di Terezín divenne un campo di smistamento per decine di migliaia di deportati verso Auschwitz. La particolarità di questo lager fu la decisione del Terzo Reich di utilizzarlo come strumento di propaganda, parlandone addirittura come del ghetto-paradiso. 

Nello spiazzo principale della cittadella venne, addirittura, eretto un palcoscenico, dove i prigionieri, al termine della giornata di lavoro, potevano dedicarsi in totale libertà alle loro attività artistiche. Molti musicisti vennero convogliati verso Terezín (dove venne addirittura girato un film-documentario dal titolo Il Führer dona una città agli ebrei, di evidente funzione propagandistica).

Grazie all’ingegno e alla passione degli artisti internati si poté ricominciare a scrivere musica, a eseguirla, magari con strumenti costruiti con materiali di recupero, e ad ascoltarla. Molti artisti non si rassegnano alla sorte di prigionieri deportati e si organizzano come possono dentro il campo per tentare di sopravvivere, ognuno con la propria arte, creando una vera e propria vita culturale all’interno di quell’inferno in terra. 

Il perverso e lucido disegno dei gerarchi nazisti, però, proprio a Theresienstadt si inceppa grazie al libero pensiero dell’arte, perché dando spazio alla creatività di quei prigionieri si finisce per celebrare la vita e non la morte. Le storie che animano quel luogo sono incredibili, nella loro agghiacciante crudezza, proprio come la storia del famoso pianista e compositore Victor Ullmann che, giunto nel lager, riesce a dar vita, in un luogo di morte, a una carcassa di pianoforte in un vagone ferroviario abbandonato, tanto da giungere a tenere un concerto nel campo, che sarà il primo di una lunga serie. Molti musicisti di solida carriera come Ullmann lavorarono intensamente nei tre anni di vita artistica del campo. 

Viktor Ullmann era sicuramente il più famoso di tutti: già allievo di Arnold Schönberg, Ullmann scrisse la sua opera più importante, L’imperatore di Atlantide, in cui (anche grazie al bel testo espressionista del giovane poeta Kien) riesce a denunciare l’assurda realtà del campo, della Germania e del mondo tutto. Due artisti molto diversi tra loro sia per formazione che per personalità: Viktor Ullmann è musicista, compositore, direttore d’orchestra e critico di notevole spessore, Petr Kien è un giovanissimo pittore e poeta. Uno è un artista maturo già allievo prediletto di Schönberg, di Haba e collaboratore di Zemlinsky, le cui composizioni, al momento del suo internamento a Terezín, hanno già ottenuto risonanza internazionale; l’altro è un giovane di 23 anni con un eccezionale talento ma appena uscito dall’Accademia di Belle Arti. Ciò che li lega è la profonda convinzione che l’arte sia una forma di contrasto alle forze distruttive della vita. Comporre, dipingere, scrivere sono una forma di lotta epica contro il male che assedia l’esistenza. 

Se Ullmann ritrova il senso del fare artistico proprio nel ghetto di Terezín dove «tutto ciò che ha un rapporto con le Muse contrasta così straordinariamente con quello che ci circonda», per Kien l’esperienza della prigionia è il primo banco di prova dove applicare la sua straordinaria attitudine alle arti. Ullmann, paradossalmente, ritrova la sua vena creativa proprio in quel campo di concentramento e nei due anni di permanenza compone più di venti opere (7 sonate per pianoforte, 1 quartetto, 1 sinfonia, svariati lieder, e 1 opera), più di quanto avesse scritto in precedenza. Le motivazioni di questa esplosione le fornisce lui stesso: «Devo sottolineare che Terezín è servita a stimolare, non a impedire, le mie attività musicali, che in nessun modo ci siamo seduti sulle sponde dei fiumi di Babilonia a piangere; che il nostro rispetto per l’Arte era commisurato alla nostra voglia di vivere. E io sono convinto che tutti coloro, nella vita come nell’arte, che lottano per imporre un ordine al Caos, saranno d’accordo con me».

