SCRITTRICI CECHE. «Il secondo addio», (Miraggi edizioni), primo romanzo di Sylvie Richterová a essere stato pubblicato non in samizdat, 1994: cortina di ferro e anni di piombo, una doppia prospettiva tra illusioni e stupore
Un «vivaio di fantasmi» e anche un’«arena di sortilegi» fu Praga per Angelo Maria Ripellino. Una «trappola che, se afferra con le sue brume, con le sue male arti, col suo tossicoso miele, non lascia più, non perdona». Si direbbe che respirino ancora gli stessi enigmi e gli stessi incantesimi nella Praga meno gotica ma più metafisica, quasi cubista in cui Sylvie Richterová allestisce lo scenario del suo quinto romanzo, il primo che ha potuto pubblicare non in samizdat, uscito in ceco nel 1994 e ora disponibile in italiano nella limpida traduzione di Alessandro De Vito con il titolo immutato Il secondo addio(Miraggi edizioni, postfazione di Massimo Rizzante, pp. 156, € 18,00). Dei tredici personaggi che abitano il libro, formandovi una sorta di scombinata famiglia stretta da legami d’amore, soltanto Pavel rimane avvinghiato a Praga, chiuso in un suo rassegnato isolamento «dietro i chiavistelli del tempo totalitario». Praga continua però a chiamare indietro dalla città in cui si sono rifugiati durante gli anni settanta, una Roma colorata e rumorosa che diventa il secondo sfondo della trama, sia Marie sia Jan, i cui differenti percorsi disegnano un ponte tra due luoghi del tempo oltreché dello spazio.
Richterová, nata a Brno nel 1945, a Praga si è trasferita nel ’63 per frequentare la facoltà di lingue e letterature moderne all’università. Nel ’71 si è stabilita in Italia, prima a Roma, dove ha insegnato alla Sapienza fino al 2009, poi a Trevignano Romano; grazie alla doppia cittadinanza ha potuto tornare spesso nel suo paese di origine anche prima della rivoluzione di velluto. Nasce dall’esperienza personale, benché Il secondo addionon sia affatto un libro autobiografico, quell’insolito, straniato ma acuto sguardo bifocale che l’autrice posa sulla vicenda mentre la narra. Non si tratta unicamente della doppia prospettiva geografica da cui la storia è osservata, piuttosto del duplice stupore che percorre l’intero testo. Sulla pagina l’assurdità del regime a cui si sottraggono Marie e Jan non risalta con minore evidenza rispetto alla follia di quei nostri anni di piombo in cui si trovano a costruire una nuova vita. Malgrado l’opzione di uno stile disincarnato e asciutto, l’atmosfera emotiva del testo è così incandescente da produrvi un ulteriore sdoppiamento, se lo stupore appare acceso sia dall’insensata violenza degli eventi sia dalla loro frettolosa rimozione. Il titolo stesso evoca un’accezione biforcata: l’addio di Jan, personaggio principale del romanzo e per buona parte suo narratore, è indirizzato tanto al suo paese di origine quanto a quello di adozione, alle speranze che si è lasciato alle spalle come alle illusioni che proiettava davanti a sé.
«I movimenti, i gesti, gli atti e i fatti, che costituiscono una storia, stanno in superficie. All’interno c’è il battito del cuore e il dolore che insiste su di esso, una grande domanda aperta come la mandibola di uno spazio nero, vuoto, in silenziosa attesa. Mi sto avvicinando al limite?» dice nel libro una voce che sembra appartenere a Jan. Malgrado l’apparenza Il secondo addio non è un romanzo sulla storia e nemmeno sulla memoria: piuttosto sulla coscienza umana e su ciò che accade quando la coscienza umana si spegne. La coscienza sembrerebbe rappresentare per la scrittrice l’unico luogo in cui ognuno di noi, a maggior ragione chi ha perduto la sua patria e la propria infanzia, può davvero ritornare. È significativo che il testo si apra con la descrizione di una casa in fiamme e che l’immagine della casa, persa cercata o ritrovata, attraversi percussiva tutte le sue pagine. Spazio percorribile in ogni direzione e in cui ogni personaggio può sentirsi accolto, spalancato ai venti ma protettivo, il libro stesso ha la forma di una casa. Perfino la scrittura sembra assumerne la funzione rassicurante in questo romanzo dove tutti i protagonisti scrivono, mosaico assemblato con lettere spedite o solo immaginate, note di taccuino, frammenti di biografie e saggi, spezzoni di manoscritti mai compiuti, dimenticati o smarriti, donati affinché siano custoditi. La scrittura soltanto, sembra dire la narratrice, può salvare i personaggi dalla dispersione della memoria, dalle amnesie di quella storia che pure hanno vissuto.
Più dei personaggi, privi del resto di qualsiasi connotazione fisica, contano infatti i legami, le parole e i pensieri che si scambiano: nel libro le loro voci si sovrappongono e disorientando il lettore si avvicendano in una sorta di corale prima persona. «I secondi non si susseguono nel tempo uno dietro l’altro, colpiscono come le punture di un ago acuminato, attaccano da ogni parte, come quando piove e c’è vento, ma non si portano via l’attesa, non riescono a lavare via nulla» riflette Jan in Che ogni cosa trovi il suo posto, romanzo con cui vent’anni dopo Richterová completa di significato la sua storia ribaltandone la prospettiva. Per Il secondo addio, la cui partitura ricorda il modernismo polifonico delle woolfiane Onde, l’autrice costruisce un’architettura ferrea benché in apparenza destrutturata, adotta una forma chiusa in cui però le sequenze possono essere scomposte e riordinate dal lettore come le tessere di un caleidoscopio. La trama procede per illuminazioni e soprassalti assecondando la memoria, si dispiega per poi arrotolarsi di nuovo alla maniera di un tappeto. Nel romanzo il tempo coincide esattamente con lo spazio narrativo.
Sylvie Richterová, volendo rubare gli aggettivi usati da lei per un’altra narratrice ceca, è «uno dei personaggi più eccezionali, innovatori e difficilmente classificabili della letteratura contemporanea»: in lei, le parole provengono ancora dal suo Ritratto di Vera Linhartová, «rigore e coerenza sono le qualità che più sorprendono» perché esse «conducono regolarmente a risultati imprevedibili o almeno imprevisti». Davvero grande scrittrice, Richterová racconta un trauma che non può essere narrato seguendo strade conosciute perché ogni strada esplode con quel trauma. La scrittura che sceglie per sé, edificando la sua casa, è il materico emblema, la figura stessa della libertà.
«Micromega», 24 maggio 2024 Recensione di Marilù Oliva
In “Donne cattive. Cinquant’anni di vita italiana”, Liliana Madeo tratteggia uno spaccato sociale e culturale dell’Italia attraverso il racconto di alcune figure femminili ritenute maledette, negative, diaboliche. Tredici capitoli, tredici storie di irregolari, donne scandalose, non omologate, che hanno sfidato la morale, il buoncostume e l’ottusità.
Ho scoperto da vicino questa deliziosa casa editrice, Miraggi Edizioni. Uno di quei progetti precisi, rari, lucenti. Stampano i libri solo se ci credono e ritengono che l’editoria non sia una meta commerciale, ma un’utopia, un miraggio, appunto, ragion per cui, come hanno dichiarato sul loro sito, l’ intento “è da sempre quello di ‘fare’ i libri che altri non fanno, quelli che ci piacerebbe trovare in libreria, e spesso non si trovano”. Ho letto Donne cattive, della giornalista e inviata della Stampa Liliana Madeo, che recita nel sottotitolo: Cinquant’anni di vita italiana e ve lo propongo. Attraverso il resoconto di alcune figure femminili ritenute maledette, negative, diaboliche l’autrice tratteggia uno spaccato di Italia vicino a noi, che forse spiega anche molto di ciò che siamo oggi, a livello sociale e culturale. Si tratta del periodo storico che va dall’immediato Dopoguerra fino alle soglie del nuovo millennio, una parentesi fondamentale in quanto cambiano i costumi, la mentalità, si attuano alcune rivoluzioni, mentre una parte retriva rema contro vento. La trasgressione fa crollare alcuni tabù, ma a volte viene duramente additata (e punita). Tredici capitoli, tredici storie di irregolari, donne scandalose, non omologate, che hanno sfidato la morale, il buoncostume e l’ottusità. Talvolta criminali o mafiose, altre volte, come nel caso di Franca Viola, donne spartiacque, coraggiose, eroiche. Dietro di loro si staglia un paese prima messo in ginocchio, ma ora che si sta rialzando, nel tentativo di superare povertà e disoccupazione. Il costo della vita è aumentato terribilmente e gli ideali della Resistenza si scontrano contro la realtà. Tante le piaghe e le storture. Un’arretratezza di fondo, il patriarcato che mantiene salda la sua presa su assetto sociale, su abitudini, sul quotidiano. Basta poco per scorgerlo. Come quando la suocera di Franca Pappalardo le raccomanda di non lamentarsi qualora vedesse assieme il marito e l’amante. La stessa amante che poi massacrerà lei e i suoi bambini: Rina Fort, detta la Bestia. Un omicidio spietato, fatto per gelosia, frustrazione, tanta rabbia covata e la convinzione che l’altra sia una rivale da eliminare. Poi c’è la Dama Bianca che sconvolse l’opinione pubblica per la relazione col campione Fausto Coppi: contro di lei si scagliarono volgarità e anatemi. Una vicenda, questa, che è specchio degli Anni ’50 nel Belpaese. Del resto quello fu un decennio “Misogino e sessuofobico”, il diritto di voto alle donne era stato appena concesso e la verginità era un bene da preservare. Se qualcuno la rubava, poi, poteva rimediare con un matrimonio riparatore. La relazione duratura tra il celebre ciclista e la Dama Bianca viene vissuta proprio in questo contesto: “Un amore proibito, il loro, che cade nel tempo meno appropriato. Tempo di crociate religiose, di sentenze e gesti esemplari. Contro “la dilagante licenziosità dei costumi”. Contro i diritti delle donne, anche i più semplici”. Così, le protagoniste di questo libro vengono raccontate con uno stile curato che non rinuncia all’afflato giornalistico e chi legge divora le storie, una dopo l’altra, catapultate in un passato non poi tanto lontano, incantato da resoconti così precisi che sembra quasi di vederceli sfilare davanti agli occhi.