Ullmann e Kein moriranno ad Auschwitz nell’ottobre del 1944. Eppure, sull’orlo dell’abisso, questi due autori trovarono la forza di cantare la vita e la morte ma soprattutto di sfidare Hitler e il nazismoDer Kaiser von Atlantis oder Die Tod-Verweigerung (L’imperatore di Atlantide ovvero Il rifiuto della morte) è un’opera lirica in un atto solo da cui trasudano ironia e leggerezza, in cui però sono anche iscritte le fondamenta dell’umano. Enrico Pastore ci ha spiegato che, sebbene si tennero delle prove a Terezín nel marzo del 1944 con il direttore d’orchestra Rafael Schächter, l’opera non venne mai rappresentata sul palcoscenico della Sokolhaus di Theresienstadt giacché la censura nazista ritenne che il personaggio principale, l’imperatore Overall (anglismo per Über Alles), fosse la satira di un sovrano totalitarista. Quest’opera, nata nel lager e che nel lager sembrava esser destinata alla sua prima rappresentazione, inizia ad essere studiata e provata, senza sosta.

Ma tutto questo termina il 14 ottobre 1944. Il giorno dopo, infatti, tutti gli artisti ricevono la convocazione per essere trasportati. All’alba del 16 ottobre del 1944 parte dal campo nazista di Theresienstadt alla volta di Auschwitz un unico convoglio ferroviario con 1500 deportati, quello che gli stessi nazisti definiscono un “carico speciale”; lo chiamano, infatti, il Künstlertransport, il treno degli artisti, perché costituito principalmente da poeti, musicisti, attori, pittori e scrittori rastrellati durante quattro anni a Praga e zone limitrofe e concentrati in un campo che, proprio per essere destinato a categorie “particolari” di deportati, aveva rappresentato una unicità nella moltitudine di lager del Terzo Reich. 

Un’intera generazione di artisti europei viene così sterminata nella camere a gas del campo di Auschwitz-Birkenau. A salire su quel treno sono i poeti, i musicisti, i pittori, gli attori che per quattro anni hanno vissuto in quel ghetto modello, e, dopo ventiquattro ore di viaggio in treno, le loro esistenze e il loro talento sono stati sterminati andando su per un camino. Tra gli uomini, le donne, i bambini spinti a forza su quel treno ci sono alcuni degli ingegni più vivi e brillanti del tempo: oltre a Ullmann e Kien ci sono compositori come Hans Krása, Pavel Haas e James Simon, direttori d’orchestra come Raphael Schächter, pianisti come Bernard Kaff e Carlo Taube, violisti come Viktor Kohn e tantissimi altri. Giovani uomini tra i venti e i quarant’anni che avrebbero potuto conquistare un ruolo di grande rilievo nella storia dell’arte del Novecento e che invece sono stati assassinati nel pieno delle loro capacità e del loro talento. 

Artisti che nonostante la mancanza di libertà, il freddo, la fame, la solitudine, le malattie, la privazione degli affetti non hanno mai potuto rinunciare all’unico strumento di salvezza rimasto nelle loro mani: la creazione.Per molti di loro, anzi, la vita del ghetto è stata, per quanto paradossale possa sembrare, una scuola d’arte.

Un altro contributo, per non perdere la Memoria, è stato fornito dalla lettura in libreria delle Poesie dal campo di concentramento di Josef Čapek, pittore, illustratore e poeta, fratello del più noto scrittore Karel.

Questo libro, con testo originale a fronte, è stato tradotto da Lara Fortunato, che ha scritto anche il testo introduttivo e la nota bibliografica.

Per via del suo orientamento politico venne arrestato nel 1939 e rinchiuso in un lager nazista e sarà qui che Josef Čapek si affiderà per la prima volta alla poesia. Durante la prigionia scrisse una raccolta di poesie, pubblicata postuma nel 1946. Prima che finisse la guerra, alcuni componimenti riuscirono a raggiungere Praga, per mano di studenti universitari che da Sachsenhausen nel 1943 fecero ritorno nella capitale boema. A questi si aggiunsero le copie delle poesie che alcuni detenuti vicini allo scrittore riportarono in patria dopo la guerra. Il 25 febbraio del 1945 Josef Čapek venne trasportato nel campo di concentramento di Bergen-Belsen, dove morì, probabilmente a causa dell’epidemia di tifo che decimò i prigionieri rimasti nel lager, pochi giorni prima dell’arrivo delle truppe inglesi. Čapek scrisse la sua ultima poesia Prima del grande viaggio nel campo di concentramento di Sachsenhausen in prossimità dell’ultimo trasporto.

Prima del grande viaggio

Difficili momenti, giorni difficili,

non vi è scelta, decisione,

ultimi giorni scuri,

siete giorni di vita o di morte?

Indietro alla vita o nelle fauci della morte

– cosa vi sarà alla fine del viaggio?

A migliaia vanno, non sei solo…

Avrai, non avrai fortuna?

Sorto è il giorno del grande viaggio

– da tempo vi sei preparato:

messe di vita o di morte –

– tanto vai verso casa – tu torni a casa!

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

Uno di noi – citato da Lorenzo Mazzoni su Il Fatto Quotidiano

Uno di noi – citato da Lorenzo Mazzoni su Il Fatto Quotidiano

Ndrangheta, violenza ma anche amore: sguardi indipendenti su un Paese malato

Uno di noi di Daniele Zito (Miraggi Edizioni). Una baraccopoli prende fuoco; è un incendio doloso: quattro onesti padri di famiglia dell’Italia “normale” sono i colpevoli, gli ormoni a mille e qualcosa su cui sfogarsi dopo la classica partita di calcetto tra amici. Una bambina disabile rimane ustionata, in coma, in ospedale.

Questo, in sintesi, il soggetto, che Zito sviluppa magistralmente attraverso il linguaggio della tragedia greca. Ci sono uomini impauriti, uomini che vogliono farla franca, ci sono uomini disperati, il coro, il commissario, il medico, una bambina, il ministro italianissimo. I punti di vista di chiunque sia stato coinvolto nella tragedia vengono recitati su carta, e creano un durissimo, lacerante e frustrante fotogramma di devastante attualità.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/01/25/ndrangheta-violenza-ma-anche-amore-sguardi-indipendenti-su-un-paese-malato/5680076/

Con Bata nella giungla – recensione di Gennaro Serio su il Venerdì di Repubblica

Con Bata nella giungla – recensione di Gennaro Serio su il Venerdì di Repubblica

LE AVVENTURE DEI BATA, CALZOLAI DEI DUE MONDI

Dalla Moravia austro-ungarica alla giungla brasiliana, un romanzo racconta l’epopea di una famiglia

Forse nessuno, alla fine dell’Ottocento, avrebbe pensato che dai sobborghi di Zlín – un villaggio di tremila anime nella Bassa Moravia, alla periferia del decadente Impero Austro-Ungarico – sarebbe partita l’ascesa di una delle più influenti famiglie d’Europa e non solo. Eppure fu proprio lì che, raccogliendo l’eredità di otto generazioni di calzolai, i fratelli Tomáš, Jan Antonín e Anna Bata crearono una fabbrica di scarpe, primo passo di un marchio che divenne presto conosciuto in tutto il Paese: quello delle calzature Bata, che ancora oggi, oltre un secolo dopo la sua fondazione nel 1894, vestono i piedi di milioni di persone.

La storia della famiglia Bata viene ricostruita dalla scrittrice Markéta Pilátová con un libro polifonico che ha la forza di un documento storico pur conservando la grazia umoristica tipica della tradizione letteraria ceca. Alternando le voci di Jan Antonín, delle sue figlie e nipoti, e persino quella della fabbrica «personificata», il libro si colloca a metà strada tra memoriale – l’autrice ha «intervistato» le discendenti Bata per molti anni – e romanzo.