Titolo emblematico, tematica attuale, storia antica. No, non è una nuova puntata editoriale sul conflitto russo-ucraino o israeliano-palestinese che angoscia i nostri giorni, sebbene i due principali focolai del presente abbiano molta attinenza con i contenuti di questo libro. Malapace(Miraggi) è un romanzo nato dalla riformulazione di uno scenario storico non molto approfondito in verità tra i banchi di scuola. Parliamo della Francia della Repubblica di Vichy, argomento che l’autrice, Francesca Veltri, ha affrontato per ragioni professionali.
Come l’Italia, anche se per diverse dinamiche, la Repubblica transalpina era divisa in due parti durante la Seconda Guerra Mondiale, in un arco di tempo che va dal 1940 al 1945, ben più lungo rispetto alla separazione avvenuta di fatto all’indomani dell’8 settembre del 1943 sul territorio italiano. La parte meridionale della Francia, convenzionalmente chiamata Repubblica di Vichy, era di fatto un satellite del Terzo Reich sebbene si dichiarasse neutrale sulla carta. Dopo l’invasione nazista e l’occupazione del nord del paese, lo Stato francese aveva trovato un compromesso per sopravvivere in quanto entità politica e culturale, accettando una condizione di “malapace”, volendo estendere il titolo del libro al contesto storico fin da subito.
Fatte queste doverose seppure sbrigative premesse, il titolo dell’opera e l’ambito in cui la vicenda si snoda costituiscono elementi già sufficientemente precisi su cui incardinare qualche riflessione utile per il presente, perché in letteratura è necessaria una ricerca di natura esistenziale e spirituale: laddove l’attuale interroga il presente è necessario attingere al passato per poter arrivare a deduzioni più vaste e complete da parte della nostra coscienza. Francesca Veltri ci guida in questo processo con ponderatezza, ma altrettanta decisione, e nel definire personaggi credibili, tra loro complementari eppure opposti, attraversa una serie di situazioni e stati d’animo talmente intricati da rendere così bene la tragedia che si consuma pagina dopo pagina. La Storia non può essere solo un fatto memoriale, si caratterizza per atti, azioni che in determinanti momenti vanno oltre le ideologie e le convinzioni personali. Pertanto non mi soffermerò sui caratteri principali dei protagonisti, preferisco lasciare al lettore l’onere di empatizzare con François, Antoine, Martine e Jean-Pierre; chi legge ha il diritto di regalarsi un giudizio pieno o parziale, riflettere doverosamente e vivere l’azione come se si svolgesse sulla propria pelle.
Da parte mia, invece, cercherò di addentrarmi nello spirito che caratterizza il romanzo e nella complessità che i contesti e le convinzioni personali generano, nell’intento di deragliare da un dibattito attuale dominato dall’opinionismo da talk show, più interessato a eccitare gli animi che a ragionare. Non è importante maturare immediatamente un’idea definita, questo non è un romanzo che intende osannare i vinti e crocifiggere i vincitori, ma è pur sempre un testo che ribadisce la labilità tra idea e coerenza al cospetto della necessità. Le parole di Francesca Veltri tentano di andare oltre determinate contrapposizioni, la Storia è terreno comune quando riesce a trovare, per quanto possibile, chiavi interpretative che sappiano infondere un senso di condivisione e appartenenza. Per certi versi tutti i personaggi del romanzo sono degli sconfitti, uomini e donne non privi di ingegno e di cultura, abitati da passioni incontenibili, da un senso di bene comune dai propositi nobilissimi. Eppure, qualcosa di più grande nelle loro vite incrina questo assetto di idee e i protagonisti si ritrovano a rivedere posizioni e lottare su postazioni divenute quasi irriconoscibili tenendo conto proprio dei presupposti iniziali. Si è spesso portati a ritenere che certi cambiamenti siano frutto del trasformismo e della convenienza personale, al contrario Malapace riesce a far emergere la perfetta buona fede delle parti, prigioniera nell’ineluttabilità degli errori dettati dalle contingenze, nonché dalle terribili conseguenze che il contesto politico e sociale impongono. Volendo trovare un parallelismo, oggi come allora ci si chiede se sia un bene sacrificare lo Stato, inteso come entità di valori e luogo di espressione collettiva, in nome di una non identificata sopravvivenza, chiamando con la parola pace un mero esistere. Ci si chiede se sia necessario ribadire i principi di libertà e combattere fino in fondo laddove le forze individuali e plurali possono arrivare o se non sia meglio cedere sul terreno dei diritti in funzione di uno stato di relativa quiete. Sono domande urgenti che da qualche anno a questa parte hanno ritrovato dimora nelle coscienze di molti. Mai come in questi tempi avvertiamo i confini sottili di una pace che in un nonnulla si converte in resa o addirittura prostrazione. Nulla di nuovo sotto al sole, è solo che a tali dinamiche del tutto comuni nella Storia ci eravamo disabituati per via di decenni di stabilità, crescita, fiducia e prosperità farcite da considerazioni storiche fatte con il senno del poi. Questo romanzo arriva a interrogarci su questioni delicatissime, sulla necessità di dover fare scelte dure, con consapevolezza e fuori dalla retorica nazionalista, pacifista o non interventista, andando verso le ragioni che spingono gli attori politici a muoversi e che determinano le misure del campo da gioco con o senza il consenso popolare.
Malapace non risparmia critiche alle dottrine politiche dell’epoca (i cui echi non si smarcano dall’attualità), non elude il processo di autocritica all’interno della trama in cui si muovono i personaggi: nello sfondo della vicenda si intravedono momenti dove le attuazioni delle utopie, nelle declinazioni più drammatiche, scuotono convinzioni granitiche mettendo a repentaglio valori personali, imprescindibili, e Francesca Veltri, atomizzando il proprio Io autoriale in varie creature letterarie riesce a entrare nel vivo di certi sentimenti attraverso una grande capacità di immedesimazione, strumento di cui la letteratura non dovrebbe fare a meno, in particolar modo in un’epoca in cui tutto viene polarizzato dall’esperienza personale e/o familiare, senza ricercare un senso più ampio dei contesti. In altre parole, si tratta di un romanzo che intende fare i conti con la Storia andando oltre le storie mettendo da parte la buona fede e l’appartenenza.
Termino questi spunti con un passo brevissimo, esempio di una capacità rappresentativa notevole da parte di Francesca Veltri, decisamente lucida e schietta nella narrazione, senza risultare tagliente in maniera forzata. La parte affilata di questa faccenda spetta al non detto, al silenzio, un invito a nozze per il lettore. A chi legge lascio le conclusioni.
«Immaginai Martine che usciva insieme alle SS da quella stessa porta, il cappotto sulle spalle perché all’Est avrebbe fatto freddo, un po’ curva sotto il peso della valigia, forse appena affannata, in viso la smorfia di sfida che le riusciva così bene. Mi chiesi se si fosse fermata a guardare per un attimo la donna che l’aveva venduta, prima che la portassero via.
Com’è che aveva detto a Jean-Pierre, in quel parco di Leningrado? Fammi vedere la faccia di quest’umanità per cui si fanno le rivoluzioni».
Quanto è superata la forma mentis del Novecento? Quanto sono distanti da noi relativismo, disintegrazione e disseminazione del senso, panestetismo elitario? Può essere letto come un test in merito il quarto libro (in ottanta anni) del più raffinato e celebrato scrittore russo vivente, Saša Sokolov, Trittico (Triptich, 2011), edito in italiano da Miraggi (traduzione di Martina Napolitano, pp. 240, € 21,00) summa e consuntivo di una intensa parabola creativa della quale, dopo due decenni di silenzio, lo scrittore russo torna a riallacciare i fili, sospesi tra il modernismo faulkneriano (Scuola di scemi), lo sperimentalismo neoavanguardistico (Inter canem et lupum) e il postmodernismo (Palissandreide).