Il risultato è Con Bata nella giungla (Miraggi edizioni). Titolo singolare: cosa ci fanno i grandi calzaturieri moravi nella foresta pluviale? Dopo aver impiantato la prima fabbrica a Zlín ed essere passata indenne attraverso la Grande guerra (durante la quale Bata fornisce le scarpe all’esercito austro-ungarico) e la disgregazione dell’Impero, la famiglia si trova a fare i conti con il nazismo. Tomáš è morto in un incidente aereo nel 1932, e la decisione viene presa da Jan Antonín: aiutare tanti ebrei cechi a fuggire dal Paese, con la scusa di assunzioni e incarichi all’estero. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale gli «operai» salvati saranno centinaia. Ma l’Europa non è più il posto dove vivere. Bata si stabilisce in Brasile, nello Stato di San Paolo, dove progetta di fondare una città, costruire ponti giganteschi nel sogno megalomane di «essere un po’ Carlo IV», e di espandersi nel mondo. Nonostante le infondate accuse di collaborazinismo da parte del governo comunista cecoslovacco, che nazionalizza le fabbriche locali, l’impresa riesce. “Batatuba” diventa il quartier generale da cui si dirama una rete commerciale all’insegna di un capitalismo sui generis: misto di innovazione tecnologica, salari altissimi e servizi per i propri lavoratori (Bata aveva aperto una scuola femminile in Moravia già negli anni Venti) con un codice etico a cui attenersi. Era il «sistema Bata», al contempo paternalistico e moderno.

Il romanzo restituisce la malinconia del patriarca in esilio, giocando con il filo sottile della lingua madre che lega la famiglia alle proprie origini. E se è vero che alcuni anni fa proprio Pilátová è stata chiamata ad insegnare il ceco ai dipendenti Bata che vivono ormai da generazioni in Brasile, allora questo stesso libro è la testimonianza che quel filo non si è ancora spezzato.

Santi, poeti e commissari tecnici – recensione su Scribacchini per passione

Santi, poeti e commissari tecnici – recensione su Scribacchini per passione

SANTI, POETI E COMMISSARI TECNICI

Stanchi di Sanremo? Avete voglia di una bella lettura per questo fine settimana?
Nessun problema, ho il libro giusto per voi.
Oggi infatti parliamo di “Santi, poeti e commissari tecnici” dello scrittore Angelo Orlando Meloni, edito da Miraggi.TRAMASanti, poeti e commissari tecnici è una raccolta che racconta con ironia e tenerezza e una scrittura scoppiettante il senso di una fine: il crollo del mito tutto italiano del “campionato più bello del mondo”, una bufala identitaria a cui abbiamo voluto credere per anni, una vera e propria religione di stato la cui dissacrazione ci renderà – si spera – un po’ più leggeri e meno tronfi, un po’ più umani, sopportabili e meno sfegatati.Santi, poeti e commissari tecnici è uno spaghetti-fantasy calcistico dai toni agrodolci che parla dritto al nostro cuore, al cuore di una nazione che sul calcio ha strepitato troppo e troppo a lungo perché, versata una lacrima, non fosse giunto il momento di riderci su.

Scherza con i fanti, ma lascia stare i santi, dice un famoso proverbio.
Angelo Orlando Meloni però ha osato di più, ha infatti deciso di andare a toccare uno degli argomenti più “sacri” per il popolo italiano e non solo: il calcio.

“Santi, poeti e commissari tecnici” è infatti una raccolta di sei racconti tutti incentrati sul mondo del calcio ma, e qui si trova la novità, un mondo che viene raccontato con ironia, descrivendone gli aspetti peggiori, strizzando continuamente l’occhio al lettore che ride per tutto il tempo, ma non solo!

Meloni infatti costruisce dei racconti che, se da una parte fanno passare al lettore delle ore spensierate a ridacchiare sotto i baffi, dall’altra però lo spingono anche alla riflessione.
Sì, perché questi sei racconti sono agrodolci, non c’è solo l’aspetto comico a farli da padrone.

Penso che emblematico sia il racconto “Ode al perfetto imbecille” che, ammetto, è anche il mio preferito.

Un ragazzo, che non viene mai chiamato per nome, ma solo con un generico “tu”, bravissimo a calcio ma allontanato da tutti per via del padre e dei suoi tic e un ragazzo, Delfino, invece che è una schiappa ma che DEVE giocare, proprio per suo padre (o meglio per sua madre) e la sua “importanza”.
Non voglio svelarvi altro, posso solo dirvi che alla fine avevo gli occhi lucidi, perché Meloni è proprio bravo con le parole, anche quando descrive la miseria umana, e in questi racconti ne troviamo tanta, non scade mai nel ridicolo o nello scontato, il suo stile è leggero ma non per questo banale.