Trittico si interroga e interroga anche noi su quale sia stata e sia oggi la strada dell’arte, su chi ancora è disposto a credere alla costruzione del bello in sé, svincolato da ogni fazione e mozione. In una Russia già affetta dal putinismo la risposta è stata desolante. Ma anche altrove il ritorno di uno scrittore un tempo leggendario ha avuto flebile eco, tanto che quella di Martina Napolitano, promotrice a livello internazionale del verbo sokoloviano, è la prima traduzione in assoluto.
Tra prosa e poesia
Il dubbio esito del test non è comunque ascrivibile al nuovo Sokolov, che non è mai epigono di se stesso e propone una chiave espressiva, fluida, sintetica, resa aerea dal ritmo. Perché, in primo luogo, Trittico è una sfida a cancellare definitivamente i confini tra prosa e poesia: dopo avere messo in tensione, in tutti i suoi libri, la prosa fino a un grado di densità fonico-espressiva così estremo da rallentarne la fruizione ben più che in poesia, lo scrittore russo opta ora per versi liberi meno compressi e esasperati della sua prosa; l’attrito si sposta tra semantica – vaga, astratta, eterea – e ritmo, che avanza a spire, in un afflato pressoché ininterrotto (mai un punto fermo) eppure placido, sobrio, non riconducibile a nessuna tipologia metrica (men che meno al sillabotonico della tradizione russa) ma intenso e trascinante, sacrale per la sacralità intrinseca che ha la parola in Russia e, al tempo stesso, ludico per ineffabile leggerezza.
Trino e uno, quasi a evocare un intrinseco agnosticismo cosmico, il libro è la sommatoria di tre poemetti, uniti e distinti secondo criteri imperscrutabili: il ritmo connotante non cambia, ma nel primo i versi molto lunghi tendono a avvilupparsi, a scorrere gli uni sugli altri, mentre nel secondo sono altrettanto lunghi ma dinamici, quasi volanti, e nel terzo si passa a versi brevi e scanditi.
Il tessuto poetico è però inconfondibile e omogeneo, contraddistinto da catene allitterative che divengono autentiche macchie d’omofonia estese a più versi: per darne un’idea senza ricorrere alle pur eccellenti doti mimetiche della traduttrice, prendiamo «nelle trattorie di Rimini e Taormina», che è praticamente in italiano nel testo. Allo stesso modo, in assenza quasi totale di personaggi in qualche modo definiti (non ci sono neppure le maiuscole), gli argomenti di un poema sono presenti in misura ridotta negli altri, molti motivi sono trasversali a tutti e tre (e a tutta l’arte di Sokolov, salvo quello del catalogo, elenco, registro, fin tassonomia linneana, che è distintivo di Trittico).
Il polilinguismo verte prima più sul latino e il greco, poi sul tedesco, infine sullo spagnolo e il sanscrito (sempre per flash, per isole, senza invadenza). Insomma, data la dominante musicale nell’immaginario e nella terminologia, si potrebbero intendere come tre pezzi, tre brani, suscettibili o meno di assemblarsi in sinfonia.
Il primo, Ragionamento, è una scansione pressoché ininterrotta del procedimento del catalogo, in primo luogo di riflessioni, di discorsi, e poi via via di lingue, forme d’arte, errori, o semplicemente fogli e documenti contabili. Superato lo sconcerto iniziale, ci si rende conto di essere entrati in un universo nel quale la comunicazione avviene principalmente in seconda persona, sia singolare che plurale (cui si aggiunge il «voi» russo di rispetto): da un lato il narratario è il soggetto, il «tu» eterno della poesia si autoflette, parla in realtà dell’«io», dall’altro si avvicenda un numero non identificabile né definibile di personaggi, che si chiamano, s’interrompono, si sovrappongono di continuo.
Ragionamenti differiti
La narrazione è straordinariamente fratta, si ha l’impressione di essere in qualche luogo imprecisato assieme a un numero sterminato di persone che dialogano. Il tempo, invece, è quello canonico di Sokolov, del tutto indistintamente presente, passato o futuro, un tempo in cui «la sabbia dispersa nel sahara/ dai sette samurai,/ si sistemerà, si incollerà/si riunirà, tornerà come prima». Al «ragionamento» principale, come prevedibile, mai si arriverà, anche se potremmo inferire che in qualche modo lo sono gli altri due testi.
Nel secondo poemetto, Gazibo, il luogo è all’apparenza ben definito, il padiglione da giardino del titolo, con grafia modellata sulla pronuncia del termine inglese (che non esiste in russo); altrettanto lo è il tempo, dalle prime stelle al crepuscolo del mattino, durante il quale le voci alle quali siamo ormai abituati, e che in queste circostanze assumono da subito una connotazione ultraterrena, quasi vampiresca, discutono del bello in arte.
L’intercambiabilità cronotopica assoluta è perciò accompagnata qui da alcune specifiche concrezioni: da una riunione di trovatori del 1111, alla Germania rinascimentale a una cornice tardo ottocentesca. C’è anche un abbozzo di personaggio, il musicista cinquecentesco Antonio Scandello, girovago per le corti tedesche, accostato o assommato all’Ebreo errante, proiettati entrambi sul destino esule del creatore, in termini assoluti e specifici (Sokolov è in emigrazione dal 1975).
Solo qui troviamo una parvenza di intreccio, plurimo e mutevole, ma estremamente dinamico e coinvolgente: il racconto in prima persona di una vedova di guerra («io» è però ora lei, ora il marito) che dal bacio rituale in chiesa con uno sconosciuto passa senza soluzione di continuità a una maratona erotica quasi ininterrotta, alla quale il partner zoologo e/o musicista aggiunge continui tradimenti con le femmine di bonobo che ha messo a disposizione delle sue ricerche; alla crisi coniugale segue l’ospedale psichiatrico, l’arruolamento in un reggimento musicale e la morte mentre si esibisce in trincea.
La chiusa è un evidente climax, e il terzo testo, Il filornita, riparte da atmosfere più rarefatte, fondamentalmente una rappresentazione teatrale in un museo zoologico nel quale avvengono misteriose apparizioni, in primis di una «secca señora» ispanofona che è la dama-morte visitatrice comune a tutti i testi di Sokolov: l’addio non potrà perciò arrivare se non da un cicerone in gondola che salpa dall’isola di San Michele a Venezia, sacrario degli artisti del Novecento.
In italiano tanto incoercibile fantasia linguistica resta sorprendentemente viva grazie alla molto efficace e raffinata traduzione di Martina Napolitano, capace di reinventare con lecito arbitrio porzioni del tessuto paronimico e di innescare con raffinata sensibilità musicale la fascinazione sommersa del ritmo, che continua, come nell’originale, a trasmettere scosse e vibrazioni: «un contesto, un carattere, un tratto del continuum,/ un arto perso in corsa, un pezzo, volendo, di destino».
È il titolo del libro di Liliana Madeo, appena ripubblicato. Mezzo secolo di storia italiana, dal 1946 al 1998, da Rina Fort a Anna Donati. Sono «donne con il gusto della provocazione, con un proprio progetto di vita, capaci di scelte radicali, di scelte a volte perverse. Donne scomode. Le madri delle ragazze del nuovo millennio»
Di Nadia Tarantini
Sono «le donne che rifiutano un destino predeterminato e scelgono di buttare all’aria tradizione, gerarchie, persino il rispetto della legalità», le protagoniste di un libro di cronaca, di storia, di cultura – che si legge come un romanzo, o una raccolta di racconti. Lo si dice spesso, ma in questo caso l’arte grande di cronista di Liliana Madeo, autrice di Donne “cattive”. Cinquant’anni di vita italiana (Miraggi edizioni), sfocia spesso e volentieri nella sapienza letteraria che troviamo in altri suoi libri, e compiutamente in Si regalavano infamie. Antonina e Teodora le potenti di Bisanzio, pubblicato da Pironti nel 2021.
Un libro, Donne “cattive”, ripubblicato nel 2023, a ventiquattro anni dalla prima edizione con La Tartaruga, che conserva l’incredibile freschezza delle scoperte, con il vantaggio di poter suscitare sorpresa e interesse in chi quegli anni – dai Cinquanta in poi – non li ha vissuti. Trama, personagge e personaggi, relazioni e ambiente: il tutto intessuto con abilità per creare curiosità e riflessioni su fatti di cronaca e di costume, su fenomeni sociali e criminali, in una rete di donne diversissime: la pluriomicida Rina Fort a fianco di Franca Viola che ci ha regalato la fine del matrimonio riparatore; la marchesa Casati e Tamara Bormioli, accomunate dal desiderio di diventare altre, di calcare i palcoscenici del potere e della vita di lusso; Doretta Graneris, che inaugura i decenni dei giovani assassini delle famiglie, per soldi; e Pupetta Maresca, la prima donna di camorra. E poi Ilaria Occhini dama bianca di Coppi, antesignana delle rovinafamiglie per amore; Vera Piegai, Lorena Nunziati, che sfidano poteri forti e Chiesa con atti di consapevole audacia o forse di incoscienza. Le teologhe che vengono allo scoperto, le femministe, la prima donna nella stanza dei bottoni (Anna Donati).
Tutte «donne con il gusto della provocazione, con un proprio progetto di vita, capaci di scelte radicali, di scelte a volte perverse a volte audacemente innovative. Persone cariche di valenze simboliche»; «in grado di innescare meccanismi grazie ai quali in Italia sono nate leggi degne di un paese democratico»; «Donne scomode. Le madri delle ragazze del nuovo millennio». Il libro tra-scorre così dal secondo Dopoguerra alle soglie del Duemila, regalandoci quadri precisi e arguti del passare del tempo, del mutare delle abitudini e delle passioni; si comincia dal 1946, con l’immaginario ancora pervaso da simboli arcaici: «Una specie di demonio si aggira dunque per la città, invisibile, e sta forse preparandosi a nuovo sangue», scrive Dino Buzzati all’indomani della scoperta dei cadaveri di una donna e i suoi tre figli, pluri-omicidio di cui sarà accusata (e per i quali poi condannata all’ergastolo) Rina Fort, amante del marito e padre della famiglia. E si finisce nel 1998, dentro al moderno scontro fra diritti alla salute e diritto al lavoro: «In quella stanza dei bottoni non era stata mai ammessa una donna» ovvero Anna Donati, designata dal ministro del Tesoro Ciampi a far parte del Consiglio di Amministrazione delle Ferrovie dello Stato.
Trama, ambienti, personagge e personaggi – ricostruzione documentata di ogni momento storico in cui le vicende si sono svolte: dall’economia al teatro, dalle condizioni sociali e personali delle protagoniste alla musica e al cinema. E la scrittura di Liliana Madeo. Scrittura abile, esperta, arguta, di cronista avvezza ai grandi fatti di cronaca come agli eventi e ai personaggi della cultura, disinvolto scivolare in una scrittura letteraria. «È una trentenne con viso ovale, pelle olivastra, zigomi alti, occhi scuri, bellissimi. Veste cercando sempre di “essere in ordine”, ha maniere spicce. Sa rispondere con durezza a chi la infastidisce. È una friulana brusca e silenziosa. […] A Milano arriva a 16 anni. […] Con una rabbia antica in corpo, fin da quando era una bambina selvatica, che al paese si distingueva da tutti perché odiava le bambole […] Due facce diverse dell’Italia contadina vengono alla luce sotto i riflettori dell’aula. Da una parte c’è Rina Fort, icona arcaica di una femminilità oscura, tetra, possessiva, la donna che nell’appartenenza a un uomo trova la sua identità e il senso della propria vita. Dall’altra parte ci sono le donne della famiglia Ricciardi, che sfilano davanti alla corte con gli abiti neri, gli scialli sul capo». «Nessuno ebbe dubbi. Anna (Anna Fallarino, marchesa Casati Stampa, n.d.r) provava piacere, si divertiva a fare quei giochi proibiti. Una viziosa […]. A nessuno venne in mente che quella di Anna potesse essere un’altra storia. Che […] forse lei aveva spezzato le barriere che definiscono e censurano il desiderio femminile».
E, infine, la Milano del 1946, quando Rina Fort lascia l’appartamento della strage: «La città è ancora poco illuminata. Ma Milano ha ripreso a vivere, la gente ha incominciato a uscire la sera. […] La voglia di dimenticare, di recuperare il tempo perduto esplode. La prima estate di libertà è una frenesia di balli, canzoni, giochi di sesso. Un’estate calda, con tutte le aspettative di rinascita ancora intatte. La pace che è scoppiata dà al ridere e al sognare il senso della speranza. L’Idroscalo si è affollato di corpi smagriti ma bene in mostra. Svolazzano le gonnelline delle ragazze in bicicletta. Le notti si sono fatte piene di piroette, magari di ragazze che per mancanza di cavalieri ballano fra loro, di danze sui selciati, negli spiazzi aperti fra le macerie, nei cortili delle case popolari, nella Galleria che le bombe hanno scoperchiato. In canottiera, in abiti di cotonina rivoltati».
L’immaginario multiforme di Bianca Bellová si esplica in declinazioni sempre diverse, testimoni di una irrefrenabile capacità inventiva. A metà fra le suggestioni della Tempesta shakespeariana e l’inesauribile affabulazione delle Mille e una notte, L’isola è un romanzo singolare, ricco di arcana fascinazione. Nel costruire una narrazione apparentemente lontana nel tempo e nello spazio, l’autrice parla in realtà del nostro mondo, dell’avidità che lo domina. Un luogo terrifico dove i più poveri rubano a chi ha poco o nulla. Come nel libro di Shahrazâd tutto origina da un tradimento: a Palermo una bellissima fanciulla ama un affascinante saraceno il quale le nasconde di avere moglie e figli in Oriente. Una volta scoperto il suo segreto la ragazza, distrutta dall’umiliazione, gli taglia la testa. Sin dall’inizio amore e morte appaiono indissolubilmente legati. L’oscura Signora si manifesta agli uomini come in una pellicola di Ingmar Bergman. Teste di bambini perduti spuntano dalla roccia, la bocca piena di muschio secco, le orbite degli occhi vuote. Processioni di flagellanti percorrono le vie cittadine, dove corpi in putrefazione e insepolti appestano l’aria. La peste nera è materia di racconti terrificanti. Patriarchi e congregazioni si azzuffano in terra Santa, adombrando i conflitti fra le diverse confessioni che ancora oggi lacerano i corpi e le coscienze.
Atmosfere pagane e cristiane si confondono a esaltare la complessità del caleidoscopio romanzesco. L’ombra del mito balena nell’apparizione del carbonaio cieco, mentre uomini con ali posticce cercano di prendere il volo come Icaro. La ricerca del caladrius, l’uccello che guarisce ogni male, ricorda il viaggio di Parsifal sulle tracce del Graal. La costruzione erratica conduce il lettore attraverso un labirinto narrativo: il mercante Izar, una lampada di vetro al collo che in realtà si crede essere la luce del Santo Sepolcro, solca i mari, attraversa le steppe accompagnato da uno stuolo di vichinghi, intesse narrazioni incredibili dilettando la principessa Nurit, sovrana di un regno in declino ereditato dopo la tragica morte del fratello demente. Il laudanum le ottunde l’anima e le infonde inusitata crudeltà. Abbandonata da Izar, si tormenta come Didone lasciata da Enea. Un Ragazzo senza nome, figlio di un raccoglitore di letame, non ama parlare ma canta come un cherubino. Vedere dal porto una vela tesa è per lui motivo di gioia. Sogna orizzonti avventurosi e mondi lontani.
Il tempo è il Seicento, epoca di scoperte e naufragi che già segnò la creatività del citato Shakespeare nella sua ultima fatica teatrale. L’isola è la Sicilia, ma è anche un luogo immaginario popolato di stregoni e creature fantastiche, descritto con sontuosità barocca e allegorica pregnanza. Verità e invenzione si mescolano, risultando indistinguibili. Izar tiene un diario nel quale si mostra tutt’altro che eroico, ma debole, stanco e insonne; gli avvenimenti si ammantano di una luce incerta. Una necessità intima lo spinge, anche se crede che nessuno mai leggerà quelle righe; eppure scrive per raccontare come si sono svolti i fatti, scrive perché “le storie ci salvano dalla miseria e dalle brutture di questo mondo”. Il racconto è esorcismo della morte, supremo incantamento, amuleto per orientarsi in una realtà che resta, nonostante tutto, incomprensibile.
La destrutturazione del linguaggio metaforico attraverso l’immagine: è questo il percorso poetico di Gaia Ginevra Giorgi.
Una sperimentazione che la porta a coniugare il dire con il vedere.
Non ci sono fratture tra queste parti e il soggetto finalmente torna intero.
Mente, corpo, parola, percezione in un intreccio lucido, bilanciato, molto espressivo.
“Oggi sono schiuma
sottrazione
cicatrice laterale – roccia
che frana”
La mancanza di punteggiatura, la scelta accurata del fonema creano una musicalità sacra.
E la sacralità è ricerca di geometrie e di linee e di colori.
Le pause sono respiri trattenuti, incanti, fluorescenze.
I ricordi frammenti di pulviscolo, i sogni evocazioni di un immaginario che sconfina nelle solitarie meditazioni.
“L’animale nella fossa”, pubblicato da Miraggi Editore nella Collana “scafiblù” è “il buio primitivo” di un’assenza, “il rischio del varco”, lo strappo.
È il bosco, la lacerazione, la luce del mattino.
È l’ombra, la possibilità, il confine tra selvaggio e domestico.
È la prosa che arriva senza preavviso, il ritmo accelerato della vita, la corsa verso l’irraggiungibile.