“Santi, poeti e commissari tecnici” è un libro che si legge con piacere, fa ridere e al tempo stesso riflettere e se siete appassionati di calcio non potete proprio perdervelo.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

https://scribacchiniperpassione.blogspot.com/2020/02/recensione-santi-poeti-e-commissari.html?fbclid=IwAR2zN4Lw2LSeYwsX1BN63hRquBXft4hG-7XxNR-MxG3SZD6sA7J7BqY5_s0

Pontescuro – recensione di David Frati su Mangialibri

Pontescuro – recensione di David Frati su Mangialibri

PONTESCURO

1922. Nel piccolo borgo piemontese di Pontescuro, agglomeratosi attorno ad un ponte – appunto – sul fiume Po, abitano “cento anime (…) mal contate, cinquanta qui a sud, e altrettante sull’altra riva”, che vivono in case di pietra e paglia. Su di loro, dall’unica collina alta della zona, incombe il castello del signor Cosimo Casadio, il proprietario di tutte le terre dei paraggi e delle barche che solcano il fiume passando “così lente sotto il pontescuro”. Casadio è vedovo e ha tre figli: Giacomo, il primogenito, è una camicia nera di Mussolini ed è “uno dei trentamila puntini neri che stanno marciando su Roma”; Giovanni, il secondogenito, è sulle barricate sul fronte opposto, contro i fascisti; Gabriele, il terzogenito, è un sognatore che ancora non ha trovato né moglie né lavoro e ama disegnare fiori e insetti; Dafne, ultimogenita e unica femmina, da quando ha sedici anni scende in paese e si concede a tutti gli uomini del circondario, per noia, per amarezza, per rappresaglia nei confronti del padre e dei fratelli. Il vecchio parroco di Pontescuro, don Andreino, è stato pizzicato in atteggiamenti poco sacri e assai profani con la domestica Nella e quindi da Roma – preoccupati per le anime del paesino piemontese – hanno mandato un giovane prete padovano, don Antonio, per affrontare l’emergenza Dafne Casadio, “per redimere una sgualdrina, per toglierle i poteri, ché tutti laggiù vociferavano che quella era una strega e aveva rubato il senno ai mariti”…

Il prolificissimo poeta e scrittore torinese Luca Ragagnin (più di trenta libri pubblicati, qui tutti minuziosamente elencati in appendice) ci regala un piccolo gioiello, peraltro proposto al Premio Strega 2019 da Alessandro Barbero. Una fola contadina che ricorda il Pupi Avati più felice, con un tocco di realismo magico e un certo non so che di medievale nonostante sia ambientata nel 1922, l’anno della marcia su Roma e in un contesto ambientale che potrebbe addirittura richiamare Novecento di Bernardo Bertolucci. Sarà che la ragazza assassinata che è al centro della vicenda, la tormentata figlia del latifondista Casadio (nomen omen?) che ha deciso di mettere a ferro e fuoco il paesino di Pontescuro armata solo della sua sessualità rapace, è in un certo senso una “strega”, sarà che il ponte di pietra che dà il nome alla località è legato a leggende inquietanti, ma comunque l’atmosfera è più da Italian Gothic che da neorealismo o peggio ancora noir. Gli stilizzati, sghembi disegni dello scrittore Enrico Remmert, concittadino di Ragagnin, suo vecchio amico e spesso coautore, aumentano il senso di straniamento del lettore e contribuiscono a donare alla lettura un fascino arcano e potente. Il linguaggio è raffinato, immaginifico ma asciutto, fa ricorso sovente a onomatopee o a simbolismi. Non a caso Ragagnin è anche paroliere musicale, e non a caso dal romanzo il gruppo Totò Zingaro ha realizzato un suggestivo albumintitolato 1922 che merita un ascolto attento.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

http://www.mangialibri.com/libri/pontescuro