Dopo un incidente sono stato costretto a utilizzare la sedia a rotelleL’incontro con una donna paralizzata ha cambiato il mio sguardo
Andare a oltranza vuole dire superare tutti i limiti, o cercare di farlo. Ma partiamo dall’inizio, perché mi ha riguardato personalmente e mi ha aiutato a capire parecchie cose. Per tutto l’anno scorso, dopo un incidente, sono stato un disabile. Niente di troppo grave, se vogliamo, ma ho avuto una gamba fracassata che non mi ha consentito di fare una vita normale: primo mese, sempre a letto al Cto; secondo e terzo mese, un po’ a letto e un po’ in sedia a rotelle in una struttura di degenza da cui non vedevo l’ora di uscire. Ma non sarei potuto tornare a casa perché la sedia a rotelle non passava nell’ascensore. Ho dovuto aspettare il momento in cui ho potuto provare a muovermi con le stampelle, alla faccia del fissatore esterno, un’incastellatura di cinque anelli da ognuno dei quali due chiodi attraversavano le mie povere ossa; un vero strumento di tortura. Laura era preoccupatissima: «Aspetta ancora un po’. Abbi pazienza». Ma alla fine ce l’ho fatta: sono tornato a casa appoggiandomi da solo sulle stampelle e sul piede sano. Dopo pochi giorni, abbiamo azzardato la prima uscita, Laura e io. Era arrivata la primavera. Poche decine di metri al giorno, intorno all’isolato, poi una capatina fino a Porta Palazzo e poi, qualche settimana dopo, il primo grande obiettivo: arrivare in Galleria, a salutare Cristiani, a bermi il mio bianchetto seduto da Cecio o da Ciro o da Stefano, a veder passare qualcuno che mi sorride e dice «Va meglio, eh? Abbiamo saputo… Mamma mia!». In effetti la gamba e la caviglia continuano a farmi un male cane anche se prendo gli antidolorifici. Ma l’importante è essere fuori.
E qui arrivo al dunque: in Galleria ho conosciuto Valeria, sulla sua carrozzella elettrica con la sua cagnetta Luna; ho capito che era affetta da qualche brutta forma di paralisi. Dopo un paio di incontri di sfuggita, si è fermata a un tavolino da Stefano, sull’angolo di via della Basilica, vicino al mio. L’ho salutata, mi ha risposto con quella che poteva sembrare una smorfia e che invece, ho capito, era un sorriso. Lì per lì non ho neanche afferrato quello che diceva: «Puoi ripetere, per favore? Ah, sì, oggi è proprio una bella giornata».
La gente passava e qualcuno guardava il mio gambone, le mie stampelle e la sua carrozzella. Intanto era arrivata l’estate, mi avevano tolto il tremendo fissatore esterno e avevo finalmente potuto rimettermi una paio di pantaloni normali. Sembra una cosa da niente, ma andare in giro con braghe da ginnastica extralarge per più di sette mesi ti toglie la voglia di vivere, ti senti solo un vecchio relitto.
E poi ecco l’autunno, e io avevo incominciato a camminare con una stampella sola. «È uscito il mio libro!», mi ha detto un giorno tutta contenta. «Libro?». «Sì: l’ho scritto io!». Me lo porge, e vedo sulla copertina una bellissima caricatura di lei in carrozzella con Luna in braccio. Leggo ad alta voce: «Valeria Carletti. A oltranza. (Dis)avventure di una vecchia groupie. Miraggi edizioni». Non so bene che cosa sia un groupie, ma me lo faccio spiegare e scopro che è un fan di un cantante o di un musicista rock. La guardo con occhio interrogativo e lei mi fa di sì ridendo: lei è proprio una groupie. «Posso comprarlo?» le chiedo al volo. Ha una borsa con parecchie copie e me ne dà una, «Mi fai la dedica?». E lei, con difficoltà ma senza titubanze, riesce ad aprire il libro e scrive «A Giorgio» sul frontespizio. Cosa dire? Anche se ho fatto finta di niente mi sono commosso. Che grinta!
Passano pochi mesi. Laura e io abbiamo letto il libro, lo abbiamo apprezzato e lo abbiamo poi detto a Valeria quando l’abbiamo di nuovo incontrata in Galleria. Lei mi ha fatto i complimenti perché adesso cammino solo con il bastone e ride: «Fa anche chic!». Poi ci dice di guardare le prime recensioni del suo libro su Amazon; le trovo subito sul telefonino e leggo la prima: «Paola. 5 su 5 stelle. Fatevi un regalo, leggete questo libro! Recensito in Italia il 18 gennaio 2024. Acquisto verificato. Un libro pieno di vita, musica, sentimenti, tutto legato insieme dall’ironia! Divorato in pochissimo tempo, tante risate, qualche lacrima e tantissime emozioni. In tanti possono ritrovarsi in quelle parole perché la “disabilità” ha varie forme e io vorrei riuscire ad affrontarla con la stessa caparbietà di Valeria». «Poi c’è quest’altra» e vado avanti a leggere: «Anna Maria Burrafato 5 su 5 stelle. Un viaggio dentro la consapevolezza. Un libro prezioso che regala l’opportunità di cambiare punto di vista e provare a percepire il mondo così come lo sente Valeria: con commozione, gioia, tristezza, speranza e amore. Un libro pieno di empatia e pieno di musica. Un libro così empatico proprio grazie alla musica e al suo enorme potere salvifico e di espressione interiore. Personalmente l’ho trovato molto intenso. Offre spunti musicali davvero interessanti per chiunque ama la musica ed è sempre alla ricerca di scoprirne nuove perle. Da leggere. Io l’ho divorato in due giorni». L’autunno volge al termine. Incontro di nuovo Valeria in Galleria: «Domani c’è la presentazione al Circolo dei Lettori!» mi dice raggiante. «Venite?». Il Circolo dei Lettori, massima aspirazione per chi scrive un libro. Sala gremita: tutti giovani, bei giovani; atmosfera di amicizia e di spirito positivo, tutto intorno a Valeria; all’inizio c’è la sua assistente logopedista che traduce, ma alla fine è proprio lei, al microfono, che parla, parla bene e riesce a farsi capire da tutti. O forse siamo noi, che finalmente riusciamo a capirla? Laura e io abbiamo preso il taxi per venire perché la gamba mi fa ancora male, siamo i più anziani, ma ci sentiamo giovani con loro e come loro.
«Ma che belle persone, che bel tutto… sono proprio contenta per lei; se lo merita» dice Laura mentre siamo ormai in scesi in via Bogino. «Chiamiamo il taxi?». Io faccio segno di no, brandisco il bastone con gesto da Brancaleone e indico la direzione di casa dicendo: «A oltranza!». E, passo passo, ci avviamo sottobraccio verso Porta Palazzo.
Può un solco senza seme dare frutti? Quello di Luca Ragagnin sicuramente: frutti allo stesso tempo dolci e amari, succulenti e un po’ aciduli.
Un solco senza semeè un libro impossibile da classificare e complesso da approcciare. È una raccolta di scritture in versi, come recita il sottotitolo, o, meglio ancora, “scritture con gli a-capo”, come le definisce l’autore stesso. 35 anni di testi (1988-2023) pubblicati e inediti (come Mangimonio), ispirati ad antiche leggende (gli “oracoli caldaici”) o a malattie, sale d’aspetto e corsie d’ospedale, frutto di anni di lavoro di scalpello e continuo rimuginare o scritti di getto “abbarbicato su uno scoglio”.
Il lettore si immerge in questo viaggio nel tempo, un tempo intimo e personale, perché tutto ciò che accade e che il poeta mette in versi, anche se comune e universale, spesso fatto di quotidianità appartenenti a tutti, è filtrato sempre attraverso la propria personalissima esperienza, e naviga tra versi irregolari, scoscesi come pendii alpini, frastagliati come le nostre coste, irruenti come la risacca, rimbalzando tra rime e assonanze mai banali, che cullano e scuotono.
Quello che colpisce immediatamente è proprio la padronanza del verso, della metrica, l’alternarsi continuo di strutture differenti, che dietro l’immediatezza nasconde un elaborato labor limae (come Orazio, e il paragone non risulti blasfemo, che per le prime 10 delle sue Odi utilizzò 10 versi differenti). Spostandosi, così, tra le raccolte (il libro è una raccolta di raccolte, una summa poetica, Lu cunto de li cunti) sentiamo echi di ermetismo e decadentismo, simbolismo e surrealismo, ma anche la musicalità di certi poeti spagnoli (Fosfeni di bianco e poi bianco, scrive Ragagnin; Nel bianco infinito,/ neve, nardo e sale cantava Lorca).
Riemersi annaspando dal mare burrascoso di certi versi, rimaniamo ora abbagliati da improvvise illuminazioni (Radura che il sole attanaglia./La corazza della sorte/sepolta sotto il peso della luce), ora sprofondati in abissi senza fondo, travolti dalla tempesta e sopraffatti dal divino, sperduti nell’immensità del cosmo, annegati nel grembo (materno come della Terra, che tutti ci accoglie), ascoltando echi di tristezze e rimbalzando su silenzi assordanti. Andando avanti nella lettura, siamo costretti a fare i conti con la caducità dei nostri corpi, il nostro essere fatti di atomi esattamente come tutta la realtà che ci circonda, vediamo i segni del tempo e della malattia sulla pelle e sulle ossa, miseri corpi abbandonati e prostrati (la carne ha fatto naufragio in terra straniera), ma anche nelle nostre anime, di cui, al contempo, sondiamo le profondità e ammiriamo le mille sfaccettature, attraversiamo il luogo capovolto della morte. Oscilliamo, assieme all’autore, tra bisogno di amore e d’appartenenza e senso di solitudine (sono solo come un boia al termine del giorno….Peggio sarebbe ritornare ancora/in mezzo alle persone./Ma la mia solitudine/ha un numero da circo) e ci imbattiamo di frequente in inni alla luce, ma soprattutto alla voce, alla parola, strumento principe con cui affrontare le nostre piccole e grandi sfide quotidiane e spesso difesa unica contro i mali del mondo (Si he perdido la vida, el tiempo, todo/lo que tiré, come un anillo, al agua si he perdido la voz en la maleza,/me queda la palabra)[1]. Ma, in fondo, non c’è differenza tra luce e parola, tra buio e silenzio, i sensi si confondono (il nostro canto…si distingueva appena dalle ombre).
Ricerca, scoperta (scavare, cercare viaggiare, navigare, annegare, perdersi in antri oscuri, grotte, recessi) e rimedio (ferite, lame, solchi, fessure, ma poi corde, lacci, suture, incollaggi, cucire le ferite, rilegatore di anime) sono temi ricorrenti nell’opera, che oscilla, appunto, tra il viaggio, fisico e spirituale, e l’aspirazione a riparare a colpe proprie e altrui.
E navigando tra le poesie sorge all’improvviso, come uno scoglio non segnalato, un Atto unico, anzi, un Misfatto unico, rappresentazione tragicomica della razionalità portata all’estremo, scevra da ogni contatto con la realtà, scarnificata, ridotta all’essenza del pensiero matematico, ragione pura, sofismo senza sbocco, assassinio del sentimento. J’accuse contro la ricerca esasperata della perfezione fine a stessa, senza limiti e condizioni. Riflessione amara sull’impossibilità di qualsiasi cambiamento, sull’incapacità di comunicare, sull’inevitabile condanna alla solitudine e al vuoto.
Attraverso percorsi sempre privati e personalissimi, che prima dei fatti mostrano un proprio vissuto, le proprie esperienze che appaiono quasi per caso comuni anche a tanti altri, andiamo, poi, alla scoperta, o riscoperta, di titoli e personaggi, che, dallo schermo delle TV, hanno attraversato e raccontato mezzo secolo di storia italiana, perché niente meglio della televisione rispecchia l’evoluzione (o l’involuzione) del nostro Paese e degli italiani nel secondo dopoguerra.
E di qui approdiamo al cinema: schizzi e bozzetti, immagini e musica, di un mondo meraviglioso, popolato da personaggi straordinari, eppure intimamente familiari, ritratti sempre con uno sguardo partecipe.
E la musica a dettare i tempi di ogni strofa, a dare il ritmo a voci e ricordi, un ritmo pieno di variazioni, un alternarsi di arsi e tesi, a trasmettere la sensazione che tutta l’opera sia intrisa di questa passione difficile da tenere a freno e che trova la propria consacrazione nell’ultimo “capitolo” Trentawatt (che a me fa venire in mente un piccolo amplificatore).
Anche la scrittura trova qui la sua apoteosi, in una forma assolutamente originale: brevi saggi in bilico tra versi e prosa.
Un’immersione, dunque, nella musica, sguazzando tra i generi (dal rock alla classica, dal jazz al pop) e al contempo sorvolandoli alla scoperta di suoni e sfumature, trasportati dal ritmo di versi che di volta in volta si adattano all’artista celebrato e dal calore di una passione che non vede cali di tono.
Orazioni che ci lasciano penetrare nelle vite e negli animi di musicisti e movimenti che hanno segnato, ciascuno a suo modo, la propria epoca. Personaggi fuori dal coro, originali, spesso irriverenti, come la scrittura di Ragagnin, sovente contro, come gli Henry Cow. È proprio il brano dedicato a questi ultimi (La calza di lana o di ferro) che rappresenta, almeno per me, appassionato dell’Underground inglese a cavallo tra la fine dei ’60 e i ’70, la vetta più alta toccata dall’autore: una celebrazione senza fronzoli, schietta, al contempo lucida e appassionata, di una band straordinaria.
A quasi cinquant’anni dal loro scioglimento, rimangono i portavoce della libertà mischiata al piacere, i depositari della genialità del rock, i proprietari del vero e sincero donarsi all’udienza con tutti i mezzi tecnici e umani possibili.
Nel libro di Liliana Madeo, uscito in nuova edizione nel novembre scorso, le protagoniste testimoniano l’arretratezza moralista del nostro Paese. Figure irregolari scelte dall’autrice che «si oppongono alle gerarchie e danno scandalo, arrivando persino a uccidere».
Di Laura Bertolotti. Questo articolo è uscito su www.heraldo.it
Ci sono donne cattive? Parlarne dopo la Giornata internazionale per i diritti della donna sembra quasi sacrilego, quando qualcuno si ostina persino a considerarla la “festa della donna”, per poche ore con fiori e auguri. E allora cerchiamo di uscire dalla gabbia ideologica che vede le donne sempre brave, multitasking e comunque con una marcia in più. Dobbiamo ammettere che l’argomento è di per sé debole e presta il fianco a facili critiche.
Ricordiamo piuttosto che l’8 marzo vuole essere, ogni anno, un momento di riflessione sui diritti ancora non riconosciuti in molti Paesi del mondo e sempre pericolosamente in bilico o dimenticati, per esempio, nei rapporti affettivi e nei contratti di lavoro, anche in piena democrazia.
Ma resta il nodo delle cosiddette “donne cattive”. Esistono, anche se riservano qualche sorpresa. Ce ne parla Liliana Madeo nel suo saggio che si legge come un romanzo, Donne cattive. Cinquant’anni di vita italiana (Miraggi, 2023), già pubblicato nel 1999 e uscito in una nuova edizione nel novembre scorso.
Protagoniste di un dopoguerra cui ribellarsi
Liliana Madeo è stata inviata del quotidiano La Stampae ha lavorato come consulente del Tg2 per il programma “Mafalda – Dalla parte delle donne”. Tra i suoi numerosi libri ricordiamo Bianco, rosso e verde. L’identità degli italiani (a cura di Giorgio Calcagno, Laterza 1993), Si regalavano infamie. Antonina e Teodora, le potenti di Bisanzio (Tullio Pironti 2021), Donne di mafia. Vittime Complici Protagoniste (Mondadori, 1994, poi diventata serie televisiva nel 2001 e ristampato da Miraggi nel 2020).
L’autrice ha voluto mettere al centro di Donne cattivela lentezza e la difficoltà per le donne di muoversi nel dopoguerra, che aveva tradito le loro aspettative».
«Ho scelto le donne che venivano clamorosamente alla ribalta della cronaca, tutte personagge esemplificative di quel momento storico, anche le cattive senza virgolette, perché si muovevano tra moralismo e perbenismo imperanti – approfondisce Madeo -. Queste donne cattive rifiutano il loro destino e la tradizione che le vuole spose e madri amorevoli. Sono le irregolari che si oppongono alla morale, alle gerarchie, alla Chiesa, alla loro famiglia e danno scandalo, arrivando persino a uccidere».
Lo scandalo della Dama bianca
Madeo raccoglie tredici emblematiche storie di «persone cariche di valenze simboliche. Ciascuna con una precisa collocazione geografica, magari uscite dall’ombra e dal silenzio senza neppure l’orgoglio e la consapevolezza della propria diversità, ma in grado di innescare meccanismi grazie ai quali in Italia sono nate leggi degne di un Paese democratico».
Troviamo la vicenda di Rina Fort, su cui la cronaca nera versò fiumi di inchiostro nell’Italia degli anni Cinquanta, uscita povera e distrutta dalla guerra. E anche la sua è una storia di povertà, di benessere appena raggiunto e subito perso, di una catena di sfortunati avvenimenti che la portarono a macchiarsi di omicidio.
Il talento dell’autrice è di incorniciare le storie nella più grande storia del nostro Paese e non è fiction, ma rispettosa documentazione e volontà di collocare i fatti nel loro tempo e nelle norme che lo regolano.
Nel libro troviamo anche la “dama bianca”, al secolo Giulia Occhini, amante di Fausto Coppi, così soprannominata dal colore del montgomery che indossava quando Coppi, nel 1952, vinse il Giro d’Italia. Negli anni Cinquanta l’abbraccio fra Stato e Chiesa era molto forte, ci ricorda l’autrice, erano i tempi della santificazione di Maria Goretti, che ispirava libri, drammi e canzoni.
La verginità era un valore, arrivare al matrimonio non illibata e non dirlo allo sposo costituiva “ingiuria grave”, riconosciuta dall’ultima sentenza della Cassazione che applicò tale principio ancora nel 1973. Come poteva essere giudicata una donna che in quegli anni lasciava un matrimonio per seguire un altro amore? Una donna cattiva.
Tra le ribelli anche una teologa scomoda
Nel libro ci sono ritratti come quello di Loriana Nunziati, che sposa con rito civile Mauro Bellandi, ignorando i consigli del vescovo, i due sono quindi dichiarati “pubblici concubini” in forza del diritto canonico e di conseguenza scomunicati.
Sembra un fatto assai distante dalla realtà di oggi in cui la convivenza è prassi normale e non preclude neppure il matrimonio religioso, ma correvano gli anni Cinquanta, come si è detto, e quelle erano considerate donne cattive.
Come Franca Viola, che si rifiuta di sposare il suo stupratore e si dovrà aspettare il 1981 perché venga abolito il cosiddetto matrimonio riparatore e il 1996, in cui la Legge 66 sancirà finalmente lo stupro come un crimine contro la persona e non contro la morale.
Era scomoda, giusto per variare l’aggettivo, persino la teologa Adriana Zarri «una spina nel fianco di quella Chiesa tradizionale – continua Madeo -, da secoli arroccata dietro verità monolitiche». Con lei un folto gruppo di donne, laiche o religiose, tra cui storiche, antropologhe, filosofe e teologhe, appunto, che alzavano una voce autorevole per scardinare i silenzi della Chiesa.
Per tacere delle “cattive, cattivissime anzi streghe” che negli anni Settanta facevano nascere il Movimento di liberazione della donna, si raccoglievano in piccoli circoli per riflettere sulla loro condizione e manifestavano apertamente per il diritto di aborto.
Il libro propone una prospettiva storica dei fatti avvenuti nella seconda parte del Novecento quando le donne venivano classificate come ribelli, scostumate, additate dalla pubblica opinione, anche solo se provavano a parlare di anticoncezionali. Non si può negare l’utilità didattica di questo testo nei confronti delle nuove generazioni perché, scrive Madeo, in Donne cattivetroviamo “le madri delle ragazze del nuovo millennio”.
Questa recensione è uscita ieri su TuttoLibri della Stampa
Quinto romanzo di Sylvie Richterová, scrittrice ceca emigrata nel nostro Paese all’inizio degli anni Settanta e che ha continuato a scrivere nella sua lingua madre, Il secondo addio arriva in libreria grazie a Miraggi edizioni e alla traduzione di Alessandro De Vito – e vi arriva dopo un’attesa di quasi trent’anni, visto che la sua redazione è del 1994. Storia curiosa, ma tutto sommato non insolita, quella dei libri di Richterová, di cui questo Secondo addio può essere preso a emblema: prima opera composta dopo la caduta del regime, il romanzo (se questa definizione ha senso, ma ne parliamo tra poco) poté uscire a Praga, ed era la prima volta che un libro di Richterová arrivava nelle librerie ceche. Ma era stato scritto in Italia, da qualcuno che aveva lasciato la madrepatria da oltre due decenni e che sapeva non vi avrebbe mai fatto ritorno. Fu tradotto in alcune lingue europee ma, curiosamente, non nella nostra, e così sembra che il destino di ciò che Richterová scrive sia, per un motivo o per l’altro, quello di avere difficoltà di diffusione. Ecco, questa difficoltà trova eco nelle pagine del Secondo addio, che è un libro di personaggi più che di trama, e in cui tutti, o quasi, scrivono: scrive Jan, principale narratore di questa vicenda e marito di Marie, la protagonista – o per lo meno colei le cui vicende tengono unito il composito gruppo dei personaggi; ciò che Marie scrive a proposito della propria vita viene affidato proprio a Jan, il quale a sua volta lascerà un manoscritto che verrà ritrovato dal fratello; scrive anche Tommaso, che all’inizio troviamo in una comune romana dove Marie, esule ceca, si trova a vivere negli anni Settanta, dopo aver lasciato la Cecoslovacchia: Tommaso è poeta, e affida i suoi versi proprio a Marie, che a sua volta riceve da Praga i manoscritti scientifici e le opere di Pavel – amico del padre e di cui la donna è innamorata. Insomma, tutti o quasi scrivono, in questo libro, e tutti affidano le loro cose a qualcun altro: tutti hanno fiducia negli altri, da questa e dall’altra parte della frontiera, e si donano attraverso la parola scritta.
Alcuni dei testi che i personaggi scrivono entrano a far parte del romanzo. Pavel, per esempio, affida a Marie un’opera letteraria di cui leggiamo degli estratti: si tratta di un romanzo, Il Narciso cieco, dai toni vagamente esistenzialisti e malinconici. Ma di Pavel leggiamo anche frammenti di lettere in cui l’uomo ragiona sulla sua condizione di “prigioniero” di un mondo che non sa e non vuole abbandonare e sostiene che «a partire da un certo momento le notizie sulla nostra vita sono state più vive della nostra stessa vita». Scrive: «Cara Marie, l’uomo ha l’irresistibile istinto di raccontare la vita, di darle una forma… è la forma a darle senso» – e questo mi pare il concetto capitale attorno a cui Il secondo addio è costruito. Come sostiene anche Massimo Rizzante nella postfazione, infatti, questo libro non possiede uno statuto definitivo: non ha un vero proprio intreccio, al di là delle vicende biografiche, spesso esili, di Marie; non ha una voce narrante principale: si direbbe che sia Jan, il quale però cede il posto al fratello e, a turno, a tutti i personaggi della vicenda, che in dati momenti dicono “io”; non ha un’unità di tempo (si viaggia tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, senza indicazioni precise) né di luogo, perché ai capitoli romani si alternano parti ceche senza soluzione di continuità. E allora? Dove sarebbe questa forma attraverso cui, secondo Pavel, diamo forma alle nostre vite? Sta proprio in questo saltabeccare, in questo continuo non trovare un centro di gravità: è la stessa Richterová, nella prefazione appositamente scritta per questa edizione, a fornire una chiave di lettura non solo per questo libro, ma per molta letteratura dell’Europa orientale che, oggi, tenta di restituire il proprio rapporto con la Storia, con la realtà. Ecco cosa scrive, parlando della fine del XX secolo come di un’epoca in cui «la storia non era più lineare e consequenziale ma piuttosto multidimensionale, e la biografia non si svolgeva nel tempo lineare, bensì attraverso una continua tessitura nel tempo e nello spazio di cui prendiamo coscienza. E siccome partecipano molti tessitori, il racconto può procedere benissimo con voci di narratori diversi». Ecco, questo concetto, che potrebbe andar bene anche per i libri di Gospodinov, di Drndić o di Hemon – tutti autori, ciascuno a suo modo, le cui biografie e i cui popoli sono stati travolti dalla Storia e che cercano disperatamente una forma e la trovano nel frammento – è ciò che rende Il secondo addio un libro rapsodico, insolito nei modi e nella costruzione, ma simile ai lavori di altri grandi autori europei che, avendo sofferto la Storia e sperimentato l’esilio e il dispatrio, cercano il modo per renderli leggibili.
QUI l’articolo originale: https://andreatarabbia.wordpress.com/2023/12/03/sylvie-richterova-il-secondo-addio/
Scrivere l’utopia della dimora perduta. “Il secondo addio” di Sylvie Richterová
Con Druhé loučení (“Il secondo addio”, 1994) anche Sylvie Richterová (Brno, 1945), grazie alla traduzione di Alessandro De Vito, entra a far parte della collana “NováVlna” di Miraggi edizioni, specializzata in letteratura ceca. È il terzo libro edito in Italia della scrittrice ceca, emigrata in Italia nel 1971 ed eternamente errante tra Roma e Praga, dopo Místopis (“Topografia”, Edizioni E/O 1986, Rina 2021) e Každá věc ať dospěje na své místo (“Che ogni cosa trovi il suo posto”, Mimesis, 2018).
“Gli scritti di Jan consistono di alcuni incartamenti di testi più lunghi e più o meno coerenti e di diversi frammenti più brevi, annotazioni o piccoli lavori a sé stanti. È un romanzo che un giorno mio fratello finirà di scrivere? O è un’accozzaglia autobiografica di ricordi e note diaristiche, per la quale non ha pensato una forma compiuta?” (p. 135)
Un pulviscolo di voci errabonde, una comune di personaggi che abitano la dimora fittizia di un romanzo. Sono solo due dei molteplici modi con cui si potrebbe interpretare Il secondo addio. Il romanzo a variazioni di Richterová gioca continuamente con il carattere fittizio della scrittura e sulle diverse idee di “casa” dei suoi personaggi che vanno spargendosi geograficamente e spiritualmente, per poi svanire egli infissi del tempo e della carta. Non è dunque possibile riassumere un susseguirsi di fatti, la cui credibilità d’altronde è fortemente minata, ma solo soffermarsi sulle tracce di plurali e soggettive ricerche tematiche. Il secondo addio, infatti, solo dal punto di vista dei temi può essere considerato un romanzo corale.
Spesso il lettore si domanderà chi parla, quali parti siano narrate da Jan o da suo fratello, quanto le diverse scritture siano riportate fedelmente o mediate, o se sia tutto un gioco metaletterario di Richterová stessa. Cercherà di ricomporre episodi e vicende da cui sono sempre tolti dei tasselli e non gli sarà mai possibile ricostruire la fabula. Ma se riassumere un intreccio è impossibile, è necessario parlare del vero protagonista di questo romanzo: la scrittura.
“[…] Marie stendeva sulle pareti il colore bianco lavabile con uno spesso pennello piatto, dall’alto in basso, applicava il colore con uniformità e accuratezza, il primo strato copriva lo sporco, il secondo raggiungeva il biancore, ma solo il terzo era immacolato.” (p. 35)
“Anche l’appartamento bianco è qualcosa di diverso, c’è silenzio e Marie non invita più ospiti e non organizza cene, nell’appartamento bianco non si cucina, non si beve, non si fuma. Marie non vuole macchie. Non vuole e basta.” (p. 68)
La scrittura si pone in contrasto con la sporcizia del mondo, una sporcizia ubiqua che pervade ogni luogo dell’eterno presente alla fine della Storia, da Roma a Praga, da Padova fino all’America Latina. Uno sporco a cui è contrapposto di continuo il biancore della casa di Marie, emigrata ceca, professoressa di matematica e madre di Michal, nato con quella che si potrebbe definire “un’immacolata concezione”, e di Blanka, “bianca come la pagina bianca, pulita, non scritta e non descritta” (p. 90). Un bianco presente anche nella neve praghese che avvolge la macchina in cui Pavel, intellettuale dissidente, si abbuffa barbaramente o i vestiti della setta messianica da cui si lascia coinvolgere Anna: un’ossessività (presumibilmente di Jan) che si traduce in 69 realizzazioni del solo lemma “bianco”, declinato per genere e numero, in poco meno di 150 pagine. Ma la scrittura come antidoto alla sporcizia può finire per essere forse un “salasso”, un riversarsi “tutto intero nella pagina bianca attraverso un sottile filo di inchiostro” (p. 143), una manifestazione essa stessa della sporcizia?
Nonostante nel 1994 Richterová viva ormai da ventitré anni in Italia e abbia un ruolo attivo come mediatrice culturale, sceglie di continuare a scrivere in ceco. Nel romanzo trovano posto temi presenti in molta letteratura mitteleuropea del secondo Novecento, come la persecuzione degli intellettuali da parte di un regime totalitario o il dramma del confine che separa i nuclei famigliari. L’autrice non demistifica la grammatica dell’emigrazione – in cui la scelta della lingua di scrittura gioca un ruolo spesso fondamentale – ma ne compone una propria variazione individuale. Nessuna delle figure che popolano il suo romanzo può essere ridotta a un ruolo o un’identità storica (pratica tipica di un certo sguardo occidentale e del suo pietismo): Pavel non è solo un uomo di scienza ostracizzato e messo a tacere, l’emigrazione politica non chiarisce integralmente la natura errabonda di Jan, la “vita impropria” di Marie nella comune romana non presenta che pallidi accenni alle origini ceche, tanto autoctona da sembrare scritta da una penna italiana. Il suo sguardo si sofferma principalmente sul mistero privato e intimo dei personaggi ancora prima del crollo delle ideologie politiche; la loro ricerca individuale di significazione permane anche in un tempo in cui i confini ritornano a essere invisibili linee che non ostacolano più la circolazione delle persone e la Storia, non agendo più sul presente, da centrale nelle singole biografie può trasformarsi in insignificanza.
“Ventidue quaderni, scritti di fretta con una grafia illeggibile, sono tanti, sono troppi.” (p. 75)
Nell’insignificanza può però sfociare anche la cecità narcisistica del singolo, la cui scrittura nel prendersi troppo sul serio rischia di trasformarsi in mera grafomania. Non è infatti casuale che Richterová, portavoce di una letteratura il cui carattere umoristico non ha forse eguali nel mondo, chiuda la sua premessa al libro con un invito allo humour (e con altrettanta ironia inviti a non confondere le vite degli enunciatori-narratori con la propria biografia).
“Scriviamo ognuno un nostro libro, pallido riflesso di quel libro dei vivi e dei morti, in cui non vediamo.” (p. 107)
Il tragicomico de Il secondo addio risiede proprio nella serietà con cui è posto il legame tra due termini cardine in Richterová come scrittura e casa, entrambi rimandano a una sfera ideale e sono proiezioni progettuali tese a una struttura immaginaria perfetta e irraggiungibile. Abitare-scrivere – uno scrivere come in Kristóf non connotato in senso letterario – svela il troppo umano bisogno di imprimere una traccia di sé nel mondo, scolpire il fragile passaggio di un sé transitorio, prendere possesso della significazione della propria esistenza.
Ogni voce di questa polifonia sviluppa a modo suo questo binomio bifronte. Marie, la cui scrittura rimane intima, quasi in ombra, vive in una casa condivisa e all’interno della scrittura altrui di cui è depositaria e spesso destinataria. Pavel, che vive isolato rispetto al mondo in un confino subito e forse persino cercato, elabora il “Narciso Cieco”, la bozza di una propria variazione del celebre mito; ripiegato su se stesso, il suo amore per Marie sarà solo platonico, paternale e intriso di belle parole. Jan espone il suo ideale kitsch di domesticità, un idillio famigliare vago e indefinito, forse la pallida eco della casa praghese dei genitori che aveva lasciato da giovane (eco suggerita da un dettaglio significativo come la panca ad angolo). La casa che presto andrà a fuoco, con cui inizia il suo racconto, potrebbe essere l’abbandono dell’illusione di finire un romanzo che non si compie mai, la rinuncia a quella ricerca di significazione che tende al lirismo, a una profondità che talvolta risulta anch’essa kitsch nel suo prendersi troppo sul serio.
Rileggendo a ritroso Il secondo addio, ogni elemento serio rivela il proprio aspetto ridicolo e la scrittura stessa sembra guardare a sé con autoironia: il tono apocalittico con cui Jan esordisce annunciando la fine prossima, la placida quotidianità di una famiglia che probabilmente è solo frutto di fantasia, la scelta di nomi quali Blanka e Mels (Marx, Engels, Lenin e Stalin), la trama lacunosa alternata a copiose riflessioni liriche, le frasi interrotte a metà, personaggi abbozzati che non vengono approfonditi – le cui relazioni sono date e quasi mai sviluppate – e soggetti maschili che non riescono a immaginare e raccontare credibilmente il femminile. È la dimensione tragicomica del “Narciso Cieco”, colui che non è più capace di vedere gli altri, simbolo di uno scrittore che non riesce più a elaborare in forma compiuta altri personaggi all’infuori di sé.
Richterová espone in piena luce l’impalcatura di un grande romanzo generazionale lirico e al contempo polifonico, delineando la sua personale variazione di un genere che ha avuto illustri antecedenti come Žert (“Lo scherzo”, 1967) di Milan Kundera o Zbabělci (“I vigliacchi”, 1958) di Josef Škvorecký, disossandoli fino a lasciare un qualcosa che però non è solo mero progetto o accozzaglia di appunti di svariate mani.
È finito il tempo delle cattedrali letterarie, delle ricerche del tempo perduto; eppure, l’incompiuto di Jan-Marie-Pavel-Tommaso non è sinonimo di fallimento. Forse è proprio quella forma inarrivabile a non essere più attuabile, forse non si può o nemmeno vale più la pena di scriverla. È una casa inabitabile.
Il “secondo” addio non è dunque solo l’abbandono della terra natia dopo il 1989, l’anno della Rivoluzione di Velluto che né Pavel né i padri di Marie e Jan hanno visto, ma è la rinuncia dell’eterno errante Jan al sogno irrealizzabile di avere una casa, quella da cui si è allontanato – un “primo” addio – è andata in rovina e nessuna nuova architettura potrà erigerne una nuova. Pertanto, Il secondo addio, rinunciando al progetto di raccontare una generazione dispersa e di comporre un romanzo nel romanzo accentandone l’implosione, si presenta come uno spoglio bouquet di bozze e vite pulviscolari rivendicando con leggerezza la significazione della sua insignificanza.
“Il libro comincia e finisce come la nostra vita. Il libro non comincia mai, e mai finisce. Come la nostra vita. È qui, dal tempo in cui è stato creato. Lo si può attraversare in tutte le direzioni. Le parole cambiano di significato come i nostri atti, che anche loro cambiano di significato nel tempo e alla luce dell’esperienza.” (p. 91)
Apparato iconografico:
Immagine di copertina: Immagine fornita dall’autrice S.R.
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